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Bari, 21 febbraio 2005
UN PROGRAMMA PER LA CONOSCENZA
Seminario nazionale
“La conoscenza come leva di sviluppo del Mezzogiorno”
COMPETENZE PROFESSIONALI NEL MEZZOGIORNO :
DALLA FORMAZIONE AI PERCORSI LAVORATIVI
Patrizia Dandolo
Dipartimento Formazione e Ricerca CGIL Nazionale
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Siamo a buon punto del nostro percorso verso la Conferenza di
programma del 10-11 marzo,
abbiamo approfondito e discusso sui
fenomeni che questa politica di centro destra sta producendo con le sue
peggiori riforme, con il blocco degli interventi su scuola, università, ricerca
convinti, che di fronte a questo fallimento del governo, noi dobbiamo
presentare proposte alternative, forti e credibili, che privilegino gli aspetti
di merito: l’aspetto di cittadinanza e l’aspetto di sviluppo.
L’investimento in capitale umano, istruzione e cultura è in ogni Paese un
fattore indispensabile di progresso; ce lo ricordano gli orientamenti della
Unione Europea, che in questi anni ha assunto importanti direttive su
questi temi, ritenuti strategici, confermando la scelta di puntare sulla
qualità e l’inclusione sociale per vincere la competizione internazionale.
Gran parte di questo Seminario è dedicato al mondo della scuola,
dell’Università, della ricerca, a quella che tradizionalmente viene definita
“istruzione”, ora io vorrei provare a spostare l’asse del ragionamento sul
settore della formazione e sul mercato del lavoro.
Ciò significa traslare il discorso dal concetto di “conoscenze” a quello di
“competenze”, dal momento che in ambito lavorativo non assume valenza
prioritaria ciò che una persona sa, bensì ciò che è in grado di fare, i suoi
livelli esperenziali, le sue capacità di interazione.
Nel mondo del lavoro queste considerazioni hanno portato a concepire un
sistema come quello della formazione continua, ossia a innescare un
processo di crescita individuale che accompagna il lavoratore lungo l’intero
arco della vita. “Gli esami non finiscono mai” recita un vecchio adagio: se
poteva essere valido molti anni fa, si rivela ben più appropriato nella
situazione odierna.
- Progressiva scomparsa del “posto fisso” inteso come funzione operativa
stabile e immutata
- accelerazione dell’innovazione tecnologica e delle sue concrete ricadute
negli ambienti di lavoro
- mutamenti nei processi produttivi di beni e servizi
- continua e rapida evoluzione dei mercati di sbocco e delle risorse
questi sono solo alcuni dei fenomeni che sottopongono il lavoratore, a
qualsiasi livello si trovi, ad affrontare una pluralità di “esami”, siano questi
un cambio di azienda, di posizione lavorativa, di materiali e tecnologie
utilizzate, di metodologie applicate, etc.
La capacità del lavoratore di rispondere prontamente a queste variazioni
diventa un fattore necessario per salvaguardare la sua posizione
professionale e le sue concrete potenzialità sul mercato del lavoro.
Le crisi che hanno colpito alcuni settori industriali in quest’ultimo
ventennio hanno provocato, fra gli altri, un effetto assai grave: la perdita
del posto di lavoro da parte di persone già troppo “mature” per potersi
riconvertire, ma ancora troppo lontane dall’età pensionistica. Situazioni di
particolare drammaticità, perché quasi sempre si accompagnano a
famiglie già strutturate da anni, che trovavano proprio in questa figura la
loro unica (o principale) fonte di sostentamento.
Rispetto a situazioni del genere, la formazione continua fornisce una
duplice serie di strumenti:
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- la capacità di aggiornare le proprie competenze, adeguandole alle nuove
richieste del mercato del lavoro;
- una migliore potenzialità valutativa, che talvolta può consentire di capire
anticipatamente lo sviluppo di alcuni processi che potrebbero condurre a
un futuro stato di crisi aziendale o settoriale.
Diviene necessario dare all’individuo i diritti, gli strumenti per costruire
una propria crescita umana e professionale, continuativamente negli anni.
Negli altri paesi europei il concetto della formazione continua è ormai
diffuso e sedimentato da tempo: in Germania e nel Regno Unito, ma
soprattutto in Francia, l’attenzione si focalizza sulla determinazione di
sistemi, modelli e procedure che consentano:
- una misurazione e certificazione delle competenze;
- processi lavorativi indirizzati all’acquisizione di nuove competenze e di
consolidamento di quelle preesistenti;
- la creazione di supporti atti a dimostrare le competenze individuali e ad
accompagnare il lavoratore lungo l’intero arco della sua vita (si pensi al
concetto della cosiddetta “patente europea”, all’introduzione in Francia
del “diritto individuale alla formazione” DIF che corrisponde a 20 ore
all’anno fino ad un massimo di 120 ore cumulabile in 6 anni utilizzabili su
richiesta del lavoratore, in accordo con il datore di lavoro sul tipo di
formazione da seguire, in via di principio fuori orario di lavoro);
- a maggiore perfezionamento di quest’ultimo punto, un sistema di
integrazione fra il mondo dell’istruzione, quello della formazione
professionale e quello del lavoro, al fine di creare processi di
apprendimento multipli e al tempo stesso paritetici, che consentano di
capitalizzare tutti gli apporti di crescita personale che la persona può
ricevere sia in termini conoscitivi che esperenziali.
Purtroppo nel nostro Paese siamo ancora arretrati rispetto agli standard
raggiunti all’estero, e questo nonostante il fatto che il mercato del lavoro
tenda sempre di più ad internazionalizzarsi e ad assumere caratteristiche
analoghe nelle varie nazioni: e ciò, si badi bene, non solo per
un’automatica attuazione delle normative sulla libera circolazione dei
lavoratori all’interno dei paesi dell’Unione Europea, ma anche per una
logica di integrazione dei mercati, delle modalità produttive, delle tecniche
di erogazione dei servizi.
Se dunque spostiamo l’attenzione verso il concetto della formazione
continua, ci si rende conto che il mondo dell’istruzione non rappresenta
che il primo, fondamentale tassello di un percorso prolungato nel tempo.
Ed ecco che, fin dal primo impatto del giovane col mondo del lavoro,
acquisisce un’importanza man mano crescente il tipo di azienda e di
posizione lavorativa che il singolo andrà a ricoprire. Nell’ambito di un
processo di arricchimento personale continuativo, infatti, è rilevante
l’apporto di eventuali corsi di formazione professionale più o meno
specialistica, ma ancor più il bagaglio esperenziale che può scaturire dal
concreto inserimento del soggetto all’interno di un’azienda, dei suoi
processi operativi, delle relazioni interpersonali connesse al ruolo.
Lo scenario appena descritto diventa essenziale per cercare di
comprendere il ritardo del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia, ritardo
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che non può essere ricondotto esclusivamente alla configurazione del
mondo scolastico e universitario. Anzi, se ci si limita a esaminare i dati
inerenti il settore dell’istruzione, ci si rende conto che tale ritardo è tutto
sommato ben contenuto.
Nelle regioni meridionali e insulari la percentuale di laureati è allineata a
quella delle regioni del nord, attestandosi complessivamente fra il 7% e il
7,5%; solo in Centro Italia, per “l’effetto Roma”, si registrano tassi
maggiori, con una media del 9%. Fra i grandi Comuni italiani, città come
Bari, Messina e Napoli hanno una percentuale di laureati più alta di
Verona, Torino, Genova e Venezia.
La situazione, però, cambia se si effettua una segmentazione per fasce
anagrafiche: al di sotto dei 35 anni (classe di età maggiormente
interessata alle assunzioni lavorative) il rapporto fra laureati e residenti
diminuisce bruscamente, diventando nettamente inferiore al resto d’Italia:
PERCENTUALE di LAUREATI
al di sotto dei 35 anni
Nord-Ovest
9,1%
Nord-Est
8,6%
Centro
9,1%
Sud
7,0%
Isole
6,1%
Rispetto alle passate generazioni si riscontra quindi una progressiva
“disaffezione” dei giovani verso i percorsi universitari. Dobbiamo chiederci
se questo fenomeno è da imputarsi a una minore diffusione degli atenei,
piuttosto che a una dotazione insufficiente di strumenti e risorse, o ancora
a carenze qualitative e organizzative delle strutture. A livello preliminare,
si potrebbero fare alcune osservazioni.
In primo luogo occorre evidenziare che la differenza, sebbene notevole
rispetto al numero di persone laureate, non è particolarmente significativa
se la si riferisce all’intera popolazione residente (stiamo parlando di 2 o 3
punti percentuali): da ciò consegue che la disparità non è riconducibile
solo alle minori disponibilità economiche delle famiglie meridionali (è
infatti probabile che almeno un 12%-15% di tali famiglie potrebbe
comunque sostenere i costi preventivabili per condurre alla laurea il
proprio figlio).
A conferma di tale assunto parrebbe che, a livello post lauream - benché
manchino statistiche consolidate - la partecipazione dei giovani meridionali
a master, corsi di specializzazione e di avvio alle professioni è
indubbiamente elevata, se non altro perché le difficoltà incontrate nel
reperimento del primo impiego inducono molte persone a una
prosecuzione degli studi.
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Un’altra presumibile causa di questa minore partecipazione universitaria
potrebbe consistere nel fatto che alcune delle lauree che hanno costruito
nei decenni la grande tradizione universitaria dei maggiori atenei dell’Italia
meridionale sono oggi scarsamente interessanti dal punto di vista degli
sbocchi professionali: se ciò fosse vero (ed è molto probabile che lo sia),
sarebbe bene che le università si confrontassero in via continuativa con le
parti sociali, col mondo economico e produttivo, al fine di adeguare e
aggiornare alcuni dei percorsi educativi.
Ma vediamo di comprendere altri aspetti:
- come il mondo del lavoro accoglie il “popolo dei laureati”?
- esistono tipologie di aziende in cui il fabbisogno di soggetti ad elevato
livello culturale è più rilevante?
- 2 o 3 punti percentuali di minore presenza di giovani laureati rispetto al
totale dei residenti possono incidere in modo realmente significativo sul
ritardo economico del Mezzogiorno?
- in termini meramente produttivi e operativi, quanto della cosiddetta
“cultura d’impresa” viene costruita in ambito scolastico e universitario e
quanto invece non deriva in seguito, negli anni, dalla qualità
dell’operatività stessa?
Cominciamo a provare a rispondere alle prime due domande avvalendoci
delle rilevazioni del Sistema Informativo Excelsior sulle assunzioni
programmate dalle imprese italiane per l’anno 2004.
Si può vedere da alcune tabelle, che le imprese del Mezzogiorno, rispetto
a quelle del resto d’Italia, conferiscono minore importanza al livello
culturale degli assunti.
LIVELLO CULTURALE dei NEO-ASSUNTI
MACROREGIONE
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud e Isole
LAUREATI
DIPLOMATI
10,9%
32,2%
6,9%
29,8%
10,3%
30,0%
5,6%
25,9%
Si può notare che:
- rispetto al Nord-Est, il differenziale percentuale fra il numero di laureati e
quello dei residenti (circa il 2%) non si riverbera interamente sul
mercato del lavoro;
- rispetto alle altre regioni italiane, tale differenziale si amplifica
ulteriormente in termini di assunzioni aziendali, salendo dal 2,5% circa al
5%.
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Inoltre, pure in termini di lavoratori diplomati, la percentuale registrata
nel Mezzogiorno è inferiore a tutte le altre. Il fatto è decisamente grave,
considerato che quasi sempre la ricerca del “diplomato” avviene quale
succedaneo del potenziale “laureato”, e quindi molti settori produttivi che
presentano una bassa percentuale di laureati tendono a riequilibrare
l’organizzazione aziendale con una maggiore incidenza di diplomati.
Il possesso di un titolo di studio non è requisito fine a se stesso: nel
momento in cui un’azienda ricerca un laureato o un diplomato, a costui
richiede anche ulteriori competenze non necessariamente insite
nell’istruzione scolastica o universitaria ricevuta. In particolare:
- in oltre il 70% dei casi, ai laureati e diplomati viene domandata anche
una buona conoscenza informatica;
- dal 56% dei laureati e dal 29% dei diplomati si pretende anche la
conoscenza di una lingua straniera (solitamente l’inglese).
Quando invece l’assunzione concerne soggetti privi di laurea o diploma, la
richiesta dei requisiti aggiuntivi (informatica e lingua straniera) si riduce a
un unico caso ogni 15-20 individui.
A questo punto è interessante analizzare il confronto fra la domanda e
l’offerta di laureati all’interno del mercato del lavoro di ognuna delle
macroregioni già evidenziate. Per far questo, proviamo a incrociare i dati
delle due differenti tabelle osservate in precedenza.
STIMA DOMANDA/OFFERTA di LAUREATI
MACROREGIONE
OFFERTA (§)
DOMANDA
Nord-Ovest
9,1%
10,9%
Nord-Est
8,6%
6,9%
Centro
9,1%
10,3%
Sud e Isole
6,6%
5,6%
(§) =
Percentuale di laureati fra i residenti inferiori a 35 anni
Ipotizzando che l’offerta di lavoro abbia caratteristiche analoghe alla
composizione dei residenti inferiori ai 35 anni, è possibile confrontarla con
la domanda di assunzioni effettuata dalle imprese: ne consegue che,
mentre nel Nord-Ovest e nel Centro le richieste provenienti dalle aziende
eccedono la disponibilità di giovani laureati, nel Nord-Est e nel
Mezzogiorno avviene il contrario, e una quota significativa di laureati
rimane disoccupata.
E’ quindi probabile che il minor interesse dei giovani meridionali nei
confronti dell’Università derivi dal fatto che, in fase di assunzione, solo di
rado le aziende cercano soggetti possessori di laurea.
Un simile
presupposto rovescerebbe i termini della questione, permettendoci di
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concludere che non è il limitato numero di laureati a limitare le
potenzialità del sistema economico meridionale, bensì il contrario.
In altre parole, potrebbe essere proprio il sistema economico-produttivo a
dimostrare uno scarso interesse verso la valorizzazione delle risorse
umane. Alcuni ulteriori dati ci aiutano a chiarire meglio il concetto.
Iniziamo con una brevissima digressione sul tema delle pari opportunità.
Questo grafico mostra chiaramente come le imprese del Mezzogiorno, in
fase di assunzione, manifestino una netta preferenza per il sesso
maschile: solo il 40% delle richieste ricerca o comunque accetta di
assumere una donna, mentre nelle altre regioni d’Italia questa percentuale
ammonta al 57%.
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TASSI DI IRREGOLARITÀ
Centronord
Mezzogiorno
25,0%
41,0%
Industria manifatturiera
2,8%
17,0%
Costruzioni
6,3%
25,2%
Servizi
14,4%
21,5%
TOTALI
10,4%
22,8%
Agricoltura
Secondo una stima riportata dal rapporto SVIMEZ 2004, l’incidenza di
lavoratori irregolari nelle imprese meridionali è altissima, soprattutto in
agricoltura; anche il comparto delle costruzioni e il settore dei servizi in
genere, tuttavia, sono pesantemente affetti da questo problema.
Tornando a focalizzarci sulle posizioni lavorative regolari, i prossimi due
grafici evidenziano come nel Mezzogiorno, tanto nelle aziende industriali
quanto in quelle dei servizi, i contratti a termine sono molto più diffusi che
altrove. Si è intenzionalmente tralasciato il settore agricolo, nel quale
l’occupazione temporanea rappresenta spesso una risorsa imprescindibile,
strettamente conessa alla stagionalità. Ancora una volta, di norma, la
categoria più svantaggiata è quella femminile, con la sola eccezione,
proprio al sud, delle imprese industriali: in questo caso, infatti, mentre per
le donne l’occupazione temporanea non raggiunge il 10% del totale, per
gli uomini supera il 12%.
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Fino a questo punto abbiamo osservato che le imprese delle regioni
meridionali e insulari, rispetto a quelle del resto d’Italia, in fase di
assunzione prediligono individui con un livello di istruzione più basso e in
larga prevalenza di sesso maschile; inoltre, sono molto più diffusi
fenomeni di irregolarità e di occupazione temporanea.
Tutto questo testimonia come, a livello microeconomico generale, il
sistema del Mezzogiorno presti una minore attenzione alla qualificazione
delle risorse umane. Ma quale è il motivo di un simile approccio? Le
ragioni possono essere ricondotte a vari fattori, più o meno concomitanti:
1. le dimensioni aziendali
2. la tipologia del comparto di appartenenza
3. una carenza, all’interno delle organizzazioni aziendali, di ruoli
professionali qualitativamente elevati
4. una cultura d’impresa inadeguata
5. una cultura scolastica e universitaria non collimante coi fabbisogni
delle aziende.
Partendo dall’ultimo punto, le statistiche ci hanno detto che al Sud e nelle
Isole esiste una sovrabbondanza di offerta di laureati rispetto alla
domanda delle imprese. Tale sovrabbondanza, peraltro, è di natura
quantitativa ma potrebbe anche non sussistere in termini qualitativi o
tipologici: in altre parole, è possibile che per singole tipologie di lauree o
di corsi di studi, esista comunque una domanda da parte delle aziende che
rimane insoluta perché non trova un riscontro concreto sul mercato del
lavoro. Se così fosse, significherebbe che l’offerta di istruzione (e quindi
la susseguente offerta di lavoratori ad elevate conoscenze specialistiche)
non risulta confacente alle effettive esigenze delle imprese locali, che
richiedono analoghi livelli conoscitivi, ma in altre discipline.
Al momento, con i dati a disposizione, non si è in grado di valutare la
congruità
di
questo
scenario.
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Il primo punto che ci eravamo annotati per spiegare una minore
attenzione alle qualificazione e valorizzazione delle risorse umane si
rifaceva alle dimensioni aziendali. Osserviamo alcuni dati.
Le dimensioni dell’azienda incidono considerevolmente sulla selezione di
soggetti laureati: la richiesta di una cultura univeristaria aumenta infatti in
misura direttamente proporzionale alle dimensioni dell’impresa.
LAUREATI in % sulle ASSUNZIONI
DIMENSIONI AZIENDALI
ITALIA
fino a 10 addetti
3,2%
da 10 a 50 addetti
6,4%
da 50 a 250 addetti
11,3%
da 250 a 500 addetti
18,1%
oltre 500 addetti
18,7%
Una indiretta conferma di questa situazione è data dalla prossima tabella,
che mostra come anche i livelli medi retributivi crescono in misura
direttamente proporzionale all’aumentare delle dimensioni aziendali.
RETRIBUZIONE MEDIA MENSILE 2001
(Italia - stima in Euro da dati ISTAT)
DIMENSIONI AZIENDALI
INDUSTRIA
SERVIZI
fino a 5 addetti
1.240
1.360
da 5 a 50 addetti
1.450
1.560
da 50 a 250 addetti
1.750
1.690
oltre 250 addetti
2.000
1.990
E’ evidente che, al crescere delle dimensioni aziendali, si eleva sia il grado
di istruzione dei neo-assunti, sia il livello medio retributivo di tutti i
dipendenti. Le ragioni di questo fenomeno possono essere diverse, dal
momento che, nelle aziende più grandi, si riscontrano simultaneamente
tutti i seguenti fattori:
- la crescita dell’organizzazione aziendale genera ruoli professionali
“arricchiti” sia in termini di competenze che di remunerazioni;
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- una migliore cultura d’impresa, più adatta a selezionare e valorizzare in
modo appropriato le risorse umane;
- una maggiore presenza del Sindacato, che focalizza l’attenzione sia sugli
aspetti retributivi, sia su concetti quali la crescita professionale, i percorsi
lavorativi, la valorizzazione delle competenze, etc.
Con riferimento a quest’ultimo punto, è evidente che nelle piccole imprese
la minore istituzionalizzazione della presenza sindacale impedisce un
controllo adeguato su situazioni di vere e proprie irregolarità, o comunque
di scarsa correlazione fra mansioni espletate, inquadramento contrattuale
e livello retributivo. Al tempo stesso, è facile che in tale tipologia di
imprese si vengano a creare posizioni lavorative di taglio più generalista, a
bassa specializzazione, dove concetti quali miglioramento delle
competenze, pianificazione delle carriere, consolidamento delle potenzilità
individuali sul mercato del lavoro sono di fatto introvabili.
In questa sede non si vuole certo stigmatizzare il modello delle piccole
imprese, che oltretutto nel nostro paese costituiscono l’ossatura portante
del sistema produttivo; tuttavia, è necessario evidenziare come spesso le
microimprese non costituiscano l’humus ottimale per consentire la crescita
professionale dei lavoratori.
A tale riguardo, occorrerà anche domandarsi se la recente diffusa strategia
di terziarizzazione e frammentazione delle attività produttive allo scopo di
migliorare l’efficienza, non provochi a livello di sistema le premesse per un
indebolimento e una minore valorizzazione delle competenze.
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Ma torniamo al Mezzogiorno. Purtroppo, il sistema economico meridionale
è caratterizzato da una presenza assai rilevante di microimprese, mentre
sono quanto mai rare le aziende di grandi dimensioni.
Il confronto è ancora più stridente considerando che avviene non a livello
internazionale, bensì con le altre regioni italiane, che presentano
comunque un sistema produttivo ben più frammentato di quanto avvenga
negli altri paesi industrializzati.
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Dopo aver osservato l’incidenza delle dimensioni aziendali, passiamo a
esaminare la componente settoriale.
Si è già visto che in Italia la percentuale di laureati fra le persone assunte
è complessivamente piuttosto contenuta (8,4%).
Essa scende
sensibilmente nel settore industriale (4,9%), mentre nel comparto dei
servizi risulta sensibilmente più alta (10,8%). Andando a sezionare con
maggiore attenzione questi dati, si evidenziano i singoli comparti
industriali e di servizio in cui maggiore è l’esigenza di laureati:
LAUREATI in % sulle ASSUNZIONI
(comparti con maggiore incidenza)
COMPARTI INDUSTRIALI
Chimiche e petrolifere
30,5%
Elettriche, elettroniche, ottiche
16,0%
Gas e Acqua
14,1%
Meccaniche e mezzi trasporto
11,3%
COMPARTI TERZIARI
Informatica e telecomunicazioni
40,3%
Finanza, Assicurativo, Immobiliare
39,9%
Istruzione
34,4%
Sanità
34,2%
Servizi avanzati alle imprese
29,1%
Nel Mezzogiorno, la presenza di questi comparti è meno diffusa rispetto al
Centro-Nord. Dal Censimento dell’Industria e Servizi 2001, ad esempio, si
rileva che la sommatoria degli occupati in alcuni comparti particolarmente
qualificati (finanza, assicurativo, informatica) ammonta solamente al 3,9%
nelle imprese meridionali, mentre nel resto d’Italia raggiunge il 7%. Per
contro, la presenza di comparti tradizionali, a limitata crescita
professionale, è molto più significativa proprio nel Mezzogiorno.
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OCCUPATI nei COMPARTI “TRADIZIONALI”
Centronord
Mezzogiorno
Agricoltura
4,9%
15,1%
Costruzioni
8,5%
15,3%
Commercio
19,8%
24,3%
(§)
=
Le percentuali tengono conto anche delle stime inerenti
l’occupazione irregolare.
Quali sono gli esiti tangibili di questa situazione?
Una limitata presenza di posizioni lavorative qualitativamente elevate.
Il prossimo grafico pone in evidenza il livello di specializzazione dei
lavoratori dipendenti, utilizzando una serie di aggregazioni effettuate
dall’ISTAT nel rapporto annuo 2003 sul mondo del lavoro. Rispetto a tali
dati, abbiamo definito ad alta specializzazione le posizioni professionali di
imprenditori, dirigenti e tecnici specialistici; a livello medio abbiamo
posizionato gli intermedi amministrativi, finanziari, assicurativi e
commerciali; al gradino inferiore abbiamo posto tutte le residue
professionalità.
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Come si nota, nelle imprese meridionali l’incidenza di posizioni
professionali a bassa specializzazione è notevole, superando il 70% degli
addetti; di converso, sono poco comuni i dipendenti altamente o
mediamente specializzati.
Quale sintesi dei dati fin qui esaminati, si può asserire che uno dei
maggiori problemi del Mezzogiorno consista nella mancanza di un
sistema imprenditoriale integrato che consenta il passaggio
dall’istruzione universitaria o superiore a posizioni lavorative che
consentano una prosecuzione del processo di arricchimento
formativo.
E’
una considerazione
importante,
che
merita
uno specifico
approfondimento tematico e un progetto di ricerca finalizzato
all’individuazione delle problematiche connesse alla crescita professionale
dei lavoratori del Mezzogiorno e alla definizione di strumenti e
metodologie per favorire nelle imprese meridionali i processi per la
valorizzazione dei lavoratori.
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