dispense del corso 2014-2015
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UNIVERSITÀ DI PARMA Corso di Laurea Magistrale in Giornalismo e cultura editoriale [Anno 2014-2015] VERSO UNA DEMOCRAZIA ECOLOGICA? LA DISCUSSIONE PUBBLICA E LA PARTECIPAZIONE POLITICA DI FRONTE ALLA CRISI AMBIENTALE Prof. Marco Deriu 16 febbraio – 23 marzo 2015 Dispense di Sociologia della comunicazione politica [email protected] 2 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu PREMESSA AL CORSO Il corso comincia riflettendo sull'idea di insegnamento e di apprendimento. Si prende spunto per la discussione da un frammento di un dialogo tra Carl Rogers e Gregory Bateson. Il 28 maggio 1975, presso il College of Marin, nel Kentfield in California, si tenne una strana conversazione tra il fondatore della Psicologia Umanistica Carl Rogers e il teorico dell'ecologia della mente o dell'ecologia delle idee Gregory Bateson1. Quelli su cui vi vorrei far riflettere sono alcuni dei passaggi più interessanti di questo dialogo che in gran parte toccava i temi dell'apprendimento. Carl Rogers: «Voglio parlare un po’ della politica dell'istruzione e dell'apprendimento ma in primo luogo sarebbe meglio che specificassi a quale tipo di apprendimento io sono interessato: si tratta di quello che io definisco apprendimento significativo. È un termine, diciamo così, personale. In questo tipo di apprendimento è profondamente coinvolta l'intera persona, con il suo intelletto e i suoi sentimenti. È un apprendimento che parte dall'individuo ed è caratterizzato da un senso di scoperta in cui si prova questo tipo di sensazione: "Oh, questo è proprio quello che da tanto tempo stavo cercando di scoprire!". In altre parole, c'è il forte desiderio di afferrare qualcosa di nuovo. […] Infine, si tratta di qualcosa che lo studente vuole apprendere perché ha un significato per lui, per la sua vita e il suo modo d'essere. […] Ora, quanto di questo apprendimento avviene nell'istruzione convenzionale? Per quanto mi riguarda molto poco e quando si verifica accade per caso». Carl Rogers ritiene che l'apprendimento convenzionale si basa sul potere, sulla paura e sull'ansia attraverso strumenti quali test, gli esami, i voti, l'essere criticati o ridicolizzati di fronte agli altri. Non c'è spazio per la persona nella sua totalità. Non c'è un ruolo riconosciuto per le proprie possibilità di scelta o per intraprendere autonomamente un proprio apprendimento. Rogers propone un apprendimento che è "autoiniziato" (self-initiated) nel quale l'intera persona nella sua totalità (sentimenti, passione e intelletto) è coinvolta nel processo. 1 Il frammento di conversazione tra Carl Rogers e Gregory Bateson che segue è tratto da Dialoghi di Carl Rogers, a cura di H. Kirschenbaum e V. Land Henderson, La meridiana, Molfetta, 2008, pp. 181-210. 3 Gregory Bateson è d'accordo su molte cose ma ritiene che l'insegnante abbia un importante ruolo attivo. Anzitutto sta in gran parte a lui creare una situazione in cui gli studenti possano scoprire qualcosa di significativo e in questo ruolo non solo comunica informazioni e conoscenze, ma prepara «le condizioni per la scoperta di qualcosa o un'altra o in realtà sto attento e cerco di apprendere io stesso»2. Ad un certo punto Bateson pone una domanda molto particolare e la conversazione prende una piega particolarmente interessante: Gregory Bateson «Mi domando, quanti studenti sono ricercatori?» Carl Rogers: «Presumo che sulla base dell'esperienza siano ricercatori fino a quando non sono gradualmente ridotti al silenzio dal nostro sistema scolastico. Penso che la migliore prova di questo sia un bambino di quattro o cinque anni. È un ricercatore? Io direi di sì! Assorbe tutto ciò che può in qualsiasi campo. Impara ad avvertire i sentimenti che le persone hanno nei suoi confronti, raccoglie informazioni riguardanti il suo mondo e ha una grande sete di sapere. E penso che sia nel contesto del nostro sistema scolastico che, per cosi dire, si spegne il ricercatore che c'è in lui. Ciononostante, il ricercatore può essere risvegliato». Gregory Bateson: «Si, in generale sono ovviamente, d'accordo». Carl Rogers: «Lei è d'accordo ma non ovviamente». Gregory Bateson: «Va bene, non ovviamente, ma sono veramente d'accordo. E sono d'accordo che dalla mia posizione avendo a che fare con studenti universitari e laureati, circa metà del mio problema o forse più sta nel relazionarmi a ciò che stato spento. Avverto due grandi frustrazioni: una, corrisponde all'essere spento - usando la sua espressione - e la seconda, perché diavolo non hanno detto a queste persone queste piccole e semplici cose? (Entrambi ridono) Cose che avrebbero dovuto essere comunicate molto tempo prima ma suppongo che erano troppo impegnati nella loro azione di spegnimento». […] Carl Rogers: «Si. Spesso le persone sono stimolate ad apprendere, talvolta da pessimi insegnanti. (Bateson ride) Questo è un dato di fatto. Ho conosciuto studenti che hanno ascoltato una lezione arbitraria, autoritaria e che hanno pensato: "Dimostrerò che quel bastardo ha torto, fosse pure l'ultima cosa che farò". E allora iniziano a imparare veramente, a studiare e ad approfondire al fine di fare questo. Quindi ci sono molti modi per stimolare un tipo di apprendimento che parte da sé. Io ho semplicemente cercato di parlare del metodo che preferisco». Carl Rogers parlava di apprendimento "autoiniziato" (self-initiated). Gregory Bateson accennava d'altra parte ad alcune piccole e semplici cose che andrebbero comunicate agli studenti o meglio ai ricercatori e ricercatrici. Ce ne sono alcune che vorrei dirvi anch'io per iniziare e per mettervi sull'avviso nella ricerca che compirete. 2 Ivi p. 199. 4 1) La mappa non è il territorio: l’importanza delle rappresentazioni sociali Gregory Bateson, sosteneva che la scienza – qualsiasi scienza - esplora, ma non prova mai nulla perché la nostra conoscenza è sempre funzione della soglia dei mezzi di percezione di cui disponiamo in un dato momento. Ricorrendo ai principi di Alfred Korzybski, secondo cui «la mappa non è il territorio» e «il nome non è la cosa designata», Bateson insisteva nel sottolineare che le mappe mentali e culturali che utilizziamo normalmente sono solo strumenti con cui attivamente ci facciamo un’immagine della realtà indispensabile per orientarci. Questo significa in primo luogo che quando parliamo di un ombrello, di un lago o di una città, nel nostro cervello non ci sono ombrelli, laghi o città. Noi registriamo notizie, informazioni, differenze e in qualche modo le codifichiamo in schemi, immagini o mappe. Quindi non bisogna dimenticare che qualsiasi descrizione della realtà non può corrispondere relamente alla cosa descritta. Qualsiasi percezione, qualsiasi descrizione, qualsiasi comunicazione sono prodotti delle nostre capacità percettive e dei nostri mezzi di registrazione e riproduzione sensoriali e cognitivi. Una mappa, una mappa culturale, una mappa sociologica, dunque serve per orientarsi nella realtà. Ci può essere un sistema di segni e riferimenti corrispondenti che ci aiuta ad orientarci, ma tra la descrizione e la cosa descritta c’è sempre uno scarto incolmabile. Anche una mappa estremamente elaborata e precisa, in scala 1:1 non coincide con la realtà. Oltre a questo dato di fondo, diversi altri autori – sia sociologi che con angolatura differenti anche psicologi - hanno sottolineato che il nostro modo di conoscere e pensare non è solamente un processo individuale, ma dipende da forme di pensiero sovra individuali, sociali. Dunque la dimensione di costruzione della realtà sociale non è solo un fatto che riguarda l’individuo nelle sue relazioni con figure di prossimità, riguarda più in generale tutti i processi culturali e di significazione sociale. In altre parole il nostro linguaggio, le nostre categorie, le nostre idee, le nostre convinzioni sono sempre in qualche misura debitrici di un pensiero collettivo. Émile Durkheim, fu il primo a prestare attenzione a questo aspetto introducendo la nozione di “coscienza collettiva” e di “rappresentazioni collettive”. Durkheim si riferiva ad un ampio insieme di forme intellettuali quali la religione, la morale, il diritto, la scienza, il mito. Per Durkheim i fatti sociali «si risolvono in modi di agire, di pensare e di sentire, esteriori rispetto all'individuo. Questi fatti sono provvisti di un potere di coercizione con il quale riescono a imporsi sul singolo. Poiché consistono in rappresentazioni e in azioni, non devono esser confusi con i fenomeni organici e neppure con i fenomeni psichici i quali non esistono che nella coscienza individuale e grazie ad essa. La qualifica di sociali spetta ed è riservata a questi fenomeni che costituiscono una specie nuova. Non avendo quale loro sostrato l'individuo, questi fatti non possono avere altro fondamenteo che la società» (Durkheim 1895, trad. it. 1996 p. 25). La riflessione di Durkheim sulle rappresentazioni collettive rischiava però di essere troppo rigida, poiché presupponeva delle conoscenze sovra individuali che si impongono dall’esterno con una forma di coercizione, che pur non escludendo il ruolo della personalità individuale, tende a enfatizzare l’aspetto statico su quello dinamico. Psicologi contemporanei come Serge Moscovici hanno sviluppato in senso più fenomenologico e dinamico l’idea di “rappresentazioni sociali” che ci guidano nella lettura o nella definizione della realtà e nella nostra azione in tale realtà. Come scrive Moscovici: 5 «Nessuna mente è libera dagli effetti del condizionamento precedente che viene imposto attraverso le rappresentazioni, il linguaggio e la cultura che le sono proprie. Noi pensiamo per mezzo di una lingua; organizziamo i nostri pensieri in base ad un sistema che è condizionato, sia dalle nostre rappresentazioni sia dalla nostra cultura; e vediamo solo quello che le convenzioni sottostanti ci permettono di vedere, senza essere consapevoli di tali convenzioni» (Moscovici, 2005, pp. 13-14.). Da questo punto di vista – sottolinea Moscovici - la nostra posizione non è diversa da quella di una qualsiasi tribù a cui attribuiamo un sistema di “credenze”. Noi possiamo naturalmente divenire più consapevoli dell’aspetto “convenzionale” dei nostri linguaggi, idee, rappresentazioni ma non potremo mai sottrarci completamente al loro condizionamento. Una strategia migliore, ci dice Moscovici, è quella di scoprire, riconoscere e tentare di rendere esplicite queste rappresentazioni in modo da poterle in qualche modo vedere e discutere. Insomma non essere passivamente succubi. 2) Pensiamo attraverso il linguaggio. Le rappresentazioni e formazioni discorsive È possibile dunque rintracciare una serie specifica di categorie, di parole ed immagini, per comprendere quale specifica costruzione di significati si sta in un certo momento e in un certo contesto costruendo. Michel Foucault indicava con il termine “formazioni discorsive” quegli insiemi, più o meno eterogenei, di concetti valutazioni, enunciati, osservazioni, regole e prescrizioni giuridiche ricorrenti, che danno forma a degli oggetti di sapere, quali per esempio la follia, la delinquenza, la sessualità. L’aspetto importante da comprendere, suggerisce a sua volta Stuart Hall è che queste formazioni discorsive producono significati e questi contribuiscono a «regolare e a organizzare le nostre condotte e pratiche – essi aiutano a stabilire le regole, le norme e le convenzioni attraverso cui la vita sociale è ordinata e governata» (Hall, 2003, p. 4). Nei rapporti con le nostre alterità, per esempio, queste formazioni discorsive contribuiscono non solo a dirci come guardare all’altro, ma in maniera più profonda contribuiscono a creare una specifica realtà dell’altro nella nostra testa, a costruire l’altro. In queste rappresentazioni le nostre alterità non sono tanto soggetti della rappresentazione quanto soggetti alla rappresentazione. In altre parole c’è un rapporto tra la definizione di certi codici linguistici, di certe formazioni discorsivi, di certi linguaggi e le pratiche di potere. C’è un rapporto tra nominare e normare. Tra imporre i nomi e le categorie e imporre le regole, i codici di condotta. E ancora di più c’è un rapporto tra imporre questi codici e la costruzione di identità e di soggettività. Dunque chi attraverso delle formazioni discorsive può imporre un linguaggio, un immaginario, acquisisce un grande potere sugli altri. Ma d’altra parte può essere che questo linguaggio che si impone agli altri si scopra ad un certo punto anche una gabbia per se stessi. Se queste formazioni discorsive costruiscono una specie di “frame” o "script" o all’interno del quale ci abituiamo a guardare, pensare e parlare, può essere che questa cornice acquisisca una certa stabilità e solidità tale per cui diventa difficilissimo uscirne. Queste cornici culturali sono infatti così profondamente interiorizzate e stratificate nel nostro mondo culturale, sociale, materiale da risultare implicite e indiscusse. Come ha notato George Lakoff: 6 «il linguaggio trae il suo potere dal fatto di essere definito relativamente a frame, prototipi, metafore, narrazioni, immagini ed emozioni» (Lakoff, 2009, p. 18) Non è semplice liberarsi da questi pregiudizi. Da quando siamo venuti al mondo, da quando abbiamo appena iniziato a parlare, tutto attorno a noi ci spinge a pensare in questo modo. Secondo George Lakoff certi schemi divengono narrazioni che sono fissate nei circuiti neurali del cervello e possono essere attivate e funzionare inconsciamente, automaticamente e per riflesso (Lakoff, 2009, p. 39). «i modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente, senza controllo conscio e senza memoria per la maggior parte del tempo» (Lakoff, 2009, p. 18) Nella quasi totalità dei casi noi non conosciamo la ristrettezza - a volte la miseria delle cornici culturali dentro alle quali ci muoviamo. Come diceva in maniera più secca e caustica un altro sociologo, Gabriel Tarde, «Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: tale è l’illusione propria del sonnambulo, così come dell’uomo sociale» (Tarde, 1976, p. 120). Per prendere coscienza di questo condizionamento e di questi limiti, bisogna aver provato uno scacco nel proprio modo di pensare. Bisogna aver personalmente cozzato contro le pareti di queste cornici. Essersi trovati almeno per una volta nelle condizioni di vederle almeno parzialmente da fuori. Il fatto è purtroppo è che non siamo padroni del nostro immaginario. Non scegliamo fino in fondo quello che pensiamo. Il nostro compito è anche quello di provare a pensare quello che pensiamo, a riflettere sui nostri pensieri, e per quello che possiamo cercare buttare un occhio al di là dell’orizzonte condiviso, magari ponendoci domande problematiche. Il compito di un pensiero critico, dunque, è quello di sottrarre i concetti e le nozioni che utilizziamo quotidianamente alla loro dimensione di apparente ovvietà e auto evidenza. Come ha scritto Michel Foucault «Bisogna rimettere in questione queste sintesi belle e pronte, quei raggruppamenti che in genere si ammettono senza il minimo esame, quei collegamenti di cui si riconosce fin dall’inizio la validità; bisogna scalzare quelle forme e forse oscure con cui si ha l’abitudine di collegare tra loro i discorsi degli uomini; bisogna scacciarla dall’ombra in cui regnano» (Foucault, 2005, p. 30). E ancora: «In pratica bisogna strapparle dalla loro condizione di quasi evidenza, far emergere i problemi che pongono; riconoscere che non sono quel posto tranquillo a partire dal quale si possono porre altri problemi (sulla loro struttura, la loro coerenza, la loro sistematicità, le loro trasformazioni), ma che in loro stesse pongono tutto un fascio di problemi» (Foucault, 2005, p. 36). La sociologia della cultura ci aiuta dunque a interrogare le parole, i concetti, le categorie, le rappresentazioni con cui quotidianamente leggiamo e costruiamo attivamente il mondo, di cui normalmente non vediamo i limiti, le dimensioni rimosse, gli elementi oscuri, contraddittori o perturbanti. Come saggiamente notava Mark Twain: 7 «Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e invece non lo è» . Da questo punto di vista non si tratta solamente di costruire delle descrizioni o delle narrazioni efficaci o più corrispondenti al “vero” ma di porci costantemente in un atteggiamento riflessivo, dubbioso, auto-critico. Come sottolinea Gregory Bateson «Dobbiamo quindi esaminare in primo luogo le discrepanze sistematiche che necessariamente esistono tra ciò che possiamo dire e ciò che tentiamo di descrivere» (Bateson G., Bateson M.C., 1989, p. 228). Un pensiero critico, avvertito, è un pensiero che riconosce di essere parziale e si sforza di riconoscere e indagare i propri limiti, fino addirittura al paradosso, quando si usano i propri limiti anche come possibilità di comunicare. «Una vecchia barzelletta in voga nell’ex Repubblica Democratica Tedesca racconta di un operaio tedesco che trova lavoro in Siberia. Consapevole del fatto che tutta la sua posta verrà letta dalla censura, dice ai suoi amici: “Stabiliamo un codice: se la lettera che ricevete è scritta in normale inchiostro blu, significa che è veritiera; se invece è scritta in inchiostro rosso quella lettera dice il falso”. Dopo un mese, gli amici ricevono la prima lettera, scritta in inchiostro blu: “Qui è tutto meraviglioso: i negozi sono pieni di merci, il cibo è abbondante, gli appartamenti sono grandi e ben riscaldati, nei cinematografi si proiettano film occidentali, ci sono ovunque belle ragazze disponibili per un’avventura. L’unica cosa che non si trova è l’inchiostro rosso”.» (Raccontata da Slavoj Zizek, 2002, p. 7) Divenire consapevoli di questo, così dei nostri processi di conoscenza, e dei nostri limiti, ci può permettere di relativizzare le nostre idee, ma anche di comprenderne la singolarità e l’importanza, di divenire più coscienti di noi stessi e, possibilmente, di confrontarci con più umiltà con gli altri. Nel nostro corso ci occuperemo dunque di alcuni temi chiave della società contemporanea, ed in particolare la crisi ecologica e la crisi della democrazia e di come queste cose entrino nella comunicazione politica e nella comunicazione ambientale. Ma attraverso questo percorso auspico che vi facciate un’idea più critica e problematica dei fondamenti e dei giudizi sui quali riposa la nostra visione del mondo. Allo stesso tempo mi auguro che acquisiate degli strumenti critici per continuare da soli questo lavoro nelle realtà e nelle esperienze che incontrerete. 8 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu CHE COS'È LA COMUNICAZIONE POLITICA? Quando si parla di comunicazione politica in genere si pensa principalmente alle forme di comunicazione che riguardano gli attori politici ed istituzionali. Sia quindi i processi di comunicazione attivati dagli attori politici ed istituzionali verso i cittadini o specifici soggetti sociali. Sia i processi di comunicazione attivati da cittadini o da specifici soggetti sociali verso gli attori politici e istituzionali. O anche le forme di comunicazione che hanno come “oggetto” i soggetti politici e istituzionali e le loro attività. Tuttavia questo tipo di definizione presenta alcuni limiti. Essa identifica alcuni attori specifici – coloro che hanno incarichi politici o istituzionali – e li mette a confronto con altri attori – i cittadini o l’opinione pubblica. In realtà non è così semplice ritagliare con nettezza chi sono gli attori politici e chi i cittadini o l’opinione pubblica. Da un certo punto di vista gli stessi attori politici sono cittadini e possono essere visti a loro volta come parte ed espressione dell’opinione pubblica. Deputati, senatori, segretari di partito possono partecipare a manifestazioni di piazza contro una legge o una manovra ingiusta o in difesa dell’acqua pubblica. Non di rado alcune forze politiche organizzano delle messe in scena o dei gesti simbolici durante le sedute del parlamento per manifestare la propria contrarietà all’interno dell’aula e contemporaneamente per “bucare” più facilmente nella comunicazione televisiva. Per esempio nel luglio del 2011 in Italia alcuni senatori della formazione Italia dei valori hanno esposto e rivolto dei cartelli con la scritta "Ladri di valori" verso gli altri senatori per protestare contro l'approvazione del disegno di legge Lussana sul "processo lungo" che riforma il codice di procedura penale. Nel settembre 2015, invece alcuni parlamentari di Hong Kong hanno protestano contro il governo durante un consiglio legislativo, usando degli ombrelli gialli, simbolo del movimento per la democrazia Occupy central. D’altra parte, non si possono definire “attori politici” solamente coloro che hanno incarichi nei partiti o nelle istituzioni pubbliche. Per fare un esempio ci sono molti soggetti – associazioni, comitati, circoli, fondazioni, reti, movimenti, ecc. – che 9 svolgono chiaramente un ruolo politico e di fatto promuovono una comunicazione politica che non necessariamente si rivolge ai partiti o ai rappresentanti eletti, ma può rivolgersi direttamente ai cittadini o agli elettori senza altre mediazioni. In secondo luogo la comunicazione può assumere forme diverse che hanno a che fare con codici differenti: linguistici, fisici, teatrali, simbolici, estetici, ecc. Per fare qualche esempio è possibile occupare una piazza con delle tende e manifestare di fronte a Wall Street per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario, come è accaduto con il movimento Occupy Wall Street nel 2011. Oppure è possibile organizzare dei flash mob sui temi più diversi. Per esempio, nell’agosto 2011 a Teheran giovani iraniani e iraniane hanno organizzato dei raduni in parchi o nelle strade giocando con gavettoni o delle pistole ad acqua per sfidare il regime e le convenzioni sociali che regolano i rapporti tra uomini e donne. Diciassette di loro sono stati arrestati solamente per questo atto simbolico. In India nel 2014 è stata lanciata a partire dal Kerala una forma di protesta che è diventata una vera e propria campagna nazionale dal titolo Kiss of Love con raduni per baci di massa a Delhi, Mumbai, Calcutta, Hyderabad, Chennai allo scopo di sfidare il bigottismo morale sessuale. Il movimento è partito con una pagina di Facebook chiamato 'Kiss of love' nella quale si chiedeva ai giovani del Kerala di partecipare il 2 novembre 2014, a Marine Drive, nella città di Kochi a una protesta contro quello che è stato chiamato "moral policing" (polizia morale). In un paese puritano come l'India infatti baciarsi in pubblico è considerato un fatto osceno. La rivendicazione di questa manifestazione politica è chiara: «Il bacio è solo un simbolo. Chiediamo la fine del moral policing, di un controllo pubblico sul rispetto di una presunta moralità indiana»3. Un altro elemento importante da comprendere è che nella comunicazione non contano solo le parole e i significati letterali o referenziali, o gli eventi in quanto tali, ma conta anche la valenza simbolica che essi vengono ad assumere. La politica e la comunicazione politica sono continuamente attraversati da gesti e atti simbolici. Con questo non vogliamo dire che sono simbolici in sé ma che lo diventano agli occhi degli osservatori. Sono certamente simboli le bandiere 3 Valeria Fraschetti, "L'india in cerca dell'amore protesta a colpi di baci", il venerdì, 13 febbraio 2015, pp. 30-31. 10 (pensate alla bandiera americana o a quella italiana), le insegne, i loghi, i colori, ma anche certi vestiti o certi gesti (si pensi al pugno chiuso o al braccio teso fascista). Come ha sottolineato Enrico Caniglia: «esiste tutta una tradizione di ricerca in cui i simboli non sono soltanto "qualcosa che sta per qualcos'altro" bensì una finestra che offre un accesso privilegiato a fenomeni più complessi e che sono costitutivi della vita sociale» (Caniglia, 2013, p.3) I simboli portano con sé significati razionali ed emozionali e sono capaci di suscitare sentimenti e comportamenti specifici. La politica dunque si nutre di risorse e dimensioni simboliche. In generale dunque la comunicazione politica non è riconducibile ad un soggetto specifico o a una modalità specifica della comunicazione, ma alla natura pubblica della comunicazione e alla finalità politica. Ritengo dunque preferibile definire comunicazione politica la creazione, la diffusione e lo scambio intenzionale di messaggi, informazioni e contenuti nello spazio pubblico da parte di attori politici e sociali, dai cittadini o dai mass media al fine di consolidare, modificare o influenzare il contesto politico. La comunicazione politica può intrecciarsi dunque con la comunicazione istituzionale da parte di pubbliche amministrazioni o organi dello Stato, con la comunicazione elettorale da parte di candidati o partiti nel periodo delle elezioni, ma non è riducibile ad uno di essi. Possiamo notare che il problema della comunicazione politica si è posto in qualche modo fin dall’antichità. Le forme di retorica nello spazio pubblico, la questione della propaganda, i comizi, la ricerca di affermazione e di sostegno per le proprie iniziative politiche ha interessato anche il mondo antico - dai Greci ai Romani - ma dal nostro punto di vista l’età della “comunicazione politica” vera e propria è connessa alla nascita dei mezzi di comunicazione moderna: giornali, radio, televisioni, internet. La comunicazione politica assume poi delle caratteristiche specifiche nei regimi cosiddetti “democratici” legati alla competizione politica tra soggetti organizzati, all’espressione del voto popolare attraverso delle tornate elettorali e quindi all’influenza dell’opinione pubblica e alla costruzione del consenso. Nella Letteratura sulla comunicazione politica4 si individuano solitamente tre fasi: un’età premoderna, un’età moderna e un’età postmoderna. Questi schemi sono molto orientati più che altro alla comunicazione elettorale ma hanno un valore orientativo anche più ampio. La prima fase è quella precedente il 1950, in cui la comunicazione è molto legata ai territori, alla carta stampata e ai giornali e, a partire dagli anni ‘20 alla radio. In questa fase contano molto le forme ritualizzate come i comizi, le parate, le manifestazioni politiche, ma anche i rapporti diretti e il lavoro svolto porta a porta. Giocano un ruolo centrale le organizzazioni politiche popolari come i partiti e i sindacati. La seconda fase parte dalla seconda metà degli anni ’50 con l’avvento della televisione, che modifica il rapporto tra politici e popolazione. Si tratta di una comunicazione molto verticale, top-down, che assume i caratteri di massa. È importante capire che l’avvento della televisione determina una forte discontinuità che trasforma non solo le forme della comunicazione ma la politica stessa, introducendo elementi di spettacolarizzazione, estetizzazione, velocizzazione. La terza fase è quella che comincia negli anni ’90 con l’avvento di Internet e del Web. Questa fase permette una moltiplicazione crescente delle fonti, una 4 Si veda per esempio Mazzoleni 2004, Campus 2008, Sorice 2011. 11 struttura multimediale e in generale un decentramento nella diffusione dei messaggi e delle informazioni. In anni più recenti si assiste a un’evoluzione ulteriore, con l’avvento Web 2.0. Con questo nome si intende l’introduzione di tutte quelle applicazioni online che favoriscono una significativa interazione tra gli utenti e il sito o che creano forme di implementazione e costruzione aperta dei contenuti e della comunicazione (blog, forum, chat, sistemi quali Wikipedia, YouTube, Facebook, Myspace, Twitter, Gmail, Wordpress, TripAdvisor). Come vedete questa periodizzazione è strettamente legata ai tipi di media e di strumenti di comunicazione che sono diffusi in un dato periodo. Questo deve portarci a riflettere sul fatto che non esiste una politica o un opinione pubblica separata dai media e che si pone anche il problema di come comunicare fra loro nello spazio pubblico. In realtà dovremmo concepire questi elementi come mutualmente dipendenti, come se ciascuno contribuisse a definire l’altro. La politica è strettamente condizionata dai mass media e dalle forme di comunicazione che questi permettono. A sua volta l’opinione pubblica prende forma a partire dal tipo di comunicazione che si sviluppa in rapporto a certi strumenti di comunicazione. Infine non esiste uno spazio pubblico indipendente dalle forme e dagli strumenti di comunicazione. Per esempio il tipo di comunicazione, di spazio pubblico, di opinione pubblica e di politica che si va definendo nell’era del web 2.0 sono diversi da quelli che si definivano nell’epoca dei comizi e delle parate di massa o all’epoca delle tribune politiche in televisione. Basta guardare da una parte la campagna elettorale di Obama del 2008 che dal punto di vista finanziario e del supporto politico si è ampiamente basata sul web. Allo stesso tempo basta pensare al ruolo dei social network nelle rivolte arabe, o nella diffusione dei movimenti di indignados per capire come un tipo di comunicazione reticolare, la diffusione di slogan e parole d’ordine, la velocità e la diffusione anche al di là dei confini nazionali, la riproduzione di forme di intervento e di manifestazione simili in molti paesi disegnano una situazione molto diversa dal passato: una diversa percezione dello spazio pubblico non ristretto al sistema parlamentare, alla propria regione o nazione, un’opinione pubblica meno controllabile e meno reprimibile, un diverso modello di funzionamento della comunicazione politica di tipo orizzontale e virale, infine forme di organizzazione e di azione politica coordinate ed immediate senza essere centralizzate. Non sto dicendo che tutto questo dipende unicamente dai media, ma piuttosto che c’è una creazione reciproca. Una certa esigenza spinge a creare, date le conoscenze tecniche, anche un certo tipo di sistema mediale e di comunicazione. Un esempio interessante è il modo in cui è stata costruita la recente costituzione islandese (2011), il cui testo è stato redatto da un gruppo di persone che lo hanno implementato in crowdsourcing su piattaforme di condivisione online con l’aiuto di migliaia di netizen (cybercitizen). Se guardate su Wikipedia (che è a sua volta una piattaforma di condivisione) trovate che il crowdsourcing è un neologismo (da crowd, gente comune, e outsourcing) che definisce un modello di business o di lavoro nel quale un’azienda o un’istituzione affidano lo sviluppo di un progetto, di un servizio o di un prodotto ad un insieme distribuito di persone organizzate in una comunità virtuale. Netizen (o cyber citizen) è invece un termine proposto da Michael Hauben (1973– 2001) per indicare un utente di Internet che possiede un senso di responsabilità civica per la sua comunità virtuale più o meno allo stesso modo in cui altri cittadini si sentono responsabili per una comunità fisica. Sono “persone che partecipano attivamente alla vita di Internet, contribuendo e credendo fermamente nella libertà di espressione tramite questo mezzo”. Vedete dunque che cambia la stessa nozione di cittadino, di cittadinanza, di comunità politica, di sfera pubblica, col mutare della comunicazione politica e delle 12 piattaforme di comunicazione (che come face book sono tuttavia progettate dagli stessi cittadini). Si tratta di quelli che vengono chiamati gli effetti sistemici o strutturali dei media5, ovvero quei cambiamenti della comunicazione che hanno un impatto anche sul sistema politico in quanto tale. IL MEDIA MANAGEMENT Tra gli ambiti della comunicazione politica rientra anche quella che chiamiamo comunicazione elettorale. Diversi studiosi hanno osservato che se in passato era più chiara la distinzione tra comunicazione politica e comunicazione elettorale oggi questa differenziazione è meno pronunciata. In parte perché le attività finalizzate a obiettivi elettorali sono divenute sempre più estese se non permanenti. Questa tendenza verso campagne permanenti (permanent campaigning) si è cominciata a manifestare già negli '80 ma è divenuta molto più evidente dopo la metà degli anni '90. Le ragioni di questo cambiamento vanno ricercate nel cambiamento verso la personalizzazione, la leaderizzazione, la spettacolarizzazione e al contempo nell'indebolimento delle organizzazioni politiche tradizionali, come i partiti e i sindacati che in passato presidiavano il rapporto con la base nei diversi territori. Questa modalità di competizione permanente produce diversi effetti: da una parte indebolisce il senso delle istituzioni e genera una competizione continua che spesso assume la forma di un gioco delle parti. Dall'altra ha prodotto un investimento di attenzione e di risorse verso la cura delle strategie di comunicazione come elemento permanente e non ciclico del sistema politico. La comunicazione politica dunque diventa una dimensione strutturale e sempre più professionalizzata nel rapporto tra soggetti istituzionali, media e cittadini. In questo quadro assume un'importanza crescente il cosiddetto media management, ovvero le risorse, le strategie e le tecniche messe in campo dagli attori politici per cercare di influenzare gli organi di informazione e l'opinione pubblica al fine di rafforzare la propria immagine, di guadagnare consenso, di ottenere supporto per un obiettivo politico, o di imporre un tema o una questione al centro della discussione. Il media management è qualcosa di molto più complesso delle forme tradizionali di censura o di propaganda. Non si tratta semplicemente di impedire la pubblicazione di una notizia o di diffondere messaggi standardizzati e ripetitivi. Si tratta invece di inserirsi ed intervenire efficacemente nelle logiche, nei bisogni e nelle dinamiche di funzionamento dei media, cercando di ordinare, filtrare, controllare, orientare o produrre informazioni (news making) e messaggi al fine specifico di indirizzare la comunicazione. Quello che occorre comprendere è che l'obiettivo in questo caso, apparentemente non è quello di intralciare il giornalista, ma al contrario di prevenire il suo bisogno di notizie, di dati, di immagini, di slogan, di eventi simbolici, di narrazioni, ecc… in modo da facilitarlo nel suo lavoro di costruzione di notizie e di servizi. In questa direzione i soggetti pubblici, che siano politici, o imprese si sono sempre di più appoggiati a risorse professionali e a strumenti tradizionali di marketing: sondaggisti, agenzie di pubbliche relazioni, consulenti d'immagine, spin doctor, ghost writer, lobbisty. Dal consulente politico al marketing politico Lo spin doctor (dall'inglese [top] spin, nel gioco del tennis «colpo a effetto» e doctor, «esperto») o consulente politico è una figura professionale di consulente a servizio di personaggi politici o pubblici, al fine di progettare e pianificare strategie di 5 Cf. Sorice, 2011, p. 52. 13 immagine, di comunicazione e di presentazione al fine di massimizzare il consenso politico ed elettorale. Di fatto è una figura di media management. Può gestire informazioni e notizie, produrre comunicati, preparare smentite o minimizzare alcune notizie, scrivere discorsi, costruire una certa immagine o un certo tono e approccio nella comunicazione, gestire pagine web, o impostare la comunicazione sui social network, costruire campagne pubblicitarie, organizzare eventi mediatici, cercare di deviare l'attenzione o di imporre dei temi all'agenda dei media ecc. Molti politici importanti hanno fatto ricorso a questa figura. Bill Clinton si appoggiò a Stanley Greemberg, Blair si appoggiò a Alastair Campbell, Barack Obama a David Axelrod. Anche in Italia esiste questa professione è c'è anche un'Associazione italiana consulenti politici6. Da un po’ di anni è stato introdotto ed esplorato in letteratura il termine marketing politico. Quello che è stato messo in luce è la derivazione dalle filosofie commerciali e dal marketing economico di una serie di tecniche, di strumenti, di approcci e anche di linguaggi tali per cui si inizia a considerare un politico o un partito o i loro rispettivi programmi come una merce da piazzare con successo sul mercato. Questo significa studiare i cittadini come mercato di consumatori potenziali, definire i target da colpire, studiare gusti, preferenze, definire il prodotto politico che si intende vendere, analizzare la possibile concorrenza, immaginare forme di promozione adeguate a uno o più target, definire i mezzi e le strategie più adeguate, elaborare un piano e controllare i flussi comunicativi. Si è parlato ancora più esplicitamente di brand communication in campo politico. Ovvero la definizione di una specie di "marchio di fabbrica" anche a un prodotto (un soggetto o un partito) o a una linea politica in modo da stimolarne la visibilità, l'identificabilità, e differenziarlo e by Shepard Fairey, 2008. renderlo più appetibile rispetto alla concorrenza. L'uso di segni, simboli, disegni, immagini, parole chiave o slogan, icone, o una combinazione di tutto questo per identificare un soggetto politico è diventato un tratto ricorrente nella comunicazione politica degli ultimi decenni. L'obiettivo, come in campo commerciale è quello di unire immagini, percezioni, sensazioni, per produrre riconoscibilità, identificazione, adesione, legittimazione e consenso. Più nello specifico la cura del branding politico - in un'epoca in cui l'adesione ideologica si è fortemente indebolita e in cui è aumentata la frammentazione delle esperienze e la volatilità politica - è quella di assicurare una fedeltà, una continuità, battezzando una linea di 6 http://www.aicop.it/joomla/ 14 idee e proposte per renderle riconoscibili e identificabili con un attore, in modo da ispirare approvazione e fiducia. In questo scenario, afferma Nello Barile, lo spin doctor: «da buon consulente postmoderno, non si pone più l'obiettivo di "modellare" l'opinione pubblica, bensì quello di modellare l'identità del leader analizzando costantemente la sua brand image, ovvero il modo in cui gli elettori percepiscono tale identità»7. Come ricorda lo stesso Barile, nel film I due presidenti di R. Loncraine (2010), Tony Blair si reca con il suo staff al cospetto dello Spin Doctor di Clinton, che spiega loro le linee di fondo della nuova politica democratica: «Dovete ascoltare quello che dice la gente, non continuate a proporre idee e un linguaggio che non vuole. È molto più facile cambiare il programma del partito che cambiare la testa della gente». Questo tipo di impostazione che rinuncia in partenza non solo all'idea di un orientamento etico politico, ma anche all'impegno di contribuire all'autoeducazione o all'autoformazione democratica quel che succede è che si fa strada un forte opportunismo, assieme paradossalmente a una sfumatura delle diversità delle posizioni politiche, che mirano a invadere sempre di più ciascuna il campo dell'altro o per rubare voti e consensi. Da questo punto di vista è stato esplicitamente teorizzata la strategia della triangolazione, che mira a intercettare pezzi di programma e di elettorato tradizionalmente identificabili con altre posizioni politiche. 7 Nello Barile, "Il politico come marca. Identità, posizionamento strategico e canali di comunicazione del brand Matteo Renzi", Mediascapes journal, 3, 2004. 15 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu LE DIMENSIONI DELLA COMUNICAZIONE AMBIENTALE L'importanza della comunicazione ambientale dipende dal fatto che il nostro comportamento verso la natura e le problematiche ambientali dipendono in gran parte dall'idea che abbiamo della natura e dal modo in cui ne parliamo. La studio della comunicazione ambientale è fondamentale per comprendere le nostre immagini e le nostre idee della natura, per riflettere sul linguaggio che usiamo per parlarne, per osservare la qualità dell'informazione giornalistica e della comunicazione popolare attorno ad essa, per verificare la qualità e l'efficacia delle campagne di comunicazione sociale o d'impresa, per riconoscere i termini su cui si basano i possibili conflitti ambientali, per valutare la correttezza e l'accuratezza della comunicazione del rischio nelle scelte collettive e infine per aumentare la qualità della partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche e private. Secondo Robert Cox, per comunicazione ambientale si intende «il veicolo pragmatico e costitutivo per comprendere l'ambiente così come le nostre relazioni con il mondo naturale; è il medium simbolico che usiamo nel costruire i problemi ambientali e negoziare le diverse risposte della società ad essi» (Cox, 2010, p. 20). La comunicazione ambientale è intesa come "pragmatica" nel senso che il modo in cui nominiamo e comunichiamo le cose rappresenta già un'azione con degli effetti: può educare, persuadere, influenzare, mobilitare, oppure manipolare, ingannare. È intesa come "costitutiva" perché definisce il nostro modo di comprendere la natura, definisce il mondo in cui percepiamo, incorniciamo e interpretiamo i problemi ambientali, ma anche il modo in cui leggiamo e rappresentiamo noi stessi, il nostro posto nel mondo, le nostre relazioni col pianeta, con le altre specie, con gli ecosistemi. Dunque nella comunicazione ambientale possiamo rintracciare diverse dimensioni: La natura, le emergenze ambientali, i segnali che ci arrivano dagli ecosistemi; Il nostro raffigurarci - come umanità, come cittadini, come istituzioni ed enti pubblici, come aziende, come associazioni ed enti privati - in qualche genere di rapporto con l'ambiente e le sue condizioni; Le nostre possibilità di comportamento e di azione nei confronti dell'ambiente e delle emergenze ambientali; Gli scenari e i rischi relativi ai trend attuali e alle possibili alternative messe in campo. Come tutti questi aspetti entrano e prendono forma nel flusso della comunicazione contribuendo a costruire degli immaginari, dei linguaggi, delle prospettive di senso e dei modelli di comportamento e di azione perseguibili. 16 Quale spazio il tema ambientale e le emergenze ecologiche assumono nella sfera pubblica, nell'agenda dei media e in quella politica. Nel caso della comunicazione ambientale il confronto con la definizione di una sfera pubblica assume un significato particolare perché il tema ambientale non ha ancora guadagnato nella discussione e nell'immaginario collettivo il posto e l'importanza che gli spettano. E nella misura in cui è presente questa discussione e questo immaginario occorre domandare quali sono gli attori che hanno più risorse e potere per definire il carattere e i termini del confronto. Nella sfera pubblica agiscono diversi attori: cittadini e comunità; gruppi ambientalisti; scienziati e istituzioni scientifiche; industrie, multinazionali e lobby economiche; media e i giornalisti ambientali; amministratori e pubblici ufficiali. La sfera pubblica è dunque un luogo in cui si confronto e discutono linguaggi, simboli, letture, tra loro differenti o addirittura alternative. Le aree di studio e di indagine da questo punto di vista possono essere differenti: 1. Le concezioni della natura, dell'ambiente e la costruzione del linguaggio ecologico. 2. La comunicazione scientifica relativa all'ambiente, la salute, le problematiche ambientali, i rischi ambientali. 3. La comunicazione politica relativa a conflitti ambientali e dispute legate all'uso delle risorse. 4. La comunicazione pubblica ed istituzionale, nonché la comunicazione del rischio da parte degli enti pubblici (amministrazioni, aziende sanitarie locali, agenzie educative ecc.) 5. La comunicazione d'impresa e commerciale nell'ottica della responsabilità sociale d'impresa, delle strategie d'immagine del brand (green marketing). 6. Il giornalismo, i media e l'informazione in campo ambientale 7. La comunicazione popolare relativa all'ambiente e alla natura, nella letteratura, nel cinema, nella fotografia, nel teatro, e in tutte le altri arte. 8.La discussione pubblica e la partecipazione dei cittadini e delle comunità al processo di decision making. Quello della comunicazione ambientale è dunque un campo complesso. Il raggiungimento di forme di sostenibilità, la prevenzione di rischi o il confronto con problematiche di conflitti, di disastri ambientali o di veri e propri collassi ecologici dipende anche dal modo in cui comprendiamo, comunichiamo, discutiamo della natura e dell'ambiente. Il nostro accesso alla natura, all'ambiente è sempre mediato dalle nostre categorie culturali, sociali, simboliche, comunicative. In questo senso dunque, come nota Cox la comunicazione ambientale è già di per sé una forma di azione simbolica che contribuisce a creare il mondo in cui viviamo a definire lo spazio possibile di aspettative, aspirazioni, responsabilità, diritti e doveri. Dunque parole, immagini, simboli, codici, valori, paradigmi, discorsi, storie, narrazioni, si formano, si definiscono e viaggiano attraverso giornali, televisioni, siti internet, film, documentari, pubblicità, discorsi e comunicati istituzionali, manifestazioni e spettacoli di strada, campagne di comunicazione o di boicottaggio, conferenze e lezioni; attraverso tutto questo si costruisce e si definisce una sfera pubblica ambientale, che è il luogo in cui si gioca il nostro futuro e quello delle generazioni a venire. 17 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu L'IDEA DI NATURA E DI AMBIENTE Nelle scorse lezioni abbiamo detto che: a) La mappa non è il territorio; b) Le nostre mappe, le nostre rappresentazioni, le nostre categorie linguistiche e mentali costruiscono una nostra visione delle cose. Per cui a differenti idee di essere umano e natura, corrispondono atteggiamenti diversi verso il mondo attorno a noi. Tutta la comunicazione ambientale si struttura attorno ad alcune categorie centrali quale natura, ambiente, sostenibilità ecc… che strutturano il nostro campo di percezione. Noi pensiamo di sapere di cosa stiamo parlando ma in realtà si tratta di questioni molto indeterminate e ambigue. L'uso di parole come "natura" e "ambiente", non è così ovvio. L'idea di "natura" ci porta a pensare qualcosa in cui l'essere umano non è ancora intervenuto anche se di fatto l'essere umano fa parte della natura. Diversamente l'idea di ambiente rischia di farci percepire il mondo attorno a noi come una scenografia, un ambiente come un altro, rispetto al quale l'essere umano si può ritagliare la sua autonomia. Va la pena soffermarci a questo proposito su una dicotomia fondamentale quella tra natura e cultura. La dialettica natura/cultura Storicamente si sono date visioni diverse di natura. C'è l'approccio animistico per il quale molti aspetti della natura, luoghi, ambienti o cose materiali possiedono proprietà spirituali o divine. O detta altrimenti la divinità o le divinità hanno attributi immanenti e non trascendenti. Insomma la natura sarebbe viva e sacra. C'è il creazionismo, secondo il quale la natura, o in questo caso il "creato" sono una creazione della divinità, che quindi è esterna e non coincide con la natura. Al creazionismo di solito è associato un certo "finalismo". Ovvero la natura ha un senso, una direzione, una finalità. Con l'avanzare del positivismo e della scienza è prevalsa, specialmente nel mondo occidentale, una visione materialistica e meccanicistica, secondo la quale la natura non ha né anima né scopo, è frutto del caso e risponde solamente a leggi meccaniche. Nella storia del pensiero si è pensato che queste visioni corrispondessero a stadi diversi di coscienza, dalla mentalità primitiva a quella moderna e scientifica. Ma si tratta di semplificazioni. Nelle scienze moderne ci sono approcci molto differenti che vanno dalle ipotesi di autocostruzione e automantenimento presenti negli organismi viventi come nell'idea di autopoiesi di Humberto Maturana, all'idea della terra come un unico organismo vivente presente in James Lovelock e nella sua ipotesi di Gaia. 18 D'altra parte si può sostenere che un certo meccanicismo e finalismo accomuna sia il creazionismo che la tradizione scientifica positivista. Se ci limitiamo al contesto culturale occidentale, si può dire che le nostre idee su cultura e natura nei fatti si fondano su tre opposizioni: 1. L’opposizione tra essere umano e ambiente; 2. L’opposizione tra cultura e natura; 3. L’opposizione tra pensiero (mente) e natura Queste opposizioni sono un tratto ricorrente nella nostra cultura. E tuttavia, da un punto di vista sociologico tali opposizioni non sono affatto scontate, dobbiamo piuttosto prenderle come questioni da interrogare. Ognuna di esse si porta dietro alcune domande. Prendiamo la prima per esempio: l’opposizione tra essere umano e ambiente. L’idea di una possibile opposizione tra essere umano e ambiente ci stimola a porci alcuni interrogativi: Esisterebbe questo essere umano senza l’ambiente? Esisterebbe questo ambiente senza esseri umani? E più in generale esiste una sorta di unità della natura che legherebbe insieme l’esistenza degli esseri umani a quella di tutti gli altri esseri? Anche la seconda opposizione, quella tra cultura e natura, ci suggerisce subito un paio di questioni: La cultura si oppone alla natura o la continua? La natura è anche frutto della cultura? Infine, anche l’ultima opposizione – quella tra pensiero umano e natura – ci pone inevitabilmente alcuni interrogativi: La natura pensa? L’essere umano è il prodotto di un pensiero naturale? Il pensiero umano è un prodotto della natura? Si tratta di domande molto profonde e importanti che non possiamo certo presumere di poter risolvere una volta per tutte. Ci accontenteremo piuttosto di impostare alcuni percorsi di riflessione, ognuno dei quali potrebbero essere ulteriormente approfonditi e discussi, senza alcuna pretesa di esaustività e di sistematicità. Partiamo dunque dalla prima opposizione quella tra essere umano e ambiente. Il fondamento di tale opposizione ha radici molto antiche. Si può dire che in gran parte derivi dalla cultura giudeo cristiana e in parte dalla cultura greca. Per esempio nel Salmo 8 attribuito a Davide nella Bibbia, l'autore rivolgendosi a Dio chiede "Signore che cos'è l'uomo?", oppure traducendo differentemente "Signore chi è l'uomo?". chi è mai l'uomo perché ti ricordi di lui? Chi è mai, che tu ne abbia cura? L'hai fatto di poco inferiore a un dio, coronato di forza e splendore, signore dell'opera delle tue mani. Tutto hai messo sotto il suo dominio: pecore buoi e bestie selvatiche, uccelli del cielo e pesci del mare e le creature degli oceani profondi. Già in questo salmo si vede che l'essere umano è rappresentato all'esterno del suo ambiente e quindi vi si contrappone per dominarlo. Da questo punto di vista viene 19 ipotizzata una sorta di gerarchia degli esseri viventi, al cui vertice sta l'uomo - ritenuto di poco inferiore a un dio – mentre tutti gli altri animali vengono posti sotto il suo dominio. A distanza di migliaia di anni la nostra cosmologia, la nostra concezione del vivente, il nostro pregiudizio antropologico sono rimasti sostanzialmente invariati. Anche se naturalmente in questa stessa tradizione ci sono state voci differenti da San Francesco a Théodore Monod, a Eugen Drewermann, solo per fare alcuni nomi. Un tratto comune di diverse religioni tradizionali (dei monoteismi in particolare) in effetti è quello di ipotizzare un dualismo tra Dio e creato, cui corrisponde un dualismo tra essere umano (creato ad immagine divina) e il resto della natura. Secondo Gregory Bateson tali presupposizioni sono una delle radici epistemologiche dell’attuale crisi ecologica: «Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve» (Bateson, 1976, p. 480). Anche la cultura moderna e scientifica, quella “laica”, sia di matrice illuminista, sia marxista, si inscrive - anche se non ne è consapevole - in questo grande solco culturale e ne condivide gli assunti antropocentrici e specisti. Da questo punto di vista almeno una parte della cultura laica e scientifica moderna è in continuità e anzi ha rafforzato le premesse di fondo di questa cosmovisione. In essa l’uomo è il centro del mondo e il centro della vita. La specie umana è superiore e ha un diritto di dominio sulle altre specie. Mentre la natura è vista come un giacimento inerte di risorse disponibili per lo sfruttamento e le necessità dell'essere umano. Dunque ancora oggi la cultura occidentale rappresenta l’essere umano come un soggetto pensante autonomo a fronte di un ambiente esterno sul quale egli è libero di intervenire a suo piacimento. Se si vuole comprendere qualcosa dei sistemi viventi e della loro organizzazione dobbiamo cominciare a mettere in discussione tale visione individualistica e atomistica. L’idea fondamentale secondo cui nell’universo vi sono “cose” separate – nota Gregory Bateson - è una creazione e una proiezione della nostra psicologia (Bateson, 1997, p. 148). In realtà non è possibile separare l'essere umano dall'ambiente in cui è immerso. Non esiste un "là fuori", un ambiente dato e oggettivo e nemmeno un “io” separato dal suo ambiente e dalle sue infinite interazioni. Ambienti ed esseri viventi si costruiscono e si adattano gli uni con gli altri, mediante le loro attività ed interazione. Nell'evoluzione naturale, il processo di selezione nell'evoluzione è basato su una relazione reciproca: l'ambiente seleziona gli organismi, e gli organismi selezionano l'ambiente.8 Si tratta dunque di comprendere che l’essere umano non esiste come forma vivente isolata al di fuori del suo ambiente. Ricordiamo quanto diceva Edgar Morin, 8 Su questo aspetto vedi il bel libro di Richard C. Lewontin (1991), in particolare il cap. 2. 20 «L’eco-sistema non è l’eco-sistema dal quale siano stati eliminati gli individui, è l’eco-sistema insieme agli individui; l’individuo non è l’individuo separato dall’eco-sistema, ma l’individuo insieme all’eco-sistema» (Morin, 1988, p. 88). Dunque essere umano e ambiente non sono in opposizione ma sono integrati e in simbiosi l’uno con l’altro. Da questo punto di vista possiamo dunque anche interrogarci sul tipo di legame che lega l’essere umano a tutte le altre forme viventi. Possiamo a questo proposito riproporre la domanda formulata da Gregory Bateson. «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e lo schizofrenico dall’altra?» (Bateson, 1984, p. 21). Questa frase di Gregory Bateson sarebbe certamente piaciuta anche al sociologo Roger Caillois un altro studioso dei rapporti tra essere umano e natura, il quale tuttavia non avrebbe tralasciato di aggiungervi qualche riferimento all’universo dei minerali e a quello dell’immaginazione. A parere del sociologo francese esisterebbero infatti delle leggi più vaste che governerebbero ad un tempo l’inerte e l’organico (Caillois, 1988, p. 24). «Come tutti, sono consapevole dell’abisso che separa la materia inerte dalla materia vivente – afferma il sociologo francese-, ma immagino egualmente che l’una e l’altra possano presentare delle proprietà comuni, tendenti a ristabilire l’integrità delle loro strutture, sia che si tratti dell’una o dell’altra. Così non ignoro certo che una nebulosa contenente migliaia di mondi e la conchiglia secreta da qualche mollusco marino sfidino qualsiasi tentativo di accostamento. Ciononostante, io le vedo tutte e due sottomesse alla medesima legge dello sviluppo a spirale. E di ciò non ci si dovrebbe stupire più di tanto, poiché la spirale costituisce la sintesi perfetta di due leggi fondamentali dell’universo, la simmetria e la crescita, che riescono a comporre l’ordine con l’espansione. È quasi inevitabile che l’animale, la pianta e gli astri si ritrovino egualmente sottomessi ad esse» (Caillois, 1988, p. 5). Caillois, pur essendo consapevole dell’abisso che separa il mondo vivente da quello inanimato, non rinuncia tuttavia a sottolineare gli elementi di continuità e di comunanza tra di essi. A questo proposito si richiama a Pasteur per proporre l’accostamento tra le attività di ricostituzione di una qualunque parte rotta da parte di un cristallo rimesso nella sua acqua madre e le attività di cicatrizzazione riscontrabili nelle piante o nell’essere umano. Dunque tra l’intelligenza umana e i fenomeni puramente biologici di calcificazione presso gli organismi inferiori vi sarebbe, nonostante l’abisso che li separa, una profonda comunanza. «Quando, in occasione del suo ottantesimo compleanno, un fotografo venne da Parigi e chiese a Monet di farsi ritrarre, il pittore gli rispose: “venite la primavera prossima e fotografate i miei fiori nel giardino, essi mi assomigliano più di quanto io non somigli a me stesso”» (Bloch, 1994, pp. 166-167). Un qualcosa di simile, racconta in qualche modo il rapporto di Roger Caillois con le “sue” pietre alla cui descrizione ha dedicato tanti libri e sulle quali ritorna in molte situazioni della sua vita. 21 «La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)» (Caillois, 1999, p. 76). Nei percorsi di Caillois relativi alle conformazioni e ai disegni delle pietre, alle abitudini e ai comportamenti degli animali, alle origini del mito e alle strutture che sottendono a tutte queste cose e anche al mondo dell’immaginazione, si ritrova in nuce un tentativo di rovesciare un modo di ragionare che ha radici antiche, quello per cui l’uomo si vede al centro del mondo e al centro della vita. Per cui la specie umana si proclama superiore e vanta un diritto di dominio sulle altre specie. Caillois richiama e critica più volte quella specie di “antropocentrismo negativo” che risulta dal tentativo di escludere l’essere umano dall’universo e di sottrarlo a tutte le regole e le corrispondenze che lo legano agli altri esseri viventi e alle strutture dell’universo. Come altri Caillois non rinuncia a ricordare all’essere umano la sua natura animale e il suo legame con gli altri regni naturali a costo di frustrare le proprie rappresentazioni narcisistiche. Su questo piano, in particolare, tra Gregory Bateson e Roger Caillois di fronte a differenze pur significative emergono tuttavia più profonde corrispondenze. Intenti a celebrare “l’unità della natura” (Bateson) o “l’indivisibilità dell’universo” (Caillois), entrambi cercano a proprio modo di restituire l’essere umano ad una più ampia prospettiva che contempla assieme essere umano e natura. Ma che può significare dunque restituire l’uomo alla natura? Cos’è allora quella natura che ha prodotto l’essere umano e che cos’è l’essere umano che può riflettere sulla natura e addirittura credere di contrapporvisi e dominarla senza per questo mai smettere di esserne parte? Probabilmente l’importanza di questi discorsi non sta tanto nella risposta ma nell’impegno che possiamo spendere per continuare a riproporre questo genere di domande, con l’idea di poter ogni volta afferrare una connessione più profonda, un’intuizione ancora, o un briciolo di consapevolezza in più. Fin dal suo saggio giovanile, scritto poco più che ventenne, sulla mantide religiosa e sui miti e i riferimenti simbolici che l’accompagnano tra le culture umane, Caillois sottolineava che «l’uomo non è isolato dalla natura, è un caso particolare solo per se stesso. Non sfugge all’azione delle leggi biologiche che determinano il comportamento di altre specie animali, ma queste leggi, adattate alla sua propria natura, sono meno evidenti, meno imperative: esse non condizionano più l’azione, ma soltanto la rappresentazione» (Caillois, 1998, p. 45). In altre parole sosteneva che per quanto riguarda l’essere umano si può parlare di un condizionamento biologico non tanto del comportamento quanto dell’immaginazione e che questo condizionamento agisce allo stesso modo nei miti quanto nei deliri ovvero nei due poli estremi dell’affabulazione. «Il mito – nota Caillois 22 - rappresenta alla coscienza l’immagine di un comportamento di cui essa avverte la sollecitazione»(Caillois, 1998, p. 47). Da questo punto di vista Caillois non si limita a ricordarci darwinianamente che deriviamo da un’evoluzione animale, ma insiste sul fatto che da quella natura originaria non ci emanciperemo mai completamente. La stessa civiltà umana può opporsi alla natura ma non può negarla poiché ne è piuttosto un frutto legittimo. «Non esiste abisso tra il mondo naturale e il mondo umano. L’uomo è natura, ma la natura in lui è libera e inventiva. Suppone un individuo che esita e che si sbaglia, che riflette ed è responsabile, che, in una parola, è cosciente. La coscienza tentenna, ricomincia senza sosta, va di scacco in scacco, è maldestra e dolorosa. Ma alla fine crea»(Caillois, in Olivieri 2004, p. 91). Certamente il comportamento umano non appare mai altrettanto meccanico e implacabile di quello delle altre forme viventi: l’essere umano esita, tentenna, riflette, si contraddice, ha più gioco degli altri animali e tuttavia non cessa mai completamente di confrontarsi con un certo schema dinamico, con un canovaccio antico e profondo. In tutti i modi la prospettiva di una comunione tra essere umano e natura deve – come ha ripetutamente sottolineato Théodore Monod (Monod, 2004) - spodestare l’essere umano dal trono di re della creazione in cui si è indebitamente autocollocato. All’essere umano va forse ricordata la sua natura animale a costo di frustrare le proprie rappresentazioni narcisistiche. Non è possibile nessun passo avanti sul piano della consapevolezza ecologica se non rifiutando l’idea che il resto della natura e delle specie viventi non abbia altro motivo di esistenza che quello di essere utile alla specie umana. La prossima conquista della specie umana che ci dobbiamo augurare sarebbe una rivoluzione psichica da cui discenda una maggiore umiltà verso l’insieme della natura vivente. Come ha sottolineato il teologo tedesco Eugen Drewermann, l’essere umano fa parte della natura, dunque ogni ideologia che promuove un dominio dell’uomo sulla natura diventa ipso facto un’ideologia del dominio dell’uomo su altri esseri umani. Basta pensare per esempio come la distruzione della natura promossa dalla cultura occidentale in tutto il Novecento abbia coinvolto evidentemente anche tutti i popoli che vivevano a stretto contatto con la natura: «ogni dottrina che contrappone l’uomo alla natura invece di inserirlo nella natura, pone al tempo stesso l’uomo contro l’uomo. Che lo voglia o no, una simile dottrina provoca guerra e distruzione per quanto i suoi discorsi possano invocare la pace» (Drewermann, 1999, pp. 114-115). L’opposizione tra cultura e natura Ancora nella società moderna è molto diffusa un notevole grado di ignoranza rispetto alla storia naturale, ovvero all’avventura biologica ed animale, all’evoluzione del vivente. Gran parte della nostra cultura è da questo punto di vista alienata, morta, ignorante rispetto alle condizioni stesse della propria riproduzione e sopravvivenza. C’è d’altra parte qualcosa del patrimonio storico spirituale dell’umanità che dev’essere recuperato e riconosciuto nella sua capacità di comprendere e rappresentare metaforicamente la nostra condizione, attraverso la consapevolezza della fondamentale unicità ed unità dell’essere. Bisogna riconoscere e ascoltare da questo punto di vista la saggezza e le intuizioni di altre tradizioni religiose e spirituali (orientali, africane, indigene) così come rivalutare quei pensatori che sia nella tradizione religiosa cristiana (S. Francesco, Albert Schweitzer, Karl Barth, Eugen Drewermann) che in quella filosofica-scientifica (Alfred North Whitehead, Gregory 23 Bateson, Théodore Monod e altri) hanno saputo mostrare una sensibilità diversa verso il vivente. Ora un modo per affrontare in modo interessante il rapporto tra natura e cultura è quello di interrogarci sull’idea di “bellezza”. Sia Caillois che Bateson per esempio fanno discendere l’idea di bellezza da una sensibilità a queste relazioni, ricorrenze, connessioni. Per Bateson per definizione estetico indica proprio «sensibile alla struttura che connette». Allo stesso modo Caillois suggerisce l’esistenza di una certa sensibilità basata su una continuità inaspettata tra trame naturali e frutti dell’ingegno e dell’arte umana. Per Caillois la nostra stessa idea di bellezza, ovvero la nostra inesplicabile ed inutile propensione a suddividere le cose in belle e brutte è debitrice di queste norme permanenti, di questi sistemi di relazioni. Lo stesso osservatore in fondo non fa che utilizzare modelli che ha già appreso e che in qualche modo derivano da questa disciplina o conoscenza primaria. Regole geometriche, matematiche, proporzioni, simmetrie e asimmetrie sono presenti nell’universo ad ogni livello persino negli elementi più elementari e infinitesimali. Nell’infinita varietà di corpi, materiali, forme di vita, livree, fiori, maschere, dipinti, ovunque si trovano gli stessi disegni, le stesse immagini, le stesse ricorrenze, gli stessi accostamenti cromatici. Queste corrispondenze non si trovano solo nella natura ma si prolungano anche nel mondo dell’immaginazione. Il punto importante è comprendere la condizione in cui ci troviamo oggi. La modernità ha coltivato l'illusione di fare a meno della natura, di rendersi completamente autonomi dalla natura, e di vivere in un mondo completamente artificiale o ricreato. Ma questa illusione oggi si rovescia nel suo opposto. Potremmo dire che mai come oggi l'umanità dipende da un flusso costante e crescente di beni e risorse sottratte alla natura: risorse fossili, minerali, terra, legno, cibo, animali, tutto viene saccheggiato e incorporato in un enorme metabolismo sociale che produce un enorme disequilibrio. Come ha scritto Michel Serres: «Sì, una volta acquisiti, o quasi, la padronanza e il possesso della natura finiscono per il fatto che la natura ci possiede e praticamente ci padroneggia. Eravamo sul punto di manipolarla, e ormai essa ci manipola a sua volta. Come il mercato. Si direbbe che dinanzi a noi si levi un altro soggetto. Questo qui.» (Serres 2009, p. 41). Secondo Serres noi facciamo ancora oggi affidamento su una politica che storicamente si definisce in un gioco a due, tra uomini. Infinite competizioni e negoziazioni tra partiti, tra governo ed opposizioni, tra sindacati e industrie, credenti e laici ecc. Sono giochi di equilibrio e di forza, ma sempre di umani con umani. Quello che la filosofia ha chiamato dialettica. Ma, ci avverte Serres, oggi subiamo un colpo definitivo al narcisismo umano: siamo «costretti a far entrare il mondo come terzo nelle nostre relazioni politiche» (Ivi. p. 44). Il nuovo gioco a tre potremmo dire tra scienze, società e biogea - rimpiazzerà il vecchio gioco a due? E come questo cambierà non solo la politica ma il nostro modo di pensare e di agire? La novità è che le mosse della natura oggi ci appaiono più forti delle nostre, e improvvisamente essa assume quel ruolo di soggetto che fino ad ora non eravamo disposti a riconoscerle. «Nel corso di alcuni decenni, l'antico oggetto passivo è diventato attivo. L'antico soggetto umano - l'abbiamo visto - si mette a dipendere da ciò che, appunto dipendeva da lui. Quale novità per i filosofi della conoscenza e dell'azione!» (Serres 2009, p. 58). 24 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu LA PERDITA DI BIODIVERSITÀ: DALLA DEFORESTAZIONE ALLA SESTA ESTINZIONE Nel nostro modo di guardare la natura, noi uomini occidentali, siamo influenzati dallo sguardo del moderno homo œconomicus. Per noi la natura è essenzialmente un ambiente da controllare e un patrimonio di risorse a cui attingere in base alle nostre capacità. Nella natura vediamo tutto ciò che ci è immediatamente utile ovvero che direttamente o indirettamente tramutabile in merce o in guadagno. Questo sguardo peculiare permette continuamente ai cantori della globalizzazione di esaltare le performance produttive dei paesi sviluppati e più in generale dell’economia globale. Da questo punto di vista effettivamente la produttività, ovvero la capacità di creazione di merci e di ricavi economici non ha mai raggiunto nella storia umana livelli analoghi. Tuttavia tale prospettiva omette di interrogarsi sugli effetti ecologici di queste performance economiche e sul funzionamento più profondo degli ecosistemi che non si limitano a produrre beni, risorse o frutti ma a garantire attraverso cicli biogeochimici – creazione di humus, fotosintesi, impollinazione, il ciclo delle acque, ecc… - la riproduzione delle condizioni vitali necessarie alla sopravvivenza di tutte le specie viventi inclusi gli umani. Attualmente il nostro mondo sta fronteggiando due crisi ecologiche diverse seppure connesse.9 La prima riguarda la finitezza delle risorse fisiche, e si presenta nella forma della scarsità e del progressivo esaurimento delle risorse energetiche fossili, dei minerali, dei metalli. Su questa crisi si concentra la pur scarsa attenzione dei paesi sviluppati. C’è tuttavia anche una seconda crisi che riguarda le risorse viventi e che si presenta attraverso una progressiva perdita di biodiversità e un progressivo degrado degli ambienti che rischia di compromettere le capacità di recupero (resilienza) degli ecosistemi. Come hanno notato gli autori del Wuppertal Institute: «Già prima che i contraccolpi finanziari diventino tangibili, la foresta comincia a perdere la capacità di svolgere il proprio ruolo nella riproduzione della trama della vita. Si filtra e si trattiene meno acqua, con la siccità i ruscelli si assottigliano e con le piogge straripano, i terreni si erodono più facilmente, la selvaggina sparisce, così come gli uccelli, e l’aria ha uno strumento in meno per purificarsi. Ciò che permette agli ecosistemi di conservarsi comincia a mancare quando un eccessivo utilizzo o la diffusione di sostanze inquinanti ne danneggiano la capacità di rigenerarsi; morte biologica delle acque, riscaldamento dell'atmosfera, o riduzione della fertilità dei terreni sono solo altri esempi. Questo tipo di limite è evidente soprattutto per le risorse biologiche; in un primo momento non 9 Si veda in proposito Sachs, Santarius, 2007 p. 203. 25 colpiscono ancora l'economia, deteriorano però l'ospitalità di spazi naturali grandi e piccoli alle varie forme di vita, essere umani inclusi» (Sachs, Santarius, in Wuppertal 2007, p. 33). Spesso le metafore che usiamo per parlare della crisi ecologica, fanno riferimento a catastrofi improvvise, a disastri subitanei, ma Sachs ci consiglia di pensare anche attraverso altre metafore alla crisi ecologica che stanno attraversando. «Una metafora più appropriata potrebbe essere quella della sfilacciatura di un tessuto. All'inizio si spezza solo qualche filo e la rottura si nota appena, poi cominciano a svanire tanto la funzionalità quanto la bellezza della trama fino a quando non compaiono veri e propri buchi, strappi o addirittura la stoffa si disfa» (Sachs, Santarius, in Wuppertal 2007, p. 34). Quello a cui dovremmo pensare in questi termini è il declino della capacità di resilienza degli ecosistemi, ovvero la loro capacità di recuperare un equilibrio dopo lo stress causato da elementi negativi. La resilienza è legata al mantenimento della biodiversità e della complessità delle trame viventi. Da questo punto di vista vorrei farvi notare che noi sappiamo in verità ancora poco della complessità e della varietà degli ecosistemi. I biologi non sono nemmeno d’accordo sul numero delle specie viventi sul pianeta. Anni fa si pensava che fossero pochi milioni, ma c’è stato anche chi si è avventurato a ipotizzare qualche decina di milioni. La maggior parte degli studiosi stima che sulla terra ci siano circa 10-14 milioni di specie viventi. L’essere umano ne ha classificate per ora circa un milione e cinquecento mila. Per esempio conosciamo nemmeno un milione di insetti su circa gli otto milioni che sono stimati esistere, circa 50.000 vertebrati su oltre 100.000, circa 300.000 vegetali su circa mezzo milione esistenti. La nostra conoscenza della natura vivente è ancora oggi molto parziale. Moltissimo rimane ancora da scoprire e da conoscere. Ma molto minaccia di venir distrutto prima che ne comprendiamo la natura ed il ruolo. Ad ogni modo quello che sappiamo, oltre alla conoscenza diretta di un certo numero di specie animali, è l’importanza che il mantenimento della biodiversità ha per la conservazione della vita, dell’evoluzione e della sopravvivenza stessa dell’essere umano. La biodiversità si determina a tre livelli diversi: 1. 2. 3. la biodiversità genetica relativa ad ogni specie; ovvero la variabilità del patrimonio di geni presente in ciascuna specifica specie di animali o di piante. Questa biodiversità è importante soprattutto perché assicura una certa elasticità e capacità di adattamento della specie ai cambiamenti esterni. la biodiversità di specie presenti in ogni ecosistema; ovvero il numero e la differenziazione delle diverse specie animali e vegetali presenti in un determinato ambiente. Questo definisce la ricchezza e anche la complessità delle relazioni e dei processi che possono registrarsi in un particolare ecosistema. la biodiversità degli ecosistemi, detta anche “ecodiversità”; ovvero la varietà dei diversi ecosistemi presenti in un’area o nel pianeta stesso. Anche in questo caso la biodiversità assicura una fitta trama di intrecci, relazioni e interazioni complesse tra animali, vegetali ed elementi fisici dando luogo a processi complessi di cooperazione e competizione. Le possibilità dell’evoluzione della vita dipendono dal mantenimento della diversità biologica complessiva, di questi tre livelli. Questa biodiversità è il risultato di quattro 26 miliardi di anni di evoluzione e allo stesso tempo la riduzione di biodiversità altera le possibilità di evoluzione della vita sul pianeta per il futuro. Come ha notato Niles Eldredge, «La ragione per cui molti di noi hanno difficoltà a comprendere il valore della biodiversità è tutto sommato semplice: non viviamo più in ambienti confinati in un ecosistema locale e siamo perciò portati spontaneamente a pensare di non essere più parte del mondo naturale. Ciò che davvero è avvenuto negli ultimi 10.000 anni non è stato però un vero abbandono, ma una ridefinizione di noi stessi e del nostro modo di inserirci nel mondo in senso ecologico; siamo però ancora parte del mondo naturale, a dispetto della relazione del tutto nuova che abbiamo stabilito con esso» (Eldredge, 2000, pp. 211-212). Tale relazione, sostiene Eldredge, è una specie di strada a doppio senso. Si tratta di capire per un verso l’impatto che noi abbiamo sulla natura e la biodiversità, ovvero sul sistema globale, e, per un altro verso l’impatto – e l’importanza – che la natura e la sua biodiversità ha ancora oggi su di noi. Dobbiamo dunque produrre una specie di “doppia comprensione”: chi siamo noi come esseri umani che possiamo alterare oggi gli equilibri di questo sistema naturale, della vita e dell’evoluzione sulla terra, e che cos’è e come funziona questo sistema naturale che può avere influenza su di noi e permetterci di vivere o farci scomparire. Vediamo dunque questi due aspetti a partire dal primo, ovvero dall’impatto che l’uomo oggi ha sul sistema naturale ed in particolare sulla biodiversità. Le minacce agli ecosistemi e ai loro patrimoni di biodiversità oggi riguardano diversi elementi: - deforestazione riscaldamento climatico inquinamento perdita delle zone umide desertificazione erosione e cementificazione di terreni fertili prosciugamento e inquinamento di fiumi e laghi distruzione delle barriere coralline scomparsa di specie vegetali scomparsa di specie animali Stiamo lentamente cominciando a comprendere come la progressiva sottomissione e trasformazione della natura a merce per il mercato globale oggi finisce col minacciare gli stessi equilibri degli ecosistemi nei quali viviamo e da cui dipendiamo. Vediamo in particolare gli effetti sul suolo, sulla foresta e sugli animali. Il suolo Il suolo è lo strato superficiale formato dalla disgregazione delle rocce. Diventa fertile se contiene una certa quantità di Humus, ovvero una sostanza organica composta da resti animali, e vegetali decomposti dall’attività di batteri. Questa sostanza organica nella misura in cui contiene anche una certa quantità di sostanze minerali permette lo sviluppo di piante e vegetali. La crescita delle piante dipende dalla presenza di una dozzina circa di sostanze nutritive tra cui azoto, fosforo, zolfo, potassio, calcio, magnesio, ferro, zinco, rame molibdeno, boro, cloro. Un suolo fertile si forma in ragione di processi naturali con una velocità dell’ordine di un millimetro di spessore ogni secolo. I suoli si dividono in eluvionali o alluviali. Sono eluvionali o 27 autoctoni, se si trovano nei luoghi dove si sono formati, e sono alluviali o alloctoni, se si sono formati per trascinamento (pioggie, vento) in luoghi diversi da quelli che ospitano le rocce da cui derivano. La fertilità del suolo è alla base di molti processi naturali e rappresenta anche il fondamento della produzione agricola e quindi della catena alimentare. Se il suolo viene eroso, diventa sterile o viene inquinato questo si trasforma tra le altre cose in una diminuzione delle potenzialità di produzione alimentare. Per questo oggi la terra rappresenta uno dei beni più fragili e più importanti da conservare. Ma i doni della terra sono molti e differenti: - - - - - - - - Regimazione delle acque. La terra svolge le funzioni di una spugna. Quando piove una parte dell’acqua viene assorbita e diventa nutrimento per le piante, una parte viene lasciata percolare lentamente e finisce con arricchire la falda idrica sottostante. La perdita da parte del terreno di capacità di assorbimento delle acque fra le altre cose aumenta l’effetto di allagamento in caso di maltempo e di pioggie consistenti. Qualità delle acque. Se il suolo non è inquinato esso svolge in questo processo anche una funzione importante di filtro e depurazione delle acque che giungeranno alla falda. Alcune sostanze potenzialmente inquinanti possono essere assorbite dalla piante, rendento l’acqua della falda utilizzabile per usi umani. Viceversa se i terreni sono contaminati o se sono sterili perdono questa capacità naturale di filtraggio e l’acqua diventa inutilizzabile o di scarsa qualità anche per gli esseri umani. Mitigazione del clima. I terreni liberi da edifici si scaldano meno nei periodi estivi, favoriscono il ricircolo dell’aria e restituiscono lentamente calore e umidità all’atmosfera. Al contrario città e terreni cementificati d’estate hanno un effetto di trattenimento di calore e di riscaldamento dell’aria. Qualità dell’aria. I terreni e la vegetazione assorbono e in parte metabolizzano diversi inquinanti atmosferici, fra cui l’anidride carbonica, responsabile dell’effetto serra. Qualità dei prodotti locali. La conservazione della qualità del suolo è fondamentale per l’agricoltura ed in particolare contribuisce a definire le caratteristiche specifiche dei prodotti locali: vino, pane, formaggi, carne ecc. Biodiversità. Il suolo è un ambiente ricco di vita. In un metro quadrato di suolo vivono circa 200 mila lombrichi, un milione di funghi, 60 mila miliardi di batteri e tanti altri organismi. Habitat per la fauna. Campi e prati sono un habitat importante per molte specie di piante e animali che trovano qui la loro casa e la loro possibilità di nutrimento e di riproduzione. Anche l’allevamento di molti animali richiede la presenza di un terreno fertile e non contaminato. Bellezza. Infine il suolo e i suoi abitanti vegetali e animali sono la base del paesaggio e, se ben conservati, una fonte di piacere e relax. Ma nelle società industriali, in seguito all’espansione dell’urbanizzazione, alla creazione di grandi reti stradali e della cementificazione si è in gran parte persa la consapevolezza dell’importanza per la natura e per la nostra stessa sopravvivenza di questo bene prezioso e della sua conservazione. Segnale di questa indifferenza è la facilità e la rapidità con cui nel mondo ed in particolare nei paesi più sviluppati si continua a costruire e a cementificare la terra sottraendo terre all’agricoltura e trasformando terreni vivi e produttivi in superfici impermeabili e sterili che non potranno più essere riportate allo stato fertile e produttivo per centinaia e centinaia di anni. Va considerato in questo quadro il processo crescente di urbanizzazione. 28 Nel 1800 soltanto il 3% della popolazione viveva in città. Nel 1900 la percentuale di cittadini diventa il 14%. Nel corso del XX secolo i rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale si sono invertiti. La popolazione urbana per la prima volta nella storia umana ha superato numericamente la popolazione rurale nel corso del 2007. Oggi la maggioranza della popolazione mondale vive in città. Nel mondo attualmente si registra un tasso di incremento delle superfici urbanizzate del 2,7%, pari a 128.000 km2 in un anno. Solamente in Italia ogni giorno vengono cementificati circa 161 ettari di terreno. Come ha notato Michel Serres «Nel corso del XX secolo, in paesi analoghi al nostro, la percentuale dei contadini e delle persone occupate nelle attività di aratura e pascolo, in rapporto alla popolazione globale di un gruppo dato, precipitò da più della metà al 2 per cento. Questo calo divenne addirittura un crollo nel decennio considerato, e prosegue tuttora. Benché continui a nutrirsi grazie a essa, l'umanità occidentale ha quindi abbandonato la terra, almeno qui» (Serres 2009, p. 14). In questo modo dunque - nota ancora Serres - si chiude un'era iniziata diecimila anni fa. Il fatto che questo radicale processo di cambiamento, e la conseguente cementificazione della terra avvenga in maniera così fortemente irriflessa, quasi con indifferenza, è un segnale della nostra alienazione, ovvero della nostra incapacità di riconoscere le fondamenta ecologiche del nostro essere. Ma naturalmente questo consumo indiscriminato della terra e questa erosione dei terreni agricoli non significa che non ci cibiamo più di frutta, verdura, carne. Evidentemente molti paesi sviluppati sono abituati ad importare prodotti della terra a basso prezzo da altri paesi, in particolare dal sud del mondo. Questo però lega in maniera sempre più strette le scelte compiute in un posto a quelle compiute in un altro, diminuendo in fondo la libertà per entrambi. Eppure molte misure possono essere prese per tutelare la perdita di suolo e fermare o bilanciare i processi di cementificazione e costruzione. Per esempio prima di dare concessioni edilizie e consentire nuove costruzioni si potrebbe investire sul recupero e sul riutilizzo di edifici dismessi. Un’espansione incontrollata della città e delle zone residenziali rende molto più difficile garantire e distribuire servizi, in particolare legati alla mobilità e genera un aumento consistente di traffico e di consumo privato. Oltre a scoraggiare opere di costruzione e cementificazione edilizia non strettamente necessarie bisognerà provare anche a promuovere processi di rinaturalizzazione di suoli urbanizzati o degradati. Ovviamente i processi di cementificazione e urbanizzazione non sono gli unici a determinare un degrado del suolo e delle aree naturali. Anche uno sfruttamento intensivo e squilibrato dei campi per uso agricolo possono alla lunga ottenere lo stesso risultato, ovvero degradare la qualità del suolo e renderlo via via più arido e povero di sostanza nutritive. Come abbiamo visto nella prima lezione un sovrasfruttamento agricolo e un’erosione dei terreni – anche in conseguenza della deforestazione - è alla base del collasso di molte civiltà antiche, dai Sumeri, ai Greci, dai Maya all’isola di Pasqua. Come ha notato David R. Montgomery «Come molti problemi ecologici che diventano più ardui da affrontare più a lungo sono stati negletti, l’erosione del suolo minaccia le fondamenta della civiltà in una scala temporale più lunga della durata delle istituzioni sociali. Così più a lungo l’erosione del suolo continua a superare la produzione di suolo, è solo questione 29 di tempo prima che l’agricoltura cessi di supportare la crescita della popolazione» (Montgomery, 2007, p. 234). Purtroppo forse anche più di altri problemi ecologici, il consumo e la perdita di suolo avviene in tempi e in modi così lenti e burocratici che difficilmente attira l’attenzione dell’opinione pubblica. Tuttavia si tratta di una risorsa non sostituibile nel breve periodo. Dunque la speranza di vita di una società dipende dalle caratteristiche del suolo e dalla velocità in cui esso viene bruciato dalle attività umane. Ora mentre la velocità di riproduzione del suolo è più o meno costante – un millimetro ogni cento anni – la velocità di erosione invece nell’ultimo secolo è andata aumentando vertiginosamente rispetto ai normali tempi geologici. Dunque non c’è da stupirsi se globalmente il processo di desertificazione avanza inesorabilmente e oggi interessa due terzi dei paesi del mondo e un terzo della superficie terrestre. Secondo i dati forniti nelle ultime conferenze sulla desertificazione dell’ONU (Recife 1999, Bonn, 2000), ogni anno il deserto si prende 150.000 km2 di terra (circa la grandezza della Grecia), generando profughi ambientali (13,5 milioni di persone) e facendo scomparire flora e fauna. Da questo punto di vista il continente più colpito è l’Africa, dove il 40% della popolazione ormai vive in zone aride o semiaride. Anche l’America Latina e la Cina settentrionale sono molto esposte a questo tipo di problema. Questi processi si traducono fra l’altro in una riduzione o compromissione dell’habitat per molte specie animali che divengono vittime indirette di questi fenomeni. Le foreste Le foreste oggi ricoprono circa un quarto dell’intera superficie del pianeta, pari a 3,9 miliardi ettari, in particolare nella zona equatoriale e in quella boreale temperata. Esse offrono l’ambiente ottimale per tantissime specie viventi – più della metà delle specie della Terra -, proteggono il suolo dal fenomeno dell’erosione assicurando l’assestamento idrogeologico e forniscono un contributo fondamentale al ciclo delle acque, all’assorbimento del CO2, alla circolazione atmosferica, svolgendo un’importante funzione anche dal punto di vista della regolazione del clima. Tuttavia negli ultimi 8.000 anni circa il 45% che un tempo ricoprivano la terra sono state cancellate, ma gran parte di questa distruzione è avvenuta nell’ultimo secolo. In ventinove paesi a partire dal sedicesimo secolo è andato perduto oltre il 90% delle foreste. Il 95% del patrimonio forestale degli Stati Uniti è stato distrutto. Nell’ultimo decennio del ventesimo secolo il patrimonio forestale mondiale si è ridotto di un ulteriore 4,2% in particolare l’America Latina e i Carabi hanno perso più di 7 milioni di ettari di foresta tropicale e l’Asia sudorientale e l’Africa ne hanno perso altre 8 milioni. Si calcola che ogni anno vengano distrutti quasi 14 di ettari di foresta tropicale. A rischio sono in particolare le foreste del Brasile, della Guyana, dell’Alaska, del Canada, della Russia, della Malaysia, dell’Indonesia. In quest’ultimo paese circa tre quarti del patrimonio forestale è ormai scomparso in gran parte tramite abbattimenti illegali. In Africa sono state colpite soprattutto le foreste del Sudan, dello Zambia e della Repubblica democratica del Congo. Per quanto riguarda le foreste rimaste, la maggior parte non sono comunque allo stato originale e la loro condizione varia da situazione a situazione. 30 Un’indagine sulle foreste mondiali realizzata dall’Unep, il programma ambientale dell’Onu assieme alla Nasa e al US Geologica Survey ha stabilito che l’80% delle foreste ancora intatte sono concentrate in soli 15 paesi, fra cui i più rilevanti sono tre: Russia, Canada e Brasile. Ora i principali paesi responsabili in quanto primi consumatori di legname sono i paesi più sviluppati del nord del mondo che approfittano della quasi totalità (80%) della esportazione dei paesi del sud del mondo. La maggior parte dei paesi infatti esporta una quantità di legno molto superiore a quella che utilizzano per il fabbisogno interno. Dal 1960 la produzione industriale di legname a livello mondiale è cresciuta del 50% fino a raggiungere attualmente la cifra di 1,5 miliardi di metri cubi. Il legno viene utilizzato per l’arredamento e i mobili, per la pasta di legno, per i pannelli, come materiale industriale, come compensato, come carta e cartoni. All’incirca altri 1,5 miliardi di metri cubi di legname vengono usati a fini energetici e per riscaldamento nei paesi del sud del mondo. Altre cause di disboscamento sono fra altro la creazione di terreni agricoli, l’estrazione mineraria e petrolifera, gli incendi, l’inquinamento e le piogge acide. Nel mondo esistono attualmente circa 200 aree forestali protette per la loro importanza ecologica e per il patrimonio di biodiversità che conservano. Ma anche queste riserve sono colpite da pratiche di disboscamento illegale. Contemporanemente alcuni paesi hanno avviato da alcuni anni delle forme di riforestazione e a fianco di questo anche delle forme di coltivazioni – arboricoltura – per soddisfare in maniera più sostenibile la domanda di legno di mercato. Altre misure importanti per la difesa del patrimonio forestale sono la creazione di aree protette, la promozione dei prodotti di riciclo, come la carta riciclata, e i processi di controllo e certificazione da parte di organismi indipendenti, come il Forest Stewardship Council (FSC) che assicurano che i prodotti di legno provengano da foreste gestite in maniera responsabile e sostenibile. La sesta estinzione Da qualche anno alcuni scienziati e studiosi hanno iniziato a documentare e a metterci in guardia sul fenomeno della perdita di biodiversità, sulla scomparsa impressionante di specie animali, tanto da arrivare a parlare di una vera e propria nuova estinzione, precisamente la sesta estinzione di massa sul nostro pianeta. I palontologi inglesi Anthony Hallam e Paul Wignall, definiscono estinzione di massa un evento che elimina una «significativa porzione della biota del pianeta in un arco di tempo insignificante dal punto di vista geologico»10. La prima grande estinzione, secondo gli scienziati, avvenne circa 444 milioni di anni fa, a causa dell’avvento di un era glaciale, quando scomparve quasi la metà delle specie esistenti, in particolare i piccoli animali marini. La seconda – a causa di un raffreddamento e forse anche a causa della precipitazione di grandi meteoriti - avvenne 360 milioni di anni fa e portò alla scomparsa di circa il 70% delle forme viventi in particolare ammoniti e pesci primitivi. La terza avvenne 251 milioni di anni fa a causa di enormi eruzioni vulcaniche in Siberia e portò all’eliminazione del 96% delle specie marine e al 70% delle specie terrestri. La quarta si ebbe 200 milioni di anni fa, forse a causa del rilascio di grandi quantità di metano dal fondo oceanico e portò alla scomparsa dei grandi anfibi e terapsidi. L’ultima e più famosa, avvenne 65 milioni di anni fa, quando la caduta di un enorme asteroide costo la scomparsa dei dinosauri. 10 Cit in Elisabet Kolbert, La sesta estinzione. Una storia innaturale, Neri Pozza, Vicenza, 2014. 31 L’estinzione attualmente in corso è quella che stiamo causando noi, esseri umani. Ora lo studio sugli ecosistemi nel mondo nel terzo millennio patrocinato dall’Onu ha rivelato un dato sconcertante. Dalla analisi delle specie fossili, risulta che nel passato della storia del vivente ci sia stata una perdita di una specie di mammiferi ogni 700 o 1000 anni. Attualmente questa scomparsa avviene ad una velocità mille volte superiore. Negli ultimi cento anni si è registrata la scomparsa di oltre duecento specie di vertebrati e di piante. Per quanto riguarda gli anfibi attualmente sono la classe di animali più a rischio e il loto tasso di estinzione sembrerebbe attestarsi a un livello quarantacinquemila volte maggiore rispetto al tasso di estinzione di fondo (Kolbert 2014, p. 28). L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), nel suo ultimo aggiornamento della Lista Rossa delle specie minacciate nel 2014 ha indicato che delle 76.199 specie valutate, 22.413 sono minacciate di estinzione, tra cui il 41% degli anfibi, il 34% delle conifere il 33% dei coralli, il 26% dei mammiferi, il 13% degli uccelli. Possiamo elencare dunque quali sono le cause di questa sistematica scomparsa di specie viventi. In primo luogo possiamo citare la crescita popolazione umana. Prima dell’avvento dell’agricoltura, 10.000 anni fa circa, si stima che la popolazione umana sul pianeta si limitasse a 3-4 milioni. Attualmente siamo circa 6 miliardi. Questo significa l’invasione e l’occupazione di grandi aree di territorio e la competizione con gli animali. Questo aumento demografico si connette con una seconda causa che è quella della distruzione dei grandi spazi naturali sia terrestri che acquatici: la deforestazione, l’avanzata del deserto, la scomparsa delle zone umide, il prosciugamento o l’alterazione di ambienti fluviali, lacustri o marini. In terzo luogo l’emissione di agenti tossici e inquinanti che può compromettere non solo alcuni esemplari ma intere nicchie ecologiche: emissioni aeree, polveri chimiche, fanghi, acque di scarico. Poiché la vita si basa su una catena alimentare è sufficiente che vengano compromesse o contaminate alcune specie nei livelli più bassi di questa catena per determinare un effetto negativo su tutti gli altri livelli. 32 Un quarto aspetto connesso ai precedenti riguarda l’alterazione del clima e l’effetto di riscaldamento globale. Le emissioni di CO2, il buco nell’ozono, l’effetto serra hanno messo in moto un meccanismo di riscaldamento climatico del pianeta che può produrre sconvolgimenti ecologici profondi ed alterare fra l’altro le nicchie ecologiche di alcune specie. Un altro aspetto importante è la diffusione di specie patogene o infestanti. Questo può avvenire volontariamente per opera dell’uomo o involontariamente. Migliaia di specie si diffondono o per opera intenzionale dell’uomo o anche involontariamente attraverso trasporti e commerci o attravero l’acqua di zavorra delle grandi navi, come le petroliere. Gli esseri umani hanno spesso provato a introdurre specie vegetali o animali in nuovi ambienti, senza preoccuparsi troppo degli effetti, che l’introduzione di organismi estranei può causare nel nuovo contesto. Per esempio l’introduzione di conigli in Australia dove non sono presenti possibili nemici o cacciatori ha portato nel giro di pochi decenni ad una catastrofe ecologica, poiché i cononigli mangiano l’erba e le piante in grande quantità e contribuiscono all’inaridimento di un territorio. Anche l’allevamento di alcune specie funzionali ad uso commerciali può produrre conseguenze ecologiche. I bovini per esempio sono quadruplicati arrivando alla cifra di circa 1,4 miliardi, mentre i suini sono aumentati di 9 volte. Attualmente si stima che i gas prodotti dalla loro digestione sono una delle principali fonti di metano. Il loro nutrimento contribuisce a distruggere l’habitat per altre specie animali. Un sesto aspetto riguarda l’eccesso di sfruttamento. Per esempio la pesca nel XX secolo è aumentata di 35 volte. L’impatto delle nuove tecnologie di pesca, barche, sonar, ecoscandagli, ha prodotto un sovrapescaggio che ha messo in crisi molti ambienti ittici. I grandi pescherecci europei possono pescare in pochi giorni oltre 400 tonnellate di pesce, pari a circa 2 milioni di euro per ogni uscita. Le reti criminali poi utilizzano tecniche ancora più distruttivo come le reti a strascico larghe fino a una decina di chilometri. I contrabbandieri poi attentano a particolari specie di pesci protette come le balene, gli squali, il tonno ecc. Il risultato è che i mari stanno perdendo gran parte della loro ricchezza. Molte specie sono a rischio di estinzione, altre vivono un pericoloso stress. Il Krill antartico, i piccoli gamberetti che nutrano migliaia di specie di pesci e cetacei è diminuito di quasi l’80 per cento dal 1970 ad oggi. In Indonesia si stima che quasi l’85% della barriera corallina stia perdendo le condizioni adatte per la sopravvivenza e la riproduzione di molte specie ittiche. Inoltre la capacità di prelievo delle flotte di pescherecci occidentali non ha pari. Tutto questo ha effetto anche sui paesi del sud, sulle loro coste e sulla popolazione che vive di pesca. Il declino delle riserve ittiche e del pescato sta mettendo in crisi paesi come la Mauritania, il Senegal, la Guinea Bissau. Infine un ultimo aspetto molto importante di minaccia alla biodiversità è data anche dal traffico commerciale di specie viventi. Si tratta ancora una volta di un gigantesco processo di mercificazione della natura. Per avere un’idea di questa riduzione della natura a merce si può osservare che oggi va crescendo moltissimo il commercio internazionale di animali anche selvatici. Come ha notato Hilary French (French, 2000, p. 26) ogni anno passano le frontiere circa 40.000 primati, tra i 2 e i 5 milioni di uccelli, 3 milioni di tartarughe di allevamento, tra i 2 e i 3 milioni di rettili, 500-600 milioni di pesci ornamentali, tra i 10 e i 15 milioni di pelli di rettili, tra le 1000 e le 2000 tonnellate di coralli grezzi, 7-8 milioni di cactus e 9-10 milioni di orchidee. Alcuni sequestri ricordati da Moisés Naìm possono contribuire ulteriormente a dare un’idea di questi traffici. Un sequestro in Tibet nel 2003 ha riguardato una partita con pellicce di 31 tigri, 581 leopardi e 778 lontre; 33 In Thailandia un autocarro intercettato nel 2004 comprendeva un carico di 600 pangolini (animali simili al formichiere) destinati ai ristoratori cinesi. Questo paese sembra essere un crocevia del traffico internazionale di animali. Soltanto durante un operazione di qualche mese nel 2003 sono stati sequestrati ai trafficanti dei carichi per un totale di oltre 33.000 animali da tigri, ad orsi o a uccelli. I maggiori consumatori di specie selvatiche sono Cina, Europa, Stati Uniti, Giappone e alcuni paesi del Sud-Est Asiatico. Gli usi sono diversi: animali da compagnia, zoo, trofei e collezionismo, pellicce, abbigliamento e accessori, floricoltura, uso medicinale, specialità culinarie. Alcune convenzioni hanno cercato negli ultimi anni di impedire o rendere più difficile il commercio di molti animali in pericolo. Attualmente esistono circa 30.000 specie di animali e di piante protette. Per circa 1.000 di queste è proibito il commercio in qualsiasi forma. In particolare la Convenzione sul traffico internazionale di specie di fauna e flora selvatiche in pericolo (CITES) firmato nel 1963 e a cui hanno aderito oltre 166 paesi. C’è anche una rete di agenzie, associazioni e istituzioni ecologiste TRAFFIC che si occupa di controllare i traffici illeciti. Si può richiamare inoltre la Convenzione sulla Biodiversità, firmata a Rio de Janeiro durante l’Earth Summit del 1992 che stabilisce una serie di principi e di diritti a tutela dell’utilizzo delle risorse biologiche, ma purtroppo tali norme non hanno valore vincolante. Dunque la commercializzazione illegale e incontrollata non è affatto cessata o diminuita. Possiamo segnalare alcuni tra i traffici più redditizi. Gli Stati Uniti sono il principale mercato di animali esotici come rettili (pitoni, boa, alligatori), pavoni, macachi. La Cina importa ed esporta tartarughe sia per la farmacopea che per l’alimentazione; nel 1995 ne sono state importate circa 2,5 milioni e l’anno successivo ne sono state esportati circa 9,5 milioni di esemplari vivi. Il classico traffico di avorio non è ancora tramontato. I principali paesi coinvolti sono la Cina, la Thailandia, il Camerun, la Repubblica democratica del Congo, l’Etiopia e la Nigeria. Pur essendo bandito in quasi tutti i paesi, i commercianti di avorio cinesi o di Singapore non si fanno scrupoli di mostrarli nelle loro vetrine. Il valore dell’avorio sul mercato internazionale viaggia attorno ai 3.000 euro a zanna. Il valore delle pelli di tigre sul mercato sui 10.000 euro; quelle di panda possono raggiungere perfino i 100.000 euro. Le radici di ginseng da 12.000 ai 35.000 euro al kg. In Giappone alcuni tonni valgono oltre 50.000 euro ciascuno. Le specialità gastronomiche sono una delle fonti di domanda su cui si basano traffici animali: la carne di balena in Giappone, il caviale di contrabbando del Caspio , il toothfisc cileno ecc… Complessivamente il valore di questo traffico internazionale di specie selvatiche ammonta circa 10-20 miliardi di dollari l’anno, di cui un quarto di natura completamente illegale. Tutti gli elementi che abbiamo richiamato – dall’aumento demografico al degrado ambientale, dal riscaldamento climatico, alla diffusione di specie infestanti, fino al commercio di specie viventi, ingenerano una forte pressione nei confronti delle altre specie animali e vegetali. Nei fatti in generale la perdita di specie viventi degli ultimi decenni rappresenta la più grande estinzione di massa dalla scomparsa dei dinosauri ad oggi. Un quinto delle specie vegetali e animali ancora esistenti potrebbe sparire nel giro dei prossimi trent’anni. Ora anche su questo genere di risorse e sul loro utilizzo o sequestro si consuma un conflitto tra paesi ricchi e paesi poveri. Dei 25 hot spots della biodiversità – ovvero i luoghi che conservano la maggior ricchezza di flora e fauna e la più grande capacità di riproduzione di diversità biologica - la stragrande maggioranza, ben 21, si trovano nei paesi del sud del mondo. Ma questa ricchezza è richiesta soprattutto dai paesi più ricchi e si trasforma anche in una fonte di interessi e di guadagni per i soggetti attivi nel mercato. In particolare le zone tropicali, quelle più ricche in termini 34 di biodiversità sono quelle più colpite dai cambiamenti climatici e anche dalla biopirateria. In questi ultimi decenni uno degli ambiti di scontro più forte tra interessi del mercato globale e i diritti delle comunità locali riguarda il tema dei brevetti11 e dei diritti di proprietà intellettuale. I precursori sono stati naturalmente gli Stati Uniti che hanno attribuito all’Ufficio brevetti americano (US Patent Office) il diritto di concedere brevetti sul vivente. Così il 12 aprile 1988 l’US Patent Office ha concesso alla multinazionale Du Pont il primo brevetto su un mammifero, in particolare su un topo su cui erano stati impiantati geni umani e di pollo infetti in modo da causare il cancro. Si pensava che l’Oncotopo potesse servire a trovare una cura per il cancro, ma così non fu. La questione dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale (IPRs) fu introdotta su richiesta degli Stati Uniti nell’agenda dell’Uruguay Round del Gatt. In sede Gatt/Wto fu quindi siglato - senza nemmeno una discussione pubblica - un accordo sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio (TRIPs, Trade Related Intellectual Property Rights Agreement) che globalizzava le leggi sui brevetti di ispirazione statunitense. Oggi esistono brevetti su ogni cosa: semi, piante, parti del corpo umano. L’articolo 27.1 del TRIPs afferma che possono essere concessi brevetti per ogni invenzione prodotta con qualsiasi tecnologia o procedimento purché sia realmente nuova, implichi un passo avanti e sia applicabile alla produzione industriale e al commercio. L’articolo 27.5.3(b) consente i brevetti anche sulle forme viventi. Questi brevetti attribuiscono ai loro detentori un diritto esclusivo sull’invenzione, che tutela la produzione, la commercializzazione, lo sviluppo, l’utilizzo del bene o della sostanza brevettata. Quando riguarda piante, semi o animali, il brevetto impone il divieto di riproduzione autonoma. In altre parole per avere altri semi o piante o animali ci si dovrebbe rivolgere e pagare di nuovo la società detentrice del brevetto. L’introduzione o l’imposizione di queste varietà alle popolazioni del sud del mondo avrebbe dunque il risultato di rendere agricoltori e allevatori dipendenti dalle multinazionali. Poiché molte di queste invenzioni sono in realtà semplicemente la richiesta di brevetti su saperi e conoscenze comuni e diffuse tra le popolazioni indigene, spesso il sistema dei brevetti diventa anche un modo per appropriarsi di un sapere diffuso, una “biopirateria”, come la chiama Vandana Shiva. Si tratta si un nuovo stadio del colonialismo che invade e sfrutta gli spazi offerti dalle biotecnologie di piante, animali, esseri umani. Un altro campo di profitto chiama in causa le Case Farmaceutiche. Come nota Vandana Shiva sono «oltre settemila i composti naturali adottati dalla medicina e dalla chimica moderne che da secoli vengono impiegati dai guaritori indigeni. Le ditte farmaceutiche svolgono spesso ricerche sulle proprietà curative di sostanze note alla alle comunità tribali, isolandole il principio attivo» (Shiva, 2005, p. 87). Il riduzionismo implicito in questi processi è chiaro: in primo luogo il vivente non viene riconosciuto nel suo valore per se stesso ma solamente come strumento per il profitto e per l’accumulazione di ricchezza; in secondo luogo le forme viventi sono trattate come oggetti o macchine e si cancella le loro caratteristiche capacità di autorganizzarsi e autoriprodursi; infine un diritto e un patrimonio comune viene ridotto ad un bene privato. Le realtà ecologiche e sociali cui questi viventi sono intrecciati non sono riconosciute, anzi spesso ne subiscono le principali conseguenze. I principi legati alla rigenerazione e alla sostenibilità sono semplicemente rimossi. 11 Su questi temi si veda Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Cuen, Napoli, 1999, e della stessa autrice Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale, Edizioni Ambiente, Roma, 2001, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano, 2002. 35 Insomma attraverso i diritti sul vivente si estende ulteriormente la tendenza alla mercificazione della natura. «Il conflitto attualmente in atto a livello mondiale – ha scritto Vandana Shiva, costituisce l’inevitabile passo successivo per la globalizzazione economica e delle multinazionali: un pugno di grandi società e di Paesi potenti cercano di acquisire il controllo delle risorse terrestri, trasformando il pianeta in un supermarket in cui tutto è in vendita. Vogliono insomma, arrivare a venderci quello che, in realtà, già ci appartiene: l’acqua, i geni, le cellule, gli organi, il sapere, la cultura, il futuro» (Shiva, 2005, p. 4). Si tratta dunque di promuovere uno sforzo culturale per riconoscere l’importanza della biodiversità e della sua salvaguardia, nonché per comprendere come questa non possa essere ridotta a merce e al suo aspetto commerciale. Secondo Niles Eldredge ci sono almeno tre tipi di motivazioni per cui occorre lottare per promuovere il rispetto e la salvaguardia del patrimonio di diversità biologica. La prima motivazione riguarda una ragione strettamente utilitaristica, ovvero l’importanza che essa rappresenta per l’agricoltura e la medicina. Sapete quante sono le specie che gli esseri umani utilizzano normalmente per la propria vita quotidiana, come cibo, come fonte di sostanze medicinali, come integrazione per i propri processi biochimici o per il contributo dei processi biogeochimici fondamentali alla nostra vita? La risposta approssimativamente più corretta è circa 40.000. Certo possiamo non chiederci di cosa è fatto il pane, la pasta, il formaggio e tutti gli altri cibi che mangiamo. Con che materiali sono fatti i vestiti che indossiamo o i mobili che abbiamo in casa. Da dove provengono l’aspirina o gli antibiotici che utilizziamo, o come si produce l’ossigeno che respiriamo. Sta di fatto che siamo dipendenti da una infinità di organismi viventi, animali e vegetali per svolgere le nostre necessità. Allo stesso tempo la variabilità genetica è fondamentale per la nostra agricoltura e la sopravvivenza delle piante che mangiamo. La seconda ragione ancora più importante per la protezione della diversità riguarda la salvaguardia della salute globale del pianeta. La biodiversità presente è fondamentale semplicemente per continuare a produrre quei cicli biogeochimici di base che connettendo atmosfera, litosfera, idrosfera,e biosfera, mantengono la vita su questo pianeta. I cicli dell’aria e la composizione dell’atmosfera, i cicli dell’acqua, la qualità e la circolazione delle acque. Tanto per fare un solo esempio l’ossigeno che respiriamo è il prodotto della fotosintesi di alberi e del placton fotosintetico oceanico che intrappolando l’energia solare producono zuccheri e ossigeno come gas di scarto. La terza motivazione riguarda invece dei valori estetici e morali che riguardano il riconoscimento della vita in se, della vita delle altre specie, vegetali e animali, ma anche della vita in quanto sistema unico, complesso e integrato. Un riconoscimento che in una forma o in un altro ancora ci appartiene, sia attraverso i sentimenti religiosi, sia attraverso l’esperienza del contatto con la natura. Se tutto questo non bastasse c’è infine un’altra considerazione da fare. Come ha scritto Niles Eldredge, «Poiché siamo ancora convinti di essere sfuggiti dal mondo naturale, pochi di noi riescono a cogliere la reale dipendenza della nostra specie dalla salute del sistema globale. La principale ragione per cui ritengo che dobbiamo temere la Sesta estinzione è il fatto che noi stessi abbiamo buone probabilità di esserne coinvolti come vittime. Se anche qualcuno dicesse che l’estinzione, diciamo, di 10 miliardi di persone è un evento poco probabile, non bisogna dimenticare che esiste anche un’estinzione culturale oltre che biologica. Forse infatti potremmo evitare l’effettiva estinzione biologica ma la nostra diversità culturale e, per i 36 paesi sviluppati, il nostro alto tenore di vita, sono certamente a rischio» (Eldredge, 2000, p. 212). Oggi siamo di fronte al fenomeno di una sesta estinzione massiccia di specie viventi con risultati che non possiamo nemmeno immaginare. Dopo ogni estinzione, la vita è cambiata significativamente per tutto il pianeta e non sappiamo cosa questo comporterà in termini di perdite e di stravolgimenti. Occorre riflettere e provare a cambiare il nostro atteggiamento. Table 1: Numbers of threatened species by major groups of organisms (1996–2014) 10. 37 38 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu CONSUMI, RISORSE E CONFLITTI AMBIENTALI Qualcuno giustamente ha definito la crisi che stiamo attraversando la prima grande crisi socio-ecologica del capitalismo (Alain Lipietz). Dietro la crisi economicafinanziaria si nasconde una profonda crisi ecologica. Non solo queste due crisi sono chiaramente intrecciate tra loro, ma manifestano anche molti aspetti in comune. La società di crescita in cui viviamo non funziona solamente soddisfacendo i nostri bisogni ma creandone di sempre nuovi. I nostri consumi crescono continuamente. Secondo il Worldwatch Institute, i nostri consumi sono cresciuti del 28% dal 1996 ad oggi. Oggi un americano consuma in media circa 90 tonnellate di materiali naturali ogni anno, un tedesco 80, un italiano 50. Questo ha conseguenze sia sociali – la spinta al consumo e all’indebitamento – ma anche ecologiche, la pressione sulle risorse e la creazione di conflitti ambientali. Questo aumento dei consumi si sostiene nei fatti su una crescente domanda di risorse:12 ciò significa che negli ultimi anni per stare al passo della richiesta dei produttori e dei consumatori è stato estratto più petrolio, più gas, più minerali, si sono pescati più pesci, si sono tagliati più alberi ecc. Negli ultimi 45 anni la domanda di risorse è più che raddoppiata. Per esempio tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è cresciuta di sei volte, il consumo di petrolio di otto volte, il consumo di gas naturale addirittura di 14 volte. Ogni anno si estraggono circa 60 miliardi di tonnellate di risorse. Questo prelievo scriteriato ha naturalmente un enorme prezzo ecologico. Attualmente consumiamo circa il 40% in più delle risorse che la terra è in grado di rigenerare. Si può dire che ci siamo comportati come se lo stock di risorse naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci della loro possibilità di ricostituzione o del loro esaurimento (nel caso di beni non rinnovabili). Questo non è un fatto nuovo. Gli studiosi che studiano la cosiddetta impronta “impronta ecologica”,13 hanno notato che nel 1961 l'umanità consumava solo tre quarti della capacità della Terra di generare cibo, fibre, legname, risorse ittiche e di assorbire quei gas climalteranti. Per tutti gli anni sessanta la biocapacità della maggior 12 Tutto il nostro sistema produttivo si basa su un prelievo continuo, e indiscriminato di materie prime in tutto il mondo. Risorse basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, il suolo fertile, le foreste; Risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale; Risorse minerarie sia minerali metallici sia minerali non metallici; Risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari, ma anche l’universo delle droghe; Risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture) per uso scientifico ecc. 13 Per “impronta ecologica” si intende l’area degli ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione umana consuma e per assimilare i rifiuti (M. Wackernagel, W.E. Rees, 1996). 39 parte delle nazioni superava la loro impronta ecologica. Poi con l'inizio degli anni settanta la crescita economica e demografica ha aumentato rapidamente l'impronta ecologica dell'umanità e nel 1986, questa ha superato per la prima volta la biocapacità globale della terra. Nasce così l'idea e l'immagine dell'Overshoot day. Con questo nome si indica convenzionalmente il giorno in cui l’umanità comincia a vivere oltre la disponibilità dei suo mezzi ecologici, ovvero il momento in cui si inizia a utilizzare più risorse di quelle che la terra è in grado di rigenerare (ovvero di produrre e riciclare) in un anno. Dal primo sconfinamento nel 1986 la tendenza è quella di anticipare ogni anno il giorno in cui si sono impiegate le riserve annue. La crisi economica ha alterato temporaneamente questa tendenza. Nel 2008 era stato il 23 settembre. Nel 2009 è stato il 25 settembre, nel 2010 il 24 agosto, nel 2011 il 27 settembre, nel 2012 il 22 agosto, nel 2013 è stato il 20 agosto. Secondo il Global Footprint Network nel 2014 l’Earth Overshoot Day14 è stato il 19 Agosto. Dunque abbiamo consumato in 8 mesi quello che il pianeta rigenera in un anno. O detta in altre parole la Terra ha bisogno di un anno e quattro mesi per rigenerare quello che usiamo in un anno. Per esempio tagliare alberi ad un ritmo più veloce di quello che occorre per ricrescere o pescare pesci ad un ritmo più rapido di quello che occorre per ripopolare i mari o produrre più CO2 di quanto può essere riassorbito. Almeno per quanto riguarda i paesi più industrializzati ci siamo comportati come se lo stock di risorse naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci del loro esaurimento o come se la crescita della produzione e del consumo di beni non producesse anche una crescita dei rifiuti e dell’inquinamento. Così ci troviamo a confrontarci con la prospettiva del declino del petrolio ma anche di alcuni minerali15 nonché con il crollo della biodiversità. Stiamo dunque sfruttando, e mettendo a rischio nel giro di pochi decenni un patrimonio di beni naturali che sono sulla terra da centinaia di migliaia di anni o addirittura milioni di anni.16 Che cosa significa tutto questo? Significa che noi stiamo accumulando un enorme debito ecologico a fianco del debito economico. O se volete, che dietro la bolla crisi economica noi stiamo producendo una grande bolla speculativa ecologica, la cui esplosione minaccia di produrre conseguenze ancora più vaste e più profonde della crisi che stiamo vivendo. Quello che colpisce – ha notato in proposito Wolfgang Sachs «noi viviamo ogni giorno di crediti non pagati, di crediti morbosi che prendiamo dalla natura. Crediti che non vengono mai ripagati. E anche queste sono in fondo scommesse sul futuro. Scommesse che probabilmente un giorno le generazioni di domani dovranno pagare o sopportare. In altri termini noi ogni giorno viviamo in una grande bolla speculativa ecologica» (Sachs in A. Bosi, M. Deriu, V. Pellegrino, Il dolce avvenire, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p. 119). È lo sviluppo industriale e la crescita economica delle nostre società che ci spingono ad uno sfruttamento continuo delle risorse naturali senza preoccuparci del loro esaurimento. A questo si aggiunge un altro aspetto. L’aumento dei consumi nelle società industrializzate non solo ha prodotto debito e pressione sulle risorse ma ha prodotto 14 http://www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/page/earth_overshoot_day/ Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani hanno identificato undici minerali che hanno già superato il picco di produzione: mercurio, tellurio, piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio, selenio, zirconio, renio, gallio. 16 Il consumo annuo di carbone e petrolio equivale a una biomassa accumulata nel corso di 100.000 anni. 15 40 anche una crescita dell’inquinamento, dei rifiuti, della distruzione dell’ambiente generando rischi e conseguenze enormi per le popolazioni locali che vivono nei territori dove andiamo a sfruttare queste risorse. Di fatto abbiamo goduto di questi beni scaricando i costi lontano nel tempo o nello spazio. Ovvero sottraendo beni per un verso alle le generazioni future per un altro agli altri popoli che vivono su queste terre da migliaia di anni. Perché è chiaro che questo sfruttamento e questo consumo non è omogeneo. I consumatori globali, che vivono in gran parte nei paesi più industrializzati si arrogano di fatto il diritto di andare a prendere le materie prime la dove si trovano anche contro il parere delle popolazioni locali. Stiamo consumando le risorse di altre terre e altri popoli per nutrire il nostro sviluppo. Noi consumatori occidentali spesso non ce ne rendiamo conto. Ma gli oggetti che utilizziamo ogni giorno, dal cellulare, al computer, alla macchina, ai prodotti di plastica o ai beni alimentari come la carne ci arrivano perché possiamo contare su uno sfruttamento di territori e popoli lontani da noi. Certo possiamo sempre dire che non siamo noi a sfruttare direttamente quei popoli, ma questo non diminuisce la nostra responsabilità. Non possiamo difenderci dicendo semplicemente che siamo solo degli “utilizzatori finali” di quei beni. A noi cittadini dei paesi più industrializzati spetta il compito di capire il ruolo che come cittadini e come consumatori giochiamo in queste dinamiche globali e che rapporto c’è tra questa diseguaglianza di consumo e di prelievo e la questione della giustizia e dei conflitti sociali e ambientali. Quando parliamo della centralità delle risorse naturali nel quadro geopolitico attuale non dobbiamo pensare solamente al petrolio. Il quadro infatti è più complesso. Non riguarda una sola risorsa o una sola tipologia ma diverse risorse. Tecnicamente si parla di risorse della litosfera (crosta terrestre), risorse dell’idrosfera (acqua solida, liquida, gassosa), risorse della biosfera. Semplificando stiamo parlando di: - Risorse basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, il suolo fertile, le foreste; - Risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale; - Risorse minerarie sia minerali metallici sia minerali non metallici; - Risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari, ma anche l’universo delle droghe - Risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture), per compagnia, per esibizione, per farmacopea ed uso scientifico. È lo sviluppo industriale e la crescita economica delle nostre società che ci spingono ad uno sfruttamento continuo delle risorse naturali. Negli ultimi 45 anni la domanda di risorse è più che raddoppiata e con questa è cresciuta la nostra impronta ecologica (oggi si bruciano in media 2,7 ettari reali contro i 2,1 sostenibili per ogni cittadino). A cosa si deve questa crescente domanda di materie prime? Essenzialmente a tre fattori: 1. l’aumento della popolazione 2. l’affermazione del modello di sviluppo occidentale 3. l’estendersi del consumo dei beni di lusso: auto, computer, palmari, cellulari, tecnologie domestiche ecc… 41 Vediamo questi aspetti uno per uno. 1) L’aumento della popolazione Le società pre-neolitiche erano caratterizzate da scarsa popolazione, quindi da una densità demografica molto bassa e grandi spazi a disposizione. Il genere umano ha vissuto per gran parte del tempo di caccia e raccolta, attorno a piccoli gruppi composti da meno di un centinaio di individui. Questi gruppi umani portavano con sé poche cose, ma per il resto godevano di una dieta ricca e in generale di una certa abbondanza. Per soddisfare le proprie esigenze bastavano poche ore di lavoro al giorno,mentre il resto era dedicato al riposo, allo svago o alle esigenze sociali. Per decine di migliaia di anni la popolazione è rimasta attorno ad un milione di individui. Una prima rivoluzione demografica è avvenuta nel Paleolitico superiore, grazie ad alcune innovazioni tecniche che permettono di migliorare le proprie condizioni sociali, la popolazione può crescere fino a circa 4 milioni di individui. Una seconda rivoluzione demografica si determina nel Neolitico – con la cosiddetta “rivoluzione neolitica”. Il passaggio alle società agricole sedentarie si è probabilmente compiuto in tempi dilatati, e in momenti diversi a seconda delle diverse zone della terra, ma diciamo mediamente attorno al 10.000 a.C. Il passaggio è stato probabilmente favorito da una diminuzione della disponibilità di selvaggina e dall’aumento demografico e dalla necessità di sfamare un maggior numero di persone. La risposta è stata trovata nella sperimentazione progressiva di colture agricole e nella domesticazione degli animali. Le tradizionali attività di caccia e raccolta sono affiancate e progressivamente sostituite da una attività di produzione agricola e di allevamento. Queste innovazioni ebbero conseguenze sociali. Maggior lavoro ma anche maggiore produzione di cibo, quindi espansione demografica e maggior organizzazione. In effetti l’agricoltura organizzata permette entro certi limiti di accumulare un surplus di cibo e dunque di nutrire un numero più ampio di persone, anche a coloro che non lavorano direttamente la terra. Le società agricole sedentarie dunque possono sviluppare un’ampia divisione e differenziazione del lavoro e dar luogo ad un’articolata stratificazione sociale, producendo classi di lavoratori della terra, di amministratori, di religiosi, di militari, di tecnici, di mercanti ecc. Non è un caso che attorno a questi primi sistemi di produzione si siano andate definendo anche forme sociali, politiche e religiose più complesse, centralizzate e gerarchizzate e ne siano discese le prime grandi “civiltà storiche” e le prime grandi città. Tuttavia l’adattamento ecologico e il successo sociale di queste società organizzate talvolta può mettere in moto dei circoli viziosi. La produzione di surplus può creare una crescita incontrollata della popolazione e una sempre maggior richiesta di cibo, l’organizzazione e il potere politico e religioso possono richiedere beni di lusso e realizzazioni monumentali sempre più complesse e impegnative. Per mantenere queste organizzazioni complesse c’è bisogno di sempre più lavoro, terra, e risorse, il che ha sua volta innesta una spinta espansiva dal punto di vista politico-militare e una maggiore impatto sull’ambiente che viene sempre più colonizzato e sfruttato in maniera sempre più insostenibile. Durante tutto questo periodo la popolazione aumenta costantemente fino a raggiungere nel 2500 a.C. una cifra di circa 100 milioni di persone. La terza rivoluzione demografica si profila con l’avvento dell’industrialismo e dell’economia basata sulle risorse fossili (carbone e petrolio). Con l’aumento della disponibilità di beni e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie la popolazione cresce in misura sempre più significativa. Nel 1800 si raggiunge il miliardo di persone. Dopo di che la crescita è stata geometrica. Sono bastati 130 anni per raggiungere nel 1930 i 2 miliardi. Altri 30 anni per arrivare nel 1960 a 3 miliardi, 42 14 anni per arrivare nel 1974 a 4 miliardi, 13 anni per arrivare nel 1987 a 5 miliardi, 12 anni per arrivare nel 1999 e superare i 6 miliardi. Certamente il consumo di risorse è fortemente diseguale, ma non c’è dubbio che questi tassi di crescita contribuiscono alla pressione sulle materie prime a partire dalla necessità di produrre cibo a sufficienza e quindi di avere terre fertili impiegate per la coltivazione e l’allevamento. 2) L’affermazione del modello di sviluppo occidentale Per quanto riguarda il secondo aspetto oggi paradossalmente ci troviamo a fare i conti con il successo del modello di sviluppo industriale dei paesi occidentali. Le performance economiche dei paesi sviluppati hanno rappresentato nell’ultimo secolo un modello “vincente” ed esportabile, ampiamente condiviso e perseguito per decenni non solo dai paesi occidentali ma anche da molti altri paesi che nel gergo tradizionale avremmo chiamato appunto “paesi in via di sviluppo” o “paesi emergenti”. Tuttavia negli ultimi anni si è preso sempre più coscienza che queste performance economiche dello sviluppo si sono realizzate esternalizzando i costi e andando a credito dal patrimonio naturale, dal patrimonio di altri paesi e dal patrimonio virtuale delle generazioni future. Oggi per la prima volta si comincia a guardare al modello dello sviluppo in termini riflessivi e problematici, ovvero a riconoscerne la natura implicitamente conflittuale. Come ha scritto l’economista inglese John Gray, «Il ventunesimo secolo sembra avviato verso una serie di guerre per il controllo delle risorse. Ma non perché alcuni paesi – oggi gli Stati Uniti, nel futuro la Cina – si stanno impossessando freneticamente delle risorse del pianeta. Bensì perché la logica della guerra per le risorse è più profonda: la crescente competizione per le risorse naturali deriva dall’industrializzazione globale, un processo che oggi tutti considerano uno strumento di emancipazione per i paesi più poveri. Ma l’industrializzazione crea scarsità». L’osservazione di Gray coglie nel segno. La scarsità delle risorse di cui tanto si parla - e di cui parleremo anche noi - non è un dato assoluto, oggettivo, naturale, ma relativo. È una costruzione sociale, culturale, politica ed economica. La scarsità si misura relativamente al rapporto tra i paesi occidentali, di fatto i più industrializzati e i paesi del “sud del mondo” meno industrializzati (si pone in questo senso una questione di riconoscimento e giustizia), e relativamente al rapporto tra diverse generazioni e (si pone una questione di sostenibilità e di giustizia). Per quanto riguarda il primo punto la diseguaglianza è molto netta. Gli abitanti dei paesi più industrializzati pur rappresentando appena il 20% della popolazione mondiale consumano e rivendicano per sé: - il 70% delle risorse energetiche; - l’85% della foreste; - l’81% della carta; - il 61% della carne; - il 75% delle riserve minerarie; Detto in altri termini i paesi industrializzati (Ocse) utilizzano una biocapacità17 più che doppia rispetto a quella disponibile sul loro territorio. Per biocapacità si intende la capacità della natura di produrre aria ed acqua pulita, alimenti, materiali e contemporaneamente di assorbire gli scarti dei processi produttivi e di consumo. La percentuale di biocapacità non è evidentemente distribuita in modo equo tra i diversi paesi o tra le diverse classi sociali. 17 43 Questo significa che nei fatti i paesi più industrializzati attingono a beni e a risorse naturali che provengono da aree anche molto lontane dai loro territori e in misura sproporzionata rispetto allo spazio ambientale con cui ciascun essere umano deve poter vivere. La loro “impronta ecologica” è molto superiore ai loro stessi territori e alla loro popolazione (alla loro biocapacità). Come fanno notare gli autori dello The Jo’burg-Memo, in termini ecologici e di equità, i paesi OCSE superano quella che sarebbe l’impronta ecologica media pro capite ammissibile di un valore compreso tra il 75 e l’85%. Nei fatti il 25% più ricco dell’umanità occupa un’impronta ecologica vasta quanto l’intera superficie biologicamente produttiva della terra (Heinrich Boll Foundation, 2002, p. 30). Nello specifico l’impronta ecologica degli Usa è circa 5 volte superiore alla media globale, mentre la maggior parte dei paesi europei hanno un’impronta ecologica tra due e tre volte superiore alla media. Tutto questo significa che strutturalmente e non solo occasionalmente i paesi più ricchi ed in particolare la classe più ricca si trovano in una condizione permanente di guerra con i paesi e le classi popolari. D’altra parte si possono sottolineare anche le differenze sociali transnazionali tra la classe più ricca e la classe più povera, quella che vive con poche risorse e sopravvive con un basso o bassissimo reddito.18 Oggi circa il 20% della popolazione mondiale più ricca consuma circa l’80% delle risorse. In particolare mangia il 45% di tutta la carne e il pesce, consuma il 68% di tutta l’elettricità, l’84% di tutta la carta, l’85% del ferro e dell’acciaio e possiede l’87% delle automobili. Da questo punto di vista, tuttavia la situazione si sta modificando. E qui entriamo dunque nel terzo aspetto, l’estendersi delle forme di consumismo. 3) l’estendersi del consumo dei beni di lusso La novità degli ultimi anni – diciamo a partire dagli anni ’80 - è che stiamo assistendo, senza la consapevolezza necessaria, al boom di una classe di quelli che Norman Myers e Jennifer Kent (2005) hanno chiamato i “nuovi consumatori”. In alcuni paesi, fra l’altro tra i più popolosi del mondo oltre un miliardo di persone oggi sta dandosi ad uno stile di vita consumista. Secondo questi due autori i “nuovi consumatori” sono persone che fanno parte di una famiglia media di quattro persone con un potere di acquisto di almeno 10.000 dollari PPA (Parità di Potere di Acquisto) o 2.500 pro capite. Queste persone possono essere identificate in base ad alcuni elementi di consumo specifico. In particolare: - acquistano ed usano numerosi elettrodomestici: televisioni, frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici, condizionatori, tecnologie hi fi, video-registratori, computer, palmari ecc. - acquistano e consumano molta carne, soprattutto di animali allevati con cereali. - prelevano e consumano grandi quantità d’acqua sia per consumi personali e domestici che per irrigazione. - acquistano ed utilizzano automobili nuove (con una percentuale crescente di suv). È bene specificare che la classe di consumatori globali è in gran parte localizzata nei paesi del nord, ma comprende in realtà anche le élite dei paesi del sud del mondo che sono ormai completamente integrate nel mercato mondiale. Allo stesso modo la classe di poveri è principalmente localizzata nei paesi del sud, ma sempre più comprende anche fasce di emarginazione ed esclusione che si sviluppano nel nord. 18 44 Si tratta di piccoli imprenditori, medici, avvocati, banchieri, contabili, funzionari, architetti, dirigenti di marketing, agenti immobiliari, assicuratori, impiegati di alto livello, programmatori ecc. Siamo anche consapevoli che ragionare in termini di paesi è anche parzialmente fuorviante. Perché con la ricchezza cresce anche la disuguaglianza. E nello stesso paese ci possono essere persone che mangiano la carne tutti i giorni e persone che muoiono di fame, persone che si collegano a Internet con il loro portatile e persone che non ricevono nemmeno la luce elettrica, persone che possiedono due macchine e persone che contano solo sui propri piedi. Tuttavia semplificando un poco si può osservare che gran parte di questa classe di nuovi consumatori si distribuisce in una centina di paesi “emergenti”: Cina, India, Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Sud Africa, Brasile, Argentina, Venzuela, Colombia, Messico, Turchia, Polonia, Ucraina, Russia. Come si vede si tratta di 9 paesi dell’Asia, 5 dell’America Latina, 4 dell’Europa Orientale e 1 dell’Africa. Se prendiamo l’esempio della Cina, nel 1990 i nuovi consumatori erano poche decine di milioni, mentre nel 2000 si registravano ben 300 milioni di nuovi consumatori (su una popolazione di 1,3 miliardi di persone), pari a circa il 30% del totale dei nuovi consumatori. Ma anche l’India conta oggi 130 milioni di nuovi consumatori (su una popolazione di 1,1 miliardi di persone). Questi due paesi da soli fanno la parte del leone tra i nuovi consumatori con due quinti sul totale (circa 430 milioni). Mentre l’Asia in generale raccoglie 677 milioni di nuovi consumatori parti a circa due terzi del totale. Il numero di questi nuovi consumatori, calcolato al 2000, era di circa 1,1 miliardi di persone, più dunque degli 850 milioni di superconsumatori del mondo più ricco, che tuttavia vivono ad un livello economico e di consumi superiori. Insomma stiamo vivendo in una bolla di euforia. Sono soltanto pochi decenni che abbiamo iniziato a consumare in maniera così massiccia beni di ogni genere, eppure a questi ritmi rischiamo di bruciare in poco tempo il patrimonio naturale creatosi e evolutosi in milioni di anni. Ci crediamo evoluti ma ci sfugge completamente il tessuto della vita attorno a noi. Molte di queste tecnologie si fondano sull’estrazione e trasformazione di un ampio ventaglio di materiali, in particolare minerali metallici e non metallici che vengono prelevati in tutto il mondo. Geopolitica delle risorse Gli attori politici ed economici internazionali sono sempre più consapevoli della criticità che alcune risorse rivestono oggi per l'industria ed il mercato. Per esempio la Commissione Europa per l'Impresa e l'industria ha stilato nel 2013 una accurata lista delle materie prime più importanti per l'economia europea. Questa comprende: Antimonio, Berillio, Borati, Cromo, Cobalto, Carbone da Coke, Fluorite, Gallio, Germanio, Indio, Magnesite, Magnesio, Grafite naturale, Niobio, PGMs (Platinum Group Metals: platino, palladio, rodio, rutenio, iridio, osmio) rocce fosfatiche, Terre rare (pesanti) Terre rare (leggere), Silicio metallico, Tungsteno. Le venti materie prime critiche per l'Europa. Fonte: European Commission Enterprise and Industry (2013). 45 Le venti materie prime critiche per l'Europa. Fonte: European Commission Enterprise and Industry (2013). Possiamo ricordare l’uso e l’importanza di alcuni minerali. L’antimonio (Sb) viene usato in elettronica per costruire diodi, sensori agli infrarossi, per semicondutture e batterie. Il berillio (Be) è un metallo leggero dotato di un'elevata temperatura di fusione e non è attaccato né dall'aria, né dall'acqua. Per questo viene usato nell'industria aeronautica e spaziale, nonchè nell'industria petrolifera. Il cobalto (Co) estratto in Congo, nell’Europa del Nord e in Canada, è fondamentale per le produzioni dell’elettronica (trasformatori, trasduttori, testine di registrazione e hard disk) e dell’aeronautica (leghe strutturali). Il gallio (Ga), viene utilizzato per realizzare circuiti integrati e dispositivi optoelettronici come diodi LED (semafori, display) e diodi laser (lettura e registrazione Dvd). L’indio (In) viene usato per i led e display a cristalli licquidi (LCD) degli schermi piatti dei computer e televisori al plasma. Il niobio (Nb) viene utilizzato per produrre gli elettromagneti dei motori lineari usatoi per esempio nei treni a levitazione magnetica. Il platino (Pt) viene utilizzato per produrre orologi ultrapiatti e per le marmitte catalitiche delle automobili. Ma è diventato fondamentale anche per realizzare le celle a combustibile che nelle auto a idrogeno convertono il gas in elettricità. Il palladio (Pd) un minerale utilizzato sia nell’industria del petrolio sia per le casse degli orologi più preziosi (per es. gli orologi di Cartier e Parmigiani). Il rodio (Rh) è particolarmente essenziale per la produzione delle marmitte catalitiche perché scompone gli ossidi di azoto del gas di scarico. Viene usato anche come generatore di raggi X. Il rutenio (Ru) viene usato in lega con platino e palladio per produrre contatti elettrici resistenti all’usura e per aumentare la memoria dei dischi fissi del computer. Il silicio (Si) è un semiconduttore, usato per la produzione di vetro, cemento, mattoni, ceramica, silicone, pannelli fotovoltaici. È particolarmente importante per realizzare i chip per computer e apparecchi elettronici. Diverse terre rare sono importanti: il neodimio (Nd) è utilizzato per produrre magneti in grado di generare campi magnetici molto intensi particolarmente aprrezzati nel produrre altoparlanti di alta qualità; il samario (Sm) viene usato nei magneti di 46 alcuni orologi di qualità e nelle barre delle centrali nucleari; l’europio (Eu) viene utilizzato nei tubi catodici dei monitor dei televisori (per produrre il colore rosso e colori più brillanti) e nei display organici a cristalli liquidi; il terbio (Tb) è particolarmente importante per fabbricare i fosfori verdi dei tubi catodici e dei fluerescenti ed alcuni componenti elettronici quali i chip. Una lega di terbio viene usata invece per produrre supporti di registrazione quali minidisc e dischi magneto-ottici. Il tungsteno (W) viene utilizzato principalmente per realizzare i filamenti delle comuni lampadine. Viene estratto dalla wolframite. L’uranio (U) è radioattivo ed utilizzato anzitutto come combustibile nucleare. Il rame (Cu) per la sua grande duttilità e conducibilità viene usato per l’industria elettrica ed elettronica, dalla produzione e trasporto di energia alla costruzione di parti di motori e generatori, o nel campo dell’illuminazione o delle telecomunicazioni (fili e cavi elettrici, fibre ottiche ecc.). Viene usato anche per la produzione di alcune leghe, tra cui l’Ottone e il Bronzo. Quest’ultimo viene utilizzato per la produzione di armi. Lo stagno (Sn) o cassiterite viene normalmente usato per produrre latte per la conservazione dei cibi, ma è diventato fondamentale anche nella produzione dei cellulari come il tantalio. Il litio (Li) viene usato per produrre batterie delle auto e per produrre farmaci antidepressivi. Il tantalio (Ta) ha un'alta temperatura di fusione ed è molto resistente alla corrosione. Viene utilizzato per costruire microcondensatori per dispositivi portatili quali cellulari, cercapersone, computer ma anche la Play Station. Viene usato inoltre per strumenti chirurgici, protesi (ossa artificiali e protesi dentarie) e negli impianti elettronici delle automobili. Oltre al suo potenziale economico effettivo, il tantalio è strategico, perché è indispensabile per la fabbricazione di superleghe per motori a reazione usati nell’industria aeronautica, aerospaziale e della difesa, per missili e reattori nucleari. Viene estratto dal coltan. Abbiamo detto dunque come nella situazione attuale la convergenza e la sinergia di diversi fenomeni – l’estendersi del modello di sviluppo e dell’industrializzazione, l’aumento della classe dei nuovi consumatori, la richiesta crescente di beni di lusso e in particolare lo sviluppo delle nuove tecnologie e di nuovi materiali – stia portando ad un aumento della pressione su tutta una serie di beni limitati. In altre parole la crescita sproporzionata del consumo di questi beni ne determina uno stato di scarsità. Per esempio si calcola che ai ritmi di crescita del consumo attuale le riserve di petrolio esistenti si esauriranno in un poche decine di anni. Allo stesso modo il consumo di riserve d’acqua dolce raggiungerà il suo limite naturale all’incirca entro cinquant’anni. C'è un minerale, il mercurio che ha Il picco globale della produzione del mercurio. raggiunto il suo picco di produzione già nel Fonte: Ugo Bardi and Marco Pagani, Peak Minerals, october, 2007, http://www.theoildrum.com/node/3086 1962. Mentre alcuni minerali utilizzati dall’industria potrebbero esaurirsi in tempi relativamente brevi: entro pochi decenni per oro, argento, rame, piombo, zinco, stagno, cadmio, terbio, indio, afnio, antimonio, tantalio, litio, rodio; entro cent’anni o più per alluminio e ferro, cromo, vanadio ed altri. 47 Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani19 hanno identificato undici minerali che hanno già superato il picco di produzione: mercurio, tellurio, piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio, selenio, zirconio, renio, gallio. Altri metalli come per esempio il platino possono durare per secoli finché sono utilizzati solo in un settore come quello dell’oreficeria, ma se dovesse scattare il mercato dell’auto a idrogeno e l’obiettivo diventasse intervenire sull’attuale parco macchine di 780 milioni di veicoli con celle a combustibile per le quali è Fonte: Ugo Bardi and Marco Pagani, Peak Minerals, october, 2007, http://www.theoildrum.com/node/3086 necessario il platino questo determinerebbe un’enorme impennata della domanda, del suo prezzo e ed esporrebbe le riserve ad esaurimento nel giro di una quindicina d’anni. Il primo effetto di un uso non sostenibile delle risorse è un aumento dei conflitti sociali attorno alle risorse. Questa guerra viene dichiarata verso le popolazioni povere del sud del mondo e verso le generazioni a venire che si troveranno un mondo povero di risorse e degradato dal punto di vista dei cicli vitali. Un elemento determinante nel contesto attuale dipende dalla relazione tra paesi produttori e paesi consumatori. Bisogna tener conto non solo della diversità della domanda a seconda dei paesi ma anche del fatto che una delle caratteristiche ambientali di queste risorse è quella di non essere distribuita uniformemente sul pianeta. I giacimenti di petrolio più significativi, che coprono oltre l’80% del patrimonio mondiale, si trovano nel Golfo Persico, nel bacino del Mar Caspio, nel Mar Cinese meridionale ed in alcuni paesi come Nigeria, Sudan, Algeria, Angola, Ciad, Venezuela, Colombia, Indonesia. I principali campi diamantiferi, per esempio, si concentrano in Angola, nella Repubblica Democratica del Congo, nella Sierra Leone. Gli smeraldi abbondano in Colombia, le miniere di oro e di rame più importanti si trovano in Congo, Indonesia e Papua Nuova Guinea (nell’isola di Bougainville). In rapporto a questa diseguale distribuzione e al diseguale consumo si va dunque delineando una nuova geografia sociale e politica dei conflitti. Nell’interessante studio Resource War. The New Landscape of Global Conflict, Michael Klare sottolinea che tre fattori tra loro correlati – l’espansione della domanda, la crescente scarsità di materie prime, e la proliferazione di siti e fonti disputate tra più paesi – introdurranno una tensione crescente nel sistema internazionale (Klare, 2001). In alcune aree critiche numerosi paesi si stanno disputando l’accesso a queste risorse. 19 Ugo Bardi and Marco http://www.theoildrum.com/node/3086 Pagani, Peak Minerals, october, 2007, 48 I 20 produttori delle materie prime critiche per l'Europa. Fonte: European Commission Enterprise and Industry (2013). In questo contesto i paesi più potenti, in particolare quelli occidentali, sono portati ad intervenire in maniera sempre più diretta per assicurarsi il rifornimento di queste materie prime fondamentali, che ciascun governo tende a presentare come “interessi vitali” per la propria economia. Per mantenere il proprio livello di produzione e di consumo invariato - e finché non metteranno in discussione il proprio stile di vita e il proprio modello di benessere - le democrazie occidentali necessitano di controllare in maniera sistematico i luoghi di estrazione e rifornimento. Tutti questi paesi potenti in termini economici e politici sono interessati ad assicurarsi il rifornimento costante di alcuni beni fondamentali. Nei fatti nei paesi chiave dal punto di vista delle riserve, le risorse naturali costituiscono il motivo fondamentale dello scatenamento o del prolungamento delle guerre intestine tra diversi soggetti: governi statali, signori della guerra, clan familiari, minoranze etniche, popolazioni indigene. Le spiegazioni di questo fatto risiedono in diversi aspetti. Numerose analisi20 hanno sottolineato a questo proposito che dietro a fenomeni apparentemente caotici e incontrollabili, ci celano in realtà interessi e calcoli economici estremamente razionali, per quanto perversi o criminali. Il più delle volte lo strumento della guerra e della violenza deriva da un calcolo strumentale di tipo economico e politico, per quanto cinico e spietato possa risultare. Certamente allo sviluppo di questi processi concorrono anche altri aspetti, quali la debolezza delle istituzioni statali che non riescono ad amministrare il paese e a governare lo sfruttamento di queste risorse, regolando interessi e ridistribuendo equamente i profitti. Gli stessi governi spesso sono rappresentativi solamente delle élites dominanti e non dell’intera popolazione. Si creano dunque conflitti tra gruppi organizzati (etnie, clan o classi sociali) taluni dei quali si trovano in una situazione avvantaggiata nello sfruttamento di questi beni, mentre altri vengono emarginati o esclusi dalla ripartizione della ricchezza e spesso si trovano a sopportare piuttosto i costi ambientali e sociali di questo sfruttamento. 20 Si veda per es. Mark Duffield, 2002, Global Governance and the New Wars, Zed Books, London, Mark Duffield, 2004, Guerre postmoderne, a cura di Claudio Bazzocchi, Il Ponte, Bologna. 49 Non di rado sono le stesse élites politiche che per riciclarsi o per ridistribuirsi il potere si fanno promotori di conflitti e lotte intestine, apparentemente irrazionali ma in realtà estremamente funzionali alla rilegittimazione interna. Nei fatti nessuno degli attori principali di questi conflitti ha interesse a portarle a termine: governi locali, eserciti, clan e boss locali, warlords, multinazionali, governi occidentali. Tutti guadagnano qualcosa dalla situazione, tutti godono di un “dividendo” della guerra per le risorse; tutti tranne naturalmente la popolazione e le comunità locali che vengono devastate nel loro ambiente umano e naturale. Si crea dunque un’economia di guerra, ovvero una dipendenza tra l’instabilità dovuta alla guerra e le opportunità di traffici economici criminali particolarmente redditizi. La situazione di mancanza di controllo democratico e di trasparenza, la totale deregulation, che si produce in questi conflitti facilita la concentrazione e la moltiplicazione dei conflitti. Siamo di fronte dunque a dei fenomeni conflittuali e di “warfare” chiaramente moderni, che si comprendono solamente nel quadro di un’economia e di un modo di produzione e consumo fortemente sviluppato e globalizzato. Come suggerisce un causticamente Mark Duffield, i “signori della guerra” di oggi veramente “pensano globalmente e agiscono localmente”. Suggerirei dunque di leggere questi fenomeni in termini più specifici di “estrattivismo militarizzato” ma anche di “militarismo estrattivo”. Da una parte infatti possiamo avere compagnie minerarie che per ottenere l’accesso o per difendere il controllo di una zona strategica per le sue risorse non esitano ad appoggiarsi e a finanziare eserciti o a fazioni coinvolte nella guerra o a dotarsi autonomamente di forze di sicurezza e di protezione che costituiscono veri e propri eserciti privati. Dall’altra parte si registra contemporaneamente un ricorso sempre più diretto di forze militari (governative o non governative) nel controllo o nella gestione di siti strategici e di commerci e traffici di risorse. Da un punto di vista generale, possiamo notare infatti che le risorse chiave (oro, diamanti, minerali preziosi, legno pregiato ecc…) influiscono a diversi livelli nella configurazione di questi conflitti, in quanto: a) possono essere tra le cause scatenanti del conflitto; b) sono facilmente causa del prolungamento della durata del conflitto, poiché nessuno ha vero interesse a concluderlo; c) sono uno dei fattori di “messa in forma” del conflitto; d) costituiscono una delle ragioni della radicalità delle forme di violenza e di brutalità; e) stimolano una forte corruzione delle istituzioni politiche, economiche e militari. In termini generali, insomma, le guerre per le risorse sono autofinanzianti. La guerra per le risorse si paga con le risorse conquistate in guerra, con il commercio o la concessione di diritti di sfruttamento. La conquista di luoghi strategici permette l’accesso a nuove risorse il cui sfruttamento finanzia il mantenimento della mobilitazione o addirittura il rilancio dell’azione militare. Non a caso per lungo tempo gli studiosi hanno dibattuto attorno all’idea di “maledizione delle risorse”, ovvero l’idea che la presenza di grandi concentrazioni di risorse preziose, o la forte dipendenza dall’esportazione di queste risorse per la propria economia, sia piuttosto un fattore di rischio e di esposizione alla violenza che non di promozione di benessere e di democrazia. In questi termini, tuttavia, tale correlazione causale risulta essere piuttosto semplicista. Ci sono paesi ricchi di risorse che stanno bene e altri che stanno male, e paesi poveri di risorse che possono attingere altrove e altri che si devono arrangiare. 50 Una simile ricchezza diventa una sventura solo in un contesto socio-economico definito che stabilisce valori, rendite, relazioni economiche e politiche di un certo tipo. Il rischio di violenza e di scatenamento di vere e proprie guerre dipende dunque da interrelazioni particolari tra elementi geografici, economici, politici, culturali e sociali. Come ha notato Philippe Le Billon «Piuttosto che essere semplicemente provocati dal bisogno (scarsità di risorse) o dall’avidità (abbondanza di risorse), i conflitti potrebbero essere interpretati come un prodotto storico inseparabile dalla costruzione sociale e dall’economia politica delle risorse. Intendere i conflitti come un processo comporta una ristrutturazione delle reti politiche e commerciali dal momento che i paesi vengono (selettivamente) incorporati nell’economia globale, spesso nella forma di enclave di risorse, in un rapporto di dipendenza reciproca che incoraggia e sostiene i conflitti armati, tanto più che l’origine del potere non va più ricercata nella legittimità politica ma nel controllo violento di nodi cruciali della catena di beni» (Le Billon, 2001, pp. 575-576). Insomma queste condizioni lungi da essere solamente responsabilità di attori locali devono essere interpretate come prodotti storici e politici complessi. In gran parte questi conflitti rispondono alle esigenze di una rete di interessi che connette alcuni soggetti locali ad istituzioni economiche e politiche esterne, tagliando fuori grandi fette di popolazione locale che finisce col rimpinguare le schiere di sfollati o di rifugiati. È il segnale di una ristrutturazione politico-economica di tipo nuovo che lungi da essere espressione di una condizione primitiva rappresenta una condizione in gran parte inedita e originale del sistema politico economico contemporaneo. Dunque, molte delle guerre attuali rivelano questo legame con le risorse fondamentali: petrolio e diamanti in Angola; diamanti in Sierra Leone; rame, oro, diamanti, pietre preziose, cobalto, coltan e uranio nella Repubblica Democratica del Congo; petrolio e droghe in Nigeria; legname pregiato, gas naturale e pietre preziose in Myanmar; petrolio e coca in Colombia; petrolio, minerali, acqua e terra in Sudan; legname, zaffiri e rubini in Cambogia; gas naturale, legname e oro in Indonesia; diamanti e legname in Liberia; rame e minerali in Papua Nuova Guinea; laspislazzuli, smeraldi e oppio in Afghanistan; petrolio in Iraq. Per avere un’idea dell’entità di queste economie di guerra per le risorse si stima che durante la guerra dell’Angola il reddito per il traffico di diamanti è stato pari a oltre 4 miliardi di dollari; in Sierra Leone, il traffico di diamanti ha reso circa 125 milioni di dollari ogni anno; in Liberia il legname tropicale al centro della guerra ha reso tra i 100 e i 187 milioni annui; in Congo il commercio di coltan ha fruttato oltre 250 milioni di dollari; in Cambogia negli anni novanta il legname tropicale ha fruttato tra i 230 e i 390 milioni di dollari; in Birmania il traffico del legno durante i conflitti degli anni ’90 ha reso circa 112 milioni all’anno; in Colombia il traffico di cocaina rende sui 140 milioni di dollari annui; in Afghanistan fino alla guerra del 2001 il traffico di oppio e pietre preziose rendeva circa 100 milioni annui.21 Finché c’è richiesta nel mercato occidentale le guerre possono continuare all’infinito. Come dice Klare, si combatte per i ricchi della terra. I risultati di queste guerre per le risorse sono devastanti. Solamente tra il 1990 e il 2000 si calcola che siano morte almeno 5 milioni di persone per conflitti collegati alle risorse. 21 Fonte: Renner, 2003. 51 Esempi di conflitti legati alle risorse Afghanistan Angola Cambogia Colombia Congo (Rep. Dem. del) Equador/Perù Indonesia: Aceh Indonesia: West Papua Iraq Israele/Siria/Palestina Liberia Myanmar Nigeria Papua Nuova Guinea Sierra Leone Siria/Iraq Sud Africa/Angola Sudan 19791975-2002 1988-1997 194819961995 1976Metà ’60199119671989194819901988-1998 1991-2001 1974-1975 1975 1956- Oppio, lapislazzuli, smeraldi Diamanti, petrolio Legno, rubini, zaffiri Petrolio, coca Diamanti, oro, coltan, rame, cobalto, legno, caffè Acqua Gas naturale, legno Oro Petrolio Acqua Diamanti, legno Droga, legno, gas naturale, pietre preziose Petrolio Rame, minerali Diamanti Acqua Acqua Petrolio, minerali Nei fatti nessuno degli attori principali di questi conflitti ha interesse a portarle a termine: governi locali, eserciti, clan e boss locali, warlords, multinazionali, governi occidentali. Tutti guadagnano qualcosa dalla situazione, tutti godono di un “dividendo” della guerra per le risorse; tutti tranne naturalmente la popolazione e le comunità locali che vengono devastate nel loro ambiente umano e naturale. Si crea dunque un’economia di guerra, ovvero una dipendenza tra l’instabilità dovuta alla guerra e le opportunità di traffici economici criminali particolarmente redditizi. La situazione di mancanza di controllo democratico e di trasparenza, la totale deregulation, che si produce in questi conflitti facilita la concentrazione e la moltiplicazione dei conflitti. Dunque multinazionali, governi occidentali, eserciti mercenari, rappresentanti del mondo economico e finanziario internazionale, in realtà non hanno nessun interesse che la popolazione locale raggiunga un’autonomia democratica e che possa decidere autonomamente e democraticamente di se e come utilizzare quelle risorse. Al contrario hanno interesse a favorire e mantenere conflitti a bassa intensità, in modo tale che il disordine e la violenza impediscano il controllo, la regolazione e la sovranità democratica su quei territori e quei beni. In definitiva il principale strumento di cambiamento riposa sul lato della domanda. Come ha sottolineato Michael Renner, «C’è sempre maggiore consapevolezza del fatto che fino a quando le società consumiste continueranno a importare e usare materiali senza curarsi della loro origine né delle condizioni in cui sono stati prodotti, le risorse naturali continueranno ad alimentare sanguinosi conflitti» (Renner, 2002, p. 240). Dunque la questione essenziale da sottolineare è che senza un disarmo ecologico non ci sarà nessuna giustizia: «Giacché non c’è dubbio che la giustizia non può essere raggiunta ripercorrendo gli stessi livelli di consumo del Nord. La finitezza della biosfera proibisce di prendere lo standard di vita del Nord come misura per il benessere in generale. Il modello di benessere dei paesi ricchi non è capace di giustizia, non 52 può essere democratizzato in tutto il globo se non al prezzo di rendere il globo inospitale» (Sachs, 2002, p. 30). Il compito che attende le società democratiche è quello di inventare un benessere capace di giustizia. Questo dipenderà anche dalla capacità di riconvertire la nostra economia all’uso di risorse ecologiche rinnovabili che essendo disponibili dappertutto non dipendono dal controllo e dall’approvvigionamento presso fonti localizzate e remote. In senso più ampio si può notare che i tre termini in questione: pace, sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono fra loro inestricabilmente e profondamente connessi ed è del tutto illusorio se non ipocrita pensare di portare avanti l’uno lasciando da parte gli altri. Il compito che ci attende, dunque, è quello di ripensare in misura significativa il nostro modello socio-economico in modo da ridurre l’uso dello spazio ambientale globale, permetterne un uso equilibrato tra popoli e generazioni diverse e ridurre dunque il livello di competitività e di conflitto attorno alle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo Il caso della RDC (ex-Zaire)22 si inserisce all’interno di questa configurazione politica ed economica emergente dalle nuove guerre. La guerra per le risorse del Congo ha causato quasi 8 milioni di vittime in vent'anni. Si tenga conto del resto che la RDC, in termini di risorse, rappresenta uno dei paesi più ricchi al mondo. Può vantare infatti enormi riserve di oro, diamanti, coltan, petrolio, cobalto, uranio, cassiterite, wolframite, rame, caffè e legname pregiato. In particolare, il Congo rappresenta: - il 17% della produzione mondiale di diamante grezzi; - il 34% della produzione mondiale di cobalto; - il 10% della produzione mondiale di rame; - Il 4/5% della produzione di stagno; - infine il 60/80% delle riserve di coltan. La maggior parte di questi minerali si trovano nella zona del Nord e Sud Kivu. Può essere utile forse avere alcune informazioni relative all’importanza di questi materiali per l’industria e il commercio internazionale. Il cobalto è fondamentale per le produzioni dell’elettronica (trasformatori, trasduttori, testine di registrazione e hard disk) e dell’aeronautica (leghe strutturali). In generale è usato come matrice per “metalli duri” (cemented carbides) che trovano impiego nella lavorazione di acciai e di altre leghe ad elevate proprietà meccaniche. Il rame per la sua grande duttilità e conducibilità viene usato per l’industria elettrica ed 22 Sul caso del Congo si possono vedere: GLOBAL WITNESS, 2004, Rush and Ruin. The Devastating Mineral Trade in Southern Katanga, DRC, September; GLOBAL WITNESS, 2009, “Faced with a Gun What Can You Do?”. War and the militarization of mining in Eastern Congo, July; MONTAGUE Dena, 2002, Stolen Goods: Coltan and Conflict in the Democratic Republic of Congo, SAIS Reviev vol XXII, n. 1, Winter-Spring; NATIONS UNIES, DROITS DE L’HOMME Haut Commissariat, 2010, République démocratique du Congo, 1993-2003. Rapport du Projet Mapping concernant les violations les plus graves des droits de l’homme et du droit international humanitaire commises entre mars 1993 et juin 2003 sur le territoire de la République démocratique du Congo; RENAULD Anne, 2005, République Démocratique du Congo. Ressources Naturelles et Transferts d’Armes, Groupe de recherche et d’information sur la paix et la sécurité (GRIP), Bruxelles. Si veda anche la puntata di Report: Furto di Stato http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-22500777-a7e9-406e-b38de2ed5ba0e5e8.html 53 elettronica, dalla produzione e trasporto di energia alla costruzione di parti di motori e generatori, o nel campo dell’illuminazione o delle telecomunicazioni (fili e cavi elettrici, fibre ottiche ecc.). Viene usato anche per la produzione di alcune leghe, tra cui l’Ottone e il Bronzo. La cassiterite è fondamentale per la produzione di stagno che viene normalmente usato per produrre latte per la conservazione dei cibi ed è divenuto strategico per la produzione di barrette per la saldatura e leghe per l’industria elettronica, importanti in produzioni come gli Mp3 players. La wolframite serve per produrre il tungsteno, utilizzato principalmente per realizzare i filamenti delle comuni lampadine è importante anche nella produzione di “metalli duri” usati per fabbricare trivelle per rocce (e quindi strumenti per l’industria mineraria). È utilizzato inoltre per produrre leghe e acciai e per la funzione di allarme in vibrazione per i telefoni cellulari. Il coltan, un composto da colombite e tantalite, da cui si estrae il tantalio usato per strumenti chirurgici, protesi (ossa artificiali e protesi dentarie). Viene utilizzato anche per costruire microcondensatori per dispositivi portatili quali cellulari, cercapersone, computer, palmari, videocamere e anche la Play Station. Viene usato inoltre negli impianti elettronici delle automobili e nei sistemi airbag. Il prezzo del coltan ha avuto una svolta attorno al 2000. È passato da 65 dollari al Kg nel 1998 a 550 nel 2000 (per poi decrescere a partire dal 2001). Si calcola che tale commercio durante gli anni di guerra abbia fruttato oltre 250 milioni di dollari. Il rapporto ONU sulla RDC (NATIONS UNIES, 2010) sottolinea tre tipi di violenza legati all’economia delle risorse: A) La lotta per l’accesso e il controllo delle zone più ricche, così come delle strade, dei posti di frontiera, e dei centri di commercio. B) La violazione dei diritti dell’uomo commessi dai gruppi armati una volta occupata stabilmente una zona economicamente ricca. Quindi un regime di terrore e coercizione, ricorso al lavoro forzato, utilizzazione di bambini per il lavoro, violenze sessuali, torture, deportazione forzata di popolazione, condizioni di lavoro terribilmente pericolose. C) Il finanziamento dei conflitti grazie agli immensi profitti ricavati dallo sfruttamento delle risorse naturali (ma anche al commercio delle armi). Stando al rapporto le violazioni più gravi di diritti umani e internazionali sono state nelle province di Nord-Kivu e sud-Kivu, Manierma, provincia Orientale e Katanga. In queste zone interi villaggi sono stati distrutti e bruciati e le popolazioni deportate. In molti casi la popolazione dedita all’agricoltura è stata costretta a dedicarsi all’estrazione di risorse. Sono stati impiegati anche migliaia di bambini, costretti al lavoro forzato, per l’estrazione. Queste stesse zone sono state anche il terreno di azioni sistematiche di violenze sessuali. In Congo tutte le principali parti belligeranti sono risultate fortemente implicate nel commercio dei minerali del Nord e Sud-Kivu. Questa pratica non si limita ai gruppi ribelli. Anche i militari dell'esercito nazionale congolese e i loro comandanti partecipano anch'essi all'attività mineraria di queste due province. Le imprese di stato (MIBA, Gécaminese, OKIMO e le petrolifere) hanno fatto affari d’oro sotto Kabila. Ma anche i paesi vicini quali il Rwanda e l’Uganda hanno approfittato di questa economia di guerra. Nei fatti l’estrazione artigianale, informale e non regolamentare effettuata da più di un milione di persone ha coperto in questi anni fino al 90% della produzione minerale. Il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha descritto la situazione come una gigantesca impresa in cui tutti i belligeranti traggono guadagni, quella condizione che in letteratura viene descritta come “win-win situation”. In questo caso ovviamente a perderci è “solo” il popolo congolese. 54 È evidente dunque, che malgrado il conflitto si sia strutturato lungo fratture di tipo etnico, le cause profonde del conflitto sono principalmente economiche. E questo si vede anche dal fatto che anche tra i contendenti ci sono stati scambi e commerci economici durante la guerra. In altri termini il fatto di combattersi non ostacolava (o forse facilitava) gli affari. Il rapporto sottolinea che le imprese di Stato come la MIBA, la Gécamines, l’OKIMO e le compagnie petroliere hanno finanziato direttamente lo sforzo bellico del Governo; d’altra parte il gruppo di esperti delle Nazioni Unite non si espone nell’indicare i referenti stranieri per questo tipo di commerci. Per ricostruire questa rete ci si può basare sui diversi rapporti di Global Witness (2009 e 2004). Il rapporto del 2009, “Faced with a Gun What Can You Do?”. War and the militarization of mining in Eastern Congo, sottolinea che gli acquirenti sono in gran parte società belghe (Trademet, Traxys, SD, STI, Specialty Metals). In particolare: - per quanto riguarda la cassiterite, oltre le società belghe sopracitate si segnala la Thailand Smelting and Refining Corporation (THAISARCO) quinto produttore mondiale di stagno che fa parte del gigante britannico AMC Group; la Afrimex registrata nel Regno Unito e la MPA, filiale ruandese della sudafricana Kivu Resources; quindi La Malaysian Smelting Corporation Berhad (quarto produttore di stagno) e altre imprese con sede in Austria, Cina, India, Paesi Bassi, Russia. - per quanto riguarda il coltan: i più grossi importatori erano Traxys, THAISARCO e delle imprese con base a Hong Kong e in Sud Africa. - per quanto riguarda la wolframite: troviamo ancora le società belghe Trademet, e Specialty Metals, quindi Afrimex, THAISARCO e imprese registrate nei Paesi Bassi, Cina, Austria, Emirati Arabi Uniti e Russia. - per quanto riguarda l’oro: gran parte delle esportazioni sono illegali e non vengono registrate. Il dato di fondo è dunque quello di un regime di impunità generalizzato per quanto riguarda i crimini connessi allo sfruttamento delle risorse. C’è una spregiudicatezza da parte delle imprese e d’altra parte risulta estremamente difficile inchiodarle alle loro responsabilità. In sintesi, si può dire che finché c’è richiesta nel mercato occidentale guerre come quella del Congo o comunque forme di violenza strutturale possono continuare all’infinito. Questo fatto apre un interrogativo profondo sul senso della parola democrazia. Nella tradizione politica democratica, infatti, il comportamento delle imprese private che agiscono all’estero è a tutti gli effetti sottratto al controllo democratico e configura un sistema di pressoché totale irresponsabilità. Dare una possibilità ai costruttori di pace, significa oggi, reinterrogare l’idea di democrazia, richiamando un’idea di relazione e una nuova responsabilità che ci lega a ciò che avviene anche molto lontano dai nostri ristretti confini nazionali. 55 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu IL CAMBIAMENTO CLIMATICO Il cambiamento climatico, o come si dice con minore accuratezza, il riscaldamento globale, rappresenta oggi forse la più drammatica emergenza ambientale del nostro tempo. Come si legge nel primo volume del V Assessment Report dell'IPCC: «Il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, e a partire dagli anni '50, molti dei cambiamenti osservati sono senza precedenti su scale temporali che variano da decenni a millenni. L'atmosfera e l'oceano si sono riscaldati, la quantità di neve e ghiaccio e diminuita, il livello del mare si è alzato, e le concentrazioni di gas serra sono aumentate»23. «Ciascuna delle ultime tre decadi sono state in successioni le più calde nella superficie terrestre rispetto ad ogni altro decennio dal 1850. Nell'emisfero settentrionale, il periodo 1880-2012 è stato probabilmente il più caldo trentennio degli ultimi 1400 anni»24. Stimando la tendenza lineare, la temperature media superficiale globale della terra e degli oceani è aumentata di 0,85°C (range tra 0,65 – 1,08°C) nel periodo 1880–2012. Dunque la situazione in cui ci troviamo è molto grave per diversi motivi. Intanto per la vastità dei suoi effetti: esso riguarda tutto il pianeta e tutti gli ecosistemi. Certamente ci sarà chi è più colpito, ma nessun ne sarà risparmiato. In secondo luogo per la profondità delle sue conseguenze: causa di eventi climatici estremi, dell’innalzamento del mare, della morte o della migrazione di molte specie e popolazioni a causa della variazione delle temperature, distruzione di raccolti ecc. Inoltre per la non linearità dei processi che innesca. Si stanno già osservando una serie di effetti a catena, nonché dei meccanismi di feedback positivo che amplificano terribilmente questi cambiamenti. In gran parte non riusciamo nemmeno a immaginare questi effetti non-lineari. Infine per la durevolezza dei cambiamenti che produce. Una volta innescati una serie di processi e realizzate delle modificazioni, questi effetti non saranno immediatamente o completamente reversibili. Le forme di vita scomparse non 23 IPCC 2013, Climate Change 2013: The Pshysical Science Basis. Contribution of Working Group 1 to the Fifth Assessment Report of the Intertergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, New York, p. 4. 24 Ivi, p. 5. 56 potranno essere riportate in vista mentre per rimediare ad alcuni disequilibri negli ecosistemi occorrerà molto tempo. Tutto questo del resto produce un enorme problema di giustizia e responsabilità ambientale verso le generazioni future, i nostri figli, i nostro nipoti e chiunque verrà dopo di noi. Le scelte che oggi prendiamo saranno cruciali anche in prospettiva per le generazioni future. Gran parte delle consapevolezze che oggi abbiamo in questo campo sono dovute agli studi scientifici. In termini di diffusione di informazioni l'organismo più autorevole è Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) - Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico. Si tratta di un foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP) per condividere e sistematizzare i risultati delle ricerche e la comprensione del cambiamento climatico e anche per fare da interfaccia tra ricerca scientifica e decisori politici. L'IPCC non fa ricerca in quanto tale ma raccoglie, integra, sintetizza e divulga lo stato della conoscenza scientifica fin ora raggiunta. L'organismo è diviso in tre gruppi di lavoro: il gruppo di lavoro I si occupa delle basi scientifiche dei cambiamenti climatici; il gruppo di lavoro II si occupa degli impatti dei cambiamenti climatici sui sistemi naturali e umani, delle opzioni di adattamento e della loro vulnerabilità; il gruppo di lavoro III si occupa della mitigazione dei cambiamenti climatici, cioè della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. L'IPCC pubblica periodicamente dei rapporti con i dati, le informazioni e le analisi più aggiornate relative ai mutamenti climatici, al loro impatto e alle possibili azioni di contenimento, mitigazione, adattamento. Tali rapporti sono dunque particolarmente importanti per i governi e per gli organismi internazionali, e sono alla base di accordi quali la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e il Protocollo di Kyōto. L'IPCC è stato guidato da Robert Watson e a partire dal 2002 da Rajendra K. Pachauri. In Italia l'organismo è rappresentato dal Prof. Sergio Castellari senior scientist del Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici. Nell'ottobre del 2007 ha ricevuto il premio per la pace assieme a Al Gore per l'impegno per diffondere la conoscenza sui cambiamenti climatici. Fin'ora sono stati pubblicati i seguenti rapporti di valutazione: I Assessment Report (Primo Rapporto di Valutazione) - 1990 II Assessment Report (Secondo Rapporto di Valutazione) - 1995 III Assessment Report (Terzo Rapporto di Valutazione) - 2001 IV Assessment Report (Quarto Rapporto di Valutazione) - 2007 V Assessment Report (Quinto Rapporto di Valutazione) - 2013/14 Le cause del cambiamento climatico sono differenti, alcune naturali alcune artificiali. Tra le prime si può citare ad esempio la naturale variazione della radiazione solare, o le complesse interazioni tra le diverse componenti del sistema climatico o ancora le eruzioni vulcaniche. Tra le seconde possiamo citare le immissioni di gas serra (i cosidetti “climalteranti”), l’immisione di aereosols, e la modificazione della superficie terrestre, per esempio con la diminuzione delle foreste o la diminuzione dell’albedo (ovvero della capacità di riflettere la radiazione solare). Negli ultimi anni gli scienziati si sono sempre più convinti che il principale responsabile (al 90-95%) del cambiamento climatico è l’essere umano, attraverso le emissioni di gas climalteranti. Tra questi possiamo citare il biossido di carbonio (CO2), il metano, il protossido di azoto, i clorofuorocarburi. 57 Cerchiamo di capire nella maniera più semplice possibile dove nasce il problema. Il clima è connesso all’assorbimento dell’energia solare. Contrariamente a quando si può pensare il problema non è l’effetto serra in sé, che è una componente fondamentale dell’equilibrio naturale, senza il quale moriremmo di freddo; il problema è il rapido aumento di questo effetto. In breve: c’è uno strato di gas nell’atmosfera che di fatto agisce come una specie di La CO2 in atmosfera è ai livelli più elevati degli ultimi 800.000 anni Fonte: IPCC, 2009, The Physical Science Basis of Climate Change: Latest Findings to be Assessed by WGI in AR5 manto isolante che lascia penetrare i raggi solari. Questi vengono assorbiti dalla Terra e quindi vengono riflessi e rimandati indietro con onde di lunghezza superiore. I gas serra assorbono una parte di questo calore e lo trattengono nelle fasce più basse dell’atmosfera. Tuttavia se la concentrazione di questi gas serra aumenta, allora viene trattenuta una maggiore quantità di calore, dunque la temperatura atmosferica e sulla superficie terrestre aumenta sensibilmente. 58 Concentrazioni in atmosfera di CO2, metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) negli ultimi 2000 anni Fonte: Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC), 2007, Quarto Rapporto sul Clima (AR4), Primo Gruppo di lavoro (WG1), Capitolo 2. www.ipcc.ch. Ci sono diverse componenti che concorrono all’emissione di CO2. Ed in particolare le attività residenziali e commerciali contribuiscono con circa il 14%, le attività industriali con circa il 20%, i trasporti con circa il 24% e la produzione di energia elettrica con circa il 42%. I livelli attuali di concentrazione di CO2 sono i più alti degli ultimi ottocento mila anni. Secondo le ultime rilevazioni nel febbraio 2015 la CO2 ha raggiunto le 400.26 ppm.25 Allo stesso tempo anche le concentrazioni di metano e di protossido di azoto sono cresciute enormemente negli ultimi duemila anni. Il livello di metano (CH4) è cresciuto del 145% al di sopra dei livelli naturali. È prodotto dalla deforestazione, dalla decomposizione dei rifiuti, dalla produzione di riso e dal bestiame. Anche lo scioglimento del permafrost o permagelo, ovvero il suolo perennemente ghiacciato delle regioni artiche può aumentare le emissioni di metano. Il protossido di azoto (N2O) è cresciuto del 15%, a causa soprattutto dell’impiego massiccio di fertilizzanti chimici in agricoltura industriale. Infine i clorofluorocarburi (Cfc) sono gas che vennero fabbricati a partire dagli anni ’30 per usi quali la refrigerazione, la climatizzazione, per gli spray nebulizzanti e gli schiumogeni. Il loro contributo al riscaldamento è molto più grande della CO2. Negli scorsi decenni una grande campagna di pressione ha portato al graduale abbandono di questi gas, ma anche quelli già emessi dureranno migliaia di anni. Con questi dati non stupisce dunque il fatto che negli ultimi vent’anni il ritmo di cambiamento è stato particolarmente rapido. Nell’ultimo secolo la temperatura media globale è aumentata di circa 0.7°. Le temperature del primo decennio del XXI secolo non hanno precedenti negli ultimi 2000 anni. Il mutamento climatico non riguarda dunque solamente il futuro ma il nostro presente. 25 Si veda il sito in costante aggiornamento: http://co2now.org/ 59 Le proiezioni climatiche prevedono che la temperatura media globale superficiale atmosferica entro il 2100 potrebbe variare in un intervallo, dipendente dagli scenari applicati e dai modelli usati, da 1,1 °C a 6,4 °C. 60 Questo cambiamento avrà numerosi effetti che vanno dallo scioglimento dei ghiacci (il problema non è tanto con quelli marini ma con quelli terrestri), l’innalzamento dei livelli marini, l’aumento dei fenomeni climatici estremi, l’alterazione dei cicli stagionali, fenomeni di inaridimento e desertificazione, impatto sulla produzione agricola e alimentare, creazione di rifugiati climatici ecc… Proiezioni dell’aumento delle temperature globali Le proiezioni climatiche prevedono che la temperatura media globale superficiale atmosferica nel 2100 potrebbe variare in un intervallo, dipendente dagli scenari applicati e dai modelli usati, da 1,1 °C a 6,4 °C. LE ACQUISIZIONI DEL V ASSESSMENT REPORT DELL'IPCC26 Dati sintetici tratti dalla presentazione del rapporto fornita da Sergio Castellari, referente italiano del IPCC: È “estremamente probabile” che più della metà dell’aumento osservato della temperatura superficiale dal 1951 al 2010 sia stato provocato dall’effetto antropogenico sul clima (emissioni di gas-serra, aerosol e cambi di uso del suolo). Questo ha provocato il riscaldamento degli oceani, la fusione di ghiacci e la riduzione della copertura nevosa, l’innalzamento del livello medio globale marino e modificato alcuni estremi climatici nella seconda metà del XX secolo (“confidenza alta”). Questo effetto antropogenico è confermato in maniera più dettagliata rispetto all’AR4 (IV Assessment Report) mediante la stima del forzante radiativo (la perturbazione del bilancio energetico planetario) di ogni possibile driver dei cambiamenti climatici. Per la 26 Si veda in particolare il rapporto del Working Group I: IPCC 2013, Climate Change 2013: The Pshysical Science Basis. Contribution of Working Group 1 to the Fifth Assessment Report of the Intertergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, New York. 61 prima volta è stato stimato anche il forzante radiativo dei “gas-serra di breve durata” come il monossido di carbonio (CO) e gli ossidi di azoto (NOx). I risultati mostrano che il forzante radiativo totale causato da attività antropogeniche è positivo ed è 2.29W/m2 nel periodo 1750 – 2011, molto più grande di quello causato dalla attività solare nel medesimo periodo (0.05 W/m2). Temperatura: Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, quando sono iniziate le misure termometriche a livello globale. L’ultimo decennio è stato il più caldo. In base alle analisi dei record paleoclimatici, il periodo 1983–2012 “probabilmente” è il periodo di 30 anni più caldo degli ultimi 1400 anni (“confidenza media”). Stimando la tendenza lineare, la temperature media superficiale globale è aumentata di 0,85°C (range tra 0,65 – 1,08°C) nel periodo 1880–2012. L’aumento totale della temperatura media globale superficiale tra la media 1850-1900 e la media 2003-2012 è 0,78°C (0,72 – 0,85). Precipitazione: Nelle terre emerse alle medie latitudini la precipitazione è aumentata dal 1901 ed in particolare dal 1951 (“confidenza media” prima del 1951 poi “confidenza alta”). Mentre nelle altre aree del pianeta i dati di precipitazione non sono sufficienti o non sono disponibili per una valutazione dei cambiamenti a lungo termine. Eventi estremi: Dal 1950 sono stati osservati cambiamenti negli eventi estremi meteorologici e climatici: • a livello globale “molto probabilmente” il numero di giorni e notti fredde è diminuito e il numero di giorni e notte calde è aumentato; • in alcune aree del pianeta la frequenza di ondate di calore “probabilmente” è aumentata in vaste aree dell’Europa, Asia e Australia; • ci sono “probabilmente” più terre emerse con un aumento del numero di eventi di intensa precipitazione che con una diminuzione del loro numero. • in Europa e Nord America la frequenza o l’intensità di forte precipitazione è “probabilmente” aumentata. Oceani: È “virtualmente certo” che l’oceano superficiale (0–700 m) si sia riscaldato durante gli ultimi decenni del 1971-2010. Nel periodo 1971-2010 il riscaldamento oceanico si manifesta in forma accentuata superando 0.11°C/decennio (tra 0,09 e 0,13) nei primi 75m. È “probabile” che gli oceani tra i 700m e 2000m si sono riscaldati nel periodo 19572009. È “probabile” che gli oceani si siano riscaldati anche a profondità oltre i 3000m dal 1992 al 2005 con valori maggiori nell’emisfero sud. Criosfera: Le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide hanno perso massa negli ultimi due decenni. I ghiacciai si sono ridotti quasi in tutto il pianeta e la diminuzione stagionale estiva della banchisa artica sta aumentando. La calotta glaciale in Groenlandia ha perso massa in maniera più veloce negli ultimi anni: “molto probabilmente“ il tasso medio di diminuzione è aumentato da 34 Gt/anno in 1992-2001 a 215 Gt/anno in 2002-2011. Le calotte glaciali in Antartide hanno perso massa negli ultimi due decenni Il tasso di diminuzione della calotta glaciale in Antartide è “probabilmente” aumentato da 30 Gt/anno in 1992-2001 a 147 Gt/anno in 2002-2011. Questa diminuzione è 62 concentrata principalmente nella Penisola Antartica Settentrionale e nel Mare Amundsen nell’Antartide Occidentale (“confidenza alta”). L’estensione annuale media della banchisa artica (ghiaccio marino) è diminuita nel periodo 1979-2012 “molto probabilmente” di 3.5 - 4.1% per decennio (range di 0.45 - 0.51 million km2 per decennio) e “molto probabilmente” di 9.4 - 13.6% per decennio (range di 0.73 1.07 million km2 per decennio) per il minimo estivo. Questa diminuzione è più accentuata in estate, ma è evidente in tutte le stagioni. La copertura nevosa nell’emisfero nord è diminuita da metà del secolo scorso. Nell’emisfero nord nel periodo 1967-2012 il valore medio dell’estensione della copertura nevosa è diminuito di 1,6% per decennio nei mesi di marzo e aprile e di 11,7% per decennio nel mese di giugno. Le temperature del permafrost sono cresciute in molte aree del pianeta fin dagli anni 80 (“confidenza alta”). Livello del mare: Il livello globale medio del mare è cresciuto di 0.19 m (0.17 - 0.21 m) nel periodo 1901−2010 (mediante una stima di una tendenza lineare). Basandosi su ricostruzioni paleoclimatiche, è “virtualmente certo” che il tasso di innalzamento del livello globale medio marino ha accelerato negli ultimi due secoli. È “molto probabile” che il tasso medio di innalzamento del livello globale medio marino sia: • 1.7mm/anno nel periodo 1901-2010 • 3.2mm/anno nel periodo 1993-2010. Gas serra e aerosol: La concentrazione atmosferica globale di CO2 è aumentata di circa 40% dal 1750. Questo aumento è stato causato dall’uso dei combustibili fossili, dalla deforestazione e da un piccolo contributo della produzione cementifera. Tutte le attuali concentrazioni atmosferica globali di CO2, metano (CH4), protossido di azoto (N2O) sono maggiori delle concentrazioni registrate nei carotaggi di ghiaccio negli ultimi 800000 anni. Le concentrazioni atmosferiche globali dei gas CO2, CH4, N2O sono cresciute rispettivamente di circa il 40%, 150%, e 20% dal 1750. Dal 1750 al 2011 le emissioni di CO2, provocate dall’uso dei combustibili fossili e dalla produzione cementifera, hanno rilasciato in atmosfera 365 miliardi di tonnellate di carbonio (o PgC3), mentre la deforestazione e altri cambi di uso del territorio hanno rilasciato in atmosfera 180 miliardi di tonnellate di carbonio. Le emissioni cumulative antopogeniche sono 545 miliardi di tonnellate di carbonio Considerando le totali emissioni accumulate antropogeniche dal 1750 al 2011 sono 545 miliardi di tonnellate di carbonio: 240 di queste si sono accumulate nell’atmosfera. 155 negli oceani e 150 negli ecosistemi naturali terrestri. L’assorbimento oceanico della CO2 di origine antropogenica provoca acidificazione oceanica: Il pH marino è diminuito di 0,1 dall’inizio dell’era industriale causando un aumento del 26% nell’acidificazione oceanica (“confidenza alta”). I futuri cambiamenti climatici globali e regionali: Le emissioni di gas serra che continuano a crescere provocheranno ulteriore riscaldamento nel sistema climatico. Il riscaldamento causerà cambiamenti nella temperatura dell’aria, degli oceani, nel ciclo dell’acqua, nel livello dei mari, nella criosfera, in alcuni eventi estremi e nella acidificazione oceanica. Molti di questi cambiamenti persisteranno per molti secoli. 63 L’aumento della temperatura media globale alla superficie (TMGS) per il periodo 2016–2035 “probabilmente” sarà nel range di 0.3°C - 0.7°C per tutti i quattro RCP. È “molto probabile” che le ondate di calore accadranno con maggior frequenza e durata. Le proiezioni climatiche, infatti, mostrano che entro la fine di questo secolo la temperatura globale superficiale del nostro pianeta probabilmente raggiungerà 1.5oC oltre il livello del periodo 1850 - 1900 secondo tutti gli scenari RCP eccetto RCP2.6. Senza serie iniziative mirate alla mitigazione e alla riduzione delle emissioni globali di gas serra, l’incremento della temperatura media globale rispetto al livello preindustriale potrà superare i 2oC e arrivare anche oltre i 5oC. In particolare, l’aumento della Tmgs alla fine di questo secolo (media 2081–2100) rispetto a questi anni (1986–2005) probabilmente può crescere nei range; 0.3°C - 1.7°C (RCP2.6), 1.1°C - 2.6°C (RCP4.5), 1.4°C - 3.1°C (RCP6.0), 2.6°C - 4.8°C (RCP8.5). Il riscaldamento (TMGS) sarà più accentuato nelle aree subtropicali e tropicali del pianeta Il livello globale medio marino continuerà a crescere durante il XXI secolo e queste proiezioni sono considerate più adeguate dalla comunità scientifica rispetto a quelle presentate nell’AR4 perché riproducono meglio le osservazioni e includono la dinamica rapida di fusione delle calotte glaciali (ice-sheet rapid dynamical changes). L’innalzamento del livello medio globale marino per il 2100 sarà “probabilmente” nel range di: • 0.26 - 0.55 m (RCP2.6) • 0.32 - 0.63 m (RCP4.5) • 0.33 - 0.63 m (RCP6.0) • 0.45 - 0.82 m (RCP8.5) In queste proiezioni di innanzamento del livello medio marino, la espansione termica vale per il 30 - 55% e o la fusione dei ghiacciai per il 15 - 35%. Secondo le proiezioni climatiche la precipitazione media “probabilmente” diminuirà in molte aree secche alle medie latitudini e in molte aree secche subtropicali, mentre in in aree umide alle medie latitudini “probabilmente” aumenterà entro la fine di questo secolo (scenario RCP8.5). In un pianeta più caldo eventi estremi di precipitazione nella maggior parte delle terre emerse alle medie latitudini e nelle aree umide tropicali “molto probabilmente” diventeranno più intensi e più frequenti entro la fine di questo secolo. Secondo tutti i quattro scenari gli oceani continueranno a riscaldarsi e a causa della loro capacità termica continueranno per secoli, anche se le emissioni di gas serra diminuiranno o le concentrazioni di gas serra rimarranno costanti. È “molto probabile” che in questo secolo la banchisa artica continuerà a ridursi e ad assottigliarsi e anche la copertura nevosa nell’emisfero settentrionale continuerà a diminuire con l’aumento della temperature globale. È “virtualmente certo” che la copertura di permafrost nelle alte altitudini si ridurrà. Il volume dei ghiacciai diminuirà in tutti gli scenari. È “virtualmente certo” che l’assorbimento di carbonio negli oceani causerà un aumento della acidificazione oceanica. 64 Al fine di limitare l’entità di questi impatti le emissioni di CO2 e degli altri gas serra devono essere ridotte in maniera sostanziale. Limitare il riscaldamento globale causato dalle emissioni antropogeniche di CO2 a meno di 2oC rispetto ai livello preindustriali richiederà che le emissioni cumulative di CO2 di tutte le sorgenti antropogeniche rimangano sotto i 1000 GtC. 545 GtC sono già state emesse entro il 2011. 65 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu CAMBIAMENTO CLIMATICO E CONSEGUENZE SOCIALI: PROSPETTIVE SCIENTIFICHE, TECNOLOGICHE E POLITICHE L’ERA DELL’ANTROPOCENE Nel 1873, un geologo italiano, l’abate Antonio Stoppani, professore del Museo di Storia naturale di Milano, parlò per primo di una «nuova forza tellurica che per la sua potenza e la sua universalità può essere comparata alle grandi forze della terra». Nel 1926, Vladimir I. Vernadsky, nel suo libro La Geochimica scrisse «Ma nella nostra epoca geologica – era psicozoica, era della ragione - si manifesta un fatto geochimica di importanza capitale. […] È l’azione della coscienza e dello spirito collettivo dell’umanità sui procesi geochimici. L’uomo ha introdotto una nuova forma d’azione della materia vivente con la materia bruta». Queste intuzioni furono riprese dal chimico Paul J. Crutzen autore di alcuni importanti studi sulla chimica dell’atmosfera che hanno portato a riconoscere e comprendere il problema del buco dell’ozono e alla messa al bando dei clorofluorocarburi (Cfc) che gli valsero nel 1995 il premio Nobel. Secondo Crutzen l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, «l’epoca geologica dell’uomo»: «A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente» (Crutzen, 2007, p. 25). In effetti, le emissioni di Co2 sono aumentate nel corso di due secoli del 30%, il metano è più che raddoppiato, la temperatura si alza, i ghiacciai si sciolgono, l’atmosfera diventa più opaca, nello strato di ozono si è aperto un buco in corrispondenza del Polo Sud (causato dai Cfc), una nube bruna di gasi inquinanti (anidride carbonica, ossi d’azoto e ozono, e particelle minuscole dette areosol) sta ricoprendo i cieli dei tropici, mentre le foreste diminuiscono progressivamente e il suolo fertile si riduce sempre più. L’essere umano è oramai a tutti gli effetti una forza geologica in grado di modificare l’aspetto globale della terra. Nel XX secolo abbiamo spostato circa 40 miliardi di roccia all’anno, circa 40 volte di più di quanto non possa fare l’erosione del vento o 10 volte di più dei ghiacciai. E perfino più dei 30 miliardi di tonnellate di materia eruttati ogni anno dai vulcani oceanici. Secondo Crutzen noi oramai «siamo capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, 66 dell’azoto e del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni» (Crutzen, 2007, pp. 25-26). La specie umana, insomma, è diventata improvvisamente centrale nella determinazione degli equilibri della Terra e del clima, è forse il fattore più determinante. Oramai abbiamo modificato fra il 30 e il 50% della superficie della terra. Secondo Crutzen l’inizio dell’Antropocene comincia con la rivoluzione industriale e con la capacità dell’uomo tecnologico moderno di sfruttare con molta più facilità le risorse ambientali. A partire dal 1784, quanto l’ingegnere scozzese James Watt inventò il motore a vapore - oppure restringendo il periodo come suggerisce Jacques Grinevald a partire dagli sessanta del IX° secolo - fino ad oggi abbiamo determinato una rapida e profonda modificazione degli equilibri de pianeta. Nei fatti in poche generazioni – nota ancora Crutzen - abbiamo bruciato combustibili fossili che si erano formati nel corso di molti milioni di anni. L’anidride solforosa è aumentata nell’ultimo secolo di tredici volte, arrivando alla cifra di 180 milioni di tonnellate all’anno, dovute soprattuto alla combustione del petrolio e del carbone, causando un forte inquinamento dell’aria. Di fronte a questa nuova condizione possiamo dire che dobbiamo divenire più responsabili di quello che facciamo. Dobbiamo dunque assumerci una nuova responsabilità. Tuttavia, come ha notato acutamente Jean Pierre Dupuy, «la consapevolezza della nostra responsabilità molto probabilmente accrescerà a dismisura l’orgoglio di partenza. A furia di convincerci che la salvezza del mondo è nelle nostra mani e che l’umanità ha nei propri confronti il dovere di salvare se stessa, corriamo il rischio di gettarci sempre più a capofitto in quella fuga in avanti, in quel grande moto panico cui somiglia ogni giorno di più la storia mondiale» (Dupuy, 2006, p. 7) Questo orgoglio antropocentrico, questa convinzione di poter comunque governare ed aggiustare le cose rischia di essere la nostra condanna piuttosto che una via di uscita, perché ci fa credere che possiamo continuare sulla stessa strada solamente con qualche aggiustamento tecnico, con qualche sostituzione tecnologica anziché convincerci a cambiare rotta e a rimettere in discussione la nostra stessa civiltà moderna. Tutta la nostra conoscenza scientifica, tutto il suo potere tecnologico oggi appare sempre più evidentemente preso in una spirale autodistruttiva. Siamo dentro una cultura che oramai si riduce a pensare a palliativi per ridurre l’inquinamento di un poco, di contenere il riscaldamento climatico di qualche grado, di ritardare un poco l’esaurimento di questa o quella risorsa. Lo stesso Paul Crutzen, citato prima, termina il suo libro con un ragionamento preoccupante che conferma le ambituità di questo pensiero: «Già oggi, l’Antropocene è caratterizzato dall’impronta dell’uomo, domani potrà esserne plasmato in maniera consapevole, e i nostri discendenti potranno ambire alla costruzione di un mondo su misura. Gli ingegneri del clima impareranno a produrre piogge artificiali, o a inibire le precipitazioni, a ricavare acqua dolce dal mare per mezzo di processi di desalinizzazione e trasformare i i deserti in aree verdi. Soprattutto, cercheranno di addomesticare l’effetto serra, di aumentalo o diminuirlo secondo le necessità» (Crutzen, 2007, pp. 130-131). Questa riflessione sull’ingegneria climatica non è una faccenda buttata lì, senza pensare. Rispecchia esattamente un indirizzo presente nel mondo scientifico, 67 tecnologico e politico. E un indirizzo che rischia di attrarre grande interesse e montagne di soldi nell’immediato futuro. In Europa e in America c’è già chi propone di investire sull’adattamento al mutamento climatico. Ci sono scienziati che propongono di intervenire già in un ottica di mega progetti di “ingegneria climatica” modificando artificialmente e localmente il clima. Recentemente due libri hanno affrontato il problema delle prospettive sociopolitiche conseguenti ai cambiamenti climatici da diversi punti di vista. Mi riferisco a Guerre climatiche di Harald Welzer e Le guerre del clima di Gwynne Dyer27. I due libri partono da assunti abbastanza simili. Entrambi riconoscono la limitatezza delle misure fin ora intraprese per ridurre le emissioni, e prendono atto che data la rapida velocità dell’incremento di queste ultime il riscaldamento climatico procederà probabilmente nettamente al di sopra della soglia dei due gradi che la maggior parte degli scienziati poneva come limite oltre i quali i cambiamenti sarebbero risultati incontrollabili. Entrambi si concentrano sulle conseguenze sociopolitiche legate a questi cambiamenti e ipotizzano degli scenari geopolitici decisamente drammatici dovuti a: - Carenze di scorte alimentari; - Acidificazione degli oceani; - Diminuzione di disponibilità di acqua potabile; - Aumento della desertificazione e della salinità dei terreni; - Inondazioni causate dalle alterazioni climatiche; - Migrazioni di massa e profughi climatici - Conflitti per le risorse; - Moltiplicazione di occasioni di violenza (guerre climatiche). Entrambi mettono in luce il fatto che i mutamenti climatici si tradurranno in un vistoso aumento delle catastrofi sociali che colpiranno fra l’altro in modo disuguale i paesi più ricchi e responsabili di questo stato di fatto e i paesi meno responsabili ma anche meno attrezzati a fare fronte ai disastri climatici. Noi non siamo abituati a pensare che queste emergenze possano colpire anche noi, ma Welzer ci mette sull’avviso: «una fase di prosperità che ormai dura nei paci occidentali da due generazioni fa si che si ritenga la stabilità ciò che è lecito attendersi e l’instabilità ciò che è da escludere. Se si è cresciuti in un mondo in cui non ha mai avuto luogo una guerra, non sono mai state distrutte delle infrastrutture a causa di terremoti, non c’è mai stata fame, si ritengono la violenza di massa, il caos e la povertà problemi che riguardano gli altri»28. Entrambi pensano che in queste condizioni la pressione per soluzioni rapide si farà più intensa. Entrambi pensano che questo stimolerà l’uso della violenza. E Dyer ricorda come gli scenari legati al cambiamento climatico giocano un ruolo sempre più importante nella pianificazione militare delle grandi potenze. In altre parole sono le agenzie militari e di sicurezza le prime a basarsi su scenari realistici di tensioni o conflitti dovuti a mutamenti climatici. 27 Harald Welzer, Guerre climatiche, Asterios, Trieste, 2011; Gwynne Dyer, Le guerre del clima, Tropea, Milano, 2012. 28 Welzer, op. cit, p. 207. 68 Tuttavia l’approccio al problema e le vie di uscita delineate da questi due studiosi sono profondamente differenti. Dyer ritiene del tutto irrealistica la possibilità di contenere le emissioni e il riscaldamento climatico e confida in primo luogo sulle possibilità tecnologiche ovvero sulle soluzioni di geoingegneria climatica. Dyer ne presenta in rassegna diverse possibilità. C’è la proposta sostenuta dal Nobel Paul Crutzen l’immissione nella stratosfera di anidride solforosa che aiuti a creare uno scudo di aerosol che rifletta in parte i raggi solari, diminuendo la temperatura media terrestre di 0,5 °C per due anni. Lo zolfo può essere portato con palloni aerostatici o sparato con cannoni, oppure può essere diffuso con i carburanti dei jet o ancora può essere diffuso da missioni aeree ad hoc. Rogel Angel, direttore del Center for Astronomic Adaptive Optics dell’Università dell’Arizona propone invece di lanciare alla distanza di 1,6 milioni di chilometri dalla terra in asse col Sole sedici trilioni di leggerissimi mini-dischi spaziali riflettenti che possano trattenere una parte della radiazione solare che arriva sulla terra. Secondo l’autore di questa ipotesi dovrebbero essere lanciati in lotti da un milione da lanciatori elettromagnetici sulle vette di una montagna nell’equatore. Due società di ricerca la Climos e la Planktos hanno invece sviluppati dei progetti per fertilizzare la superficie dell’oceano con piccole dosi di ferro che favorisce la crescita del fitoplancton, le piante microscopiche che sono alla base della catena alimentare oceanica. Queste piante catturano l’anidride carbonica e quando non sono mangiate muoiono depositandola sul fondo. La società australiana Ocean Nourishment Corporation allo stesso scopo di favorire la crescita di fitoplancton propone di rilasciare un flusso modesto ma costante di urea (un fertilizzante a base di azoto) altamente diluita attraverso condutture sottomarine. David Keith dell’Università di Calgary e Klaus Lackner della Colombia University puntano invece sulla creazione di alberi artificiali che aspirino direttamente l’anidride carbonica dell’aria per poi stoccarla nel sottosuolo. Per controbilanciare l’anidride carbonica emessa dall’umanità ne servirebbero circa venti milioni. Infine John Latham del National Center for Atmospheric Research di Boulder, propone di creare sull’oceano delle nubi – gli stratocumuli marittimi - che riflettano più raggi solari di quanto facciano abitualmente. Lo scienziato propone flotte di navi che controllate da satelliti che irrorino di minuscole goccioline di acqua marina l’aria sottostante gli stratocumuli. Ci sono poi progetti per costruire tecno isolotti in Groenlandia e Islanda per ghiacciare l’acqua salata e rilasciarla in primavera (per riattivare la corrente del golfo), e progetti per pompare acqua fredda sulla superficie degli oceani, prendendola dal fondo (statunitense Atmocean). Molti di questi sistemi si finanzierebbero con la compravendita di crediti verdi per le emissioni. Occorre inoltre ricordare fra l’altro che se non diminuisce la CO2 emessa la sola riduzione della temperatura terrestre non basterà a salvarci. Infatti l’anidride carbonica si trasforma nell’acqua degli oceani in acido carbonico che porta a distruggere la vita marina il che ha effetto di nuovo sul clima perché diminuisce la capacità di assorbimento della CO2 degli oceani. Dietro a queste proposte si delinea una visione del ruolo dell’essere umano come possibile controllore del sistema terra. Dyer aspira che il genere umano raggiunga le cognizioni e il potere per prendere le redini della gestione del sistema terra: 69 «ora siamo sulla buona strada per acquisire tali capacità, almeno in forma rudimentale, e comincia a sembrare probabile che di alcune di esse avremo effettivamente bisogno»29. Insomma Dyer non mette in discussione né il sistema socio-economico che ha prodotto questa situazione né l’abito mentale di dominio sulla natura che ci ha guidato fin qui. In effetti una parte non marginale della nostra società coltiva ancora l’illusione che anche il problema climatico globale possa esser risolto con una soluzione tecnologica definitiva. Come ha notato Edgar Morin, «noi sviluppiamo tecnologie di controllo di disinquinamento, di igiene: ma queste hanno l’effetto subitaneo di imprigionarci sempre di più nella logica delle macchine artificiali. Intraprendiamo una corsa infernale fra la degradazione ecologica che ha come suo effetto la nostra degradazione e le soluzioni tecnologiche che si preoccupano degli effetti di questi mali continuando però a sviluppare le loro cause» (Morin, 2004, p. 85). Welzer propone invece uno sguardo realistico ma profondamente riflessivo e fa i conti con la nostra abitudine passata e presente a rivedere i nostri codici morali alla luce delle difficoltà in modo da ridurre le dissonanze cognitive. In altre parole Welzer fa i conti con le pulizie etniche e i genocidi che hanno accompagnato i processi di modernizzazione e industrializzazione. In altri termini Dyer comprende i cambiamenti climatici innanzitutto come un problema da porre sotto un controllo tecnico intanto che si fa strada a fonti energetiche meno inquinanti, mentre Welzer lo vede come problema eco sociale e quindi culturale. Mentre Dyer ritiene che le nostre società vivranno o moriranno come società altamente tecnologizzate (e consumiste) e non vede ragioni per mettere in discussione la propria mentalità, per Welzer la questione è invece da porre in relazione con la configurazione (e ri-configurazione) della propria società e del proprio modo di vita in relazione all’uso sostenibile delle risorse e al rapporto con le generazioni future. «la convinzione secondo cui tutte le società prima o poi seguiranno i modelli di sviluppo dei paesi della OECD si è rivelata nient’altro che un’illusione, e per giunta antistorica: l’esperimento occidentale è in corso da 250 anni e la fine di questo esperimento non segnerà certo la fine della storia»30. Dobbiamo dunque porci delle domande più ampie. Già nel 1971, nel saggio “Il pianeta malato” Guy Debord, ci ricordava la condizione schizofrenica dentro a cui ci poneva questa mentalità: «il problema del degrado della totalità dell’ambiente naturale e umano ha già completamente cessato di porsi sul piano della pretesa vecchia qualità, estetica o che altro, per diventare radicalmente il problema stesso della possibilità materiale di esistenza del mondo che prosegue in un tale movimento. La sua impossibilità e in effetti già perfettamente dimostrata da tutta la conoscenza scientifica separata, che non discute più se non della scadenza e dei palliativi che potrebbero, se applicati con fermezza, farla leggermente ritardare. Una tale scienza può soltanto accompagnare verso la distruzione il mondo che l’ha 29 30 Dyer, op. cit, p. 262. Welzer, op. cit, p. 239. 70 prodotta e che la possiede; ma è costretta a farlo a occhi aperti» (Debord, 2007, p. 52) Occorre dunque un’elaborazione culturale all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma un’elaborazione riflessiva che ci aiuti a guardare noi stessi e il nostro modo di pensare mentre guardiamo i problemi attorno a noi. Un atteggiamento di cautela autocritica che ci aiuti a bloccare gli automatismi che mettiamo in atto nel momento in cui ci precipitiamo con la convinzione e la fretta di risolverli. Quello che oggi possiamo dire è che non si tratta più di evitare il mutamento climatico, ma di diminuirne e contenerne la portata. Per contenere questo cambiamento occorre modificare diverse cose: modificare il nostro modo di produrre energia, eliminando o quantomeno rinunciando all’uso dei fonti fossili e convertendosi all’uso di fonti rinnovabili. Per ridurre la quantità di anidride carbonica immessa nell'atmosfera ci sono essenzialmente due modi: 1. Ridurre la produzione mondiale di energia o riconvertendola dall’uso di fonti fossili (petrolio, carbone, metano) a fonti rinnovabili (solare, eolico, geotermico ecc). 2. Aumentare la superficie della terra coperta da foreste, in quanto mediante la fotosintesi clorofilliana le piante utilizzano l'anidride carbonica dell'atmosfera estraendo dalla molecola il carbonio e rilasciando ossigeno. Tuttavia ci sono forti resistenze a intraprendere questi cambiamenti. Il principale strumento negli ultimi anni è stato il cosiddetto protocollo di Kyoto, un trattato internazionale sottoscritto appunto nella città giapponese l’11 dicembre 1997 da oltre 160 paesi, durante la Conferenza COP3 delle Nazioni Unite. Concretamente il trattato è entrato in vigore a seguito della ratifica anche da parte della Russia il 16 febbraio 2005. Tale trattato prevede per i Paesi industrializzati l’obbligo di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti (biossido di carbonio ed altri cinque gas serra, ovvero metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, per fluorocarburi, esafluoruro di zolfo) in una misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990, entro il periodo 2008-2012. Nel vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio + 20 (giugno 2012) non sono stati presi delle decisioni veramente significative rispetto al tema del mutamento climatico. Si riconosce che il problema è serio e ineludibile ma ci si orienta più sulle politiche di adattamento che non di riduzione delle emissioni. Soprattutto non c’è traccia di un nuovo accordo dopo quello di Tokyo. 71 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu LA CRISI IDRICA E I CONFLITTI PER L’ACQUA L’acqua è un elemento fondamentale per la vita su questo pianeta. Il ciclo dell’acqua è alla base di ogni catena biologica. Il suo impiego è fondamentale per gli esseri umani da diversi punti di vista: dall’alimentazione alla pulizia e all’igiene personale, dall’irrigazione agricola e alla produzione di cibo all’uso industriale, dalla produzione di energia elettrica alla riproduzione simbolica, sociale e culturale di molte comunità. Dalla disponibilità di questa risorsa dipendono dunque equilibri ecologici, sociali, economici, politici, culturali. L’acqua ricopre il 71% della superficie terrestre. Circa il 97,5% di questa acqua corrisponde a quella dei mari e degli oceani e trattandosi di acqua salata non può essere utilizzata per usi domestici o agricoli. Solamente il 2,5% di quest’acqua è costituito da acqua dolce. Ma nemmeno questa piccola percentuale di acqua è completamente utilizzabile, poiché una gran parte di essa, circa l’87%, si trova nei ghiacciai, ai poli o in falde acquifere a grandi profondità. Insomma solamente l’1% circa dell’acqua dolce presente nel pianeta (lo 0,01% di tutta l’acqua terrestre) pari a 13.500 Km3 all’anno è effettivamente Fonte: Fao, 2004. accessibile e utilizzabile dalle comunità umane. Nel ciclo naturale ogni anno cadono circa 100.000 miliardi di tonnellate d’acqua sulle terre emerse. Di queste circa 60.000 miliardi di tonnellate evaporano. Nei fatti il flusso delle acque superficiali e sotterranee nelle terre emerse che tornano al mare è stimato intorno a 40.000 tonnellate all'anno; tuttavia questo flusso non è distribuito uniformemente sul pianeta. Al contrario è distribuito in modo piuttosto irregolare nello spazio e anche nel tempo. Questo significa che alcuni paesi possono avere sovrabbondanza di acqua mentre altri sono soggetti a privazione o siccità. Secondo la Banca Mondiale, circa 80 paesi, ossia il 40% delle popolazione mondiale, sono toccati dal problema della penuria d'acqua. Nel rapporto dell’UNDP sullo Sviluppo Umano (2006) si stima che circa 1,1 miliardi di persone nel sud del mondo abbiano un accesso inadeguato 72 all’acqua (circa un abitante del pianeta su 5) e oltre 2,6 miliardi di persone siano prive di servizi igienico-sanitari di base. A questo si aggiunge ogni anno un gran numero di morti per malattie dovute all’inquinamento idrico (3,4 milioni). Secondo l’Oms il livello minimo vitale è di 50 In termini quantitativi si stima che dieci paesi si dividano oltre il 60% litri di acqua procapite al giorno. delle risorse idriche del pianeta: Sullo sfondo delle lotte per l’acqua c’è un Brasile (8.233 km3), Russia (4.507 problema di giustizia assieme globale e locale. Un km3), Canada (2.902 km3), problema di modelli di produzione e di consumo Indonesia (2.838 km3), Cina squilibrati e insostenibili. (2.830 km3), Colombia (2.132 In termini quantitativi il 70% del volume km3), Stati Uniti (2.071 km3), d’acqua dolce utilizzato al mondo è destinato Perù (1.913 km3), India (1.908 ad usi agricoli, il 23% viene utilizzato km3), Repubblica Democratica del dall’industria e dal settore energetico, mentre Congo (1.238 km3).1 solamente il 3,5% viene utilizzato per usi Viceversa dal punto di vista idrico i domestici. più poveri sono il Kuwait (0,02 D’altra parte la disponibilità di risorse idriche di km3) che praticamente non ciascun paese o territorio non corrisponde possiede risorse rinnovabili di acqua dolce, Malta (0,05 km3), necessariamente ad un suo proporzionale accesso e Qatar (0,05 km3), Striscia di Gaza prelievo. (0,06 km3), il Bahrein (0,12 km3), Se prendiamo ad esempio il caso del Brasile, si quindi gli Emirati Arabi Uniti (0,15 tratta del paese più ricco d’acqua al mondo, ma nei km3), Capo Verde (0,30 km3), fatti una parte significativa della popolazione Gibuti (0,30 km3), Cipro (0,40 residente nei suoi confini non ha accesso all’acqua km3), Singapore (0,60 km3), Libia potabile. Un caso opposto è quello della California, (0,60 km3), Giordania (0,88 km3), un territorio che può contare su risorse idriche molto Israele (0,67 km3). scarse ma che nonostante questo vanta un consumo procapite di 4.100 litri al giorno, tra i più alti al mondo. L’accesso all’acqua dipende dunque anche da una suddivisione socio-economica e da un’organizzazione politica ed economica. Qui ci sono dunque già due elementi importanti da sottolineare. Il primo è che il problema principale non riguarda necessariamente una scarsità fisica di acqua in un paese o in un territorio ma la grande disparità di accesso tra ricchi e poveri a livello locale e globale. Come nota il rapporto dell’UNDP: «In breve, la scarsità è il prodotto di processi politici e istituzionali che penalizzano i poveri. Per quanto riguarda l’acqua pulita, lo schema in molti paesi è il seguente: i poveri ottengono meno, pagano di più e sostengono tutto il peso dei costi dello sviluppo umano associato alla scarsità» (UNDP, 2006, p. 25). In secondo luogo, e naturalmente in connessione con quanto abbiamo appena detto, dobbiamo sottolineare come il problema attuale della scarsità di acqua non è un processo naturale, fisiologico, ma un effetto di quello che siamo abituati a chiamare sviluppo. Può essere difficile da accettare ma nei fatti proprio questo è il problema. Dal 1960 ad oggi, nel mondo si è consumata più acqua che nei tre secoli precedenti. All’inizio del ‘900 il prelievo complessivo di acqua era di 500 km3 l’anno, attualmente è di 5.000 km3. Il trend attuale registra un raddoppio della domanda d'acqua ogni 21 anni. 73 Si può pensare che alla base di questo fenomeno vi sia il crescere della popolazione. Certamente tra le due cose vi è una correlazione. Infatti si calcola che la disponibilità media di acqua potabile pro capite sia diminuita negli ultimi cinquant’anni, soprattutto a causa dell’aumento demografico. Tuttavia in realtà non è la crescita demografica il maggior problema. Durante l’ultimo secolo il tasso di diminuzione di acqua ha superato quello della crescita di popolazione di 2,5 volte. Per comprendere questo fenomeno si deve notare come la maggior parte del consumo di acqua - pari a circa il 70% del prelievo - avvenga nei paesi nel Nord del mondo. Nei fatti questo prelievo risponde sostanzialmente ai bisogni dell'11% più ricco della popolazione mondiale. Come abbiamo già detto, infatti, gran parte del prelievo d’acqua è destinato ad usi agricoli e industriali. Per esempio negli Stati Uniti, il 70% è per uso agricolo, il 20% è utilizzato per uso industriale e il 10% per uso domestico, mentre solamente l'1% riguarda il consumo di acqua da bere. Dunque il consumo d’acqua aumenta soprattutto in relazione alle performance agricole e industriali dei paesi più ricchi o dei paesi emergenti. In generale si può sottolineare come negli ultimi quarant’anni la superficie di terreno irrigata sia aumentata al ritmo di 2,7% annuo. Ora le tecniche moderne permettono la distribuzione idrica in maniera più estesa e capillare fino all’utopia, coltivata esplicitamente da paesi come Israele, l’Arabia Saudita, la Libia di far fiorire il deserto, utilizzando solitamente fonti di acqua fossile. Bisogna tuttavia domandarsi se questo tipo di performance sia sostenibile sul lungo periodo. E la risposta è sostanzialmente negativa. Come ha notato la direttrice del Global Water Policy Project, Sandra Postel, nel suo pioneristico libro sulle illusioni dei moderni sistemi di irrigazione Last Oasis: Facing Water Scarcity, «le due decadi di esperimenti massicci dei Sauditi con l’agricoltura nel deserto ha lasciato la nazione molto più povera d’acqua. Nel suo anno di picco nella produzione del grano, la nazione ha prodotto un deficit idrico di 17 milioni di m3 annui, consumando più di 3.000 tonnellate di acqua per ogni tonnellata di grano prodotta nel deserto caldo e battuto dal vento. A questo ritmo, le riserve idriche sotterranee saranno esaurite entro il 2040, se non prima» (Postel, 1999, p. 78). Il caso più impressionante di sfruttamento di acque fossili e di agricoltura nel deserto si deve all’ormai tramontato regime di Gheddafi. Nel 1953, la ricerca di nuovi pozzi petroliferi nel sud della Libia, portò alla scoperta, oltre che di petrolio, anche di vaste quantità d’acqua fossile intrappolate nel sottosuolo. I bacini fossili raccoglievano acque di epoche diverse, in maggioranza tra i 38/40.000 anni fa (ovvero prima dell’ultima glaciazione). In altri casi attorno ai 14.000 anni fa. I depositi più “giovani” risalivano ai 7.000 anni fa. Questi bacini fanno parte del Nubian Sandstone Aquifer System, il più grande sistema di acqua fossile al mondo, che si trova sotto quattro paesi: Ciad, Egitto, Sudan, Libia. Nel territorio libico in particolare si trovano i quattro principali bacini: 1) Kufra basin; 2) Sirt basin; 3) Murzuk basin; 4) Hamadah & Jufrah basins. 74 Attorno a questa scoperta, si svilupparono due progetti: a) Un grande progetto agricolo di coltivazioni circolari nel deserto attorno all’oasi di Kufra. L’irrigazione è fatta con un sistema radiale a goccia. I cerchi che ne conseguono hanno un diametro di 1 km e sono ben visibili dai satelliti nello spazio b) The Great Manmade River Project (GMR). Il progetto del grande fiume artificiale fu concepito alla fine degli anni ’60. I primi studi concreti risalgono al 1974. I lavori partono nel 1984 e proseguono in cinque fasi. Per Gheddafi si trattava dell’Ottava meraviglia del mondo. Nei fatti stiamo parlando del più lungo acquedotto della terra, oltre 5.000 km di condutture dal deserto verso le città della costa: Sirte, Bengasi, Tripoli, Tobruk. L’opera si compone di tubi di calcestruzzo di 4 metri e assicura una portata d’acqua di 6 milioni di m3 al giorno da oltre 1.300 pozzi. Il progetto è stato steso dall’americana Brown and Rooth an Price Brothers, la realizzazione è stata affidata alla sudcoreana Don Ha. Costo totale dell’operazione sarà attorno ai 25-30 miliardi di dollari. Il problema del sovra sfruttamento riguarda tuttavia anche le fonti rinnovabili, come i fiumi e i bacini idrici. Lo sfruttamento delle acque è tale che alcuni dei più grandi fiumi del mondo, il Fiume Giallo (Huang ze) e il Fiume Azzurro (Yangtze) in Cina, il Gange e l’Indo nell’Asia del Sud, l’Amu Dar’ya in Asia Centrale, il Chao Phraya in Thailandia, il Nilo nel nord-est dell’Africa, il Colorado e il Rio Grande negli Usa e in Messico in certi periodi dell’anno non raggiungono più il mare. Per fare qualche esempio il Fiume Giallo, il secondo fiume della Cina, con una lunghezza di 5.464 km e le cui risorse alimentano 120 milioni di persone, a partire da metà degli anni ’90 si prosciuga e interrompe la sua corsa verso il mare per un numero sempre maggiore di giorni all’anno. Alla fine degli anni novanta oramai i giorni “di secca” superavano i 200, ovvero più dei due terzi dell’anno. Possiamo richiamare alcuni esempi impressionanti di prosciugamento di grandi bacini idrici dovuti ad un eccesso di prelievo e sfruttamento. Un primo caso è quello del Lago Ciad un bacino poco profondo situato nell’area del Sahel e lambisce le rive di quattro nazioni Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. Il Ciad è il quarto lago dell’Africa per estensione e il settimo al mondo. Negli ultimi cinquant’anni il lago, alimentato dal fiume Chari e dal suo affluente Logone e in misura minore dal Komadougou-Yoube si è ridotto enormemente: nel 1960 la sua superficie era circa di 25.000 Km2, nel 2001 l’ampiezza si era ridotta a 1.500 Km2 pari a circa il 6% dell’estensione degli anni ‘60. Alla base di questa involuzione ci sono la diminuzione delle precipitazioni e l’eccessivo prelievo delle acque dal lago e dagli affluenti. Il processo di riduzione dell’estensione del lago Ciad non è un fatto recente poiché dura in verità da millenni, ma negli ultimi decenni questo lento processo naturale è andato assumendo una velocità e una 75 drammaticità senza precedenti. Gli effetti sociali di questo disastro ambientale non si sono fatti attendere. La cittadina più grande del lago, N’guimi, come molti altri villaggi, si trovava una volta a ridosso delle rive del lago. Ma l’arretramento della linea costiera tra i 100 e i 150 km2 a seconda della zona ha reso quasi impossibile la continuazione della pesca tradizionale. Molti ex pescatori si sono dedicati alla coltivazione agricola o hanno escogitato nuove forme di acquacoltura tramite canali e piccoli bacini. Nei fatti le persone la cui attività dipendeva dall’acqua hanno seguito l’arretramento della linea costiera anche attraverso le frontiere senza curarsi del superamento dei confini nazionali. Così a partire dal 1983 molti migranti si sono ritrovati in territori stranieri senza rendersi conto del cambiamento. Ne sono seguite numerose dispute territoriali tra paesi sulle acque e sulle nuove isole emergenti dal lago, così come dei conflitti sul reinsediamento delle comunità. Un secondo caso, ancora più impressionante, è la vicenda del Lago Aral in Asia Centrale. Una volta l’Aral era il quarto lago più grande al mondo. Veniva rifornito da due fiumi, l’Amu Dar'ya e il Sir Dar'ya. Le popolazioni locali – attualmente divise tra Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan - sfruttano le acque dei due fiumi per l’irrigazione da molti secoli. Ma nel frattempo l’area irrigata si è espansa enormemente. I primi progetti per lo sfruttamento dell’Amu Dar'ya e del Sir Dar'ya datano addirittura al 1918. Il governo rivoluzionario bolscevico intendeva fin da allora irrigare il deserto per far crescere riso, meloni, cereali e soprattutto cotone, l’oro bianco che doveva diventare una materia fondamentale per l’esportazione. I canali – di scarsa qualità e soggetti a grande dispersione ed evaporazione - furono costruiti a partire dagli anni ’30. A partire dalla fine degli anni ‘60 i canali cominciarono a deviare tra i 20 e i 50 km 3 di acqua dai due fiumi immissari del lago per irrigare terreni aridi e sviluppare le immense coltivazioni di cotone e riso che andarono a sostituire le tradizionali coltivazioni di canapa. Tra gli anni ’60 e gli anni ’80 la percentuale di acqua prelevata per l’agricoltura raddoppiò e parallelamente, nello stesso periodo, raddoppiò anche la produzione di cotone. Il prosciugamento del lago non era affatto una sorpresa per i pianificatori sovietici che avevano al contrario già messo in conto la scomparsa dell’Aral. In effetti nel giro di pochi decenni la superficie del lago che negli anni ‘60 si estendeva per 68.000 km2 si ridusse di due terzi. Alla fine degli anni ’90 la superficie si limitava a 28.687 km2 determinando un forte arretramento della linea costiera. Attualmente le stime ipotizzano un’estensione di 17.650 km2. Nei fatti a partire dal 1990 il lago si presenta distinto in almeno due parti: il Grande Aral (o North Aral) e il Piccolo Aral (o South Aral) a sua volta ripartitosi in due a partire dal 2003. Il ritiro della linea costiera 76 ha lasciato vecchie navi abbandonate in balia delle dune di sabbia del deserto mentre le acque rimanenti hanno visto aumentare la propria salinità. Questo fenomeno ha messo in crisi le popolazioni costiere, in particolare della cittadina che vivevano di pesca. Al sud la cittadina di Moynag, che un tempo emergeva dal delta dell’ Amu Dar'ya oggi dista dall’acqua più di 100 km. Mentre al nord la città di Aral’sk oggi è un porto in un mare di sabbia con imbarcazioni insabbiate e stabilimenti dismessi. A partire dal 1982 l’industria della pesca locale è stata completamente abbandonata. Ma negli ultimi anni di fronte alla situazione drammatica sono stati portati avanti anche progetti unilaterali. Il tentativo più rilevante di invertire la scomparsa del fiume è stato avviato dal Kazakistan con un progetto da 86 milioni di dollari condiviso con la Banca mondiale di una diga di 13 km chiamata “Diga Kokaral” nei pressi del delta del Syr Dar’ya. La diga in questione separa definitivamente in due il North Aral dal South Aral puntando a salvare e ripristinare il bacino settentrionale lasciando al suo destino il più ampio bacino meridionale. Dopo due tentativi falliti (nel 1992 e nel 1998) la diga entra in funzione il 7 agosto del 2005. L’operazione sta effettivamente riportando in vita il bacino del North Aral, aumentando il livello dell’acqua, diminuendo il grado di salinità, quindi ha rallentato il fenomeno di evaporazione e sta permettendo anche il ritorno del patrimonio ittico, in particolare di carpe e storioni e il rilancio dell’industria ittica. La città di Aral’sk che si era ritrovata alla distanza massima di 100 km dalla linea costiera oggi si trova solamente a 25 km di distanza. E si pensa in futuro quando le distanze si saranno ulteriormente ridotte di poter ricollegare, grazie alla costruzione di un canale, l’antico porto al mare. Anche il microclima sembra averne tratto giovamento rimettendo in moto il ciclo della pioggia. Concretamente tuttavia è solo la parte settentrionale dell’Aral a crescere. La parte meridionale del lago – il South Aral o Grande Aral - che fa capo al più povero Uzbekistan non può contare su progetti di recupero e la linea costiera è arretrata qui di circa 250 km, mentre il livello di salinità e di inquinamento delle acque è diventato intollerabile con il conseguente peggioramento della situazione sanitaria. Si pensa che la parte occidentale del South Aral potrebbe scomparire del tutto in 15 anni, lasciando solamente la parte orientale nutrita dal Amu Dar’ya. È chiaro dunque che l’operazione seguita dal Kazakistan è stata vissuta negativamente da parte dell’Uzbekistan anche se la diga Kokaral presenta alcune chiuse che vengono saltuariamente aperte per convogliare parte delle acque provenienti dal Syr Dar’ya nel bacino meridionale del lago. Negli ultimi decenni la tensione tra Uzbekistan e Kazakistan per la gestione delle acque è aumentata, anche a seguito di alcuni incidenti di confine e se non cambia qualcosa si inizia a temere la possibile evoluzione di queste tensioni. Un terzo caso, più recente è quello del lago di Urmia (Orumiyeh), nell’Iran nordoccidentale. Si tratta del terzo lago salato più grande del mondo, ed è alimentato da oltre una sessantina di fiumi e torrenti che trasportano sali minerali. Quando il clima si fa più arido, l’acqua evapora e i sali si cristallizzano. Ma il lago pian piano si sta ritirando. Il satellite Landsat ha scattato queste due foto del lago il 25 agosto del 1998 e il 13 agosto del 2011. Tra il 1992 e il 2011 77 si è registrato un abbassamento di circa quattro metri del livello dell’acqua e il lago ha perso più di metà della sua superficie. Le cause sono attribuibili sia alla siccità dovuta al cambiamento climatico che alle troppe dighe costruite sui suoi affluenti. Ben 35 dighe sono già state costruite e altre 10 sono in costruzione.31 Tra agosto e settembre 2011 la popolazione di Tabriz e Orumiyeh si è mobilitata per protestare contro l’immobilismo dei regime e per chiedere misure urgenti per impedire il prosciugamento del lago salato di Urmia considerato dall’Unesco riserva mondiale della biosfera. Le manifestazioni sono state repressa con ferocia dal regime di Teheran che ha arrestato almeno una sessantina di attivisti. Le proteste si sono espresse anche in forma artistica su facebook. Ma Oltre al disastro ecologico la scomparsa del lago comprometterà l’agricoltura della zona, sia per la perdita dell’acqua che per la possibile diffusione del sale sui territori circostanti. Concretamente produrrà danni sia economici che alimentari per la popolazione locale. Queste storie, esempi di progetti di sviluppo del tutto insostenibili ci segnalano fra l’altro la connessione forte che esiste tra sistemi alimentari, forme di sviluppo e impatto sulle risorse naturali. Di fronte alla crescente crisi idrica, negli ultimi anni alcuni paesi hanno investito in tecnologie ed impianti dissalatori, che permettono di depurare l’acqua marina o di riciclo. In particolare nel 2008 l’Arabia Saudita ha prodotto 7,1 milioni di m3 di acqua al giorno, gli Emirati Arabi Uniti 6,4 milioni di m3, gli Stati Uniti 4,6 milioni, la spagna 2,8 milioni, il Kuwait 2,1 milioni. Ma il problema con i dissalatori è che richiedono un forte consumo energetico. Circa il 60% dei costi viene dall’elettricità usata. Dunque il problema viene spostato sul consumo di energia. Inoltre hanno un certo impatto ambientale sia in termini di emissioni di CO2 sia in termini di impatto sulle coste, poiché pompano acqua di mare con tutti gli organismi compresi e restituiscono forti quantità di sale. Nel ragionamento attorno a queste risorse non si deve dimenticare di prendere in considerazione quella che viene chiamata “acqua virtuale”. Come spiega Tony Allan in riferimento all’Egitto e al Nilo, «Acqua virtuale è l’acqua contenuta nel cibo che la regione importa». In altre parole un paese può ricevere una grande quantità di acqua attraverso l’importazione di derrate alimentari piuttosto che impiegare le proprie risorse idriche per sviluppare l’agricoltura locale. Come notano Giuseppe Anzera e Barbara Marniga «Servono 1.000 m3 d’acqua per produrre una tonnellata di grano, ed è molto più semplice trasportare una tonnellata di grano che 1000 m3 di acqua. In sostanza “l’acqua virtuale” serve a bilanciare il deficit idrico di uno Stato. Esiste infatti una strettissima relazione tra il gap idrico di una nazione e il gap alimentare» (Anzera, Marniga, 2003, p. 9). Val la pena ricordare a questo proposito che uno dei motivi del crescente disequilibrio nel prelievo idrico ha a che fare anche con le trasformazioni delle forme di alimentazione e con la dieta tipica dei consumatori occidentali o 31 Internazionale, n. 924, 18 novembre 2011, p. 99. 78 delle élites più ricche dei paesi del sud oramai abituati a mangiare carne a ritmi quasi giornalieri. Tale dieta richiede in effetti grandi quantità di cereali per nutrire il bestiame da cui si ricava la carne. Le coltivazioni di cereali a loro volta richiedono grandi quantità d’acqua. Per produrre una tonnellata di cereali occorrono almeno 1.000 tonnellate di acqua, mentre occorrono circa 7 kg di cereali per produrre un kg di carne bovina (4 kg per 1 kg di maiale e 2 kg per 1 kg di pollo)32. In sostanza come è stato notato (Myers, Kent, 2004), una dieta che prevede carne quasi tutti i giorni della settimana richiede due volte l’acqua dell’alimentazione standard della popolazione dei paesi non sviluppati. Nei fatti l’eccesso di alimentazione basata sulla carne, in specie bovina, produce una forte pressione sui mercati internazionali e contribuisce in misura significativa all’aumento dello stress idrico e alla diminuzione di cereali per le popolazioni più povere. In prospettiva dunque anche le nostre abitudini alimentari devono trovare un nuovo equilibrio. Oltre alle dimensioni socio-economiche appena richiamate, si possono comunque rintracciare alcuni elementi che contribuiscono a determinare l’attuale pressione crescente sulle risorse idriche e che fanno supporre che l’acqua diventerà sempre più un elemento strategico e una possibile fonte di conflitti. Fra questi possiamo richiamare: - - - - - La crescita demografica. L’aumento della popolazione si traduce in una maggiore pressione umana sui territori e sulle risorse idriche. La popolazione umana richiede infatti acqua per bere, lavarsi, coltivare e produrre cibo. Anche i fenomeni di migrazione e di urbanizzazione hanno contribuito a determinare una maggiore concentrazione e pressione sulle risorse idriche. L’evoluzione tecnologica. La notevole crescita degli strumenti di tipo ingegneristico e meccanico ha permesso sempre più di intervenire in maniera massiccia sui corsi d’acqua e sui laghi producendo lavori idraulici (dighe, canalizzazioni, prelievi in profondità, centrali idroelettriche) che in passato non erano nemmeno ipotizzabili, alterando così gli equilibri idrici di molti territori e paesi. L’aumento dello sfruttamento. Lo sviluppo dell’industria agroalimentare con la spinta ad una agricoltura intensiva e all’irrigazione artificiale di nuovi terreni ha comportato un prelievo crescente dell’acqua e una sua sottrazione ad altri usi, nonché uno sfruttamento eccessivo del suolo e un suo impoverimento. Anche l’uso industriale, sebbene in misura minore, contribuisce alla crescita del consumo e della penuria d’acqua. Modificazioni ecologiche. Negli ultimi decenni l’impatto più generale dell’evoluzione delle società umane in particolare dei paesi industrializzati ha contribuito a forti mutamenti ambientali e climatici che hanno prodotto fenomeni di riscaldamento globale, di desertificazione, di inaridimento dei suoli, di prosciugamento delle zone umide, di progressiva scomparsa di fiumi e di laghi. L’inquinamento delle acque. Nel complesso è aumentato anche il livello di inquinamento e contaminazione delle acque a causa di scarichi urbani, industriali, di allevamenti non adeguatamente trattati, o a causa dell’uso indiscriminato di aggressivi chimici in agricoltura. A questi si possono aggiungere anche le forme di inquinamento e contaminazioni in situazioni di guerra. Nell’insieme tutte queste forme di inquinamento hanno contribuito a diminuire la disponibilità complessiva di acqua pulita. 32 Questo calcolo proposto da Norman Myers e Jennifer Kent si riferisce ad un allevamento intensivo in ambiente confinato del bestiame (feedlot). Per un approfondimento del rapporto tra diverse forme di consumo alimentare e conseguenze sociali ed ecologiche rimando agli autori citati (Myers, Kent, 2004, pp. 57-70). 79 - - La dispersione delle acque. Gli stessi sistemi di canalizzazione e le reti di distribuzione dell’acqua sono spesso inadeguate da un punto di vista tecnologico e di manutenzione così da produrre una percentuale di acqua sprecata che nei paesi più ricchi è spesso sopra il 30/40%. La mercificazione dell’acqua. Più nello specifico le norme di accesso e le regole di utilizzo e di distribuzione delle acque hanno contribuito a rendere più complessa e diseguale la disponibilità di acqua a seconda delle classi sociali e dei territori. Entrando nello specifico, tra le aree più interessate dalla crisi idrica ci sono il Vicino e Medio Oriente. Nove dei quattordici paesi di quest'area si confrontano con una scarsità strutturale di risorse idriche. Paesi come Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi, Giordania, Israele, Libia, Marocco, Siria, Tunisia e Yemen, dispongono di una quantità annuale di acqua attorno a 1.000 m3, considerata la quantità minima per la sopravvivenza. In alcuni di questi paesi si fa fronte alla crisi attuale ricorrendo anche alle fonti di acqua, ovvero alle falde acquifere non rinnovabili. In questo modo però i tamponi sul breve periodo rischiano di contribuire a rendere cronico il problema in questi paesi. Sul medio termine tuttavia il continente asiatico con giganti quali Cina, India, Thailandia, Pakistan, Iran potrebbe essere quello più colpito da problemi di “stress idrico”33 e quindi di alimentazione, a causa dello sviluppo demografico squilibrato. Già oggi il continente asiatico ospita quasi il 60% della popolazione mondiale. L’eccesso di sfruttamento delle falde sotterranee si sta già delineando e le conseguenze di una carenza idrica strutturale rischiano di essere catastrofiche. H2O: GUERRE, CONFLITTI, COOPERAZIONE Il dibattito attorno ai conflitti sull’acqua si è diviso in questi anni tra coloro che mettevano avanti scenari piuttosto pessimisti e coloro che sottolineavano che storicamente l’acqua ha costituito assai più spesso uno strumento di accordo e cooperazione tra popoli e paesi (quest’ultimo elemento è certamente importante e lo riprenderemo più avanti). Mentre alcuni autori - tra gli altri Joyce Starr (1990), Marq de Villiers (1999, 2004), Diane Raines Ward (2004), Vandana Shiva (2003, 2005), Fread Pearce (2006) - parlano esplicitamente di “guerre per l’acqua” o di conflitti violenti (Peter Gleick, 1998, 2005, 2007), altri autori, fra cui Aaron T. Wolf, Sandra Postel, Shira B. Yoffe, Mark Giordano, Pat Tamas34 sostengono che in realtà l’unica vera guerra per l’acqua che si ricordi storicamente è quella tra le città stato di Lagash e Umma in Mesopotamia circa 4.500 anni fa. Aaron Wolf parla delle guerre per l’acqua come un “mito”, mentre un’altra studiosa, Julie Trottier, ha addirittura presentato quello delle “water wars” come un “concetto egemonico” di cui ha analizzato l’ascesa e il declino a partire dalla metà degli anni ’80 fino ai giorni nostri (Trottier, 2003). Alle tesi degli studiosi delle guerre per l’acqua hanno indirettamente dato credito anche le dichiarazioni di personaggi di alto livello. Prima Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca Mondiale, che il 10 agosto del 1995, dichiarò che 33 Il termine “water stress” (stress idrico) e i primi relativi indici sono stati proposti da Malin Falkenmark (1989). Si parla di “water stress” quando la quantità d’acqua annua pro capite scende al di sotto dei 1.700 m3 annui, di “chronic water scarcity” o carenza idrica quando scende al di sotto 1.000 m3 d’acqua annui, e si parla infine di “absolute scarcity” o carenza assoluta quando scende al di sotto dei 500 m3 d’acqua annui per persona. 34 Si vedano Wolf (1998), Postel, Wolf (2001), Wolf, Yoffe, Giordano (2003), Tamas (2003), Trottier (2003). 80 «Se le guerre di questo secolo sono state combattute per il petrolio, le guerre del prossimo secolo saranno combattute per l’acqua».35 Sulla stessa linea l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, il 15 marzo del 2001 in un discorso a New Delhi, disse: «se non facciamo attenzione, le guerre del futuro saranno per l’acqua e non per il petrolio».36 Entrambe le affermazioni ebbero prevedibilmente una grande eco e stimolarono ulteriormente le discussioni sulle imminenti “guerre per l’acqua”. Come è possibile dunque questo divario di letture tra studiosi, tra coloro che parlano di guerre o conflitti per l’acqua e coloro che sostengono che non ci sono vere guerre per l’acqua? La risposta dipende da alcuni snodi specifici. In primo luogo si tratta di capire in che senso le guerre o gli eventi violenti sarebbero collegati all’acqua. Diversi conflitti contemporanei hanno tra le cause o concause il problema del controllo e della condivisione dei rifornimenti idrici. Tuttavia è chiaro che raramente l’acqua rappresenta l’unica causa del conflitto. Da questo punto di vista si può anche dire che nessuna “guerra” su grande scala è stata combattuta unicamente o principalmente “per l’acqua”. Il più delle volte la gestione o il controllo delle risorse idriche rappresenta un aspetto di una conflittualità più ampia che riguarda più soggetti e più questioni. Questo tuttavia in fondo è vero per la maggior parte delle risorse naturali. Sono relativamente pochi i casi in cui una guerra viene combattuta “unicamente” per il controllo di una risorsa. Perfino per quanto riguarda il petrolio è difficile trovare una guerra che sia stata fatta esclusivamente per il petrolio, comprese le guerre dell’Iraq. Le guerre, soprattutto quelle tra grandi soggetti, come le nazioni, sono eventi di tale ampiezza e complessità che in genere coinvolgono diversi elementi e motivazioni. È certamente vero - per stare ad un caso contestato - che Israele non ha mai condotto una guerra unicamente allo scopo di controllare l’acqua. Ciò non toglie che –come vedremo fra poco - il controllo delle fonti idriche è stato ed è un elemento tenuto in grande considerazione nei propri obiettivi militari e nelle proprie strategie politiche dalle dirigenze israeliane. Ma il punto fondamentale è che quando ci si interroga sull’esistenza attuale o futura di guerre per l’acqua la risposta dipende fondamentalmente dalla definizione che vogliamo dare al concetto di “guerra”. Se per guerra intendiamo uno scontro militare su larga scala avente per soggetti due o più nazioni che oppongono i propri eserciti allo scopo di conquistare un territorio strategico o sottomettere l’altra nazione, allora questo tipo di guerra è quasi completamente scomparso. La maggioranza dei conflitti dalla fine degli anni ’80 ad oggi ha preso altre forme. Degli oltre cento conflitti succedutisi dopo il 1989 solamente sette casi hanno riguardato guerre tra Stati. Negli ultimi decenni i cambiamenti geopolitici, strategici, militari sono stati tali che gli studiosi di settore hanno profondamente rimesso in discussione la nozione di guerra e hanno proposto per sottolineare la discontinuità termini quali “nuove guerre”, “guerre postmoderne”, “guerre postnazionali”, “guerre senza 35 Citato in New York Times, 10 agosto, 1995. «if we are not careful, future wars are going to be about water and not about oil», Kofi Annan, “Question and aswer session after statement (SG/SM/7742) at the Federation of Indian Chambers of Commerce and Industry”, New Delhi, 15 march, 2001, http://www.un.org/News/ossg/sgcu0101.htm 36 81 limite”.37 Attualmente si tratta sempre meno di guerre tradizionali tra Stati e sempre di più di guerre interne o transfrontaliere che oppongono diversi interessi politici, economici, materiali, identitari, che fondamentalmente ignorano o relativizzano i confini nazionali e che ovviamente non prevedono alcuna dichiarazione formale di guerra. Sono cambiati anche gli attori in campo che non sono più solamente i tradizionali eserciti, ma anche militari privati, milizie irregolari, gruppi di guerriglieri, combattenti improvvisati, terroristi. Sono cambiati gli obiettivi strategici, non si tratta più di occupare militarmente un territorio quanto di difendere ed imporre i propri interessi economici e politici anche fuori dal proprio territorio. Le modalità di combattimento poi non ricalcano quasi mai gli scontri frontali tra eserciti ma coinvolgono sempre più pezzi di popolazione e sviluppano modalità di violenza più estemporanee e più disseminate. Insomma il rapporto tra elementi civili e militari nonché le contrapposizioni tra pace e guerra ne escono radicalmente indebolite. Dunque è scorretto valutare la presenza di nuove guerre per l’acqua sulla base delle categorie politico-militari appartenenti a epoche storiche in gran parte già sorpassate. È chiaro dunque che ciò che riusciamo a vedere e ad evidenziare dipende in gran parte dalle nostre griglie di analisi. A questo si aggiunga che alcuni studiosi, in particolare Philippe Le Billon, hanno sostenuto che bisogna tener conto della relazione tra la natura/geografia di una risorsa e i tipi di conflitti cui può dar luogo. In altre parole ogni risorsa “chiama” tipologie di conflitti differenti (colpi di stato, movimenti secessionisti, ribellioni e rivolte, conduzione di guerre locali) a seconda che sia localizzata o diffusa, vicina o lontana dai centri di potere, che sia più o meno saccheggiabile o commercializzabile (Le Billon, 2001). Ciò detto personalmente ritengo che la categoria di guerra non andrebbe usata indiscriminatamente o in senso troppo metaforico. Se vogliamo indicare l’insieme delle tensioni - a volte violente, a volte no - che stanno emergendo attorno all’acqua ritengo sia più corretto parlare di “conflitti per l’acqua” e precisare poi di volta in volta di che tipo di conflitti si tratta. Ci possono essere conflitti tra Stati, come conflitti intestini, come anche conflitti transfrontalieri. I conflitti possono essere di tipo giuridico sul titolo di proprietà o su diritti d’accesso e d’uso. Possono essere di tipo economico relativi allo sfruttamento e alla privatizzazione o al guadagno relativo all’utilizzo delle risorse idriche per l’agricoltura, per l’industria, per l’allevamento, per l’acqua potabile. Possono essere di tipo sociale e riguardare forme di equità nei consumi o la soddisfazione dei bisogni di base della popolazione. Possono essere violenti o non violenti; possono registrare il coinvolgimento di militari o di guerriglie armate, come esprimersi in forme di protesta sociale e popolare più o meno radicali. Anche le vittime di questi conflitti possono essere di diversi tipi. Ci possono essere morti e feriti per scontri armati, per forme di repressione, per terrorismo o per boicottaggio (il caso della strage di 487 indigeni per la diga sul fiume Chixoy in Guatemala); ci possono essere migrazioni forzate o vere e proprie deportazioni (il caso delle dighe indiane e cinesi), oppure ci possono essere vittime di disastri o rifugiati ambientali. Insomma il quadro dei conflitti per l’acqua è vasto e complesso e non è il caso di ridurlo ad un unico paradigma o ad un unico tipo. L’uso del termine “conflitto” permette anche di lasciare spazio ad una valutazione positiva della dinamica che si può instaurare. Con una battuta con le guerre c’è chi vince e chi perde. Con i conflitti tutti possono rinunciare a qualcosa per soddisfare diritti ed esigenze di tutti. Il conflitto in sé è semplicemente espressione di una molteplicità di punti di vista, di bisogni o di concezioni. Da questo punto di vista 37 Tra gli altri Mary Kaldor (Kaldor, Vashee, 1997; Kaldor, 1999, 2004, Kaldor, Albrecht, Schméder, 1998), Qiao Liang, Wang Xiangsui, (Liang, Xiangsui, 2001), Mark Duffield (Duffield, 2002, 2004), Carlo Galli (Galli, 2002), Marco Deriu (Deriu, 2005). 82 i conflitti mantengono in sé non solo la possibilità di una soluzione o di un accordo tra le parti ma anche la possibilità di un apprendimento e di una maturazione politica, ambientale, culturale delle parti coinvolte, dai governi, alle istituzioni, all’opinione pubblica, ai singoli cittadini. I conflitti in sé possono anche servire a restituire maggiore riflessività, maggiore cautela e oculatezza. I conflitti sono positivi anche in quanto segnano la capacità di reazione, di mobilitazione per i propri diritti, per le proprie aspirazioni o per la giustizia sociale. Si potrebbe anche dire che è fondamentale portare alla luce i conflitti proprio per scongiurare le guerre. L’alternativa alle guerre per l’acqua non è una condizione irenica e pacificatoria, ma piuttosto la capacità di vivere e attraversare i conflitti assieme ad altri soggetti, la disponibilità a trasformare una difficoltà in un’occasione di cooperazione. Nel periodo che va dall’805 d.C. agli anni ’80 del novecento sono stati stipulati oltre 3.600 trattati diplomatici per definire controversie relative all’acqua, mentre negli ultimi cinquant’anni a fronte di 507 eventi conflittuali e di 37 casi di violenza relativi alla gestione delle acque si sono avuti 1.228 azioni di cooperazione e la stipula di 200 trattati tra paesi. Molti autori – da Sandra Postel ad Aaron Wolf e Shira B. Yoffe – sostengono l’insegnamento che ne possiamo trarre è che l’acqua è fonte piuttosto di forme di cooperazione e condivisione che di conflitti e di guerre. GLI SCENARI ATTUALI Abbiamo detto poco fa che le tipologie di conflitto possono essere molto differenti. Nella ricognizione delle situazioni attuali evidenzieremo diversi conflitti sulla base della tipologia spaziale. Distingueremo dunque tra conflitti intestini o transfrontalieri, urbani, conflitti territoriali, conflitti internazionali, e infine conflitti legati al terrorismo. Conflitti intestini o transfrontalieri Molti conflitti relativi all’acqua si sviluppano su base locale e dunque si presentano come conflitti intestini, regionali ma anche transfrontalieri. Si possono sviluppare conflitti urbani, tra centro e periferia, tra città e campagna, tra comunità a monte e comunità a valle o tra governo e comunità locali, soprattutto relativamente alla realizzazione di grandi opere come dighe, deviazioni o invasi. Conflitti civili e territoriali sono cresciuti negli ultimi decenni in molti paesi e sono divenuti esperienze ricorrenti in diverse zone della Thailandia, per esempio sul fiume Chao Prhaya. Sempre in In Thailandia la costruzione della diga Pak Mun ha determinato una drammatica riduzione delle risorse ittiche del Mekong che ha messo in difficoltà oltre 25.000 persone che dipendevano da questo patrimonio naturale. La protesta delle popolazioni locali continua dal 1994, anno di completamento della diga. In India nel Punjab per i pozzi e per le acque dell’Indo. In quest’ultimo paese il fiume Cauvery è al centro di un conflitto per l’utilizzo dell’acqua a fini di irrigazione tra gli stati indiani del Karnataka e del Tamil Nadu che ha causato diverse vittime. Quest’ultimo Stato che si trova a valle lamenta un eccessivo prelievo da parte dello Stato a monte, il Karnataka. Nel 1983 l’associazione degli agricoltori del Tamil Nadu ha presentato una petizione per ricevere una quota maggiore di acqua dal fiume. Nel 1991 la questione è stata portata dal presidente indiano di fronte alla Corte suprema il cui verdetto non è stato accettato dal Karnataka. Ne sono seguiti violenti tumulti che hanno costretto ad un trasferimento oltre 100.000 persone. Gli scontri sono riscoppiati aspramente nel 2002. In Cina si sono registrati molti conflitti attorno al Fiume Giallo (Huang ze) e al Fiume Azzurro (Yangtze). Per esempio nel luglio del 2000 si sono verificati duri scontri nella zona dello Shatung, vicino alla foce del Fiume Giallo, tra migliaia di contadini e le forze dell’ordine a causa di un piano governativo volto a trasferire alle aree urbane 83 una parte delle riserve idriche locali impegnate per l’agricoltura (Anzera, Marniga, 2003, p. 36). Quel territorio era già penalizzato da tempo dallo sfruttamento del Fiume Giallo in zone più a monte che aveva portato ad un sensibile abbassamento del livello del fiume soprattutto nell’ultimo tratto prima dello sbocco in mare aperto. In questo caso ad esempio si sovrappongono forme di contrapposizione tra città e campagna e tra comunità a monte e a valle. Negli Stati Uniti si sono registrate delle dispute legate ad alcuni fiumi come il Columbia, il McCloud, l’Elwha, lo Snake e il Trinity in gran parte prosciugati dalle dighe e dai prelievi idrici. Tali fiumi erano fonte di sostentamento per alcune tribù indiane che assieme alle associazioni ambientaliste si sono mosse per protestare e chiedere la restituzione dell’acqua. Nel caso del Trinity la lotta si è conclusa positivamente. Nel 2004 infatti il Bureau of Reclamation ha deciso che almeno il 47% del flusso del fiume andava restituito ai pesci. Anche le dighe sul fiume Elwha saranno abbattute in seguito ad una decisione del Congresso americano. Conflitti simili si sono verificati in Colombia attorno alle acque del fiume Sinù, imbrigliato dalla costruzione della diga “Urrà I”. L’opera idraulica ha ridotto la portata del fiume e ha fatto crollare la pesca. Le comunità locali Embera-Katio e Zenù che portano avanti un movimento di protesta contro le dighe sono state sottoposte a violenze, repressioni e sparizioni. Anche in Spagna si sono registrate tensioni a livello regionale, per esempio tra l’autonomia di Aragona e quella di Catalogna attorno all’utilizzo delle acque del fiume Ebro. Sempre a livello locale, urbano o regionale, si possono sviluppare conflitti legati alla gestione dell’acqua e ai tentativi di privatizzare questo bene (vd dopo). Conflitti internazionali A livello internazionale i conflitti derivano principalmente dal tentativo di appropriarsi delle fonte idriche, di controllarle o di sfruttarle in maniera squilibrata e unilaterale in una condizione di mancanza di leggi e trattati internazionali. In genere i conflitti vengono innescati da interventi unilaterali quali la costruzione di dighe, di canali, la deviazione di fiumi o atti di overpumping. Il paese danneggiato può protestare o reagire con minacce o rappresaglie. I conflitti posso nascere attorno a grandi fiumi o a laghi. Del resto si calcola che il 32% dei confini tra Stati sia segnato dall’acqua. Nei Balcani uno dei fattori che contribuisce ad alimentare le tensioni tra i diversi stati riguarda la rete idrografica di alcuni fiumi (Drava, Sava, Drina, Danubio) che hanno carattere frontaliero o transfrontaliero, ponendo così il problema della gestione comune delle acque. Esistono inoltre problemi relativi alla definizione delle acque territoriali e dello sfruttamento delle risorse marine, dalla pesca ai giacimenti minerari, dalle riserve petrolifere alle rotte commerciali. In particolare il Danubio,38 considerato il più importante fiume europeo, è storicamente al centro di diversi conflitti. Ai primi del ‘900 la Slovacchia tentò di deviare le acque del fiume per creare un nuovo alveo tutto all’interno del proprio territorio. Il caso è stato portato dall’Ungheria davanti alla Corte di Giustizia dell’Aia. Come ha notato Mark De Villiers, il caso diventò la prima controversia internazionale sui diritti per l’acqua mai affrontata in un tribunale (De Villiers, 2004, p. 216). Un secondo conflitto emerge nel 1919 quando dopo la conferenza di pace di Parigi la neonata Cecoslovacchia mira esplicitamente ad annettere le regioni ungheresi sull’altra sponda del fiume per entrare in possesso di entrambe le rive suscitando in questo modo l’ostilità dell’Ungheria. 38 Sul Danubio si veda Sironneau (1997), De Villiers (2004), Rusca, Simoncelli (2004). 84 Nel 1977 nel quadro del regime di cooperazione tra stati del blocco sovietico Cecoslovacchia e Ungheria siglano insieme il “Joint Agreed Plan” dando avvio al progetto Gabcikovo-Nagymaros per la gestione e lo sfruttamento delle acque del fiume che prevedeva la realizzazione di un sistema di sbarramenti e due centrali idroelettriche. Il piano avrebbe permesso la deviazione del Danubio in un nuovo canale di 17 km consentendo la navigazione per le merci e la realizzazione degli impianti per la generazione di energia elettrica. Tale clima di cooperazione si guasta velocemente dopo l’89 con la scomparsa del blocco comunista. Venuto meno il cappello comune i due paesi rivalutano le questioni in campo. Viene promosso un nuovo studio di impatto ambientale che mostra come la diga di Nagymaros possa nuocere all’ecosistema del fiume e diminuire le scorte d’acqua potabile. Le interpretazioni dello studio da parte dei due paesi sono tuttavia differenti. La Cecoslovacchia vorrebbe una semplice revisione tecnica del progetto mentre l’Ungheria decide di sospendere i lavori sia a Nagymaros (Ungheria) che quelli di sua competenza anche a Gabcikovo (Slovacchia) e preme per l’accantonamento definitivo dell’intero progetto. Nonostante questo, Praga decide di proseguire con la “Variante C” ovvero con la prosecuzione unilaterale della costruzione della diga e la deviazione del corso del fiume in territorio cecoslovacco. A questo punto la tensione tra i due paesi cresce rapidamente. Nel novembre del 1991 Cecoslovacchia da l’avvio ai lavori, mentre nel febbraio del 1992 l’Ungheria minaccia la rottura unilaterale del vecchio trattato del 1977. La Comunità Europea temendo un altro conflitto europeo propone un arbitrato e la costituzione di una commissione trilaterale di esperti per risolvere la controversia, ma la mediazione di fronte alla volontà della Cecoslovacchia di continuare i lavori non è facile. Gli Ungheresi per tutta risposta dichiarano nullo il trattato del 1977. In ottobre inizia un nuovo round di trattative con la mediazione europea. Alla fine del 1992 si arriva alla firma congiunta del “Protocollo di Londra” che prevede la sospensione della “Variante C”, l’impegno a mantenere almeno il 95% dell’acqua nel suo alveo originale e la non attivazione della centrale di Gabcikovo, nonché la decisione di portare il caso dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. È la prima volta che questa Corte si trova ad affrontare un caso ambientale di portata internazionale e non a caso sul tema dell’acqua. La sentenza della Corte arrivò solamente il 25 settembre 199739. Alla Slovacchia (subentrata dopo la divisione del 1993) la Corte impose l’arresto del progetto con la motivazione che appropriarsi di un fiume e mettere in pericolo un ambiente naturale unico al mondo era un’azione illegale, mentre per quanto riguarda l’Ungheria la Corte sottolineò che essa non poteva abrogare unilateralmente il trattato del 1977 per cui si doveva ritenere ancora impegnata a portare a conclusione il progetto congiuntamente con la Slovacchia. In concreto i due paesi avrebbero dovuto trovare una soluzione – soprattutto sul piano relativo alla massa d’acqua da deviare - che tenesse conto dei reali vincoli ambientali. In Asia il governo indiano ha avviato fin dagli anni ’40 la costruzione di 14 grandi dighe e sbarramenti sul fiume Gange che hanno decisamente ridotto i flussi idrici a valle, in paesi come il Bangladesh. In particolare la grande diga di Farakka, ultimata nel 1974, ha provocato forti tensioni tra India e Bangladesh. Nel 1996 l’India aveva firmato un trattato trentennale con il Bangladesh in cui si impegnava a lasciare al vicino di casa metà dell’acqua della diga di Farakka. In realtà questo accordo non è stato rispettato. Inoltre l’india ha continuato a costruire nuove dighe e sbarramenti aumentando ulteriormente lo squilibrio idrico a sfavore del Bangladesh. Nel 2004 il governo bengalese ha accusato l’opera realizzata dall’India di aver causato il prosciugamento di oltre ottanta fiumi. Si tratta di una disputa piuttosto insidiosa che 39 Il giudizio è consultabile in cij.org/docket/files/92/7375.pdf#view=FitH&pagemode=none&search=%22Affaire Gabcikovo-Nagymaros%22 http://www.icjrelative au projet 85 potrebbe trasformarsi in un conflitto più serio. Una disputa analoga tra i due paesi sta sorgendo attorno alle acque del fiume Barak su cui incombe un piano indiano di costruzione di molte dighe. Nel 2005 migliaia di bengalesi hanno manifestato per protestare contro la realizzazione della diga di Tipaimukh. In America Latina possiamo osservare diversi conflitti legati all’acqua. In particolare si può segnalare il conflitto che oppose Cile e Bolivia per il Rio Lauca un fiume che scorre per i primi 75 chilometri in Cile e nei rimanenti 150 in Bolivia fino a sboccare nel Lago di Coipasa, un bacino poco profondo.40 Fino al 1962 il fiume non era usato per nient’altro che per irrigazione in una agricoltura di sussistenza di piccola scala vicino ad alcuni piccoli villaggi in Bolivia. A partire dal 1939, tuttavia, i governi del Cile annunciano la propria intenzione di deviare l’acqua del fiume collegandolo tramite una serie di dighe e dei canali ad altri corsi d’acqua al fine di assicurare l’irrigazione nella valle di Azapa. Lo scopo del progetto è quello di accrescere le riserve alimentari delle popolazioni nel Dipartimento cileno di Arica. A questo schema iniziale si aggiungerà successivamente il progetto di un impianto idroelettrico per supportare le miniere e le industrie dell’area. Tale progetto anche in fase di studio suscita fin da subito le proteste della Bolivia che temendo una drastica riduzione del flusso nel proprio territorio si richiama in una nota ufficiale alla Dichiarazione di Montevideo del 1933, secondo cui lo Stato riparo superiore può usare l’acqua di un fiume internazionale se non modifica in alcuna forma le condizioni idrologiche e il regime naturale di un fiume. Le due posizioni sono già chiare fin dall’inizio. La Bolivia teme un’alterazione del regime del Lauca nel proprio territorio e la riduzione e la salinizzazione del Lago di Coipasa con relative conseguenze negative sulla gente che vive nell’area. Il Cile ritiene invece che il proprio progetto preleverà solamente il 25% delle acque del fiume e dunque non altererà in modo sostanziale il suo bacino. Inoltre ritiene fondamentale il miglioramento dei rifornimenti alimentari per 100.000 persone nel territorio cileno. Il progetto messo da parte per qualche anno torna all’ordine del giorno nel dicembre 1947, quando il Congresso Cileno vota i fondi per procedere all’attuazione dello schema suscitando ancora una volta le proteste della Bolivia. Viene approntata una prima Commissione Mista di tecnici che non oppone ostacoli alla realizzazione dell’opera, i cui lavori vengono effettivamente iniziati. Nel 1953 il nuovo governo rivoluzionario della Bolivia rimette in moto la protesta contro il progetto cileno. Nel 1958 la Bolivia avanza una pressante richiesta per valutare gli ultimi progetti tecnici e per insediare una seconda Commissione congiunta. L’anno successivo il Cile addiviene alle due richieste. Anche la seconda commissione approva il progetto e rigetta le obiezioni boliviane. Nel 1961, di fronte alla notizia della prova di una prima deviazione, la Bolivia inoltra una nota dai toni più aggressivi e in seguito minaccia di portare la questione davanti ad un’organizzazione internazionale. Nei mesi successivi il ministro degli esteri Boliviano José Fellman Velarde lascia intendere che la Bolivia considera la questione del Lauca connessa con la propria richiesta di una via di sbocco al mare. Nel 1962 la tensione cresce ulteriormente. La Bolivia fa sapere che se il progetto verrà inaugurato la Bolivia lo considererà “un atto di aggressione”. Ma non viene raggiunto nessun accordo e nell’aprile la deviazione delle acque del Lauca ha inizio. La Bolivia rompe le relazioni diplomatiche col Cile e a La Paz scoppiano violente dimostrazioni anticilene durante le quali diverse persone rimangono uccise negli scontri con la polizia. Il Cile invia le proprie forze dell’ordine al confine tra i due Stati per proteggere le dighe appena costruite dalla possibile minaccia dell’ira popolare dei boliviani. La disputa viene portata sui tavoli dell’OAS, l’Organizzazione degli Stati Americani che pur non 40 Per un inquadramento si veda Glassner (1970), Rusca, Simoncelli (2004). 86 addivenendo ad una soluzione tenta di riportare il confronto in un quadro più ragionevole. Il conflitto, nota Martin Ira Glassner, viene affrontato in maniera diversa dai due paesi: come una questione tecnica e giuridica dal Cile, e come una questione politica dalla Bolivia che ritiene tale disputa uno strumento fondamentale per trattare la più ampia questione di un proprio possibile sbocco sul mare (Glassner, 1970, p. 198). Tale disputa non viene comunque realmente risolta ma rimane latente negli anni successivi attraverso la discussione sull’attribuzione delle quote d’acqua tra i due paesi. La costruzione indiscriminata di ulteriori dighe ha comunque ulteriormente ridotto la portata del Lauca in territorio boliviano danneggiando le popolazioni locali. Il conflitto tra i due paesi si è riaperto nuovamente nel 2000, quando alla disputa sul Lauca si è aggiunta la contesa per le acque del piccolo fiume Silala a riprova del fatto che la gestione delle risorse idriche è una faccenda importante nelle relazioni tra i due paesi. Passando al continente africano, l’Okavango, importante fiume dell’Africa meridionale che scorre per oltre 1.500 km fra tre differenti paesi (Angola, Namibia e Botswana) è stato motivo di differenti conflitti sia regionali che internazionali.41 I primi scontri in questa regione sono scoppiati negli anni ’80 quando il governo del Botswana ha reso pubblica la sua intenzione di promuovere il Southern Okawango Integrated Water Development Project, un piano che metteva in conto la costruzione di tre dighe nella parte più meridionale del fiume allo scopo di sviluppare l’agricoltura e la produzione alimentare nella regione del delta. Le popolazioni locali però si sono immediatamente sollevate con il concorso anche di importanti Ong e associazioni ambientaliste internazionali per impedire la realizzazione del progetto. Il governo del Botswana ha deciso quindi di incaricare una commissione di controllo esterno per svolgere una valutazione indipendente. La scelta è caduta sulla World Conservation Union (IUCN) che ha effettivamente realizzato un rapporto che dava ragione dei timori della popolazione. Secondo tale Istituto, il progetto avrebbe avuto delle conseguenze molto negative sull’ambiente, sul turismo e sull’economia locale. In seguito a queste rilevazioni il governo del Botswana ha quindi messo da parte il progetto contestato. Successivamente negli anni ‘90 emergono invece alcune tensioni internazionali. Nel 1994 Botswana, Namibia e Angola, addivengono alla stipula a Windhoek di un accordo e alla creazione sotto il principio guida "three countries, one river" di una Okavango River Basin Water Commission (OKACOM)42 finalizzata a stabilire i criteri per la distribuzione e la gestione del patrimonio idrico del fiume. Nonostante questo passo avanti l’Okavango diventa oggetto di una disputa tra Botswana e Namibia che riguarda modi diversi di considerare il patrimonio idrico del fiume. Mentre la Namibia pensa a sfruttare il fiume attraverso prelievi e deviazioni soprattutto per rifornire la capitale Windhoek, diversamente il Botswana, oramai consapevole dell’importanza della risorsa turistica offerta dal delta del fiume, si oppone ad un eccessivo prelievo dell’acqua a monte che può determinare un impoverimento dell’ecosistema del delta, considerato straordinario dal punto di vista ecologico e paesaggistico. Il conflitto scoppia nel 1996, allorché il Dipartimento per le Questioni Idriche della Namibia chiede con forza al governo di affrontare la drammatica situazione idrica che affligge il paese ed in particolare la capitale Windhoek. Il governo risponde con un progetto che prevede la realizzazione di un acquedotto lungo 250 km finalizzato a prelevare l’acqua dal fiume e portarla fino al territorio della capitale. Il Botswana che si trova a valle reagisce immediatamente e forte dell’appoggio delle associazioni 41 Per un inquadramento delle questioni legate all’Okavango si vedano Hitchcock (2001), Rusca, Simoncelli (2004), Wormuth, Buffle (2002), Green Cross, http://www.greencrossitalia.it/ita/acqua/wfp/okavango_wfp_001.htm. 42 http://www.okacom.org/English/pages/home.php 87 ambientaliste si dichiara contrario al progetto della Namibia che minaccia di ridurre il flusso d’acqua nel delta causando gravi problemi alla popolazione locale e al delicato ecosistema del delta, fondamentale attrazione turistica del paese. La posizione ufficiale del Botswana non gli impedisce comunque di sviluppare a sua volta una serie di condutture per prelevare a sua volta l’acqua dal bacino del fiume. Dopo un lungo braccio di ferro la Namibia accetta di svolgere un “Environmental Impact Assessment” che però ipotizza un impatto limitato anche nel basso corso del delta Okavango, pari ad un 11% annuo. La tensione dura fino all’anno successivo quando naturali piogge torrentizie rigenerano almeno per il momento il patrocinio idrico della Namibia convincendola a rimandare l’attuazione del suo progetto. Nel frattempo un importante schieramento di Ong ed Istituzioni internazionali tra cui l’International River Network e Green Cross International si sono attivate in difesa del bacino dell’Okavango. Negli ultimi anni il lavoro della OKACOM in collaborazione con importanti istituzioni internazionali e con la mediazione di esperti nella risoluzione di conflitti idrici ha permesso un allentamento della tensione. La commissione ha condotto in collaborazione con la “Global Environment Facility” (GEF) una valutazione transfrontaliera delle dimensioni idrologiche e ha lanciato un vero e proprio “Piano Integrato di Gestione” (Integrated Management Plan – IMP) tra i tre paesi che condividono il bacino del fiume - Angola, Namibia e Botswana – stabilendo così le coordinate per una cornice di stabile cooperazione Un altro fiume attorno a cui si muovono conflitti è i l Senegal, un fiume di 1.800 km che attraversa Guinea, Mali, Mauritania e Senegal ed è per importanza il secondo fiume dell’Africa occidentale.43 Per gestire le sue acque e assicurare un accordo tra gli stati ripari nel 1972 è stata creata l’“Organization for the Development of the Senegal River” (OMVS). Nell’ottica di uno sviluppo della regione nel bacino del fiume sono state costruite negli anni le dighe di Diama in Senegal (a valle) e la diga di Manantali nel Mali (a monte). Queste dighe hanno svolto la funzione di controllare il flusso del fiume, di impedire l’intrusione dell’acqua marina e di immagazzinare acqua per l’agricoltura, ma d’altra parte hanno anche causato seri problemi alle popolazioni locali. In particolare la migrazione forzata delle popolazioni che vivevano nelle aree dove sono state costruite le dighe; un inquinamento delle acque dovuto alla diffusione dell’agricoltura agroindustriale; la diminuzione della popolazione ittica del fiume; l’aumento della salinità dei terreni e il loro degrado; l’alterazione delle caratteristiche idrodinamiche dei flussi d’acqua in particolare nel delta del fiume; la proliferazione di alcune malattie legate all’acqua tra cui la malaria, la schistosomiasi, la diarrea. La gestione delle acque del fiume ha suscitato tensioni tra Mauritania e Senegal che prelevano l’acqua dal fiume per supportare le proprie attività agricole. In particolare nel 1989 la decisione del governo senegalese di promuovere il “Fossil Valley Rehabilitation Project” finalizzato a deviare una parte del fiume per sviluppare l’agricoltura nell’entroterra ha scatenato le proteste popolari in Mauritania che hanno portato anche all’uccisione di un contadino senegalese per mano di un pastore nomade mauritano. Anche il governo mauritano ha levato la protesta contro il Senegal reo di attentare alla propria sicurezza idrica e alimentare. Il conflitto tra i due paesi ha causato sollevazioni, violenze e scontri armati nelle capitali e nei confini di entrambi i paesi. A Dakar sono stati uccisi 100/150 commercianti mauritani mentre centinaia di senegalesi sono stati uccisi sul territorio mauritano. In totale si stima la morte di circa quattrocento persone negli scontri per l’acqua. La tensione è rientrata dopo qualche mese in seguito alla decisione del 43 Per un approfondimento sui conflitti legati a questo fiume si vedano Kneib (2002), Olly, Stucki, Fraboulet-Jussila (2006), Salem-Murdock, Niasse (1996), World Water Assessment Programme (2003), pp. 447-461, Rusca, Simoncelli (2004). 88 governo senegalese di rinunciare al contestato progetto e di cercare un accordo con la Mauritania. Il conflitto è tuttavia riscoppiato dieci anni dopo, nel 1989, quando il governo senegalese ha ripresentato nuovamente il “Fossil Valley Rehabilitation Project” suscitando immediate reazione dall’altra parte. Il governo della Mauritania ha imposto ai cittadini senegalesi di lasciare il paese e nel giro di poco tempo oltre 70.000 agricoltori senegalesi sono stati espulsi da Nouakchott, capitale della Mauritania. Allo stesso modo 10.000 mauritani sono stati costretti a fuggire dal Senegal e a ripiegare nel proprio paese. In seguito i due governi hanno cominciato lo schieramento delle proprie truppe lungo il confine dando avvio anche ad alcuni episodi di violenze e di scontri. Per scongiurare la guerra i due paesi hanno tentato la via diplomatica riuscendo a diminuire le tensioni ma non a trovare un reale accordo. La regione maggiormente al centro di conflitti per l’acqua rimane comunque il Medio Oriente. Per esempio il conflitto tra Israele, palestinesi e il resto dei paesi Arabi della regione (Siria, Giordania, Libano) ha fin dall'inizio, tra le sue questioni di fondo, quella del controllo delle fonti idriche in una regione povera di acque.44 Nelle guerre condotte contro gli stati della regione, Israele ha cercato e ottenuto il controllo totale della valle del Giordano, dalle sue sorgenti fino al Mar Morto, e della falda acquifera montana della Giudea e della Samaria. L'occupazione del Golan si spiega fra l'altro con il fatto che un terzo dell'acqua utilizzata da Israele proviene da quell’altipiano. Per quanto riguarda il fiume Giordano, per esempio, sebbene soltanto il 3% del suo bacino rientri nel territorio israeliano, il fiume fornisce circa il 60% delle risorse idriche utilizzate da Israele. Per quanto riguarda la Cisgiordania, si può sottolineare che Israele consuma circa l’82% dell’acqua della Cisgiordania mentre i palestinesi ne usano neanche il 20%. L’accesso dei Palestinesi all’acqua – anche quella dei pozzi - è controllato e limitato dagli Israeliani. Il problema della spartizione dell'acqua è dunque uno dei fulcri fondamentali al centro del conflitto della regione, delle negoziazioni multilaterali arabo-israeliane e di un possibile processo di pace tra Israele e palestinesi. L’intera storia del conflitto israelopalestinese è segnata da progetti e trattati che hanno al centro la questione dell’acqua dai piani dell’Impero Ottomano ai primi piani dell’Agenzia ebraica, fino ai più recenti accordi di pace. La storia geopolitica di quella regione si sviluppa attorno al controllo delle sue acque. Tra il 1965 e il 1966 Israele attacca con la propria aviazione le opere idrauliche realizzate sulle alture del Golan da parte della Siria che voleva deviare le acque dei fiumi Dan e Baniyas, entrambi affluenti del Giordano. Israele aveva puntato sul progetto del “National Water Carrier”, un sistema idrico nazionale, che prevedeva lo sfruttamento di una buona parte della portata del Giordano. Per reazione la Lega araba cominciò a costruire alcuni canali con il quale deviare l’Hasbani e il Wazzani, due tributari del Giordano. Israele rispose nell’aprile del 1967 con un bombardamento della centrale idroelettrica siro-giordana di Maqarin tra lo Yarmuk e il Giordano. La guerra dei Sei giorni scoppia il 5 giugno del 1967 e stabilisce il controllo Israeliano sulle alture del Golan e sull’intera Cisgiordania. Un terzo dell’acqua consumata da Israele proviene dalle alture del Golan, mentre il fiume Giordano provvede al 60% delle sue necessità idriche. Nel complesso si stima che Israele usi l’80% delle acque della Cisgiordania mentre lascia ai palestinesi soltanto il 20% rimanente. Ancora oggi l’accesso all’acqua è fortemente limitato e controllato per i palestinesi, mentre gli israeliani utilizzano le risorse idriche in maniera non sostenibile. 44 Sui conflitti in Palestina e Medio Oriente si vedano Sironneau (1997), Anzera, Marniga (2003), Greco (2004), Rusca, Simoncelli (2004), Marcenò (2005). 89 Rimanendo sempre in Medio Oriente, un altro conflitto storico è quello che oppone la Turchia, la Siria e l’Iraq45 per lo sfruttamento delle acque dell’Eufrate. La Turchia intende sfruttare la sua posizione per affermare la sua autorità sul fiume rispetto ai paesi a valle. Il suo GAP (Grande progetto Anatolico) prevede la realizzazione di ben 22 dighe sull’Eufrate che diminuirebbero drasticamente il livello delle acqua del fiume disponibili per l’Iraq. La più grande tra questa, la diga di Ataturk è stata completata nel 1991 ed è alta la bellezza di 454 metri. Le opere fin ora realizzate hanno già ridotto l’Eufrate nel territorio iracheno a un corso d’acqua moribondo. Problemi analoghi si erano registrati in passato tra Siria e Iraq. Nel momento in cui la Siria comincia il riempimento della nuova grande diga di Tabqa, questa causa la diminuzione di un quarto della portata idrica dell’Eufrate in Iraq. Per tutta risposta Saddam Hussein schiera le sue truppe alla frontiera e minaccia esplicitamente la diga. In un primo momento la Siria rifiuta di negoziare i diritti sull’acqua e a sua volta rafforza i confini. A quel punto diventa provvidenziale l’intervento dell’Arabia Saudita e dell’Unione Sovietica che si offrono come mediatori. IN PROSPETTIVA Come affrontare oggi il rapporto tra acqua e conflitti? Le possibilità sono tre: migliorare la capacità di gestione dei conflitti una volta sviluppati; prevenire i conflitti prima che esplodano monitorando alcuni possibili indicatori di crisi; affrontare alla radice i problemi che portano ad esacerbare le questioni dell’acqua nel mondo contemporaneo. Ovviamente le tre possibilità non sono reciprocamente esclusive, anzi è inevitabile lavorare contemporaneamente su tutti e tre i livelli. GESTIONE DEI CONFLITTI Sul primo aspetto si tratta di sviluppare strumenti e modalità per gestire i conflitti per l’acqua in maniera non distruttiva e possibilmente non violenta. A questo proposito val la pena ricordare che il Programma Idrologico dell’Unesco ha sviluppato un progetto chiamato “International Potential Conflict to Co-operatin Potential” (PCCP)46 che mira a analizzare gli strumenti legali, tecnici e diplomatici e la loro capacità di prevenire e risolvere i conflitti. Ripercorre la storia dei conflitti per l’acqua e ne trae lezioni per il futuro. Il progetto lavora anche sul piano educativo e culturale a tutti i livelli - con governi, agenzie, educatori tecnici di istituzioni internazionali - per formare i diversi soggetti alla negoziazione, alla gestione dei conflitti e alla implementazione d processi cooperativi.47 PREVENZIONE Per quanto riguarda la questione della prevenzione la domanda che dobbiamo porci è: quali sono i paesi o i bacini che rischiano nel futuro di registrare le maggiori tensioni? Per rispondere occorre evidentemente individuare gli elementi critici. Peter Gleick (1993) suggerisce quattro indicatori per evidenziare le regioni più a rischio di conflitti internazionali per l’acqua: - Rapporto tra domanda e offerta d’acqua; - Disponibilità d’acqua per persona; 45 Si vedano in proposito Anzera, Marniga (2003), De Villers (2004) Rusca, Simoncelli (2004), Romeo (2005). 46 Vd. http://www.unesco.org/water/wwap/pccp/index.shtml 47 Per un approfondimento delle tematiche relative alla risoluzione di dispute internazionali si veda: il volume dell’International Bureau Of The Permanent Court Of Arbitration (2003). 90 - Percentuale della offerta idrica originata al di fuori dei confini nazionali; Percentuale della dipendenza da idroelettricità rispetto al totale dell’offerta elettrica. Come si può notare, Gleick si concentra sulla nazione come prima unità di analisi. Da un altro punto di vista Aaron T. Wolf, Shira B. Yoffe e Mark Giordano del “Basin at Risk Project” hanno discusso alcuni indicatori significativi che dovrebbero permettere di monitorare il possibile sviluppo di conflitti dentro o tra paesi nel prossimo futuro. A loro avviso per la nascita di possibili conflitti la capacità istituzionale all’interno di un’area di bacino è altrettanto importante se non più importante delle dimensioni strettamente fisiche. La loro ipotesi è che la gravità del conflitto possa crescere nella misura in cui i possibili cambiamenti dentro un bacino superino la capacità istituzionale di assorbire questo mutamento (Wolf, Yoffe, Giordano, 2003). Dunque per prevedere la nascita di possibili conflitti ritengono che si debba fare attenzione a due aspetti: - l’“internazionalizzazione” di un bacino ovvero possibili mutamenti sul piano istituzionale, per esempio il passaggio da una gestione di un bacino centralizzata sotto un unico paese o autorità ad una gestione suddivisa tra più nazioni o entità politiche; - lo sviluppo unilaterale di progetti di vasta scala (dighe, o progetti di deviazione) in assenza di un accordo o di una commissione sovranazionale In termini concreti, dunque, gli indicatori da tenere sotto controllo potrebbero essere essenzialmente due: - L’esistenza di gare di appalto per progetti di sviluppo futuri che riguardano lo sfruttamento di risorse idriche. - La presenza di movimenti nazionalisti o separatisti attivi. Sulla base di tali indicatori, questi autori suggeriscono che nel prossimo decennio, i bacini maggiormente a rischio siano i seguenti: Gange-Brahmaputra, Han, Incomati, Kunene, Kura-Araks, Lago Ciad, La Plata, Limpopo, Mekong, Ob (Ertis), Okavango, Orange, Senegal, Tumen, Zambezi. Gli indicatori suggeriti da questo gruppo di studiosi sono certamente interessanti, in particolare rispetto all’individuazione di un Bacini idrici a rischio di conflittualità Potenziali interessi conflittuali e/o mancanza di capacità istituzionale Dispute recenti: negoziazioni in corso Altri bacini internazionali Fonte: Transboundary Freshwater Dispute Database, 2003 91 nesso importante quale quello tra mutamenti sul piano politico-istituzionale e le ambizioni di sviluppo e di sfruttamento unilaterale di risorse naturali. D’altra parte questi criteri non esauriscono le dimensioni problematiche e conflittuali che stanno emergendo nell’attuale quadro globale. Per esempio non si deve scordare che gran parte dell’acqua viene utilizzata per l’agricoltura. Dunque si può presumere che i paesi che più dipendono per l’irrigazione da riserve idriche in declino o in via d’esaurimento saranno esposti più di altri a tensioni interne nella forma di carestie, proteste, migrazioni città/campagna o verso l’estero. Tra questi si possono citare Bangladesh, Cina, Egitto, India, Iran, Irak, Pakistan e Uzbekistan. Occorre comunque continuare gli studi in direzione di una complessità di analisi che tenga conto di più ampi elementi ecologici, politici, sociali, culturali ed economici. In particolare alcune questioni contribuiranno a definire le condizioni politiche della gestione dell’acqua nel prossimo futuro: - La crescita demografica ed in particolare la distribuzione geografica della popolazione in alcune aree del pianeta, in alcuni paesi o regioni come in alcune grandi aree metropolitane. - I mutamenti climatici e la velocità di alterazione degli ecosistemi con i relativi impatti ecologici, sociali ed economici. In particolare il riscaldamento globale e l’avanzata della desertificazione potrebbero causare una maggiore pressione sulle comunità umane, aumentare i fenomeni delle migrazioni ambientali e stimolare conflitti per le risorse naturali. - Il rapporto tra l’ineguale distribuzione fisica delle risorse e le diverse forme di sfruttamento delle risorse naturali in relazione a modelli culturali ed economici differenti. - La capacità di assicurare una distribuzione equa delle risorse idriche non soltanto in relazione ai singoli cittadini ma anche in relazione a gruppi e comunità. Spesso infatti le disuguaglianze relative tra comunità (regionali, etniche, religiose) sono potenzialmente più esplosive di quelle tra individui. AFFRONTARE I PROBLEMI ALLA RADICE A fronte di queste problematiche le risposte devono cercare di andare alle radici dei problemi. In primo luogo è necessario migliorare l’impiego e la produttività delle risorse idriche, sia a livello di agricoltura, che di uso domestico e di reti urbane. Bisogna rinnovare le tecnologie e i sistemi di distribuzione e di utilizzo per evitare inutili sprechi e dispersioni. In secondo luogo occorre favorire la raccolta dell’acqua piovana e la conservazione e il riuso dell’acqua per utilizzi differenti. Le stesse acque di rifiuto possono essere trattate e riutilizzate ad esempio per l’irrigazione. Inoltre bisogna curare la conservazione della qualità dell’acqua contrastando ogni forma di inquinamento e contaminazione. In più a livello culturale e politico si tratta di comprendere che a fronte di un sistema che si basa su una crescita continua non si tratta di inseguire e sostenere la crescente domanda di risorse naturali adeguando l’offerta, quanto riconoscere che occorre invertire questo trend e puntare piuttosto ad un contenimento della domanda; occorre cioè mettere in discussione il paradigma ideologico di fondo dello sviluppo illimitato e puntare a un modello sociale differente che esplori modelli di benessere e di produzione da un punto di vista qualitativo piuttosto che quantitativo 92 CULTURE DELL’ACQUA E PRIVATIZZAZIONE Negli ultimi decenni l’attenzione verso alcune risorse globali, l’acqua fra queste, ha acquisito un’importanza crescente nel panorama delle questioni internazionali e in prospettiva è probabile che tali beni possano mutare interessi, equilibri ed alleanze sul piano delle relazioni internazionali. Tuttavia le analisi prevalenti nella letteratura internazionale e nei media sottolineano principalmente se non unicamente le dimensioni strategiche. Le analisi più comuni si concentrano sulle rivalità politiche e sulla spartizione quantitativa, tralasciando altre possibili letture del problema che abbiamo di fronte. In realtà il modello della scarsità implicito in queste letture non è affatto scontato. Come vedremo la stessa scarsità fisica non è un fatto “naturale”. Come ha notato Vandana Shiva, «Scarsità e abbondanza non sono dati di natura, bensì prodotti delle culture dell’acqua» (Shiva, 2003, p. 125). Dunque i conflitti per l’acqua di oggi non rivelano il semplice passaggio da una lotta ideologica ad una lotta sulle materie prime e sui beni naturali come molti commentatori hanno sostenuto. Al contrario dietro il grande problema dell’acqua dobbiamo leggere in filigrana una profonda crisi paradigmatica e l’emergere di un confronto – finora rimasto in gran parte adombrato – tra modelli culturali e sociali differenti. Molti dei conflitti rispecchiano di fondo anche contrasti culturali e sociali sui diversi modi di concepire un bene quale l’acqua e il rapporto di una comunità con esso. L’acqua può essere trattata a seconda dei contesti come merce, come risorsa, come elemento vitale, come principio sacro, come bene comune. In generale le ricadute socio-politiche di tali problemi non sono da poco. Se prendiamo per esempio il caso dell’India vediamo che il paese è passato da una condizione di abbondanza d'acqua ad una di quasi crisi idrica. Nel 1951 l’India registrava una disponibilità media d’acqua di 3.450 m3, alla fine degli anni ‘90 la disponibilità era scesa a 1.250 m3, e la previsione per il 2050 è di 760 m3. Attualmente circa 65.000 villaggi in India mancano di acqua. Ciononostante in questo paese si vendono annualmente 90 miliardi di litri d'acqua imbottigliata con un fatturato pari al 40% di quello del petrolio. D’altra parte è evidente che se qualcuno riesce - a livello globale o locale - a controllare un bene così prezioso raggiunge un grande potere sulla popolazione. Per questo motivo da una parte bisogna contrastare le multinazionali dell’acqua e dall’altro si deve lottare affinché la gestione dell'acqua sia mantenuta assolutamente a livello dei cittadini e delle comunità locali tramite organismi appropriati gestiti e controllati democraticamente. Sempre a livello locale, urbano o regionale, si possono sviluppare conflitti legati alla gestione dell’acqua e ai tentativi di privatizzare questo bene. Il caso più noto è quello di Cochabamba, in Bolivia. Nella città sudamericana la privatizzazione dell’azienda idrica municipale sostenuta dalla Banca Mondiale sotto il ricatto della concessione di un prestito di 25 milioni di dollari, ha fatto scattare tra il 1999 e il 2000 una rivolta popolare. Assegnataria dell’appalto è l’impresa Aguas del Tunari, dietro alla quale ci sono multinazionali quali la statunitense Bechtel Corporation, l’italiana Edison/TDE e la spagnola Abengoa, che ottengono il monopolio assoluto nella gestione e distribuzione dell’acqua per un periodo di 40 anni. Le sorgenti e i pozzi sono sottoposti a permesso di utilizzo, mentre il prezzo dell’acqua aumenta del 300%. Contro la privatizzazione i sindacati e le organizzazioni di agricoltori si organizzano nella Coordinadora de Defensa del Agua y de la Vida e indicono scioperi, manifestazioni e marce che hanno coinvolto tutto il paese e bloccato le principali arterie di comunicazione. Un maldestro tentativo del governo di Hugo Panzer Suarez di soffocare le manifestazioni ha portato ad arresti, all’uccisione di cinque persone e al ferimento di diverse centinaia. Per 90 giorni viene dichiarato lo 93 stato d’assedio. Ma l’azione non ferma la protesta e in aprile il governo è costretto a far marcia indietro a rescindere il contratto con la Bechtel e a consegnare l’azienda idrica del paese in mano alla Coordinadora e alla sua gente. In seguito le multinazionali presentano una domanda di risarcimento di 25 milioni di dollari per il mancato lucro presso il tribunale della Banca Mondiale, ma la campagna di pressione internazionale costringe infine a ritirare la domanda. Il paradigma della mercificazione è giunto ad un capolinea. Forse allora occorre aprire gli occhi e la mente e guardare il panorama dei conflitti per l’acqua che abbiamo di fronte non come un problema di misurazioni e di contabilità, quanto come la soglia per un salto paradigmatico. «D’altra parte - ha scritto Giuseppe Romeo - il vero rischio di un processo progressivo di desertificazione e indisponibilità d’acqua pone i paesi a minor opportunità sulla soglia di un’irreversibile, o quanto meno costosa in termini sociali, ridefinizione della produttività biologica che implica responsabilità umane e richiede nuovi modi di intervento sul territorio» (Romeo, 2005, p. 22). È certamente questo cambiamento ma anche qualcosa di più. Nell’ultimo specchio d’acqua dobbiamo tornare a rivedere noi stessi e il nostro rapporto con la natura per inventare qualcosa di nuovo. Da questo punto di vista è anzitutto alla nostra mentalità, alle nostre categorie di pensiero, alle nostre idee e alle nostre abitudini di comportamento incorporate nei gesti quotidiani che occorre metter mano. Nel passaggio dalla fonte al rubinetto di casa o addirittura alla protesi sempre a disposizione della bottiglietta di plastica si sono compiuti dei passaggi culturali e simbolici di cui non siamo solitamente consapevoli. Anche se apparentemente la bottiglietta di plastica abolisce ogni altra mediazione e ci porta ad un rapporto ravvicinato con questo elemento, in realtà essa simboleggia, come ha colto Alessandro Bosi, un percorso di crescente privatizzazione: «nel rapporto con l’acqua viviamo un’esperienza di vita sempre più privata» (Bosi, 2006, p. 49). Questo genere di osservazione mi sembrano importanti per comprendere che il percorso di cambiamento che dobbiamo fare è culturale tanto quanto politico, sociale tanto quanto economico. Non ci può essere nessuna sostenibilità ecologica che non sia fondata su una misura culturale né ci può essere equità politica che non sia sostenuta da una pratica sociale. Un regime di pace con l’acqua e attraverso l’acqua non sarà semplicemente un traguardo neutrale risultato di un progetto tecnico o ingegneristico ma il risultato di un percorso di rinnovamento simbolico profondo. Dobbiamo come suggerisce Davide Zolletto riprendere la confidenza con l’acqua. Educare al rapporto con l’acqua anche attraverso il gioco e le storie. Occorre reimmaginare l’acqua. Gli Italiani sono i primi consumatori al mondo di acque minerali: 194 litri procapite. Il nostro paese è tra i primi produttori di acqua in bottiglia al mondo con oltre 12,2 miliardi di litri imbottigliati (2006). Operano circa 180 società di imbottigliamento e 300 marchi privati. Il marchio più venduto è Levissima del gruppo Nestlé. Ogni anno esportiamo quasi un miliardo di litri d’acqua minerale. Il 65% di quest’acqua è imbottigliata nella plastica che produce ogni anno 320-350 mila tonnellate di rifiuti in Pet. A cui si deve aggiungere l’impatto del trasporto stradale. 94 Box: Dighe: grandi opere, grandi conflitti Sono 49.697 le grandi dighe sopra i 15 metri e 670 sopra i 100 metri costruite dal 1946 ad oggi. Almeno il 60% dei 227 grandi fiumi del mondo è stato imbrigliato da dighe. La maggior parte di queste dighe sono pensate per l’irrigazione dei campi. Altre 1.500 sono attualmente in costruzione. I paesi costruttori degli impianti di maggiori dimensioni sono in ordine Cina, Iran, Turchia, Giappone, India e Spagna. La Cina da sola registra ben 25.800 dighe (il 45% del totale), . Queste dighe contribuiscono a generare il 20% dell’elettricità globale, a procurare acqua potabile a garantire acqua per irrigazione per ampliare i sistemi agricoli. D’altra parte queste grandi dighe sono state un flagello per le popolazioni locali che hanno visto alterare i propri ecosistemi, impoverire le proprie fonti di approvvigionamento e in molti casi si sono realizzate vere e proprie deportazioni forzate. Una grande diga – secondo uno studio condotto in India dall’Indian Institute of Public Administration - richiedere in media lo spostamento di oltre 44.000 persone. Si stima che siano quasi 80 milioni le persone costrette a migrare a causa di questi grandi impianti, di cui 35 milioni nella sola India. Si può dunque pensare alle dighe come interventi che aumentano le opportunità per le comunità urbane o “centrali” attraverso il sacrificio delle popolazioni considerate “marginali” o sacrificabili. La questione delle grandi dighe, come è stato notato, pone enormi questioni di democrazia. Lo Stato ha diritto di decidere dove devono vivere o spostarsi centinaia di migliaia di nativi? Chi può vantare diritti sulla terra, sui fiumi, sulle foreste? Chi decide qual è il prezzo da pagare per il progresso? O meglio ancora chi deve decidere in quale direzione va perseguito il benessere di intere popolazioni e territori? Un segnale in controtendenza viene dalla distruzione negli ultimi anni di oltre 650 dighe in tutto il mondo. Tuttavia, come ha notato Arundhaty Roy, «l’industria della costruzione di dighe nel Primo Mondo è in crisi e non funziona più. Così viene esportata nel Terzo Mondo con il nome Aiuti per lo Sviluppo, insieme agli altri loro rifiuti quali armi vecchie, portaerei obsolete e pesticidi messi al bando» (Roy, 2001, p. 23). Fra le principali dighe all’origine di conflitti, vittime e rifugiati ambientali possiamo ricordare le seguenti: Sadar Sarovar, Bargi, Masan sul fiume Narmada (India) Sul fiume Narmada e i suoi 41 affluenti il Narmada Development Project prevede la costruzione di 3.200 dighe di cui 30 grandi, 135 medie, le rimanenti piccole. Con la costruzione delle due dighe principali sono stati sommersi 91.000 ettari di terre, 249 villaggi e l’antica città di Harsud. Gli sfollati sono stati oltre 360.000 e in totale si pensa che il progetto riguarderebbe circa 1 milione di sfollati. I lavori sul Narmada furono iniziati da Nehru nel 1961 e ancora non sono terminati. Le prime dispute cominciarono già nel 1969. Leader della protesta diventa Medha Patkar, che a partire dalla metà degli anni ’80 guida il Narmada Bachao Andolan (NBA, Movimento per la salvezza del narmada, www.narmada.org). Nel 1990 2.500 persone compiono una grande marcia contro le dighe sul Narmada. L’azione ha trovato eco anche nel sostegno della scrittrice Arundhaty Roy. La diga più grande su cui a partire dal 1989 si è concentrata la lotta è quella di Sardar Sarovar di circa 100 metri. La protesta internazionale ha portato nel 1993 la Banca Mondiale a ritirarsi dal progetto. Chixoy sul Fiume Rio Chixoy (Guatemala) Il progetto prevede 4 dighe. Ne è stata realizzata una sola. Nel 1982 si è avuto il riempimento del bacino, nel 1983 l’inizio attività della centrale idroelettrica. La costruzione della diga e della centrale idroelettrica di Chixoy ha significato una campagna di repressione e terrore senza precedenti. Finanziato dalla Inter-American Development Bank e dalla Banca Mondiale e realizzato da un consorzio controllato dall’italiana Impresilo questo progetto portato avanti da una serie di giunte militari ha portato al trasferimento forzato di oltre 3.400 indigeni, in gran parte maya. A partire dai primi anni ’80 le 17 comunità indigene interessate danno inizio ad una lunga lotta. I regimi militari hanno condotto una politica di terrore contro le popolazioni, con l’uccisione di leader locali, e con massacri culminati nel settembre del 1982 con l’uccisione per mano militare di 487 indigeni della comunità di Rio Negro in Baja Verapaz (che è stata letteralmente dimezzata). In tutti questi anni le comunità indigene hanno continuato a protestare e a richiedere un risarcimento. Con la fine della Guerra civile in Guatemala (1994) sono state condotte diverse indagini. Un comitato sostenuto dalle Nazioni Unite ha appurato che le vittime di questa politica dei governi militari guatemaltechi aveva causato la morte di oltre 200.000 indigeni maya. Nel settembre 2004 infine il sito è stato rioccupato dagli indigeni per ottenere un risarcimento. PRIVATIZZAZIONE E DEMOCRAZIA 95 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu LA CRISI ALIMENTARE GLOBALE E LA DEMOCRAZIA DEL CIBO Le guerre del cibo Negli ultimi anni si sono registrate sempre più spesso delle proteste e delle rivolte per questioni alimentari. L'aumento del costo di riso, latticini, carne, zucchero e cereali è stato alla base di una forte ondata di proteste verificatasi tra il 2007 e il 2008, in paesi come Haiti, Messico, Nicaragua, Guatemala, Thailandia, Indonesia, Filippine, India, Bangladesh, Egitto, Yemen, Pakistan, Uzbekistan, Costa d'Avorio, Etiopia e gran parte dell'Africa subsahariana. In alcuni paesi come Haiti i prezzi dei prodotti alimentari sono saliti mediamente del 40 per cento in meno di un anno. Il riso è raddoppiato di prezzo. In Bangladesh tra il 2007 e il 2008 il prezzo del riso è raddoppiato a fronte di uno stipendio medio mensile di soli 25 dollari. Nello stesso periodo in Egitto i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 40 per cento. Ma anche la scintilla delle diverse delle rivolte nel Maghreb e in altre zone del 2011, è venuta da una rivolta contro il peggioramento delle condizioni economiche, una crescita dei costi dei beni primari, in particolare alimentari, a fronte di un reddito piuttosto basso (7.100 euro lordi all’anno è il reddito medio in Tunisia, 4.665 euro lordi è il reddito medio in Egitto). Quello che è successo in questi ultimi anni in paesi - mi riferisco alle rivolte in Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Siria, Libia, Marocco, Arabia Saudita, Oman, Iraq, Sudan, Mauritania, Uganda - ci racconta ancora una volta della centralità delle risorse e del legame tra beni fondamentali nel nord e nel sud del mondo. Quasi tutti i paesi che ho appena citato sono grandi importatori di frumento – Egitto (1°), Algeria (4°), Iraq (7°), Marocco (8°), Yemen (13°), Arabia Saudita (15°), Tunisia (17°). I regimi hanno fatto affidamento sui sussidi per comprare frumento, farina e pane in modo da ottenere un consenso e un controllo della popolazione, ma questa politica sul lungo periodo si è scontrata con vari problemi. Il primo è che ha contribuito ad affossare l’agricoltura locale perché il basso costo dei cerali a livello mondiale e la distribuzione a basso costo della farina rendeva diseconomica per il produttori locali la produzione diretta di cereali. Gran parte della farina e dei cereali distribuiti vengono dalle eccedenze americane sotto forma di Aiuti. Così l’Egitto che negli anni ’60 era quasi autosufficiente nella produzione di grano oggi è il primo importatore mondiale. 96 Di fondo quello che occorre notare è che c’è stato un aumento fortissimo dei costi dei cereali e del pane e di altri beni alimentari tra il 2007 e il 2011. Questo aumento è dovuto a diversi fattori che si sono intrecciati: - la crescita della popolazione mondiale e della domanda di questi beni. In particolare occorre tener conto del mutamento dei rapporti tra la popolazione urbana e quella rurale, nonché della trasformazione delle abitudini alimentari; -il cambiamento climatico che produce un aumento della temperatura globale ma anche una estrema variabilità del clima stagionale con la produzione di fenomeni estremi; - fenomeni locali come picchi di siccità o l'esaurimento degli acquiferi; per esempio nel 2012 una terribile siccità ha colpito Usa, Russia e Kazakhstan, riducendo del 3% il raccolto globale dei cereali. -la diminuzione di suoli fertili sia per il fenomeno dell'erosione e della desertificazione che per l'espandersi dell'urbanizzazione e della cementificazione unito all'impossibilità in molte aree di estendere ulteriormente l'estensione delle terre coltivate; - la crescita dei costi di investimento dovuti alla diffusione dell'agricoltura industriale e al fenomeno dei "brevetti" dei semi. - fenomeni economici come l’aumento del prezzo del petrolio. In effetti la meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore), l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della distribuzione dei cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un qualsiasi aumento dei costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di base. Si creano dunque dei circoli viziosi, con degli anelli di feed back negativo. Come ha scritto Michael Klare, «il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari».48 - Il tentativo di alcuni governi di diminuire la dipendenza dal petrolio e le emissioni di Co2 che contribuiscono al riscaldamento globale indirizzandosi verso le coltivazioni di biocarburante piuttosto che di cibo. Questo a sua volta, diminuendo le disponibilità, ha contribuito ad alzare i prezzi dei beni alimentari. - Infine un ulteriore elemento da tenere in considerazione è stata la speculazione finanziaria alimentare. Negli ultimi anni con la liberalizzazione del mercato le banche, le finanziarie e i fondi di investimento, quindi gli investitori internazionali hanno fatto grandi speculazioni sui beni alimentari attraverso la compravendita di titoli (futures). Si stima che oramai oltre un 70% degli scambi in questo mercato sia di tipo speculativo, ovvero fatto da persone che sono di fatto totalmente estranee alla produzione agricola. Questo aumento dei costi dei beni alimentari primari come i cereali provoca a sua volta alcuni effetti a catena. In primo luogo accade che i paesi esportatori comincino a limitare le esportazioni per tenere più bassi i prezzi dei beni alimentari al proprio interno e questo ha prodotto una diminuzione della disponibilità di cibo e un problema di improvvisa scarsità nei paesi importatori con un più basso reddito. Di fatto i rincari dei generi alimentari hanno spinto sull’orlo della denutrizione oltre 75 milioni di persone. 48 Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1 aprile 2011, p. 39. 97 L'aumento dei costi, la diminuzione delle esportazioni, la scarsità di cibo, l'aumento della fame, il sorgere delle proteste fa si che alcune nazioni cerchino di tutelarsi appropriandosi di terre in altri paesi, dando luogo così al fenomeno noto come land grabbing. Questo naturalmente può creare nuovi conflitti e nuovi problemi di giustizia ambientale e sociale. Insomma c'è un evidente correlazione tra questioni ecologiche, questioni energetiche, questioni economiche e questioni politiche. Secondo uno studio accurato di tre ricercatori49 è possibile notare che quando il Food Price Index50 della Fao raggiunge o supera l'indice di 210 è probabile lo scoppio di rivolte per il cibo. Non è un scaso che un attento commentatore di questioni politiche e di conflitti Nafeez Mosaddeq Ahmed ha sottolineato che nel prossimo futuro le rivolte per il cibo potrebbero diventare la normalità della nostra vita.51 Insomma è chiaro che oggi non possiamo più permetterci il lusso di affrontare un problema in maniera isolata non tenendo conto del contesto più ampio. Oggi siamo chiamati a leggere ed interpretare le interdipendenze tra fenomeni diversi e complessi quali le dinamiche del commercio internazionale, la disponibilità e il costo economico e sociale delle risorse, l’organizzazione del sistema agroalimentare globale, il consumo energetico, il problema delle emissioni di Co2, il riscaldamento climatico, l’erosione della biodiversità, i conflitti ambientali e le lotte per i beni comuni. Tutto questo chiama in causa il nostro stile di vita, le nostre abitudini quotidiane, il nostro rapporto con altri paesi e culture. 49 Marco Lagi, Karla Z. Bertrand, Yaneer Bar-Yam, "The Food Crises and Political Instability in North Africa and the Middel Est", New England Complex Systems Institute, http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf 50 L’indice FAO è una media dei prezzi globali di cereali, olii, carne, latticini e zucchero, 51 Nafeez Mosaddeq Ahmed, "Why food riots are likely to become the new normal", The Guardian, march 6, 2013, http://www.theguardian.com/environment/blog/2013/mar/06/food-riots-new-normal 98 Tutto questo ci ricorda comunque la centralità del problema del cibo nei decenni a venire. Nei paesi occidentali gli effetti di questi cambiamenti generalmente si vedono in ritardo perché in una prima fase quello che viene intaccato sono le scorte, gli stock di riserva, ovvero il surplus della produzione per esempio cerealitica. Negli ultimi due decenni negli Usa come in Europa sono via via state erosi i margini di sicurezza in questo campo. Come ha scritto Lester R. Brown: «Il mondo sta passando da un'epoca caratterizzata da una grande abbondanza di cibo a una di scarsità. Nel corso degli ultimi dieci anni, le riserve globali di cereali sono diminuite di un terzo. A livello mondiale i prezzi degli alimenti sono più che raddoppiati, stimolando una corsa planetaria ai terreni agricoli e ridisegnando la geopolitica del cibo. In questo nuovo periodo storico, il cibo è importante come il petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l'oro».52 Un mondo affamato? In altre zone del mondo il problema si presenta in maniera molto più drammatica. Attualmente si calcola che circa 799 milioni di persone al mondo (il 18% della popolazione mondiale) soffrano la fame. Cina a parte, la percentuale di persone in condizioni di insicurezza alimentare sulla popolazione è aumentata in diverse zone del mondo, dal Sud America dove nell’ultimo decennio è cresciuta del 19% all’Asia dove è cresciuta del 9%. Nella sola Africa il problema della fame investe fino al 35% della popolazione. I nostri automatismi culturali, in questi casi, ci portano subito a pensare che la questione della fame riguardi un problema di sotto-produzione di cibo nel mondo o almeno in una parte del mondo. In realtà non è esattamente così. Ora se si prende uno degli rapporti sullo Sviluppo Umano delle Nazioni Unite di pochi anni fa ci si imbatte in una frase di questo genere: «Se tutto il cibo prodotto» nel mondo fosse distribuito egualmente, ogni persona sarebbe in grado di consumare 2.760 calorie al giorno (la fame è definita come consumo inferiore a 1960 calorie al giorno)».53 Questo ragionamento apparentemente semplice è in realtà molto sviante. Non ha nessun senso pensare di risolvere le contraddizioni dovute alla fame sul piano puramente quantitativo, utilizzando per esempio le eccedenze dei paesi ricchi per farne dono ai più poveri. In questo modo non si risolvono i problemi di fondo e anzi si crea dipendenza economica, politica e omogeneizzazione culturale. Il problema della fame non è un problema semplicemente quantitativo. Ci si deve chiedere come si sfama, quale parte hanno i diversi soggetti coinvolti, quale cibo viene utilizzato, prodotto in che modo e dove. Dunque certamente affermare sicurezza alimentare significa garantire l’accesso ad un cibo sano da parte della popolazione in modo stabile e permanente a prezzi abbordabili. Ma la sicurezza alimentare presenta anche altre dimensioni. Una dimensione culturale: di sopravvivenza delle forme di organizzazione, produzione e relazione sociale e di disponibilità di cibo culturalmente appropriato. Una dimensione 52 Lester R. Brown, 9 miliardi di posti a tavola. La nuova geopolitica della scarsità di cibo, Edizioni Ambiente, Milano, 2012. 53 Undp 14, Le azioni politiche contro la povertà, Rosemberg & Sellier Torino, p. 112. 99 economica: di tutela del reddito della popolazione in modo che possa acquistare il cibo o i beni di cui ha bisogno e che sono presenti sul mercato locale. Una dimensione ecologica: di protezione e uso sostenibile delle risorse naturali nel tempo. Una dimensione politica: di controllo sovrano sulle forme di produzione, distribuzione, conservazione, e commercio del cibo. Cibo e cultura: L’alimentazione come tratto culturale fondamentale La globalizzazione del cibo, l’avvento dell’agricoltura industriale su larga scala coincide con la mercificazione del cibo. L’agricoltura viene trattata come un processo industriale e i beni alimentari sono trattati come merci qualsiasi, facendo astrazione dai significati sociali e culturali dell’alimentazione. Un po’ per pigrizia, un po’ per riduzionismo scientifico, in Occidente tendiamo a confondere il cibo con gli apporti nutrizionali. In questo senso a parità di apporti nutrizionali, in base ai ragionamenti delle istituzioni internazionali qualsiasi cosa commestibile è equivalente e interscambiabile. Eppure gli esseri umani non vivono di semplicemente di alimenti ma di cibo, ovvero di prodotti culturali e sociali. Quello che mangiamo definisce chi siamo, da dove veniamo, definisce la nostra visione del mondo, la nostra sensibilità spirituale o politica, le nostre forme di relazione sociale e di organizzazione economica. A seconda di quello che mangiamo possiamo progettare la nostra indipendenza oppure dobbiamo prendere atto della servitù verso altri paesi. Per dirla con un esempio estremo: un Gandhi che in India si fosse cibato di Hamburger, patatine con Kechup e Coca cola, non sarebbe stato Gandhi da molti punti di vista e certamente non avrebbe potuto fare quello che ha fatto. C’è un rapporto tra territorio, culture dell’alimentazione, pratiche di tutela dell’ambiente, conoscenze e competenze nella produzione, costruzioni di legami sociali, definizione degli stili di vita, tutti saperi di cui sono sempre state e sono tuttora custodi le principalmente le donne. Il cibo dunque è un elemento di un più ampio sistema economico, sociale, culturale, ambientale. Lo stravolgimento improvviso delle abitudini alimentari di un territorio può dunque avere conseguenze nefaste. Da questo punto di vista la mercificazione assoluta del cibo porta ad un processo di deculturazione dell’alimentazione, ad un omologazione merceologica ad una uniformazione del consumo e del gusto alimentare che distruggendo i sistemi agroalimentari locali genera sradicamento economico, sociale e culturale che a sua volta genera povertà ed emarginazione. In questo senso la fame non è un problema di cibo, ma di sradicamento, di spossessamento. La gente nel sud del mondo ha fame perché non ha più il controllo sull’intero processo di produzione, distribuzione, scambio e socializzazione del cibo, perché il sistema di produzione agroalimentare non è più corrispondente ai bisogni locali e non perché si produce da un punto di vista quantitativo poco cibo. A partire dal celebre studio Poverty and Famines del premio nobel Amartya Sen,54 la maggior parte degli studi e le ricerche concordano sul fatto che la fame e la malnutrizione non derivano da un deficit produttivo complessivo. Le persone possono morire di fame anche in paesi in cui vi è una grande disponibilità di alimenti. L’aumento della produzione globale di cibo di per sé non risolve il problema della fame e anzi in alcuni condizioni può pure aggravarlo. Le situazioni estreme delle carestia o del disastro dovuto ad agenti atmosferici possono verificarsi, ma normalmente le 54 Amartya Sen, Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford University Press, Oxford, 1981. Vedi ora anche Lo sviluppo è libertà, Arnaldo Mondadori, Milano, 2000, in particolare il capitolo VII "Carestia e altre crisi". 100 popolazioni hanno strumenti per far fronte ai periodi di magra. Tuttavia il più delle volte, le crisi alimentari sono soprattutto un problema di controllo e utilizzo delle risorse, di distribuzione dei beni, di mancanza di soldi e di difficile accesso al mercato, insomma di politiche errate o volutamente criminali. Come ha notato Amartya Sen, ciò che è fondamentale non è la quantità dei generi alimentari presenti in un determinato paese, ma piuttosto la capacità economica e la libertà sostanziale di individui e famiglie di procurarsi il cibo sufficiente o producendolo o acquistandolo sul mercato. Dunque ci possono essere grandi carestie nonostante una notevole disponibilità alimentare generale di un paese. Per esempio, nel 1974 l'anno in cui il Bagladesh fu colpito dalla carestia, ricorda Sen, fu in realtà l'anno in cui ci fu la massima quantità di cibo disponibile di quegli anni. Il problema in quel caso era la perdita dei salari dei braccianti in conseguenza delle inondazioni dell'estate. Allo stesso modo, in Etiopia nella provincia del Wollo, nel 1973, i contadini ridotti in miseria dal crollo della produzione a causa della carestia, non potevano comprarsi da mangiare nonostante nel capoluogo della provincia Dessié le derrate erano disponibili a prezzi normali. Anzi, come avviene spesso in questi casi, i generi alimentari prodotti nel Wollo venivano esportati verso altre zone dell'Etiopia dove la popolazione aveva il denaro per acquistarli. In India si registrano anche cinquanta milioni di tonnellate di cerali stoccati nei Silos, mentre le scorte di riso sono passate da tredici a ventidue milioni di tonnellate e quelle di grano da 872 a 2.411. Eppure la gente non ha i soldi per comprarli. Un caso di questo tipo, è ben documentato e raccontato nel film “L’incubo di Darwin” di Hubert Super, dove si presenta la situazione del Lago vittoria in Tanzania con una fluente esportazione di pesce persico verso l’Europa e il Giappone mentre nel paese ufficialmente impazza la carestia e la gente muore di fame. Viceversa anche una notevole diminuzione della disponibilità alimentare può non avere nessuna conseguenza nella misura in cui rimane intatto il potere di acquisto della popolazione locale che può procurarsi cibo altrove55. Allo stesso modo, poiché ci possono essere forti differenze da zona a zona e da classe sociale e classe sociale ci sono paesi che in termini nazionali hanno un livello di reddito e di cibo pro capite elevato ma un’alta percentuale di popolazione sottonutrita (Messico, Brasile, Sud Africa), e viceversa (Cuba, Cina, Sri Lanka). Per fare un altro esempio, qui nel nord del mondo fatichiamo a capire che non si risolve il problema della fame o delle carestie con l’invio di aiuti alimentari. Il flusso di alimenti gratuiti o basso costo in questi paesi, soprattutto se ampio e prolungato mette in difficoltà i produttori locali e distrugge il mercato locale. Data l’introduzione di beni gratuiti o a basso costo – in genere le nostre eccedenze alimentari - gli agricoltori locali sono costretti ad abbassare i prezzi dei prodotti del mercato locale, o ad abbandonare i campi oppure a deviare la produzione verso altri prodotti ad esempio quelli che risultano interessanti non per il mercato locale ma per quello internazionale. Dunque il problema è complesso e gli aiuti alimentari aiutano i produttori dei paesi ricchi e non i poveri del sud del mondo. Si può anche dire che in fondo ci sono due modi di concepire l’aiuto alle popolazioni in difficoltà alimentare. Come dice Vandana Shiva: «Gli aiuti possono essere un sostegno per l’agricoltura sostenibile e la sicurezza alimentare, oppure un sussidio per riversare del cibo inappropriato, prodotto in maniera non sostenibile, sulle vittime della povertà e dei disastri naturali».56 55 In Botswana la produzione alimentare è calata del 33,5% dal 1979 al 1995, a Singapore negli stessi anni è calata del 58%, senza che questo causasse la fame, perché i redditi complessivi della popolazione sono cresciuti. 56 Vandana Shiva, Le nuove guerre della globalizzazione. Sementi, acqua e forme di vita, Utet, Torino, 2005, p. 49. 101 Cibo e sovranità: La fame come problema politico Bisogna ricordare che le condizioni della fame sono sempre in relazione con la situazione politica. Questo è evidente per esempio se si nota la relazione tra guerre e carestie. In molti casi le emergenze sono state innescate dalla guerra, da conflitti civili o da effetti di lungo periodo di conflitti passati. Le crisi politiche sono la causa principale delle carestie. Nelle guerre, che siano guerre civili o bombardamenti dall’alto a farne le spese è infatti la popolazione ed in particolare i contadini che non possono più lavorare la terra o andare a vendere i loro prodotti. Ci sono poi un mix di fattori che riguardano l’organizzazione del sistema agroalimentare globale che concorrono a creare il problema della fame nel sud del mondo. Questi fattori sono essenzialmente: Le esportazioni agroalimentari sovvenzionate da parte di Usa ed Europa verso il sud del mondo che alterano la competizione dei prodotti a svantaggio dei prodotti non sovvenzionati del sud del mondo. Come si è visto all’incontro del WTO a Cancun si è manifestato uno scontro che ha avuto anche risvolti drammatici tra Europa ed Stati Uniti da una parte e la maggior parte dei paesi del sud del mondo - Brasile, Argentina, Sud Africa, India, Cina, Egitto, Cuba, Cile, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Tailandia ecc. – dall’altra. Questi paesi (il cosiddetto G21) che - come ha fatto notare il ministro brasiliano al commercio Luiz Fernando Furlan rappresentano il 51% dell’umanità, il 63% dei contadini al mondo e il 60% dei mercati agricoli mondiali – chiedono una riduzione significativa dei sussidi, in particolare quelli per l’esportazione garantiti dai paesi ricchi alle proprie aziende agricole. I paesi ricchi spendono più di un miliardo di dollari al giorno nei diversi sussidi al settore agricolo. Il secondo elemento del problema riguarda la destrutturazione dei modelli di agricoltura basata su fattori interni e la transizione obbligata ad un’agricoltura orientata all’esportazione imposta ai paesi del sud del mondo da parte delle Istituzioni internazionali che diminuisce le possibilità di provvedere al fabbisogno interno. Il modello export-oriented mentre arricchisce le multinazionali, porta ad affamare la gente. Il Kenya, tanto per fare un esempio, tra il 1990 e il 2000 ha raddoppiato l’esportazione agricola e contemporaneamente quadruplicato le importazioni. La metà della disponibilità agroalimentare interna è andata perduta. La trasformazione dei sistemi agricoli tradizionali basati sulla diversificazione, sulla multifunzionalità e sulla sostenibilità in sistemi fortemente standardizzati e ad alto investimento di capitali. Nei fatti i costi di coltivazione aumentano in maniera più rapida dei tassi di rendimento e dei prezzi dei prodotti finali. Il quarto elemento del sistema internazionale riguarda la liberalizzazione dei mercati, l’espropriazione del potere di controllo e di restrizione dei singoli paesi e la fragilità dei prezzi dei prodotti agricoli su cui si basano le produzioni del sud del mondo e che determina un debole potere di acquisto di questi paesi nei mercati internazionali. Il ricavato delle esportazioni di prodotti alimentari generalmente non produce abbastanza per comprare i beni di cui si ha bisogno sul mercato globale, dunque la gente si impoverisce rapidamente e va incontro alla fame. Molti paesi del sud del mondo sono stati messi in crisi contemporaneamente dall’afflusso di aiuti umanitari gratuiti o a basso costo e dalle politiche delle istituzioni internazionali che attraverso i piani di aggiustamento strutturale modificano gli equilibri socio-economici di un paese. Lo stesso potere delle grandi aziende agricole, ha imposto la produzione di colture (spesso monocolture) commerciali rivolte all’estero e allo scambio, piuttosto che mirare all'autosufficienza alimentare. Molti 102 contadini sono stati incentivati ad abbandonare le loro produzioni tradizionali per coltivare le colture commerciali destinate alle esportazione. In molti paesi la fame è aumentata e si è cronicizzata man mano che si adeguavano ai dettami ideologici dello sviluppo economico imposto dalle istituzioni internazionali e dal mercato. Come ha notato Michel Chossudovsky «le carestie nell'epoca della globalizzazione sono causate dall'uomo. Esse non sono la conseguenza della scarsità di prodotti alimentari, ma della struttura dell'offerta eccessiva globale che distrugge la sicurezza alimentare e l'agricoltura alimentare nazionale. Rigidamente regolamentata e controllata dall'agroindustria internazionale, questa offerta eccessiva è infine la causa della stagnazione nella produzione e nei consumi alimentari di base, e dell'impoverimento degli agricoltori in tutto il mondo»57. Per spiegare questi fenomeni ed offrire una certa lettura della realtà negli ultimi anni, sulla scia del movimento internazionale contadino La Via Campesina, si è introdotto nel dibattito il concetto di Sovranità alimentare. Con questo concetto s’intende sottolineare che il problema del cibo non è solamente una questione di autosufficienza alimentare, ma riguarda anche la possibilità di decidere politicamente quale forma di produzione, quale politica agricola e alimentare promuovere in relazione ai bisogni della popolazione, alla propria cultura, alle caratteristiche di un territorio, alle necessità di tutela dell’ambiente e di conservazione del proprio patrimonio, e alle scelte strategiche che ne conseguono. La sovranità dunque parte dalla consapevolezza che non esiste un modello economico unico, che oggi sono possibili molte scelte politiche, economiche differenti. Che nel campo agroalimentare i modelli di produzione e di consumo e le strategie economiche possono essere molteplici e diverse, che non è obbligatorio sottostare al modello di produzione e di consumo dominante sul mercato globale. Che lo stile americano, quello che è stato definito la “mcdonaldizzazione” del mondo58 , con i suoi corollari di un agricoltura industriale intensiva e di un alimentazione standardizzata e di bassa qualità, non è una via inevitabile e che anzi è possibile lottare per riaffermare dei principio di libertà, civiltà e autodeterminazione da parte dei diversi paesi, dei territori, con l’aiuto della popolazione, della società civile, dei coltivatori, dei consumatori. In termini pratici gran parte del movimento contadino mondiale chiede che la dimensione cruciale dell’alimentazione non sia oggetto di accordi commerciali e di liberalizzazione in sede WTO. Il concetto di sovranità richiama dunque il diritto da parte dei paesi di fissare norme di qualità, di proteggere il proprio territorio, di privilegiare il mercato locale riaffermando il diritto all’alimentazione, di regolare importazioni ed esportazioni a seconda delle proprie necessità. Questa lotta ha vari corollari come l’opposizione ai semi e agli alimenti transgenici, l’opposizione ai brevetti di proprietà intellettuale sui semi e sulle risorse viventi. Cibo e biodiversità: Globalizzazione e uniformazione del gusto La liberalizzazione indiscriminata del mercato e la globalizzazione dell’agricoltura sta creando enormi difficoltà agli agricoltori nel nord e nel sud del mondo e sta mettendo in crisi anche una parte della produzione alimentare. La globalizzazione del cibo spinge verso la concentrazione delle risorse nella produzione e commercializzazione di pochi prodotti standard. Questo significa togliere terra e mercato alla coltivazione di varietà 57 Michel Chossudovsky, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, Torino,1998, p. 112. Cfr. George Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Il Mulino, Bologna, 1997. Ritzer definisce “mcDondaldizzazione «il processo col quale i principi della ristorazione fasf food vanno imponendosi sempre più in un numero crescente di settori della società americana e del resto del mondo» (p. 13). 58 103 diverse di prodotti e allo stesso tempo determinare una restrizione e un uniformazione dei prodotti alimentari derivati. Alle grandi multinazionali conviene avvicinare e uniformare i gusti in tutto il mondo piuttosto che creare prodotti diversi per ogni mercato che costerebbe di più. Le multinazionali cercano di produrre alimenti che modificano il gusto locale. In Italia abbiamo centinaia di qualità diverse di pane, di formaggi, di salumi, di vini, delle tradizioni legate ai singoli territori. Ma anche altrove, anche nel sud del mondo, anche tra le popolazioni che definiamo povere, spesso la varietà di coltivazioni e di prodotti alimentari è altissima. Un’incredibile varietà di semi, di riso, di frutta, di pane. Gli agricoltori indiani per esempio hanno sviluppato 200.000 varietà di riso, con le innovazioni e gli incroci.59 Ora la globalizzazione – tramite l’influenza del WTO e di poche multinazionali – spinge i coltivatori a produrre solo alcune varietà e a distruggere la grande varietà di coltivazioni per uso locale per far spazio a quelle orientate all’esportazione. Tutto questo rappresenta anche una secca perdita in termini di patrimonio di biodiversità. La realizzazione di monoculture intensive, con uso di fertilizzanti e additivi chimici o addirittura di semi manipolati, al posto dei sistemi tradizionali, determina inoltre un peggioramento della condizione della terra e delle acque contribuendo anche in questo modo ad aumentare i problemi della povertà. La biodiversità è garanzia non solo della produzione ma della riproduzione della natura e delle sue risorse. Inoltre in generale i prodotti massificati offerti dal mercato globale sono decisamente meno appetibili in termini di sanità e qualità. Questo naturalmente ha conseguenze nel sud come nel nord del mondo, poiché i consumatori generalmente hanno poche e fragili garanzie sul piano della sicurezza della composizione finale e del processo di produzione dei prodotti alimentari di cui possono disporre. Da questo punto di vista la partita riguarda la chiarezza delle etichette ma anche un controllo efficace che investa l’intero processo di produzione. Cibo e sostenibilità: stili di vita, abitudini alimentari e tutela dell’ambiente Come è stato notato - mi riferisco all’esposizione proposta da Luca Colombo nel suo libro sulla Fame - oggi esistono due cicli di produzione uno lungo e uno corto: «Il circuito lungo è caratterizzato dalle grandi distanze geografiche che percorrono gli alimenti, dalla distanza culturale e cognitiva che separa chi produce da chi consuma e chi consuma da quello di cui si nutre (il consumatore non ha contatto percettivo con il processo di ottenimento dell’alimento, così come l’agricoltore ignora il destino della sua produzione), dalle elevata intermediazione che vede molti attori economici aggiungere e sfruttare frammenti di valore aggiunto, dall’articolato processo di trasformazione industriale o zootecnica. Nel circuito corto, invece, il produttore è in contatto diretto o ravvicinato con il consumatore (fino a coincidervi), garantendo un travaso non solo materiale, ma anche culturale e percettivo degli alimenti, di cui si può arrivare a conoscere sia la composizione che il processo di ottenimento».60 Di questi due circuiti, uno, quello più lungo è caratterizzato da poche merci standard di grande consumo e rimane sotto il controllo di multinazionali, grandi distributori e localmente di un élite fondiaria che possiede la terra e controlla i 59 Vandana Shiva, Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi, Roma, 2000, p. 19. 60 Luca Colombo, Fame. Produzione di Cibo e Sovranità Alimentare, Jaca Book, Milano, 2002, pp. 12-13. 104 lavoratori. Il secondo circuito, invece, quello breve, è caratterizzato da un grande numero di varietà agricole e alimentari. Il circuito lungo, industriale, globale, è apparentemente più competitivo sul piano dei prezzi, perché non vengono contabilizzati molti costi ambientali (dumping ambientale) e perché spesso sono produzioni fortemente sovvenzionate dai paesi ricchi. Questo circuito è funzionale per sfamare soprattutto i mercati urbani e produce molta ricchezza per un ristretto numero di persone. Il secondo risulta più ecologico e più sostenibile sul piano locale, più valorizzante della biodiversità e delle diverse culture alimentari territoriali, e più corrispondente ai bisogni della popolazione e anche dei piccoli coltivatori, ma ha certamente meno potenzialità dal punto di vista della produzione di profitto. È ovvio che in un mondo interdipendente come quello attuale non si può comprimere l’intero commercio alimentare nel circuito più breve. Ci sono certi beni comuni o di qualità che necessariamente devono seguire il circuito più lungo per arrivare al consumatore, che altrimenti potrebbe esserne completamente privato. E tuttavia lottare per la sostenibilità dei sistemi agroalimentari significa – almeno per quanto riguarda i beni fondamentali privilegiare il più possibile la produzione locale ed accorciare il più possibile le distanze tra luogo di produzione e consumatori. Soltanto la riduzione di questa distanza permette infatti di diminuire il consumo di energia e di gomme per il trasporto, di imballaggi, di stoccaggi, di manipolazioni chimiche e biotecnologiche per aumentare la durata nel tempo ecc. E solo in questo modo si evitano le irrazionalità e gli sprechi dell’attuale sistema agroalimentare. Oggi dunque è importante ripartire da una valorizzazione del territorio sia in termini di specificità che in termini di bisogni e di indirizzi. Del resto la globalizzazione in questo campo è un processo meno realizzato di quel che si crede. Secondo la FAO della produzione agricola che riguarda le colture di interesse commerciale solamente un 10% riguarda gli scambi internazionali. I mercati interni, o i mercati riguardanti determinate aree, continuano ad avere un importanza preponderante. Un altro problema è che oltre un quarto di tutta la produzione cerealicola mondiale viene utilizzata per l’alimentazione animale nei paesi ricchi. Una parte significativa del terreno arabile nei paesi del sud del mondo è utilizzato per la coltivazione di cerali ad uso zootecnico, cosicché negli stessi paesi in cui ci sono persone che soffrono la fame, ci può essere un surplus alimentare che però viene utilizzato per allevare il nostro bestiame. L’Europa per esempio importa grandi quantità di alimenti per il bestiame da molti paesi del sud del mondo (Brasile, Thailandia, Argentina, Cina, Indonesia, Malesia, Filippine). Un consumo eccessivo di carne può dunque avere conseguenze serie nel sud del mondo sia in termini ecologici che sociali. Cibo e democrazia: i padroni del cibo e la democrazia alimentare Negli ultimi anni si è assistito ad una concentrazione enorme dell’industria agroalimentare e agrochimica. Solo per fare qualche esempio: - 6 società controllano l’85/90% del mercato del frumento del mais e della soia (Cargill, Continental, Louis dreyfus, Bunge & Born, André, Toepfer); - 6 società controllano l’85-90% del mercato del caffè (Trothfos, Acli acquisita da Cargill, J. Aron, Volkart, Socomex, ED&F Man) - 4 società controllano il 60-65% dello zucchero (Sucden, Phibro, Tate& Lyle, ED&F Man) - 3 società controllano l’85% del tè (Unilever, Associated British Foods, LyonsTetley) 105 - 3 società controllano l’80% del cacao (Gill&Duffus, Berisford, Sucden) - 3 società controllano l’80% delle banane (United Brtands, Castel&Cook, Del Monte). - 10 industrie agrochimiche mondiali – società come la Syngenta (Svizzera) la Bayer (Germania), la Monsanto (USA), la BASF (Germania), la Dow Agrosc. (USA), la DuPont (USA) - controllano oltre l’80% dei 27,7 miliardi di dollari (2002) del mercato agrochimico. - 10 multinazionali - DuPont (USA), Monsanto (USA), Novartis (Svizzera), Groupe Limagrain (Francia), Advanta (GB e Olanda), Guipo Pulsar/Semins/ELM (Messico), Sakata (Giappone), KWS HG (Germania), TAKI (Giappone) controllano oggi il 32% del mercato mondiale dei semi e il 100% dei semi modificati o transgenici. Queste poche e grandi multinazionali sono sempre più in grado di dominare ogni anello della catena di produzione agroalimentare, sostenendo i prezzi dei loro prodotti, mantenendo bassi i prezzi dei prodotti agricoli che acquistano, e sostanzialmente distruggendo ogni forma di produzione e mercato locale alternativo. Ora mentre stanno accumulando un potere di mercato, questi soggetti acquisiscono anche un potere “politico”, di influenza sulle scelte dei governi e delle istituzioni internazionali sempre più forte. Una tale concentrazione nel campo della produzione alimentare è una prospettiva oltremodo inquietante. Chi controlla il cibo e le fondamenta della vita detiene un grandissimo potere. Come nota causticamente Vandana Shiva «La nozione dei “diritti” è stata totalmente stravolta dalla globalizzazione e dal libero commercio. Il diritto all’autoproduzione, a consumare in base alle priorità culturali e a criteri di sicurezza, è stato reso illegale dalle nuove regole del commercio. Al contrario, il diritto delle multinazionali a imporre ai cittadini del mondo cibi nocivi e culturalmente inappropriati è stato generalizzato»61. I problemi di queste trasformazioni del mercato del cibo riguardano dunque da vicino il tema della democrazia, della sovranità, della libertà. Che cosa significa democrazia se poche grandi multinazionali arrivano a controllare da sole gran parte del mercato mondiale dei semi, dei prodotti agricoli e del cibo? Che cosa significa democrazia se non abbiamo nemmeno la libertà di scegliere che cosa mangiamo? Oggi è in corso una lotta per l’organizzazione del sistema agroalimentare globale. Da una parte c'è una pressione per un'uniformazione globale della produzione e del gusto sul modello McDonald’s. Dall’altra parte c’è un impegno per riaffermare la sicurezza e la sovranità alimentare. Una sicurezza alimentare che deve essere ricostruita a livello locale nel quadro di un accordo tra produttori a livello internazionale e di una capacità dei governi e delle comunità locali di decidere che cosa produrre e che cosa mangiare. Si tratta di una lotta per affermare un idea di produzione e di commercio basato sulla qualità, sulla valorizzazione delle specificità territoriali, sulle garanzie verso i consumatori, sulla sostenibilità ecologica e sociale. In questa lotta per una democrazia alimentare si profila un’alleanza inedita tra coltivatori, consumatori e ambientalisti, popolazioni locali, cittadini responsabili e scienziati impegnati. In tutto questo, come è evidente per esempio nel caso dell’India e dell’esperienza straordinaria di Vandana Shiva, stanno avendo un ruolo fondamentale i movimenti delle donne. Ora, questa lotta può coinvolgere anche quei produttori che hanno fatto della valorizzazione della qualità e delle specificità locali il 61 Vandana Shiva, Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi, Roma, 2000, p. 30. 106 loro tratto distintivo. Anche dal punto di vista dei produttori non si tratta affatto di una lotta rivolta al passato. Il mercato dei consumatori consapevoli che chiedono dei prodotti di qualità – tipici, biologici, regionali, diversificati - si sta ampliando notevolmente. Nel futuro dell’agroalimentare si profila dunque la possibilità di ritrovare un legame col territorio andando incontro allo stesso tempo alla richiesta di equità dei coltivatori, di sostenibilità ecologica, di garanzia per i consumatori. «La democrazia alimentare è un imperativo»62 sostiene Vandana Shiva, in un momento in cui una manciata di multinazionali controllano l’offerta alimentare globale e impongono la logica della massimizzazione del profitto, dello sfruttamento e del potere al resto della popolazione mondiale. Da questo punto di vista democratizzare il sistema alimentare significa decentrare e diversificare piuttosto che centralizzare e uniformare. Lottare per la democrazia alimentare significa anche lottare per il riconoscimento di spazi per il confronto e la discussione delle politiche agricole, delle politiche del cibo, del commercio internazionale che non siano quelli classici del WTO e delle sue regole. Guerre del cibo? Vista dal sud del mondo la globalizzazione assume molto l’aspetto di una economia di guerra continua, con molti aspetti violenti o addirittura terroristici: guerre commerciali, imposizioni di trattati coercitivi, imposizioni di nuove tecnologie, di nuove regole di produzione, obbligo di produrre per l’esportazione, obbligo di acquisto di prodotti esteri, brevetti di proprietà intellettuale su beni di prima necessità ecc. La questione dei brevetti63 in particolare ha assunto negli ultimi anni una particolare importanza. Per esempio i semi che gli agricoltori hanno sempre utilizzato e scambiato stanno diventando una merce brevettata e non potranno essere accantonati e riprodotti, in questo modo fanno diventare i coltivatori completamente dipendenti dalle industrie fornitrici di semi. «Le leggi in materia di proprietà intellettuale – ha scritto la Shiva – trattano i contadini che conservano le sementi ricavate dai propri raccolti alla stregua di ladri e criminali. La globalizzazione sta plasmando un mondo in cui api, biodiversità e agricoltori vengono definiti delle minacce, incoraggiando le “azioni preventive” grazie alle tecnologie aggressive e ai trattati commerciali».64 - Le armi di questa nuova forma di guerra sono evidenti: privatizzazione e mercificazione del patrimonio naturale e dei beni comuni; imposizione di tecnologie e di forme di produzione aggressive e costose; imposizione di trattati commerciali; riorientamento dal consumo locale alle richieste del mercato globale. introduzione di brevetti di proprietà intellettuale; liberalizzazione dei mercati e spinta all’importazione di beni stranieri. importazione di eccedenze europee e americane sotto forma di aiuti alimentari. militarizzazione del controllo e del commercio delle risorse e privatizzazione della violenza. 62 Ivi p. 124. Su questi temi si veda Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Cuen, Napoli, 1999, e della stessa autrice Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale, Edizioni Ambiente, Roma, 2001, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano, 2002. 64 Vandana Shiva, Le nuove guerre della globalizzazione. Sementi, acqua e forme di vita, Utet, Torino, 2005, p. 4. 63 107 Nei fatti è in atto il tentativo di trasformare sistemi di produzione sostenibili, diversificati, basati sulle capacità di autorganizzazione e riproduzione della natura in sistemi altamente uniformi, omogenei, altamente costosi, con un forte impatto ambientale e sociale, e centralmente controllati. In questo modo si sottraggono ai più poveri i mezzi per la loro sopravvivenza: cibo, acqua, ambiente. Per dare un’idea le importazioni agricole dell’India sono salite dai 50 miliardi nel 1995 ad oltre 200 nel 2000, con un incremento del 400%. La tendenza non è dunque la maggior autonomia ma la maggiore dipendenza. L’incremento del commercio globale non porta a migliorare la situazione di queste popolazioni ma a peggiorarle. Non c’è dubbio che al centro dei conflitti presenti e futuri la questione della sovranità alimentare avrà una rilevanza fondamentale. Conflitti di paradigmi Abbiamo già detto che per molti aspetti oggi è in corso una lotta per l’organizzazione del sistema agroalimentare globale. Tra gli altri, in particolare due studiosi Tim Lang e Michale Heasman, hanno tentato di raccontare quello che definiscono un conflitto di paradigmi.65 Secondo questi autori l’umanità è giunta ad una congiuntura critica rispetto alle relazioni con i rifornimenti di cibo e le politiche alimentari. Le attuali “guerre del cibo” sono lotte su come concepire il futuro del cibo e la configurazione dei mercati, del gusto e delle menti. I cinque elementi chiave in questo confronto riguardano: - la salute: ovvero le relazioni tra la dieta, le malattie, la nutrizione e la salute pubblica; - il business: ovvero il modo in cui il cibo è prodotto e gestito, dagli imput all’agricoltura fino al consumo; - la cultura del consumo: come, perché e dove la gente consuma il cibo e i tentativi di controllo dei consumatori; - l’ambiente: l’uso e il mal uso della terra, del mare e delle altre risorse naturali quando si produce cibo; e - la governance alimentare: ovvero come l’economia del cibo è regolata e come le scelte di politica alimentare sono realizzate e implementate. L’industria alimentare è un qualcosa di relativamente giovane, che si è andata definendo attraverso numerosi aspetti. Ma oggi si registrano numerose nuove sfide: la crescita della popolazione, l’introduzione di nuove tecnologie, in particolare le biotecnologie, il nuovo potere di controllo delle corporations, la sfiducia della gente verso le politiche alimentare delle istituzioni e del mercato, nuovi problemi di salute associati con una dieta alimentare non equilibrata anche nei paesi più ricchi. Nei fatti, secondo Lang e Heasman, oggi si confrontano tre diversi paradigmi. Uno il “paradigma Produttivista”, coincide in sostanza con il modello attualmente dominante nelle società occidentali e nel mercato globale che si è andato costruendo attraverso l’industrializzazione del cibo. Si tratta di un modello che ha enfatizzato la dimensione della quantità piuttosto che quella della qualità, promovendo monocolture su vasta scala, l’introduzione di pesticidi e altri elementi chimici, e uno sfruttamento intensivo della terra. Concretamente ha realizzato una crescita della produzione e della quantità di cibo e calorie disponibili, come mai in precedenza - oggi circa 25.000 prodotti alimentari sono stivati negli scaffali dei supermercati e degli ipermercati – nonché una spettacolare crescita dei profitti dell’industria alimentare. Allo stesso 65 Tim Lang, Michael Heasman, Food Wars. The global Battle for Mouths, Minds and Markets, Eathscan, London, 2004, pp. 16-17. 108 tempo l’ottimismo della cultura di mercato dominante non ha attualmente grandi ragioni d’essere poiché non ha saputo garantire una reale sicurezza e sostenibilità alimentare. Infatti traghettando le società umane da una cultura agricolo-rurale a una cultura del cibo urbana e di ipermercato, ha impiantato forme di produzione, di distribuzione e di consumo globali che mostrano oggi molti elementi negativi. In particolare: - hanno peggiorato la qualità di molti alimenti – con una perdita di componenti bioattivi come vitamine e minerali; - hanno diffuso forme di alimentazione squilibrata e malsana introducendo problemi di obesità, di malattie cardiovascolari o una diffusione del diabete; - hanno mostrato l’impatto di nuove malattie legate alla produzione industriale del cibo dall’agricoltura all’allevamento, come si è visto con l’epidemia della “mucca pazza”. - distruggendo forme locali più sostenibili di produzione e regimi alimentari e obbligando a sottomettersi alle dinamiche del mercato globale hanno reso più difficile l’accesso al cibo per una grande quantità di persone nel mondo; - producendo un sistema di mercato basato sul potere delle grandi corporations oligopoliste hanno finito col ridurre le possibilità di reale scelta per i consumatori e le minacciare la libertà stessa dei cittadini. - infine – non tenendo conto del funzionamento degli ecosistemi e delle loro necessità di riproduzione – e promovendo una agricoltura basata sulle monocolture, sulla meccanizzazione e sullo sfruttamento intensivo, sull’uso di prodotti chimici, su circuiti larghi e una grande dipendenza dai trasporti e dal consumo di risorse energetiche fossili, hanno determinato una seria minaccia agli ecosistemi – suolo, foreste, mari - e alla sostenibilità ambientale. In altre parole elementi come la salute, l’ambiente, la giustizia sociale e la democrazia sono stati emarginati nel paradigma dominante. Soprattutto in termini di rapporti nord-sud questo tipo di sistema ha significato un impoverimento delle possibilità di autodeterminazione delle popolazioni del sud del mondo e una minaccia alla salute dell’ambiente e delle persone. Attualmente due nuovi paradigmi sono emersi a sfidare questo vecchio modo di affrontare le politiche alimentari. Il primo viene definito da Lang e Heasman il “paradigma delle Scienze integrate della vita” e il secondo il “paradigma ecologico integrato” Il “paradigma delle Scienze integrate della vita” si basa fondamentalmente sulla rivoluzione apertasi con l’introduzione delle nuove tecnologie biologiche alla produzione del cibo. In questo paradigma il cibo «è concepito quasi come una droga, una soluzione a condizioni di malattia, parte di una manipolazione pianificata, controllata e sistematica delle determinanti della salute e della malattia» (Lang, Heasman, 2004, p. 22). Non si tratta solo dell’introduzione degli OGM, ma l’applicazione dell’intero spettro delle biotecnologie, ovvero l’uso e la manipolazione dei materiali viventi, nella manifattura e nella produzione dei prodotti alimentari. Prevede una trasformazione della produzione agricola e industriale ma anche dei rapporti tra cibo ed esseri umani. Gli OGM sono stati introdotti nel sistema globale del cibo in una misura già determinante e le cui implicazioni sul lungo periodo e sull’intera catena alimentare ci sono in gran parte ignote. Le coltivazioni con OGM sono crescite dallo zero dei primi anni ’90 a oltre 50 milioni di ettari dieci anni dopo (2001), di cui il 68% nei soli Stati Uniti. Comprende inoltre l’evoluzione di quella che viene definita “Nutrigenomics”, genomica nutrizionale, ovvero lo studio dell’interazione tra il nutrimento e delle diete particolari e la struttura genetica delle persone e si propone in prospettiva di fornire degli approcci individualizzati, personalizzati all’alimentazione per curare la dieta, la salute e ridurre il rischio di malattie. 109 Questo paradigma rappresenta un potenziamento ed un estensione del vecchio paradigma produzionista di cui promette di risolvere i difetti e limiti in termini di performance ma di cui non mette in discussione l’organizzazione strutturale basata su monocolture agricole, su produzioni in larga scala e su una concentrazione di multinazionali dell’agrobusiness che operano sul mercato globale. Ovviamente questo indirizzo vanta dalla sua grandi investimenti economici e scientifici. Un terzo paradigma contende il futuro ai due precedenti. Si tratta del “paradigma ecologicamente integrato” che si fonda comunque su una scienza biologica ma con un approccio più ecologico e meno ingegneristico. In sostanza riconosce una dipendenza sistemica tra politiche alimentari, organizzazioni sociali e tutela dell’ambiente, cercando di conservare e promuovere contemporaneamente la biodiversità, le culture locali e le forme di autodeterminazione. Si basa su un idea di autosufficienza alimentare, di coltivazioni e commerci su scala più ridotta e su l’uso di sistemi che combinano tecnologie moderne e saperi e conoscenze tradizionali in modo tale che comunità e ambiente si sostengano reciprocamente. Questi approcci promuovono una agricoltura ecologica basata su cicli e rotazioni delle coltivazioni, sulla conoscenza dei meccanismi di controllo e di prevenzione naturali contro gli insetti e le malattie, la valorizzazione dei prodotti locali, e in generale forme di gestione più olistica ed equilibrata dei territori e dei consumi. Nei prossimi anni assisteremo ad un crescente confronto tra questi tre paradigmi per ridefinire le politiche alimentari e le forme di produzioni del cibo. 110 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu IL PICCO DEL PETROLIO E LA CRISI ENERGETICA In un articolo dal titolo emblematico Le guerre per l'energia del XXI secolo, l'analista Michael T. Klare, professore di studi sulla sicurezza e la pace mondiali presso l’Hampshire College, uno dei maggiori esperti mondiali di guerre per le risorse, ha scritto: «L’Iraq, la Siria, la Nigeria, il Sud del Sudan, l’Ucraina, l’Est e il Sud del Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme, con nuovi conflitti o vecchi conflitti in via di intensificazione. A prima vista, questi sconvolgimenti sembrano essere eventi indipendenti, guidati da proprie circostanze, uniche e peculiari. Ma se guardiamo più da vicino notiamo come essi condividano alcune caratteristiche fondamentali - in particolare, un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’Energia. In ciascuno di questi conflitti, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere di antagonismi di lunga data tra clan vicini (spesso liberamente mischiati tra di loro), sette e popoli veri e propri. In Iraq e in Siria, si tratta di uno scontro tra sunniti, sciiti, curdi, turcomanni e altri; in Nigeria tra musulmani, cristiani e gruppi tribali variamente assortiti; nel Sud del Sudan tra i Dinka e i Nuer; in Ucraina, tra lealisti ucraini e russofoni allineati con Mosca; nel Mar della Cina orientale e meridionale, tra cinesi, giapponesi, vietnamiti, filippini e altri. Sarebbe facile attribuire tutto ciò a odi secolari, come suggerito da molti analisti; ma mentre tali ostilità aiutano senz’altro a indirizzare questi conflitti, essi sono altresì alimentati da un impulso più moderno: il desiderio di controllare le risorse petrolifere e di gas naturale di pregio. Non bisogna ingannarsi su di ciò, queste sono guerre del XXI secolo per l'Energia».66 Oggi la questione energetica è al centro delle molteplici crisi che stiamo affrontando e rappresenta una chiave fondamentale per interpretare la situazione economica, quella ecologica e quella geopolitica. Se pensiamo per esempio alle guerre condotte dagli Usa e dal fronte occidentale si evidenzia sempre più chiaramente una connessione tra crisi energetica e nuovo militarismo. È evidente per esempio che il petrolio iracheno costituisce una risorsa strategica nell’attuale situazione mondiale. L’Iraq è il secondo paese al mondo per riserve di petrolio. Tra i primi dieci grandi giacimenti mondiali due sono iracheni: Rumaila (20 miliardi di riserve) e Kirkuk (16 mld di riserve). Non è certo un caso, 66 Michael T. Klare, Our 21st Century Energy Wars, TomDispatch.com, 9 July 2014, http://www.countercurrents.org/klare090714.htm; trad.it.: Le guerre per l'energia del XXI secolo, Come Don Chisciotte,http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13648 111 come ha sottolineato Michele Paolini, (2003b, p. 149) che l’invasione dell’Iraq, la notte del 19 marzo 2003 sia cominciata da una parte con il raid aereo su Baghdad, dall’altra con l’invasione della zona meridionale del paese da parte delle truppe di terra e con l’assunzione del pieno controllo dell’area di Rumaila, dove si trova il più importante giacimento petrolifero iracheno. Anche la questione dei Gas al centro del conflitto tra Russia e Ucraina minaccia la sicurezza nel contesto Europeo. Le tensioni legate alla questione energetica sono strettamente legate al fatto che il nostro sistema economico e sociale, potremmo dire il nostro modello di benessere, dalla produzione ai consumi, per un verso si fonda su un alto consumo di energia, ed in più è dipendente dalle fonti fossili e non rinnovabili di energia, ed in particolare dal petrolio. Il World Energy Outlook dell'IEA (l'Agenzia Internazionale dell'Energia) segnala molte fonti di preoccupazioni e il rischio che il sistema energetico mondiale deluda le aspettative che in esso sono state riposte. Come si legge nel rapporto: «Nel nostro scenario centrale, la domanda mondiale di energia è attesa aumentare del 37% al 2040, ma il trend di crescita della popolazione e dell’economia mondiale è caratterizzato da una minore intensità energetica rispetto al passato. L’incremento della domanda mondiale di energia rallenta sensibilmente nel nostro scenario centrale, da una crescita media annua superiore al 2% negli ultimi due decenni all’1% dopo il 2025; ciò è il risultato delle dinamiche dei prezzi, delle politiche intraprese e della transizione strutturale dell’economia mondiale verso una maggiore importanza dei servizi e dell’industria a minore intensità di consumo energetico. La distribuzione geografica della domanda mondiale di energia cambia ancora più radicalmente: mentre in gran parte dell’Europa, Giappone, Corea e Nord America i consumi mostrano una sostanziale stabilità, la crescita si concentra nel resto dell’Asia (60% del totale), in Africa, in Medio Oriente e in America Latina. Un momento importante viene raggiunto all’inizio del decennio 2030 quando la Cina diventa il primo consumatore petrolifero mondiale superando gli Stati Uniti, dove la domanda di petrolio diminuisce riportandosi su livelli che non si verificavano da decenni. Ma, a partire da quel momento, i principali motori della crescita della domanda mondiale di energia saranno India, Sudest asiatico, Medio Oriente e Africa sub-sahariana» (OECD/IEA, 2014) In particolare la domanda di gas naturale aumenta di oltre il 50% soprattutto per la domanda che proviene dalla Cina e dal Medio Oriente. Ma attorno al 2030 il gas diventerà la fonte principale nel mix energetico anche nell'area OCSE (i 34 paesi aderenti all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). La domanda di petrolio continua a muoversi lungo un trend di crescita, passando da 90 milioni di barili al giorno (mb/g), nel 2013 a 104 mb/g nel 2040. La popolazione mondiale consuma più di 32 miliardi di barili di petrolio ogni anno, che è stato calcolato corrisponde ad un mare pari a oltre 4 Km2 di superficie con una profondità di 3 metri. Si noti inoltre che: «Al 2040, il mix energetico mondiale si suddivide in quattro categorie di quasi egual peso: petrolio, gas, carbone e fonti a basso contenuto di carbonio. Durante l’orizzonte di previsione, la disponibilità fisica delle risorse non rappresenta un vincolo ma ciascuna di queste quattro fonti su cui poggia il sistema energetico globale si trova ad 112 affrontare un diverso insieme di sfide. Le scelte politiche e gli sviluppi di mercato che riducono la quota delle fonti fossili sulla domanda primaria di energia appena al di sotto del 75% al 2040, non bastano per arrestare l’aumento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) legate all’energia, che crescono di un quinto. A causa di queste dinamiche, il mondo continua a muoversi lungo una traiettoria coerente con un incremento della temperatura media mondiale di lungo termine di 3.6oC. Il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici stima che per contenere l’aumento della temperatura entro i 2oC – obiettivo concordato a livello internazionale se si vogliono evitare più ampie e gravi implicazioni legate al cambiamento climatico – le emissioni mondiali di CO2 dal 2014 in poi devono mantenersi al di sotto del livello soglia di 1.000 gigatonnellate. Nel nostro scenario centrale, questo intero ammontare viene emesso nel periodo compreso fino al 2040. Dal momento che le emissioni non crolleranno a zero velocemente una volta raggiunta questa soglia, risulta evidente che il perseguimento dell’obiettivo dei 2oC richiede un’azione urgente e tale da indirizzare il sistema energetico lungo un percorso più sicuro» (OECD/IEA, 2014) Le tecnologie energetiche rinnovabili sono in crescita e sono sostenute da 120 miliardi di dollari di sussidi su scala globale. Nonostante questo i sussidi alle fonti fossili, dichiara il rapporto, hanno raggiunto i 550 miliardi di dollari nel 2014, più di quattro volte quelli elargiti a favore delle energie rinnovabili, il che rappresenta un ostacolo enorme agli investimenti in efficienza ed in fonti rinnovabili. Ci sono comunque una serie di questioni su cui c'è un forte dibattito. In particolare riguardo alla disponibilità e alla durata delle riserve petrolifere e le questioni riguardanti i costi di estrazione. A partire dall'analisi di 1.600 giacimenti che hanno superato il picco di produzione, la IEA stima il loro tasso medio di declino al 6% all'anno. Ciò significa che se l'industria smettesse oggi di investire sulla ricerca e la messa in produzione di nuove risorse, le estrazioni petrolifere mondiali precipiterebbero di circa la metà da qui al 2020. Lo sviluppo di petroli non convenzionali – sabbie bituminose, petrolio di scisto, ecc. - così come di liquidi del gas naturale (NGL) secondo la IEA dovrebbe permettere nell'immediato di colmare il divario crescente fra la domanda e l'offerta di petrolio greggio convenzionale. Tuttavia i petroli non convenzionali e i NGL sono più difficili e costosi da produrre. Inoltre la stessa IEA sottolinea che i pozzi petroliferi di scisto (o del substrato roccioso) hanno un declino ben più precoce e pronunciato di quello del petrolio convenzionale. Secondo l'agenzia ci sarà un picco della produzione di petrolio di scisto degli Stati Uniti, nel 2025. Ma l'amministrazione Obama ha previsto questo picco nel 2020 e la segreteria generale dell'OPEC nel 2017. L'industria petrolifera corre dunque il rischio di ritrovarsi presa in mezzo fra i costi di produzione sempre maggiori ed una domanda che non potrà soddisfare. La situazione mondiale è caratterizzata dal fatto che i paesi che possiedono le maggiori riserve di petrolio e quelli che ne consumano di più non coincidono o coincidono solo in piccola aprte. I paesi che possiedono le maggiori riserve sono essenzialmente quelli del Medioriente con l’Arabia Saudita che da sola possiede il 25% delle riserve mondiali e dell’Asia (Mar Caspio, Mar Cinese meridionale). Tra i maggiori paesi produttori troviamo oltre all’Arabia Saudita, Venezuela, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Russia, Libia, Kazakistan, Nigeria, Canada, Stati Uniti e Qatar. Ogni area inoltre presenta migliori o peggiori caratteristiche in termini di accessibilità e di costi di trasporto. 113 Tra i paesi che richiedono e consumano più petrolio ci sono ovviamente i paesi più ricchi e industrializzati. Solamente Stati Uniti e Canada consumano da soli il 22,7 milioni di barili di greggio al giorno, l’Unione Europea 14,6 milioni contro i 5,3 dei paesi del Medio Oriente, i 4,7 dell’America Latina, e i 2,6 dell’intero continente Africano o dell’India. La Cina da sola ne consuma 7 milioni al giorno. All’interno di questo dato si può segnalare che è soprattutto il settore dei trasporti che determina questo dato, poiché esso assorbe da solo oltre il 60% del consumo mondiale di petrolio. Per esempio gli Stati Uniti registrano meno del 5% della popolazione mondiale ma i cittadini americani consumano il 43% del carburante mondiale. Nonostante questo le vendite dei suv, che dal punto di vista del consumo, sono un vero spreco, sono passate dal 2% del totale del parco auto nel 1985 al 25% nel 2001. In Europa occidentale sono state vendute solamente nel 2004 oltre 14.5 milioni di automobili ovvero un auto ogni due persone. Oltre a questo c’è il fatto che mentre l’estendersi del modello di sviluppo occidentale, la crescita della popolazione, l’aumento della produzione e dell’uso di automobili, determina un aumento della richiesta di energia, dall’altra parte la disponibilità delle riserve mondiali di petrolio secondo molti osservatori va diminuendo. Il geofisico Marion King Hubbert fu il primo a teorizzare nel 1956 il problema del picco di produzione del petrolio (detto picco di Hubbert). Con Picco del petrolio (Peak Oil) si intende la stima del punto di produzione massima in un area (un singolo giacimento, una regione, un paese o il mondo intero), oltre il quale la produzione può soltanto diminuire. Hubbert teorizzò che la produzione Usa avrebbe piccato attorno ai primi anni ’70 cosa che in effetti avvenne. Superato il picco la fonte inizia a scarseggiare e dunque a crescere rapidamente di prezzo. 114 Secondo Colin Campbell un geologo esploratore che ha lavorato tutta la vita con grandi compagnie petrolifere il piccolo delle scoperte di petrolio nel mondo è stato raggiunto nel 1960 e a partire dal 1981 il mondo ha iniziato a utilizzare più risorse di quelle che venivano scoperte nel frattempo. Alla fine degli anni ’90 Campbell stimò il raggiungimento del picco di produzione attorno al 2006. Rispetto alla data esatta in cui identificare il picco le stime proposte da vari studiosi e fonti divergono. Per alcuni il picco del petrolio è già alle nostre spalle, ed è stato raggiunto attorno al 2009. Altre stime lo collocano entro il 2020, mentre le stime più ottimistiche arrivano fino al 2030. Tutto dipende naturalmente anche dall’andamento del consumo. Stiamo parlando comunque di una forbice di 10-20 anni, che è un periodo piuttosto breve per modificare la nostra struttura economica, tecnologica e sociale. Si tenga conto che anche una volta superata questa data gli effetti non saranno immediatamente visibili. Più probabilmente gli effetti inizieranno ad essere chiaramente visibili negli anni successivi, con la diminuzione dell’offerta, e tendenzialmente la crescita (pur in un regime di ampia volatilità) dei costi del petrolio e dei suoi derivati. Probabilmente dopo 10-15 anni la situazione e gli effetti saranno oramai chiare ed evidenti a tutti. Come ricorderete il petrolio ha raggiunto un massimo storico nel luglio 2008 con pesanti conseguenze sociali, politiche ed economiche. Per un verso – a causa dell’aumento dei costi di trasporto - ha contribuito, insieme ai problemi del cambiamento climatico, a far accrescere ulteriormente il prezzo di alcuni beni alimentari di base, quali riso, cereali e dunque farine e pane, innescando una serie di rivolte per il cibo in alcuni paesi del sud del mondo (Haiti, Egitto, Tunisia, Sierra Leone, Camerun, Burkina Faso). In effetti la meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore), l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della distribuzione dei cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un qualsiasi aumento dei costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di base. Come ha scritto Michael Klare, «il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari» (Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1 aprile 2011, p. 39). Per un altro verso l’aumento del petrolio ha contribuito alla crisi economica e a far esplodere la crisi finanziaria che ha portato alla bancarotta del 2008 negli Stati Uniti e in Europa. Gli effetti della scarsità influiranno sui trasporti e sul commercio internazionale che diventerà sempre più costoso e difficoltoso innescando un sempre più evidente fenomeno di de-globalizzazione. Si tenga conto che attorno al picco del petrolio si concentra l’attenzione anche delle forze militari. Sia l’esercito tedesco67 che quello statunitense hanno sviluppato scenari relativi alle prospettive legate alla scarsità di petrolio. Nei prossimi decenni le dispute e le guerre per il controllo sia dei luoghi di estrazione del petrolio, che delle vie di distribuzione, sono verosimilmente destinate ad aumentare. Oltre a questo si tenga conto che le guerre per il petrolio hanno un effetto rialzista sulle quotazioni petrolifere di cui si approfittano i maggiori possessori di capitali. 67 http://www.spiegel.de/international/germany/0,1518,715138,00.html 115 Il tema della scarsità chiama in causa dunque i paesi con le economie più potenti, che sembrano poco disposti a mettere in discussione i propri modelli di benessere. Per questo la questione della scarsità delle risorse energetiche viene trattata soprattutto come un problema strategico di accaparramento delle risorse. In effetti, come si è capito dopo lo shock petrolifero del 1973, senza un flusso ininterrotto di rifornimenti in petrolio e gas (e in altri prodotti collaterali) l’intera economia delle democrazie occidentali crollerebbe e con esse i governi democratici che dirigono questi paesi. Nell’epoca della guerra fredda e del sogno dello sviluppo illimitato, la posta mondiale in gioco era la competizione e il confronto con il modello comunista a cui corrispondeva la dottrina del “contenimento”. Oggi nell’era della supremazia Usa e dei nuovi sfidanti asiatici di fronte ai limiti dello sviluppo e alla scarsità di risorse, il modello di sicurezza non è più il contenimento ma il controllo strategico anche militare delle fonti energetiche. Dunque le istituzioni statali appoggiano le compagni private nel radicarsi in questi importanti territori. Costruiscono o contribuiscono a costruire le infrastrutture di collegamento come oleodotti o gasdotti o canali commerciali e finanziari. A volte preparano l’insediamento con azioni militari (vd. Afghanistan e Iraq) in altri casi garantiscono comunque le tutele politico militari presso il potere locale. In alcuni casi le potenze preparano il contesto con molto anticipo, predisponendo contatti strategici, accordi militari, basi o piani di intervento verso eventuali altri soggetti in maniera preventiva. È il caso per esempio degli accordi commerciali e delle esercitazioni militari condotte in questi anni dagli Usa nelle repubbliche della regione del Mar Caspio – Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Azerbijan –che rappresentano una vasta riserva di petrolio e gas naturale.68 Le novità degli ultimi due anni è legata però al nuovo sprint produttivo realizzato dagli Stati Uniti e al calo del petrolio sui mercati mondiali. Tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno 2014 il prezzo del barile del petrolio è sceso sotto i 90 dollari. Le ragioni del calo dei prezzi petroliferi sono differenti: - l'aumento della produzione del petrolio. Dovuto soprattutto all'aumento della produzione degli Stati Uniti che hanno investito in estrazione dalle sabbie bituminose in North Dakota e Texas. Attualmente la produzione americana a è quasi al livello dell'Arabia Saudita. Inoltre aumenta la produzione del petrolio anche in Russia e in Libia. - lo stesso consumo di petrolio è aumentato ma meno di quello che ci si aspettava. - infine le scelte tattiche di produttori come l'Arabia Saudita che continua a tenere alta la produzione e basso il costo per mettere in difficoltà le produzioni statunitensi più care o anche la produzione Iraniana. In effetti tra il gennaio 2015 e il febbraio 2015 sono fallite diverse aziende e sono state chiuse diverse strutture di trivellazione sia negli USA che in Canada. 68 Per i particolari di queste iniziative vd. Klare, 2001. 116 Ma la novità degli ultimi anni è certamente l’atteggiamento spregiudicato della Cina in un momento storico in cui alcuni osservatori e analisti hanno definito il XXI secolo il “secolo cinese”. Oggi la Cina ha 1.300 milioni di abitanti e, grazie alla sua ricetta che unisce autoritarismo politico, mancanza di libertà civile, laissez-faire imprenditoriale, manodopera a basso costo e con scarsi diritti, nel 2005 è diventata la quinta potenza industriale mondiale lanciando in prospettiva la sfida agli Stati Uniti trasformando quello che era un paese sostanzialmente povero in una potenza capitalista con una impressionante fame di materie prime e risorse. Nello stesso anno il paese è divenuto il maggior consumatore mondiale di prodotti industriali e agricoli del mondo. Mentre già nel 2003, grazie alla sua immagine di grande mercato in espansione, era diventato il primo paese per la capacità di attrarre investimenti stranieri superando gli stessi Stati Uniti. La Cina rimane comunque un paese con grandi disuguaglianze economiche interne e grandi sacche di povertà. In termini internazionali la Cina in questi anni ha messo in campo una grande strategia economica e politica in tutto il mondo ed in particolare in Africa. L’impegno cinese in Africa data fin dagli anni sessanta ma è diventato più tangibile a partire dalla fine degli anni novanta quando circa 800 grandi imprese cinese hanno impiantato attività significative in Africa con una serie di progetti - oltre un migliaio – che hanno riguardato strade, ferrovie, porti, ospedali, dighe, oleodotti, reti elettriche, edilizia pubblica e civile. Poi dai primi anni del 2000 sono stati preparati una serie di Summit di grande impatto comunicativo realizzati con capi di stato, primi ministri e funzionari africani in particolare nel 2003 in Etiopia e soprattutto nel 2006 quando in occasione del “Forum per la cooperazione tra Cina e Africa (Focac) sono stati ricevuti a Pechino dal Presidente cinese Hu Jintao 48 capi di stato e di governo africani (4-5 novembre 2006). Gli investimenti maggiori della Cina sono stati rivolti al Sudan che oggi fornisce il 5% del fabbisogno di petrolio cinese, in Angola che con la vendita di 456 mila barili di 117 greggio al giorno copre da sola ben il 15% del fabbisogno di petrolio cinese e quindi in Nigeria. L’Angola è diventata il principale fornitore di greggio della Cina. Le diverse compagnie petrolifere cinesi stanno aumentando la presenza anche in altri paesi dell’Africa. La Cnpc è impegnata in Ciad e in Etiopia, la Cnooc in Nigeria la Sino pec in Liberia. In Sudan la China National Petroleum Company (Cnpc), una delle principali compagnie di stato cinesi si è assicurata fina dal 1997 la quota di maggioranza (40%) di un consorzio la Greater Nile Petroleum Operatine Company (Gnpoc) che controlla diversi blocchi di produzione di petrolio insieme alla proprietà dell’oleodotto di 1.540 chilometri che dal sud del paese porta il greggio fino a Port Sudan sul Mar Rosso per commercializzarlo all’estero. È stata proprio la costruzione di questo oleodotto finanziata in gran parte da società cinesi e conclusasi nel 1999 a trasformare il Sudan in un reale attore nel commercio del petrolio. Nei fatti il 65% della produzione Sudanese di greggio finisce alla Cina. In questo contesto politici e militari delle potenze mondiali sottolineano sempre più spesso che la sicurezza nazionale dipende dalla “stabilità” nelle regioni chiave. In genere per stabilità si intende governi amici o che è possibile controllare o indirizzare. Le conseguenze ecologiche e sociali legate al mercato del petrolio sono spesso molto pesanti. Sul piano ambientale i danni derivano non solo dal consumo, per esempio della benzina e quindi delle emissioni di CO2 e dall’effetto serra, ma anche dall’estrazione e dallo sfruttamento, nonché dalla distribuzione. Le stesse attività di estrazione intatti determinano una distruzione dell’ambiente circostante, esplorazioni sismiche con dinamite, deforestazione, la contaminazione del terreno, delle acque superficiali, estinzione delle sorgenti d’acqua, danni alla flora e alla fauna che spesso fugge spaventata. Anche il trasporto del petrolio che richiede la costruzione di oleodotti determina un forte impatto ambientale. Sul piano sociale poi i danni sono ancora più immediati e visibili. Lo sfruttamento petrolifero, quando avviene in territori abitati, può determinare tutta una serie di violenze alla popolazione locale. Le popolazioni locali possono essere deportate e represse, le comunità spesso sono distrutte nella loro organizzazione sociale, ecologica ed economica. Spesso ne nascono dei conflitti violenti tra governi, multinazionali e popolazioni indigene. È il caso per esempio degli Ogoni in Nigeria. La Nigeria è il maggior produttore di petrolio dell’Africa e il sesto esportatore mondiale, nonché quinto fornitore di petrolio degli Stati Uniti e membro dell’Opec. È nota la violenza che il regime Nigeriano sponsorizzato dalla multinazionale Shell scatenò contro la resistenza degli Ogoni, una popolazione abitante nel Delta del Niger. Il 10 novembre 1995 il poeta Ken Saro Wiwa e di altri otto attivisti della comunità degli Ogoni - Baribor Bera, Saturday Doobee, Nordu Eawo, Daniek Gbokoo, Barinem Klobel, John Kpuinen, Paul Levura e Felix Nuate- furono impiccati dopo un processo sommario condotto da un tribunale militare per fiaccare la resistenza. Il fatto suscitò un’ampia risonanza in tutta la comunità internazionale. Qualche anno prima, nel 1992, di fronte all’assemblea delle Nazioni Unite a Ginevra, Ken Saro-Wiwa, aveva dichiarato: «L’attività di estrazione di petrolio ha condotto gli Ogoni alla rovina: le terre, i ruscelli e le insenature sono totalmente e continuamente inquinati; l’atmosfera è avvelenata dai vapori di idrocarburi, metano, monossido di carbonio, biossido di carbonio e fuliggine emessi dal gas che viene bruciato 24 ore al giorno da 33 anni nelle vicinanze delle abitazioni. Pioggia acida e resti petroliferi hanno devastato la terra degli Ogoni. L’alta pressione dei condotti petroliferi attraversa dannosamente le terre coltivabili degli Ogoni». 118 La protesta seguita alla spietata esecuzione portò all’applicazione di sanzioni internazionali contro la Nigeria e alla sua sospensione dal Commonwealth oltre a numerose denunce. La stessa Shell fu condannata per le sue corresponsabilità con il regime e le sue attività di violazione dei diritti umani. Ma non dobbiamo dimenticare che a fianco della Shell operavano e operano anche altre imprese che condividono con la corporation americana responsabilità politiche e morali. Tra questi occorre citare l’Eni che opera nel paese dal 1962 e che ha fatto affari con regimi di ogni genere. Ancora oggi comunque, pur essendo cambiato il governo, le attività di estrazione e produzione del petrolio in Nigeria continuano a essere condotte in un clima di minaccia e violenza contro la popolazione civile e di negazione dei loro diritti. La stessa task force costituita dal governo per assicurare ordine nella regione si è resa responsabile di minacce, violenze e uccisioni. Con l’aumento del prezzo del petrolio le entrate del governo nigeriano sono più che duplicate negli ultimi anni. Nonostante questo gli abitanti del Delta non beneficiano affatto di questo commercio e anzi rimangono prive di quello stesso petrolio. Attualmente molti di loro sono costretti a vivere in situazione di degrado e povertà. Negli ultimi anni la popolazione locale ha cominciato a promuovere prima atti di vandalismo contro gli oleodotti e poi delle strategie di “bunkeraggio illegale” per manomettere e sottrarre taniche di benzina e rivenderla al mercato nero.69 Più recentemente sono saliti alla ribalta anche movimenti politici indigeni armati e organizzati: prima nel 2004 il Niger Delta people’s volounteer front (Ndpvf) gruppo di etnia ijaw guidato da Mujahid Dokubo Asari, e poi in seguito al suo arresto la maggior parte dei ribelli sono confluiti nel Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend) di Jomo Gbomo sempre di etnia ijaw. Questi gruppi che si cimentano in attentati a stabilimenti petroliferi e in sequestri di tecnici e personale delle multinazionali petrolifere insediate nel Delta hanno un’agenda più politica e richiedono la liberazione del leader Asari, i risarcimenti per i danni ambientali e maggiori diritti sul petrolio estratto nelle loro terre. In generale cercano di contrastare lo sfruttamento straniero delle risorse del paese allontanando le compagnie petrolifere dal Delta e di ottenere qualcosa di meglio per il loro popolo. «Non siamo né comunisti né rivoluzionari – ha dichiarato Jomo Gbomo ad un giornalista – Siamo solo uomini estremamente amareggiati». Il caso della Nigeria è – se vogliamo – paradigmatico, ma conflitti tra governi, multinazionali e comunità indigene si registrano in diversi paesi. Per esempio in Bolivia diverse multinazionali quali la spagnola Maxus Repsol, la brasiliana Petrobras, la nordamericana Chaco-Amoco, le mista Transredes (che associa fra l’altro Shell e Enron) sono in uno stato di conflitto permanente con le comunità indigene guaranti, weenhayek, tapiete, chiquitano e varie comunità di contadini. In Equador si registrano tensioni tra il Governo, le multinazionali Agip (italiana), il consorzio CGT/ChevronTexaco e le comunità indigene Kichwa di Sayaku nella provincia di Pastaia. In Colombia gli interessi petroliferi dell’Occidental Petroleum nell’ambito di un consorzio che include tra l’altro la Royal Dutch/Shell e la Ecopetrol si scontrano con i diritti e la resistenza pacifica delle comunità U’wa che minacciano anche il suicidio di massa se comincerà lo sfruttamento dei giacimenti. Molti locali sono stati stuprati e assassinati dalle forze paramilitari in connivenza con le multinazionali del Petrolio. Il 69 Si veda in proposito il reportage di John Ghazvinian, “La guerra del delta”, Internazionale, n. 681, 23 febbraio 2007, pp. 32-38. 119 conflitto va avanti da 5 o 6 anni. Nel 2001 però la mobilitazione internazionale porta al ritiro della Oxi. In Russia ci sono conflitti tra il governo, la multinazionale Royal Dutch/Shell (olandese e inglese), l’Exxon, British Petroleum, l’azienda Sakhalin e le minoranze siberiane Ch’ante, Manze, Nenze, e le popolazioni autoctone delle isole Sachalin e Kamchatka (indigeni Nivci, Nanai, Orochi, Ulchi, oltre 100.000 persone che vivono di artigianato e allevamento delle renne) per l’estrazione di petrolio e gas e il passaggio di oleodotti. In Angola, l’esercito governativo si è reso responsabile di numerosi crimini – stupri, arresti arbitrari, fucilazioni, torture – contro la popolazione della Cabinda. I Cabindi si trovano in mezzo alla morsa dell’esercito e del movimento di liberazione UNITA. Il petrolio poi è al centro del conflitto anche del Sudan, dove le compagnie multinazionali quali la canadese Talisman Energy, l’austriaca ONV, la cinese National Petroleum Corporation, la svedese Ludig, la francese Total-Elf e la Gulf Oil del Qatar si appoggiano anche a piccoli eserciti privati per condurre vere e proprie operazioni militari nei territori strategici. Quali sono dunque le prospettive per sciogliere questo legame tra risorse energetiche e conflitti? Generalmente il dibattito pubblico attorno alla questione del consumo di petrolio e del rapporto con le guerre contemporanee si risolve nel deprecare l’insistenza sul modello energetico petrolifero e sulla richiesta di trovare un sucessore all’oro nero come fonte energetica primaria. Si tratterebbe insomma di decidersi a sostituire gradualmente il petrolio con fonti energetiche differenziate e possibilmente rinnovabili. Il problema purtroppo non si pone in questi termini così semplici. Innanzitutto, come ha sottolineato Renzo Stefanelli «la posizione dominante del petrolio è stata costruita, nel ventesimo secolo, come una delle strutture dominanti. La geopolitica del petrolio è una proiezione di questa costruzione» (Stefanelli, 2003, pp. 7-8). In altre parole la posizione egemone del petrolio rispetto alle altre fonti di energia si spiega anche – ovviamente non solo – in rapporto alla possibilità di costruzione di sistemi economici molto forti e strutturati. Questo in parte dipende dall’ampiezza del plusvalore che il mercato del petrolio permette di generare. Ma non è solo questo. Alcuni economisti hanno sottolineato per esempio che contrariamente a quanto avviene in altri settori, nel campo petrolifero non agiscono norme antimonopolio e questo ha permesso quelle forme di integrazione verticale delle società petrolifere che stabiliscono una gestione unica dal momento dell’estrazione passando per la lavorazione e fino alla distribuzione nella stazione di benzina. E non si tratta nemmeno di imperi solamente produttivi e commerciali ma anche finanziari che intessono rapporti tra economia, politica e società. C’è dunque un rapporto tra lo sviluppo di grandi oligopoli economici e lo sviluppo di una monocultura petrolifera. Attualmente la maggior parte dei capitali sono distribuiti tra quattro compagnie statunitensi (ExxonMobil, ChevronTexaco, Schlumberger, Phillips Petr.), una inglese (BP), una olandese/inglese (Royal Duthc/Shell), una francese (TotalFinaElf), una italiana Eni, una Brasiliana (Petrobras) e una Russa (Yukus). Dall’altra parte abbiamo invece l’OPEC, l’Organizzazione dei paesi esportatori di Petrolio fondata nel settembre del 1960 e con sede in Austria (Vienna). Ne fanno parte Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Venezuela, Qatar, Indonesia, Libia, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Nigeria. L’Opec è nata come organizzazione al fine di far fronte al potere dei paesi acquirenti e delle grandi compagnie multinazionali. Gestisce gli interessi dei paesi esportatori che ne fanno parte attraverso una politica di contingentazione delle produzioni assegnando ogni anno delle quote di produzione ad ogni paese membro. In questo modo possono influire sul prezzo mondiale del petrolio 120 tenendolo abbastanza alto per poterne avere un certo ricavo ma non così alto da mettere in difficoltà l’economia mondiale, o da far diminuire la domanda o da riorientarla verso altri paesi produttori a cui l’estrazione del petrolio costa generalmente di più (Norvegia, Messico, Usa ecc...). L’apogeo del potere dell’Opec venne raggiunto con la crisi del 1973. All’interno del cartello ci sono paesi che vorrebbero tenere i prezzi più alti (Iran, Venezuela e in passato anche Algeria e Libia) e altri che invece producendone di più si accontentano di prezzi minori (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti). Ci sono inoltre enormi speculazioni sulle borse petrolifere. Le più importanti piazze sono il New York Mercantile Exchange (NYMEX), l’International Petroleum Exchange di Londra (IPE), e il Singapore International Monetary Exchange (SIMEX) in Asia. Si comprano e si vendono i cosiddetti “Barili di carta” (Paper barrel). In altre parole ci sono broker che comprano dei titoli e li rivendono senza mai trattare realmente di barili reali. La questione della crisi energetica dunque non riguarda semplicemente un’opzione tecnico-scientifica in direzione di altre fonti primarie ma anche la possibilità di contrastare lo strapotere degli oligopoli petroliferi delle multinazionali (le sette sorelle) e dei paesi esportatori sia in termini economici (ampliando e diversificando il mercato), sia in termini scientifici (investendo sulla ricerca verso fonti rinnovabili), sia in termini sociali (forme di consumo critico e sociale), sia in termini politici (ridiscussione delle concezioni di benessere e delle forme di vita). D’altra parte cambiamenti di questo genere non saranno il frutto di qualche politico illuminato. Non sono perché nei fatti in diversi paesi – in particolare negli Stati Uniti – c’è un’oggettiva contiguità ed in alcuni casi anche una sovrapposizione tra le élites politiche e quelle petrolifere, non solo perché le lobby del petrolio finanziano in maniera più o meno trasparente un insieme di referenti politici, ma anche perché nessun politico, per quanto illuminato, potrà innescare o portare avanti da solo una politica che minaccia di mettere in discussione a tanti livelli molti degli assetti socio-economici del proprio paese e della comunità dei paesi venditori e compratori. È chiaro per esempio che una diminuzione del mercato del petrolio metterebbe in ginocchio non solo i paesi del Medio Oriente o gli Stati Uniti, ma anche paesi come il Messico e il Venezuela. Inoltre si deve tener conto che anche altre risorse possono essere causa di conflitti. Qualcuno dice che il gas per esempio, potrebbe diventare nel XXI° secolo quello che il petrolio è stato negli ultimi decenni del XX°, ovvero una fonte di lucro, ma anche un arma politica e una causa di crescenti conflitti. Il gas è meno inquinante sia del carbone che del petrolio e da questo punto di vista risponde anche ai limiti imposti dal protocollo di Kyoto. Inoltre è più abbondante del petrolio. Le riserve di gas sono stimate utili per i prossimi 70 anni contro i 40 del petrolio. Da ultimo le centrali a gas sono meno costose per esempio di quelle nucleari. La crescita del consumo di gas in prospettiva viene stimata del 2,3% fino al 2030 contro l’1,6% del petrolio, l’1,5% del carbone lo 0,4% del nucleare. Ma per questo sarebbero necessari nuovi investimenti. Così molte multinazionali (Shell, Exxon, BP, Total, Chevron ed Eni) del petrolio si stanno riorientando in quella direzione. Tuttavia, si profilano nuovi conflitti attorno a questa risorsa in connessione con la proprietà del sottosuolo, sulle riserve, e soprattutto sulla distribuzione tramite i gasdotti e sulla relativa condivisione dei profitti (diritti di transito). Ne abbiamo avuto un assaggio nello scontro nel giugno del 2005 tra Russia e Ucraina sulle forniture di Gas70. Zone calde da questo punto di vista potrebbero essere la Siberia, il Mare di 70 L’8 giugno 2005 l’azienda Russa Gazprom annuncia di voler alzare i prezzi di fornitura del gas all’Ucraina ai livelli europei. L’azienda Ucraina minaccia in risposta di diminuire il flusso di esportazione di gas Russo verso l’Europa. Quest’ultima infatti importa 74 miliardi di metri cubi di gas russo che copre circa il 19% dei suoi consumi. Il 1 gennaio Gazprom taglia 121 Barens nell’artico (cui guardano Stati Uniti, Canada, Norvegia e Russia), la Groenlandia (cui guardano Danimarca e Canada). Insomma non è solo la fonte energetica il problema. Non basta abbandonare il petrolio per risolvere la questione dei conflitti per le risorse energetiche. In generale per affrontare questo problema occorre anche la crescita della partecipazione organizzata di cittadini che in qualche modo si sentono responsabili dell’indirizzo che andrà ad assumere il proprio futuro e che rilancino un dibattito politico sulle grandi scelte energetiche in relazione anche ad una ridiscussione del mito della crescita. In altre parole è necessario che il movimento di Seattle, di Porto Alegre, di Londra, così come il movimento pacifista facciano la scelta coraggiosa di portare avanti alcune grandi opzioni che rimettano in discussione sul serio il nodo energia, sviluppo, controllo delle risorse, guerre. Tre sembrano le questioni, strettamente collegate e inscindibili: 1. diminuzione degli sprechi. Alcuni specialisti delle questioni energetiche hanno sottolineato che l’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo dell’energia disperde gran parte dell’energia che produce. È necessario dunque innanzitutto ripensare il sistema energetico non solo dal punto di vista tecnico ma dal punto di vista organizzativo e concettuale in modo da moltiplicare le fonti di produzione e autoproduzione, da ridurre la distanza tra luogo di produzione e luogo di utilizzo, da limitare il più possibile gli sprechi. Un’economia dell’era postfossile – ha scritto Wolfgang Sachs (2002, p. 217) dovrà essere “leggera” in termini di uso di risorse. Si tratterà quindi da una parte – dal punto di vista della progettazione del prodotto – di progettare una produzione col minimo consumo di risorse (e con materiali biodegradabili o riciclabili) e dal punto di vista del consumo di estenderne il più possibile la resistenza e la durata. D’altra parte è importante ridisegnare i cicli produttivi per puntare verso un sistema a circuito chiuso dove i materiali scartati da un processo sono riutilizzati in altre produzioni o per altri usi. Come nota Sachs si tratta di pensare ad un sistema produttivo di aziende concepito in forma di reti ecologiche che mirano ad una produzione zero di rifiuti. In questo modo si ridurrebbe non solo l’inquinamento e lo spreco ma anche il prezzo complessivo da pagare. 2. riorientamento dall’uso di risorse fossili all’energia rinnovabile. Come abbiamo detto la produzione di petrolio e di altre risorse fossili, è destinata in tempi abbastanza rapidi (le previsioni attuali variano tra il 2010 e il 2020) a decadere inevitabilmente. Quando la domanda inizierà a superare la disponibilità si produrranno verosimilmente le condizioni per una maggiore conflittualità internazionale. Si sarà spinti – per necessità - ad investire in risorse alternative e in altre tecnologie; ma prima che queste siano messe a punto e che il sistema energetico e produttivo si riorienti passerà evidentemente del tempo (le previsioni non proprio ottimistiche dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, stimano la predominanza del petrolio per almeno altri tre decenni). Da questo punto di vista prima si sceglierà di investire nella ricerca e nella produzione di energia da fonti rinnovabili – per esempio l’idrogeno e il solare, ma anche le biomasse, la geotermia, l’energia eolica e quella idroelettrica - e più si contribuirà a prevenire nuove guerre nei prossimi anni. Naturalmente più crescerà la richiesta di questo tipo di energia alternativa da parte dei cittadini e più il sistema politico, quello economico e quello scientifico saranno spinti a investire in quella direzione. Allo stato attuale nel nostro paese e, in generale, in Europa e negli Usa non sembra essere maturata una cultura pubblica che spinga in questa direzione. Alcune nazioni, d’altra parte, in particolare l’Islanda, hanno già scelto di investire l’approvvigionamento all’Ucraina e quadruplica il prezzo del gas. Dopo una trattativa segreta alla fine si arriva ad un accordo, pare favorevole ai russi. 122 molte risorse nella produzione di idrogeno tramite elettrolisi e punta a diventare un paese d’avanguardia in questo settore. 3. rimessa in discussione dell'obiettivo della crescita e reinvenzione di un benessere sostenibile. Il problema tuttavia non è riducibile semplicemente alla sostituzione di fonti energetiche primarie per assicurare i medesimi usi finali. Il problema dell’inquinamento e dell’impatto ambientale e sociale, ci deve portare a rimettere in discussione anche gli usi finali. Per esempio noi possiamo anche mettere sul mercato le auto all’idrogeno in modo da non dipendere dal petrolio e da ridurre le emissioni inquinanti (sempre che l’evoluzione tecnologica riesca a risolvere i problemi strutturali connessi ai primi prototipi di auto ad idrogeno), ma questo non elimina né il problema dell’impatto dell’industria produttiva di automobili, ne il problema della congestione del traffico nelle nostre città. Un progetto di mobilità sostenibile non è legato solo alla sostituzione delle fonti energetiche primarie ma anche ad una generale riduzione dei consumi, da quelle domestici a quelli legati alla mobilità. Da questo punto di vista si tratta rimettere in discussione il mito della crescita per la crescita e inventare forme di benessere sociale, economico e politico che non siano dipendenti dalla crescita costante ovvero dal progetto dello sviluppo illimitato. Dobbiamo non puntare a far produrre di più la terra ma a godere di più di quello che possiamo avere sia dal punto di vista naturale che sociale. Si tratta per esempio di diminuire il nesso tra godimento di un bene e suo possesso, ovvero di moltiplicare gli usi sociali collettivi, o basati sullo scambio, passare da una vendita di beni ad un’offerta di servizi. Più in generale sarà importante ridefinire culturalmente il benessere in senso di tempo e significati relazionali, sociali ed esistenziali più che in termini di reddito individuale e di “cose” possedute. In conclusione, la ridiscussione sui modelli di benessere e sull’orientamento delle nostre società dovrebbe portare non soltanto a modificare l’offerta di energia ma anche – aspetto altrettanto importante – la domanda iniziale attraverso la riduzione dei consumi. 123 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu DINIEGO, RESISTENZA, TRASFORMAZIONE: EMERGENZE AMBIENTALI E LA COMUNICAZIONE DEL CAMBIAMENTO Oggi ci troviamo al centro di una serie di crisi convergenti. Il cambiamento climatico e il riscaldamento globale. Il sovrasfruttamento crescente, l’esaurimento delle risorse e l’aumento dei conflitti attorno alle materie prime (acqua, cibo, petrolio, minerali, legno). Il degrado degli ecosistemi, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, la deforestazione, la desertificazione. L’aumento massiccio della popolazione e l’urbanizzazione con un impatto crescente nell’ecosistema planetario Una perdita significativa della biodiversità (sesta estinzione delle specie). L'aumento della disuguaglianza e i nuovi conflitti ambientali. Ora vorrei proporvi due questioni attorno a cui ragionare: 1) se il momento è grave perché si continua a comportarsi come se nulla fosse? 2) dal punto di vista di chi si occupa di informazione, comunicazione, divulgazione scientifica, qual è il modo migliore per accrescere la sensibilità su questi temi? Partiamo dalla prima di queste questioni. 1) PAURA, RISCHI E OPPORTUNITÀ DI CAMBIAMENTO Nonostante la gravità di queste sfide abbiamo l’impressione che tutto continui nello stesso modo. Se il nostro futuro è minacciato da dove viene la resistenza al cambiamento? Perché non interveniamo? Nel provare a rispondere prendo spunto da alcune delle riflessioni che ha condotto Jared Diamond nella sua opera Collasso 71 ma allargo contemporaneamente il campo in diverse direzioni. a) Non stiamo prevedendo in maniera sufficiente il sopraggiungere del problema, perché non disponiamo delle conoscenze scientifiche adeguate per identificare i rischi o le conseguenze di un semplice comportamento. 71 Jared Diamond, in Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi, Torino, 2005) ipotizza avanza diverse ipotesi per cui un gruppo possa anche non riuscire ad affrontare o risolvere simili problemi ecologici. In primo luogo, la società in questione può non prevedere il sopraggiungere del problema; in secondo luogo tale società può non riconoscere la stessa presenza di una situazione critica; in terzo luogo, può essere che questa società riconosca effettivamente l’esistenza di un problema, ma non trovi il coraggio o l’autorità per affrontarlo o risolverlo;da ultimo, può essere che la società cerchi effettivamente di affrontare e risolvere il problema, ma che la soluzione rimanga al di là delle attuali possibilità. 124 b) vediamo il problema ma non è chiara la presenza di una situazione critica, o perché gli effetti esteriori non sono immediatamente manifesti o perché tali effetti si nascondono dentro ampie fluttuazioni temporali, o semplicemente perché il peggioramento è progressivo e non brusco, dunque senza strumenti e forme di registrazione diventa difficile riconoscere la portata del cambiamento del paesaggio attorno a sé. c) le conoscenze scientifiche ci sono ma c’è un problema di disinformazione. Si può riconoscere il ruolo problematico giocato dai mass media (Tv e Giornali) che spesso riproducono il punto di vista dei detentori del capitale, delle grandi industrie e corporation, o dei partiti tradizionali e ritardano la presa di coscienza della situazione. d) le conoscenze scientifiche ci sono, l'informazione è sufficiente ma c’è un problema di cinismo e di interessi contrapposti, ovvero agisce una sorta di egoismo generazionale, etnico e sociale.. è in atto un conflitto, uno scontro tra interessi contrapposti tra le elites globali che ottengono profitti e benefici nell’immediato, scaricando i costi lontano nel tempo e nello spazio e le popolazioni locali. Questo conflitto d’altra parte può attraversare anche noi stessi. Le nostre scelte come consumatori spesso contrastano con le rivendicazioni che portiamo avanti come cittadini. e) Nonostante le conoscenze scientifiche, e la crescita della consapevolezza, e nonostante sia immaginabile un percorso seppur faticoso di cambiamento c’è un problema di mancanza di autorità pubbliche e di leadership credibili. Si tratti di governi, di partiti, di sindacati, di chiese, non c’è una presa di parola pubblica forte, non c'è un'autorità morale sufficiente, capace di rendere credibili alcune lotte politiche. Si può vedere anche un limite rappresentato dagli orizzonti temporali insiti nelle forme della democrazia rappresentativa diffusa nella maggior parte dei paesi occidentali. Le ricerche in proposito hanno sottolineato che gli orizzonti temporali dei politici sono in media attorno a 3-4 mesi, al massimo il periodo di un’elezione. Troppo brevi comunque per preoccuparsi di cambiamenti epocali. f) C’è un problema di diniego che deriva dall'eccesso di confidenza nella propria civiltà ovvero nelle tecnologie e nelle capacità tecniche. Ovvero l’opinione pubblica ha una sorta di rimozione connessa con l’angoscia che gli deriva dalla gravità della situazione e la necessità di un cambiamento radicale. La stessa ideologia del progresso ci rende increduli di fronte alla prospettiva di una possibile crisi della nostra civiltà. Ci fa credere che il nostro livello di sviluppo e di benessere non possa che procedere e migliorare indefinitivamente. g) C'è consapevolezza, informazione, senso delle proporzioni e senso di responsabilità, ma c'è un'oggettiva difficoltà dovuta alla scarsa resilienza, ovvero la dipendenza dal sistema tecno-economico in cui viviamo. In altre parole siamo coscienti della situazione in cui ci troviamo ma non sappiamo come sciogliere una forma di dipendenza da un sistema tecno-industriale e da un sistema di consumi che riteniamo negativo e mortifero ma al quale ci siamo di fatti abituati e che ci fornisce una parvenza di sicurezza e appagamento. h) Anche se ci proviamo la soluzione potrebbe rimanere al di là delle attuali possibilità tecniche, economiche, sociali e politiche. Un problema di diniego/angoscia C’è un problema su cui probabilmente non siamo abituati a pensare e che condividiamo con sistemi politici molto diversi dal nostro. Si può ricordare per esempio la storia di quel Nazista al quale al processo di Norimberga fu chiesto: «Sapevi che 125 cosa succedeva nei campi di sterminio?». Al che egli rispose: «No, non lo sapevo, ma avrei potuto saperlo».72 In quel tempo verbale - un condizionale, per giunta al passato - che indica una consapevolezza potenziale ma che tale rimane, sta, come si può comprendere, anche il nostro problema attuale. A questo proposito risulta particolarmente interessante il lavoro di Stanley Cohen intitolato Stati di negazione.73 Cohen che ha conosciuto da vicino l’Apartheid in Sud Africa e l’oppressione israeliana ai danni dei Palestinesi, approfondisce in questo lavoro il concetto di “diniego”, indicandolo come quello stato limite tra sapere e non sapere che permette ai cittadini che appartengono ad un regime oppressivo di non vedere e di non sentirsi responsabili degli atti commessi sotto il loro sguardo. Cohen ci racconta il funzionamento di questi atteggiamenti di diniego di fronte ad una realtà dolorosa e umiliante e perciò difficile da riconoscere e affrontare: «Il diniego può non essere questione né di dire la verità, né di mentire intenzionalmente. L’affermazione non è del tutto deliberata e lo status di “conoscenza” della verità non è del tutto chiaro. Sembrano esistere stati mentali, o, addirittura, intere culture, in cui noi sappiamo e allo stesso tempo non sappiamo. [….] I gruppi dominanti sembrano misteriosamente capaci di escludere o ignorare l’ingiustizia e la sofferenza che li circonda».74 Questo genere di diniego non è una specialità dei soli regimi dittatoriali o autoritari sopra richiamati. Al contrario dovremmo provare a pensare che questo genere di comportamento è piuttosto diffuso anche tra i cittadini delle democrazie occidentali, e del nostro stesso paese: «In società più democratiche, la gente non esclude i risultati per coercizione, ma per abitudine culturale».75 Da questo punto di vista dovremmo farci una sola, semplice domanda: che spazio ha nella nostra coscienza la sofferenza altrui, la sofferenza che provochiamo con il nostro sistema di vita, con il nostro dominio economico, con le nostre azioni politicomilitari, con la nostra lotta al terrorismo? La dimensione più inquietante del sistema politico e sociale in cui viviamo è legata al fatto che nella nostra testa non c’è spazio per ospitare il dolore che provochiamo nel mondo. Non vogliamo vedere l’orrore con cui siamo imparentati ogni giorno. Anche per noi vale quello che disse un teologo protestante, W.A. Visser’t Hooft, all’indomani dell’Olocausto: «è possibile vivere in una luce crepuscolare tra il sapere e il non sapere». Provare a riconoscere che non si tratta di semplice manipolazione ma anche in parte di un’adesione volontaria ad una “narrazione ufficiale” significa osservare le forme di rimozione della sofferenza dell’altro, della morte, del dolore presenti fra di noi, nei nostri concittadini e certamente – almeno in parte – anche in noi stessi. Tutti noi sappiamo nel nostro inconscio che non possiamo vivere in uno stato di consapevolezza continua delle responsabilità che abbiamo, dunque piuttosto che rimanere in un conflitto con noi stessi a affrontare un senso di colpa e di impotenza è più semplice in qualche modo identificarsi con la visione “ufficiale” e con il comportamento della potenza dominante. Come intuì Bruno Bettelheim riflettendo sul diniego dei tedeschi di fronte alla spiacevole realtà dei campi di concentramento, la “legge” che si può desumere in questi casi è che l’intensità della negazione è la contropartita esatta del grado e della profondità dell’angoscia prodotti dalla negazione 72 La storia è riportata da Gregory Bateson nello scritto “Paradigmatic Conservatism” contenuto nel volume di Carol Wilder-Mott & John H. Weakland, Rigor & Imagination. Essays from the legacy of Gregory Bateson, Prager, New York, 1981, p. 355. 73 Stanley Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Roma, 2002. 74 Ivi, pp. 27-28. 75 Ivi, p. 28. 126 stessa.76 L’assunzione e l’interiorizzazione del punto di vista dominante per un verso regala un senso di maggiore tranquillità ed integrazione interiore, ma d’altra parte comporta una perdita fortissima sul piano dell’autonomia e a livello più inconscio dell’autostima. Il termine “diniego” o “denegazione” in origine era stato introdotto da Sigmunt Freud e fu ripreso da diversi psicoanalisti secondo differenti punti di vista. Melanie Klein per esempio sosteneva che l’origine del meccanismo di diniego riguardava anzitutto un tentativo di difendersi dall’angoscia più profonda e opprimente, quella costituita dai propri persecutori interiorizzati. Secondo Klein dunque, la denegazione originaria è quella verso la propria realtà psichica. Solo in seguito a questo l’individuo può procedere a denegare quantità più o meno rilevanti della realtà esterna. A me sembra che tra i due livelli ci sia una relazione e un’influenza reciproca e costante. Si negano realtà esterne per non affrontare le emozioni e le esperienze interiori che esse ci provocano, e si negano le emozioni e i vissuti interiori per non affrontare le realtà esterne. Questa riluttanza si può articolare in diversi livelli: - si può negare che un certo genere di problemi (cambiamento climatico, esaurimento delle risorse, estinzione delle specie, rischi nucleari ecc…) siano presenti. - si può negare che – seppure esistano - siano causati dal comportamento umano, ovvero che si tratti di fenomeni naturali. - si può riconoscere qualche fondamento alle notizie ma negare che quello che sta succedendo sia veramente così grave: si tratterebbe solo di qualche eccesso, di qualche comportamento eticamente sbagliato, ma nulla che non possa essere modificato e riportato sulla giusta via; - si può negare che queste problemi siano causati dal proprio paese, dalla propria società: - si può negare che questi problemi siano causati dai propri stili di vita, dai propri comportamenti e proiettarne la responsabilità solo su alcune specifiche categorie (le multinazionali, i ricchi, i capitalisti, ecc.); - si possono accettare certe notizie ma sostenere che tutto quello che sta succedendo è fondamentalmente inevitabile, un sottoprodotto del progresso e della crescita, e come tale dev’essere accettato.; - infine si può credere alle notizie ma reprimere il più possibile la conoscenza e la consapevolezza di quei fatti e delle scelte o dei comportamenti che porterebbero a mettere in discussioni le proprie abitudini e a camminare in una direzione diversa. Bertrand Méheust ha scritto un libro La politique de l’oximore,77 in cui mette in rapporto la questione ecologica con la proliferazione attuale delle formule di ossimori: sviluppo sostenibile, crescita negativa, flexicurità, moralizzazione del capitalismo, finanza etica ecc… La sua tesi di fondo è questa: «Un universo mentale cerca sempre di perseverare nel suo essere e non rinuncia mai autonomamente a se stesso, se delle forze esteriori considerabili non lo costringono» (Méheust, 2009 p. 27). Dunque probabilmente c'è un problema di resistenza al cambiamento ma anche di dipendenza materiale e immateriale. Proviamo dunque ad interpretare questo problema della dipendenza, nelle varie forme che può assumere nella nostra situazione. 76 Bruno Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Adelphi, Milano, 1998, p. 334. 77 Bertrand Méheust, La politique de l’oximore, La découverte, Paris, 2009. 127 Un problema di dipendenza Il salto di coscienza difficile a questo punto è quello di riconoscere che tutti noi siamo parte di questo modo di pensare patologico: individualista, dualista, finalista, economicista, arrogante, potenzialmente autodistruttivo. Se non capiamo questo, il rischio – potremmo dire il destino – sarà quello per cui ogni volta che crediamo di fare qualcosa di nuovo, di alternativo, di riparativo per curare quel sintomo, in realtà riproduciamo sotto altra forma (anzi spesso in forma più sottile ed insidiosa) le premesse sbagliate che hanno condotto alla crisi. Gran parte dei nostri interventi e delle nostre soluzioni, delle nostre risposte di emergenza entrano a far parte del problema e lo rinforzano in un modo che non riusciamo a riconoscere. Come ha notato Gregory Bateson: «Il paradigma è questo: curare il sintomo in modo da rendere il mondo confortevole per la patologia. In realtà è ancora peggio di così, perché scrutiamo anche il futuro e cerchiamo di scorgere sintomi e disagi che verranno. Prevediamo gli intasamenti sulle autostrade e mediante appalti statali invitiamo le imprese ad allargare le strade perché possano contenere automobili che ancora non esistono. In questo modo milioni di dollari vengono impegnati in ipotesi di futuri aumenti di patologia. Dunque il medico che si concentra sui sintomi rischia di proteggere o incoraggiare la patologia di cui i sintomi fanno parte» (Bateson 1997, p. 441). L’effetto più perverso di questo sistema è stato di suscitare una forma di adattamento alla patologia. L’inquinamento, i mutamenti climatici, la crescita e la colpevolizzazione degli esclusi, le guerre per le risorse stanno diventando un paesaggio consueto a cui ci abituiamo passivamente senza modificare i nostri comportamenti e gli assetti di fondo della nostra società. Già nel 1971, nel saggio “Il pianeta malato” Guy Debord, scriveva a questo proposito: «Una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha concretamente ricreato dappertutto il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come pianeta malato» (Debord, 2007, pp. 53-54). Una parte dei discorsi pseudo-ambientalisti che oggi sentiamo pronunciare da politici e tecnocrati non fa altro che trasformare il mondo intero in un ospedale globale in cui si interviene emergenza dopo emergenza, per tentare di rattoppare i disastri prodotti dalle performance economiche dello sviluppo. Come rispondere allora ai problemi ecologici e sociali che abbiamo di fronte? Si tratta in primo luogo di attribuire ai fenomeni di crisi che abbiamo sotto gli occhi un significato sistemico. Il problema non è il sintomo che riusciamo a riconoscere facilmente, il problema piuttosto è il disequilibrio che ne è causa. In questo senso è la “normalità” che precede queste “crisi” che bisogna interrogare. Da un certo punto di vista si tratta di lavorare per un intervento correttivo ad un livello più ampio. Naturalmente questa correzione è molto più difficile perché: a) non solo richiede di esaminare “zone di pertinenza” più vaste; e anzi b) richiede il cambiamento di mentalità e comportamenti appresi che in quanto profondamente interiorizzati non riconosciamo come “negativi”; e anzi 128 c) tali attitudini fanno parte del nostro “adattamento”, dunque ci appaiono abitudini “naturali” se non fattori “indispensabili” di sopravvivenza. Insomma si tratta proprio di procedere a mettere in dubbio ciò che è ovvio e che è indispensabile (non solo ci appare come tale, ma in un dato contesto è effettivamente tale). Si comprende dunque l’estrema difficoltà, il “pasticcio” dentro a cui ci siamo infilati. Un altro modo per esprimere questa situazione è che nella situazione attuale per avere una reale prospettiva è assolutamente indispensabile un profondo cambiamento, ma d’altra parte sul breve periodo tale cambiamento non può che presentarsi come estremamente doloroso se non come una vera e propria piaga. Per tornare a Bateson: «l’inverso della “formazione delle abitudini” cioè la distruzione di informazioni programmate rigidamente, e una forma di apprendimento che probabilmente è sempre difficile e dolorosa e che, quando non riesce, può essere patogenica» (Bateson 1997, p. 228) Queste riflessioni di Gregory Bateson ci incoraggiano a guardare le cose da un altro punto di vista, a rovesciare le nostre certezze più consolidate. Ma poi cambiare non è facile, agire non è scontato, e per muoversi bisogna mostrare molta saggezza. Forse conviene procedere ulteriormente nella comprensione “formale” dei paradossi sociali in cui siamo coinvolti Adattamento, assuefazione e dipendenza A questo proposito, penso valga la pena richiamare la storia della farfalla Breadand-butter-fly di Lewis Carrol che piaceva molto anche a Gregory Bateson: «“Eccola lì che sta zampettando vicino ai tuoi piedi,” disse la Zanzara (alice tirò indietro i piedi, un po’ allarmata) “la Farfalla-Pane-e-Burro. Le sue ali sono fettine sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo è un pezzo di crosta, e la testa è una zolletta di zucchero”. “E di cosa si nutre?” “Di tè leggere con panna”. Venne in mente ad Alice una difficoltà imprevista. “E se non lo trova?” Chiese. Allora muore, naturalmente”. Ma è una cosa che le deve capitare assai spesso” osservò Alice, pensierosa. “Le capita sempre” rispose la Zanzara. Dopo di che, Alice restò zitta per un paio di minuti, soprappensiero…». «Se ci domandiamo di che cosa sia morta la Bread-and-butter-fly – commenta Gregory Bateson -, siamo costretti a rispondere che è morta di un doppio vincolo. Non dei particolari traumi dovuti a una scelta sciolta nel tè leggero e neppure d’inedia, bensì dell’impossibilità di un adattamento contraddittorio. Probabilmente i dinosauri si trovarono imprigionati in qualche vincolo cieco evolutivo di natura simile. E c’è una grande probabilità che noi stessi ci estinguiamo per l’impossibilità di adattarci alla pace e a una tecnologia povera» (Bateson, 1997, p. 333) Quello che Bateson cerca di suggerirci dunque è che adattamento e assuefazione sono fenomeni molto collegati tra loro. In un certo senso l’uno è la 129 conseguenza dell’altro. Un prolungato adattamento tanto più si estende e si radica si trasforma in qualche misura in un’assuefazione. Ora fino ad un certo punto l’adattamento rappresenta la risposta migliore a condizioni date e ad un certo tipo di ambiente. Quando tuttavia si verificano mutamenti ambientali o quando le nostre abitudini prendono a erodere le fondamenta ambientali su cui abbiamo edificato le nostre sicurezze ci troviamo all’improvviso in un bell’impiccio. La nostra capacità tecnica di sfruttare al massimo le risorse naturali e sociali, di costruire un sistema di produzione, di consumo e di benessere sempre più strutturato finisce col modificare le più generali condizioni ambientali e a minacciare le nostre stesse condizioni di sopravvivenza. In sintesi: un’adattamento eccessivo si tradice in un’assuefazione e quest’ultima stabilisce delle condizioni di “rigidità” che la trasforma all’improvviso in un ostacolo al cambiamento richiesto dalle mutate condizioni ambientali. «È indubbio – ha scritto Nicholas Georgescu-Roegen – che l’attuale processo di crescita deve giungere a un termine, anzi, rovesciarsi. Ma chiunque creda di poter stilare un programma per la salvezza ecologica della specie umana non comprende la natura dell’evoluzione, e nemmeno della storia: essa consiste in una lotta permanente sotto forme sempre diverse, non in un processo fisicochimico prevedibile e controllabile, come far bollire un uovo o lanciare un razzo sulla Luna» (Georgescu-Roegen, 1998, p. 74). Come ha ben argomentato il bioeconomista rumeno, al contrario di tutte le altre specie viventi che utilizzano solo strumenti endosomatici78 (zampe, artigli, ali ecc…), la specie umana ha trasceso i suoi limiti corporei evolvendosi attraverso un’ampia gamma di strumenti esosomatici (prodotti dall’uomo stesso al di fuori del proprio corpo), dal coltello ai satelliti, dalle macchine agli aerei, dal telefono ai computer. Pian piano l’essere umano si è assuefatto a questa congerie di strumenti, tanto che essi sono diventati una specie di prolungamento biologico di se stesso, o se vogliamo il suo nuovo ambiente di vita. E questa evoluzione esosomatica - nota Georgescu-Roegen – è un fenomeno in gran parte irreversibile, simile a quello del pesce volante, assuefattosi all’atmosfera e trasformatosi in uccello. Non è affatto semplice liberarsi a questo punto da questa dipendenza. L’intera organizzazione sociale riposa su questi strumenti, molto più di quanto non siamo disposti a riconoscere. Nei fatti esiste a questo proposito una legge di ereditarietà affine a quella esistente in campo biologico, ovvero ogni generazione eredita la struttura esosomatica di quella precedente (Georgescu-Roegen, 2003, p. 75). Data questa condizione il problema che dobbiamo affrontare non è solo biologico e tanto meno solamente economico, ma precisamente “bioeconomico”. In questo senso possiamo solamente intuire che abbiamo di fronte un problema assai complesso e di difficile risoluzione. La situazione in cui ci troviamo è una tipica situazione di retroazione di cui troviamo una descrizione molto acuta di Edgar Morin: «L’uomo è diventato l’asservitore globale della biosfera, ma con ciò stesso si è trovato asservito. È diventato l’iperparassita del mondo vivente e, minacciando di disintegrare l’eco-organizzazione nella quale vive, minaccia così anche la sua sopravvivenza, proprio perché parassita. Possiamo spingerci ben più in là. Non soltanto lo sviluppo della nostra indipendenza antropo-sociale ci rende dipendenti dagli eco-sistemi in forme sempre più profonde, ma – sempre maggiormente – diventiamo sempre più dipendenti dal nostro strumento di indipendenza: l’organizzazione tecnologica che si è costituita nelle macchine artificiali, per opera 78 La distinzione tra organi esosomatici e organi endosomatici ripresa da Georgescu-Roegen è originariamente di Alfred J. Lotka. 130 e a vantaggio di queste, e che ormai retroagisce sui macchinatori e sui macchinisti» (Edgar Morin, 2004, p. 85). In altre parole noi siamo chiamati a mettere in discussione molte delle certezze sulle quali noi tutti siamo cresciuti, siamo stati educati, sulle quali abbiamo costruito un nostro adattamento ecologico e sociale, per quanto perverso. Tutti siamo plasmati ad un livello più o meno cosciente dall’immaginario economico moderno. Come hanno notato Miguel Benasayag e Gerard Schmit: «Nell’economicismo il mondo divenuto merce, che è un prodotto degli uomini produce a sua volta un tipo d’uomo e di vita inseparabili dagli oggetti economici. Come non esiste l’individuo, che è una costruzione immaginaria che tenta di sostituirsi alla persona, non esiste nemmeno un essere umano astratto che contempli dall’esterno, dall’alto della sua purezza, lo sviluppo del mondo merce» (Benasayag, Schmit, 2004, pp. 124-125). Da questo punto di vista è fondamentale capire che qualsiasi tentativo di descrizione e comprensione, implica anche una riflessione sull’osservatore e sulle premesse culturali e cognitive dalle quali questi prende le mosse. Quello che ci sentiamo di suggerire, dunque, è che l’accesso ad una realtà alternativa, ad un epoca di “doposviluppo”, di "post-crescita" o a una società di “decrescita”, comunque la vogliamo chiamare, sarà molto più simile ad un processo di disapprendimento e di disintossicazione che alla realizzazione di un progetto razionale. Ci si deve disabituare a una forma di vita diversa in termini materiali, mentali e psicologici. La società della crescita, infatti, si presenta oggi attraverso diverse dimensioni di adattamento/dipendenza: - Una dimensione di adattamento/dipendenza politica. Il benessere dello sviluppo non è un dato oggettivo ma piuttosto “posizionale”, si misura in rapporto a quelli che stanno meglio o peggio. Il consenso politico nelle società fondate sulla crescita è legato alla promessa di un miglioramento del proprio status socioeconomico. Il successo dello sviluppo si basa sull’idea che prima o poi tutti raggiungeranno il tenore di vita di quelli che stanno meglio. Da questo punto di vista la decrescita non è un obiettivo politico attraente. A meno che non si riesca a far emergere la dimensione di liberazione implicita in questa proposta. - Una dimensione di adattamento/dipendenza materiale dal punto di vista tecnologico, economico, organizzativo. È evidente che l’intera organizzazione materiale attorno a noi risponde alle logiche di una società di crescita. Il cambiamento delle abitudini si deve confrontare con le resistenze e con i limiti concreti posti dall’organizzazione tecnico materiale. Ma anche con il fatto che dipendiamo da un ampio spettro di risorse minerali sottoposte oramai ad un regime di scarsità. - Una dimensione di adattamento/dipendenza simbolico-antropologica. Senza l’idea di progresso, sviluppo e crescita si genera in noi un’angoscia del vuoto. Nella maggioranza delle persone in Occidente c’è una forma di difesa rispetto all’idea di sviluppo nonostante le sue contraddizioni e i suoi risultati, dovuta alla paura di abbandonare un riferimento ideale per quale si è tanto impegnato, si è tanto lottato, si è tanto sacrificato. Abbandonare il mito dello sviluppo significa confrontarsi con il senso di vuoto, di spaesamento, di mancanza di prospettiva. 131 - Una dimensione di adattamento/dipendenza psicologica e sociale. Il consumo è anche un bisogno emotivo, relazionale, identitario; gli oggetti che compriamo sono appendici dell’io dell’uomo moderno. Ci rinforzano nel nostro senso di identità. Noi ci costruiamo una certa immagine di noi stessi, anche sulla base di ciò che compriamo: vestiamo, indossiamo, mangiamo, usiamo ecc. Dobbiamo riconoscere che questo è un tratto assolutamente comune a tutti noi. Solamente che alcuni lo fanno in riferimento a vestiti o alle auto, altri lo fanno in riferimento a libri, a cd, piuttosto che a quadri. Vedete come ci sono differenti livelli di dipendenza/adattamento ognuno dei quali difficile da affrontare e superare. Qui si trova il rompicapo – il “doppio vincolo”, direbbe Bateson - dentro al quale siamo tutti presi: la dipendenza è l’altra faccia dell’adattamento. Non possiamo sciogliere questa dipendenza se non affrontando il problema dell’adattamento. Un adattamento che per molti versi è stato comprensibile e ragionevole, ma che oggi è diventato sempre più nevrotico e patogeno ed assume sempre di più il carattere di un’assuefazione tossica. «In chiusura, è d’obbligo raccomandare la prudenza. Avendo capito che la crescita è difficile da realizzare proprio là dove più serve, non dobbiamo essere indotti a credere che il desviluppo sia una questione semplice. Se il problema dell’accumulazione è stato il più grande rompicapo dei pianificatori, la deaccumulazione potrebbe rivelarsi un rompicapo persino maggiore» (Georgescu-Roegen, 2003, p. 126). O per dirla nuovamente con le parole di Ivan Illich, «La disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di passaggio, e soprattutto per i più intossicati tra i suoi membri. Possa il ricordo di tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future» (Illich, 1993, p. 109) La questione su cui oggi è fondamentale riflettere è come sciogliere una dipendenza, un’assuefazione a qualcosa che per altri versi è frutto di un adattamento necessario. Io credo che dovremo lavorare a lungo per riformulare il nostro problema, per trovare una forma intelligente al nostro rompicapo. Una forma che ci aiuti ad andare più lontano nella comprensione di quello che siamo, di quello che desideriamo, di quello che ancora possiamo fare per cambiare. L’orizzonte che abbiamo davanti a noi non può più essere quello di una performance economica ottenuta al prezzo di tutto il resto, ma la ricerca di un equilibrio flessibile capace di rispondere con più leggerezza e tempestività all’epoca di cambiamenti nella quale ci stiamo sempre più addentrando. In generale credo che qualsiasi atteggiamento che affronta un lato della questione tralasciando l’altro non possa che portarci in un vicolo cieco. Si illude sia chi continua a parlare della necessità dello sviluppo (magari con l’aiuto di quello specchietto per allodole che si chiama sviluppo sostenibile) dimenticando che per l’idea di uno sviluppo illimitato è in quanto tale antiecologica e sia chi pensa si tratti semplicemente di smettere di produrre o consumare (di de-crescere in senso letterale) dimenticando che il nostro adattamento sociale in tutte le sue forme si basa sulla crescita continua. Gregory Bateson riteneva che «per liberarsi da una dipendenza sembra cruciale riconoscere di essere in trappola» (Bateson G., Bateson M.C. 1989, p. 132 194). In altre parole si tratta di comprendere la dimensione “tragica” della storia in cui siamo presi e questo implica anche una maturazione psicologica, morale e politica degli stessi attori sociali. D’altra parte lo stesso Bateson ci ha insegnato che le situazioni di doppio vincolo mentre sono quasi sempre fonte di dolore, possono essere anche fonte di creatività, di umorismo, di cambiamento. Ma occorre non accontentarsi dei tranquillanti e delle facili ricette e continuare a cercare con la giusta disposizione in una felice ed irriducibile inquietudine. Da questo punto di vista il dibattito sulla “decrescita” promosso in particolare da Serge Latouche79 oggi rappresenta una novità incoraggiante anche se si tratta di una discussione ancora agli inizi e probabilmente ancora piena di ambivalenze e contraddizioni. «Parlare di “decrescita” – afferma Latouche - significa dunque lanciare una sfida, azzardare una provocazione: all’interno del nostro immaginario dominato dalla religione della crescita e dell’economia, asserire la necessità della decrescita risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili posizioni è quantomeno considerato iconoclasta».80 Per Latouche la decrescita non è un modello e nemmeno un paradigma. Non è, in altre parole, un termine “simmetrico” ma con il segno rovesciato rispetto a quello di crescita. In termini più rigorosi, si dovrebbe parlare di “a-crescita” come si parla di “ateismo”. In altre parole l’aspirazione sarebbe quella di sottrarsi alla religione della crescita e dello sviluppo, ad una società che basa il suo benessere sull’aumento continuo della produzione e dei consumi (dalle merci alle tecnologie, dai gadget alle armi). Dunque la decrescita non è un’alternativa ma piuttosto come ama dire Latouche una “matrice” di alternative, ovvero una proposta per aprire il campo ad altre rappresentazioni del benessere sociale sganciate dalla logica dello sviluppo o in termini più ampi da una logica accrescitiva nei più svariati campi. Non è questa l’occasione per approfondire questo tema. Mi limito piuttosto a concludere questo intervento con una suggestione. Sulla base delle nostre riflessioni si può osservare che l’idea di decrescita potrebbe essere intesa come un primo tentativo di pensare – come direbbe Jean-Pierre Dupuy –«la continuazione dell’esperienza umana come il risultato di una negazione di un’autodistruzione».81 Suggerisco dunque che l’idea di decrescita possa essere intesa non come una semplice regressione lineare ma come una operazione di riduzione selettiva di complessità. Non si tratta di presupporre semplicemente un ritorno indiscriminato ad una fase più semplice di organizzazione sociale – una specie di ritorno al passato - ma si tratta invece di ricercare una superiore e più fine capacità di discrimine tra ciò che è più importante e significativo e ciò a cui possiamo invece rinunciare. In altre parole si tratta di un processo culturale di “disapprendimento”, che contempla una perdita ma che se viene affrontato (e non solo subito) consapevolmente per tempo permette anche una maturazione sociale ed ecologica. Un processo dunque che mescola insieme forme di conservazione, di dismissione e di innovazione in tutti i campi: ambientale, culturale, politico, economico, tecnologico e altro ancora. È probabilmente un mondo strano, curioso e imprevedibile quello che si profila davanti a noi. Una società dove diverse forme di produzione, autoproduzione, riciclo, rigenerazione, scambio, condivisione, vivranno intrecciate l’una con 79 Si vedano Serge Latouche, Sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 2005; Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007; Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008. 80 Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 8. 81 Jean-Pierre Dupuy, Pour un catastrophisme éclairé. Quand l’impossible est certain, Éditions du Seuil, Paris, 2002. 133 l’altra, e occorrerà abbastanza flessibilità nella nostra mente per saper tenere insieme creativamente tutto questo per dargli una forma conviviale, di buon vivere. 2) COME COMUNICARE NELL'EMERGENZA? Arriviamo alla seconda questione. Dal punto di vista dell'informazione e della comuniciazione, qual è il modo migliore per accrescere la sensibilità su questi temi? C'è un modo di comunicare più efficace che ci aiuti a interiorizzare un senso di urgenza e gravità di fronte alle sfide che abbiamo davanti, senza però farci paralizzare dalla paura o dal senso di impotenza, magari sottolineando anche le opportunità emergenti da un possibile cambiamento? Motivare il cambiamento: minaccia o desiderio? Un primo interrogativo riguarda il ruolo di alcune emozioni negative: paura, angoscia, vergogna ecc. Possono aiutarci a migliorare le cose o sono solo un ostacolo? Da una parte ci sono autori come Gunther Anders che rivendicano la necessità e l'importanza di questi sentimenti proprio per contrastare l'illusione delle "magnifiche sorti e progressive". «Probabilmente nessuna delle generazioni precedenti il XVIII secolo, precedenti cioè la marcia trionfale delle teorie progressiste, sarebbe stata tanto impreparata come lo siamo noi oggi ad affrontare il nostro compito odierno: quello di provare angoscia. Perché per il credente nel progresso la storia è a priori senza fine, perché vi vede una lieta predestinazione di continuo miglioramento, un processo che avanza imperturbabile e inarrestabile» (Anders, 2003a, p. 287). D'altra parte, se questi sentimenti sono importanti per provare preoccupazione e assumere una visione problematica e critica verso i nostri modelli di comportamento e le nostre azioni, dall'altra probabilmente queste emozioni non sono sufficienti - da sole - ad attivare modelli di comportamento differenti e ad indirizzarsi verso percorsi di cambiamento che richiedono forme di attivazione e mobilitazione più positive e rinforzanti. Da questo punto di vista, come hanno notato Miguel Benasayag e Gérard Schmit «È proprio questo il problema: oggi gli adulti hanno interiorizzato il fallimento degli ideali connessi alla visione messianica del futuro e condividono la convinzione opposta, e ormai dominante, di un futuro pieno di minacce. Così, nella pratica quotidiana dell’educazione, si passa dall’invito al desiderio a una variante più o meno dura di quello che potremmo chiamare apprendimento sotto minaccia» (Benasayag, Schmit, 2004, p. 43). «Così, oggi sappiamo benissimo che la perdita di ideali e la tristezza hanno portato la nostra società ad abbandonare un tipo di educazione fondato sul desiderio. L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericoli incombenti» (Benasayag, Schmit, 2004, p. 57). Da Freud in poi gli psicoanalisti ci hanno ricordato che ogni tentativo di educare o salvare qualcuno mettendo avanti la minaccia ha effetti limitati e in qualche caso controproducenti. C’è un godimento della negatività, un godimento del rischio, un 134 godimento del giocare col limite e con la fine. Ogni tentativo di mettere avanti solamente la minaccia in quanto tale rischia paradossalmente di accelerare i comportamenti “ecologicamente” autodistruttivi. Dal punto di vista delle alternative noi abbiamo in primo luogo una sfida nella dimensione dell’immaginario, che è quella di evocare un cambiamento che pur in parte consapevole dei rischi che stiamo correndo fa leva sul desiderio, sulla fiducia. Un desiderio e una fiducia che si nutrono in primo luogo di relazioni, ovvero di un’altra socialità. «…le idee, intese come ipotesi teoriche e pratiche, devono accompagnare gradualmente le esperienze alternative e permettere che il comportamento si modifichi. Non in nome di una prescrizione disciplinare, ma in virtù dello sviluppo di pratiche più desiderabili, potenti e ricche. Perché il legame appaia ai giovani più desiderabile della lotta per il dominio, dobbiamo impegnarci fino in fondo a pensare, guarire ed educare. Ma, innanzitutto, il nostro impegno sarà volto a trasformare noi stessi» (Benasayag, Schmit, 2004, p. 99). Da questo punto di vista il tema della decrescita non deve giocarsi in una versione negativa – a contrario – della società della crescita, ma nella costruzione di una pratica sociale più ricca e appassionata. Non si tratta di redigere programmi ma di guardare in mezzo a noi. Quello che può nascere tra di noi, a partire da chi siamo e da quanto siamo disponibili a metterci in gioco. Dobbiamo anche imparare ad usare un linguaggio che rifletta la nostra visione del mondo e che evochi quanto di positivo possiamo dare e scambiare tra di noi. L’idea è che solo di fronte all’esperienza del limite, sia possibile fare un salto di creatività e aprire l’orizzonte a possibilità che prima non erano immaginabili. Noi non conosciamo a priori cosa sarà una società sostenibile al di fuori dell'orizzonte della crescita. Non sappiamo qual è il benessere e il meglio per gli altri. Dovremmo piuttosto metterci nell’atteggiamento in cui si possa far spazio all’espressione di questi bisogni e desideri attraverso la costruzione di legami più forti. Quello che sappiamo è che occorre rivoluzionare le nostre abitudini, e intuiamo che è inevitabile ripensare le stesse premesse del nostro modo consueto di pensare. Ma il fatto è che oggi sembriamo tutti dibatterci tra una forma di intrattenimento e distrazione di fondo e una percezione angosciata e pessimistica del futuro. A partire lavoro sui Limiti dello sviluppo sembra proprio che ogni sforzo coscienzioso di guardare oltre il velo e ogni considerazione “realistica” sul futuro finisca con consegnarci ad un più che probabile appuntamento con la catastrofe. Dobbiamo dunque contrastare la nostra cecità verso la catastrofe, prendendo questa possibilità terribilmente sul serio ma allo stesso tempo dobbiamo impedire che questo realismo cali come una cappa sulla nostra vita e ci impedisca di continuare a desiderare. Credo che le riflessioni più interessanti a questo proposito siano state offerte da Jean-Pierre Dupuy che nel suo libro Piccola metafisica degli tsunami (Dupuy, 2006) ha ripreso una riflessione di Gunther Anders attorno ad una storia antica, il racconto mitico di Noè e del diluvio universale. Poiché Noé era ormai stanco di fare il profeta di sventura e di continuare ad annunciare senza tregua una catastrofe che non arrivava e che nessuno prendeva sul serio, un giorno, «si vestì di un vecchio sacco e si sparse della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi piangeva il proprio figlio diletto o la sposa. Vestivo dell’abito della verità, attore del dolore, ritornò in città, deciso a volgere a proprio vantaggio la curiosità, la cattiveria e la superstizione degli abitanti. Ben presto ebbe radunato interno a sé una piccola folla curiosa e le domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era il morto. Noè rispose che erano morti in molti e, con gran divertimento di quanti lo ascoltavano, 135 che quei morti erano loro. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noè si erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: dopodomani il diluvio sarà stato, tutto quello che è non sarà mai esistito. Quando il diluvio avrà trascinato via tutto ciò che c’è, tutto ciò che sarà stato, sarà troppo tardi per ricordarsene, perché non ci sarà più nessuno. Allora, non ci saranno più differenze tra i morti e coloro che li piangono. Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi. Dopo di che se ne tornò a casa, si sbarazzò del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo e andò nel suo laboratorio. A sera, un carpentiere bussò alla sua porta e gli disse: lascia che ti aiuti a costruire l’arca, perché quello che hai detto diventi falso. Più tardi, un copritetto si aggiunse ai due dicendo: piove sulle montagne, lasciate che vi aiuti, perché quello che hai detto diventi falso» (cit. in Dupuy, 2006, p. 7-8). Jean-Pierre Dupuy, ci invita a leggere questo racconto di Anders pensando al fatto che la nostra possibilità di pensare il cambiamento debba rimettere in gioco la stessa nozione di tempo, passando da una concezione lineare e progressiva ad una circolare che riallaccia futuro e presente, futuro e passato. Il futuro infatti è prodotto dagli atti che abbiamo compiuto nel passato o che compiamo nel presente, mentre il modo in cui agiamo è determinato dalla nostra anticipazione del futuro e dalla reazione che abbiamo di fronte a questa anticipazione. Si tratterebbe dunque di accettare questo paradosso: occorre pensare che il nostro futuro sia segnato e che la catastrofe avrà certamente luogo poiché soltanto nell’accettazione di questa condizione troveremo le energie per mobilitarci e il coraggio di fare delle scelte che portino a rovesciare questo destino. Su questa base secondo Jean Pierre Dupuy un certo «catastrofismo illuminato» consisterebbe nel pensare «la continuazione dell’esperienza umana come il risultato della negazione di un’autodistruzione – un’autodistruzione che sarebbe come iscritta nel proprio avvenire irrigiditosi in destino» (Dupuy, 2002, p. 216). Le considerazioni di Dupuy sono molto affascinanti, ma a mio avviso non sono pienamente soddisfacenti. Oltre a sfuggire la catastrofe dobbiamo anche costruire una vita degna di questo nome ed è alquanto dubbio che si possa creare una società conviviale semplicemente profetizzando il rischio incombente di un futuro di sventure. Da Freud in poi gli psicoanalisti ci hanno ricordato che ogni tentativo di educare o salvare qualcuno mettendo avanti la minaccia ha effetti limitati e in qualche caso controproducenti. Ogni tentativo di mettere avanti la minaccia in quanto tale, senza alcun supporto per reggere o controbilanciare l’angoscia che ne deriva, rischia paradossalmente di accelerare i comportamenti difensivi ed “ecologicamente” autodistruttivi. C’è tra l’altro anche un godimento della negatività, un godimento del rischio, un godimento del giocare col limite e con la fine. Dobbiamo confrontarci anche con una resistenza a pensare un avvenire migliore che non è frutto di un semplice realismo ma piuttosto di un difetto di immaginazione e di una perdita di fiducia nelle nostre possibilità ben oltre le nostre effettive potenzialità. Quindi dal punto di vista della costruzione di alternative noi abbiamo in primo luogo una sfida nella dimensione dell’immaginario, che è quella di evocare un cambiamento che - pur consapevole dei rischi che stiamo correndo - faccia leva sul desiderio, sulla fiducia. Un desiderio e una fiducia che si nutrono in primo luogo di relazioni, ovvero di pratiche sociali ed esistenziali più forti, più appassionate e perfino più “ricche” di quelle suggerite dall’immaginario materialista ed economicista, cristallizzato nell’ossessione della crescita. Pratiche che possono trasformare noi stessi, le nostre relazioni e la realtà attorno a noi. 136 Se vogliamo uscire dalla crisi dobbiamo allora imparare ad usare un linguaggio ed un immaginario che rifletta la nostra visione del mondo e che evochi quanto di positivo possiamo dare e scambiare tra di noi già qui, oggi. Quindi alla fin fine dobbiamo sfidare doppiamente il senso comune e “giocare” non con uno ma bensì con due paradossi contemporaneamente: - Dobbiamo “rammentare la catastrofe” che ci attende, affinché questa non avvenga nella realtà. - Ma, contemporaneamente, dobbiamo continuare a “immaginare un dolce avvenire” che nessuno crede più possibile, affinché questo divenga realizzabile. Occorre ricordare a questo proposito le parole di Hannah Arendt secondo cui gli esseri umani, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare. Grazie a questa condizione di natalità inerente all’agire possiamo cominciare a riconoscere che «il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza; il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile» (Arendt, 1993, p. 129). In un libro pubblicato diversi anni fa Vandana Shiva scriveva che la principale minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini di «monocolture della mente». Queste ultime cancellerebbero la percezione della diversità e insieme la diversità stessa. Questa eliminazione della diversità farebbe scomparire le alternative creando così la sindrome della “mancanza di alternative”. Insomma dobbiamo tornare a coltivare la diversità, la fantasia, la ricerca anzitutto nelle nostre categorie di pensiero, nelle nostre menti, nelle nostre pratiche sociali e soprattutto nelle nostre vite. Non è di un futuro lontano o semplicemente utopico quello di cui vorremmo parlare, ma piuttosto l’immagine di un avvenire che può nascere dal presente che è ancora gravido di vita e di possibilità. Per fare strada a questo avvenire occorre dunque provare a riguardare il presente con occhi nuovi. Smettere quindi di crederci il centro dell’universo e di considerare scontate le persone e le cose attorno a noi. Tornare a guardare quel prodigio che è la nostra vita, la vita delle persone a noi care, la vita intera su questo pianeta in tutte le sue diverse e misteriose forme. Occorre uno sforzo di fantasia, uno sforzo che componga assieme intelligenza e passione, ragione e sentimento, rigore e poesia, e che - guardando attraverso e oltre il reale - ci permetta di intravvedere sentieri e possibilità che pur essendo ancora sfumati o senza contorni possono prendere forma sotto i nostri piedi. Certo non è in nostro potere determinare il futuro, ma possiamo senz’altro intercedere, rendendo visibile, col nostro desiderio, l’invisibile che può ancora realizzarsi. 137 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu CRISI ECOLOGICA, SCIENZA POSTNORMALE E DEMOCRAZIA Dunque qual è la condizione della democrazia di fronte alle emergenze ambientali e al cambiamento climatico? Abbiamo visto come le condizioni in cui opera la scienza oggi per cui ci si trova di fronte a fatti incerti, valori in discussione, interessi elevati e decisioni urgenti suggeriscono una forma di scienza che è stata chiamata “post-normale”. Oggi vorrei parlarvi anche delle sfide radicali che oggi le emergenze ambientali pongono alla democrazie tradizionalmente intese. Il meno che si possa dire, da questo punto di vista è che siamo di fronte a questioni che sono state fin ora completamente a margine della tradizione e della riflessione democratica. Come ha affermato lo studioso canadese Richard Swift «La dimensione ambientale è qualcosa di relativamente nuovo da affrontare per i pensatori democratici. La teoria democratica classica ha semplicemente presunto una natura generosa dove c’erano beni a uso senza fine per il piacere dell’uomo. Andavano semplicemente trasformati in proprietà privata o erano “apporti” spontanee della natura. Ma nel mondo di oggi, con gli ecosistemi che collassano, le risorse che si riducono e la dispersione generale di sostanze tossiche, la situazione è molto diversa» (Swift, 2004, p. 105). Qui c’è del resto un problema importante da mettere a fuoco. Le decisioni compiute da ciascuna generazione non sono equivalenti nella loro capacità di influenzare il futuro e le condizioni delle generazioni successive. Infatti lo sviluppo di tecnologie e macchine sempre più potenti, l’espansione della tecnostruttura industriale, l’aumento della popolazione e infine l’aumento dei consumi e del metabolismo sociale ha modificato radicalmente la situazione creando problemi molteplici di degrado ambientale, di esaurimento delle risorse e soprattutto di cambiamento climatico. Tuttavia, le generazioni che hanno causato questi problemi e quelle che dovranno affrontarli non sono di fatto le stesse. Come ha notato Ulrich Beck «i pericoli ambientali presuppongono e causano proprio questo: la produzione del rischio e l’esposizione al rischio vengono separate in termini spaziali e in termini temporali. Il potenziale catastrofico creato da una popolazione colpisce gli “altri”: le persone delle società straniere e le generazioni future. Pertanto, chi prende la decisione di creare pericoli per altri non può più essere additato come responsabile di ciò. Ne deriva – a livello mondiale – un’irresponsabilità organizzata» (Beck, 2011, pp. 31-32). 138 In effetti le conseguenze dei cambiamenti climatici che le generazioni presenti e future dovranno affrontare sono in buona misura gli effetti di un processo che si sviluppa in particolare a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e che nel frattempo si è ampliato e moltiplicato. Cosi le scelte – o le mancate scelte – che le generazioni presenti assumeranno determineranno cambiamenti determinanti per quelle future. Di fatto le conseguenze e le ricadute sulle generazioni future delle scelte compiute dalla generazione attuale saranno molto probabilmente molto più ampie e più profonde di quanto non siano mai state in passato (Pontara, 1995, p. 6, Holden, 2002, pp. 80-81). Detto in altre parole le scelte di oggi delimitano in maniera significativa le libertà di coloro che domani si troveranno a prendere decisioni. Cosicché una libertà irresponsabile oggi può significare una drastica riduzione dello spettro di possibilità entro cui decidere domani. Per la prima volta le generazioni attuali si trovano nella condizione di poter modificare radicalmente le condizioni di vita delle generazioni a venire. La questione del cambiamento climatico dunque rappresenta una pietra miliare anche nella storia politica dell’umanità. In altre parole le maggioranze dei consumatori divengono (per usare un’espressione che è stata coniata da Tim Flannery) dei “mangiatori di futuro” (future eaters). Vorrei che pensaste per un momento a quello che disse una volta Yehudi Menuhin, un violinista ebreo statunitense: «Non posso fare a meno di pensare che noi siamo i più sciagurati antenati che le generazioni a venire possano avere» (I can’t help feeling that we are the most wretched ancestors that any future generation could have). Qui c’è qualcosa, che riguarda la responsabilità intergenerazionale che la teoria politico/democratica non ha saputo pensare. Si pone infatti un problema di potere e di arroganza che riguarda non solo il rapporto degli esseri umani sui non umani, o dei paesi più ricchi verso le popolazioni meno industrializzate o più a contatto con gli ecosistemi, ma anche verso l’umanità a venire. In effetti il problema non è solo che la tradizione democratica non si è occupata o ha a rimosso la consapevolezza dei limiti ecologici. Il fatto è che la storia dei regimi democratici, la costruzione del consenso democratico si intreccia con la storia della crescita e del mercato, dell’accesso e della promozione del consumo e oggi diventa sempre più chiaro ai nostri occhi che i problemi ambientali si scontrano con la nostra economia del benessere fondato su alto prelievo di risorse, un alto afflusso di energia (e in particolare di energia fondata sui combustibili fossili), una forte produttività, un diffuso consumismo e infine una grande produzione di rifiuti. Come ha scritto il politologo Robert Cox, "Sembrerebbe che un cambiamento radicale nei modelli di consumo diventerà essenziale per il mantenimento della biosfera. Quando per la preparazione del Vertice della Terra di Rio de Janeiro nel giugno 1992, l’allora presidente degli Stati Uniti George Bush ha detto «Il nostro stile di vita non è negoziabile», egli stava implicitamente riconoscendo che un cambiamento di stile di vita può essere necessario per la sopravvivenza della biosfera e allo stesso tempo stava riconoscendo che la sopravvivenza politica nelle moderne democrazie liberali rende altamente rischioso per i politici promuovere un tale cambiamento. [...] La sopravvivenza della biosfera è incompatibile con la democrazia liberale? La 139 politica democratica consumismo?"82. continuerà a fare pressione per massimizzare il Una democrazia che voglia rispondere alle sfide ecologiche deve per forza porre dei limiti alla crescita e rendersi responsabile di fronte al futuro, ovvero non limitarsi ad una decisione a breve scadenza. Come dice Welzer una rinascita del pensiero politico «deve mettersi alla prova in una critica di ogni limitazione delle condizioni di sopravvivenza degli altri»83. Per dare luogo a una politica capace di futuro deve mutare la nostra percezione del qui e ora. Si può parlare a questo proposito di tre assi fondamentali lungo cui va inscritta la nostra libertà e ripensata la politica, stabilendo le opportune connessioni sulla base: - delle relazioni che ci vincolano oggi in un rapporto equo, di giustizia con i nostri contemporanei, non solo i più prossimi ma anche coloro che abitano altri luoghi. - delle relazioni che ci vincolano al riconoscimento e alla responsabilità verso le altre generazioni passate e future. - delle relazioni che ci vincolano all’ambiente naturale e alle altre specie viventi Riconoscere queste relazioni significa non ragionare semplicemente in termini di dipendenze o vincoli da riconoscere o di diritti da accordare, ma anche in termini di doveri di cura e di responsabilità. È importante sottolineare che allo stesso modo in cui occorre parlare di libertà in relazione, dobbiamo parlare anche di responsabilità in relazione. Un’idea di responsabilità desunta da un riconoscimento di un’interdipendenza conduce a pensare non a una responsabilità sulla natura ma a una responsabilità nella natura. Non è quindi una responsabilità calata dall’alto o dall’esterno – idea questa che rischierebbe di dar corda alla hybris del controllo - ma una responsabilità che nasce dal riconoscersi parte di una più grande unità. Una libertà che riconosce che non tutto è assoggettabile al volere e al potere della tecno scienza e che quindi è esercitabile secondo un “principio di precauzione”. Dunque: dipendenza, libertà e responsabilità insieme e contemporaneamente, come aspetti diversi ma intrecciati della nostra “naturale” condizione umana. RESPONSABILITÀ INTER-REGIONALE: DEMOCRATIZZABILE? VERSO UN BENESSERE Una seconda questione riguarda una responsabilità inter-regionale nel presente, ovvero l’interrogativo sulla possibilità di democratizzazione del nostro modello benessere. Il modello di sviluppo occidentale, la ricchezza dei paesi più industrializzati, è dipesa storicamente e ancora dipende dallo sfruttamento costante di beni, risorse e materie prime da tutto il mondo. Come abbiamo visto non si tratta solo del petrolio ma di un vasto insieme di beni che contribuiscono a comporre il paesaggio di commodities, oggetti e strumenti di cui siamo circondati. Per intenderci stiamo parlando di risorse ambientali basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, l’aria, il suolo fertile, le foreste; risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale; risorse minerarie sia minerali metallici sia minerali 82 Robert Cox, “Democracy in hard times: economic globalization and the limits to liberal democracy”, in A. Mc Grew (ed.), The transformation of Democracy?, Cambridge and Milton Keynes Polity Press, 1997, pp. 67-68. 83 Welzer, op. cit, p. 248. 140 non metallici; risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari, ma anche l’universo delle droghe; risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture), per farmacopea ed uso scientifico, per compagnia. Nel mondo esiste una disuguaglianza di consumo molto netta in generale tra i paesi più industrializzati e gli altri. I paesi più ricchi rivendicano per sé l’85% delle risorse forestali, il 75% delle riserve minerarie e il 70% delle risorse energetiche. Detto in altri termini i paesi industrializzati (Ocse) utilizzano una biocapacità 84 più che doppia rispetto a quella disponibile sul loro territorio. Questo significa che nei fatti i paesi più industrializzati sfruttano il patrimonio naturale in maniera eccessiva. Da un punto di vista pratico essi attingono a beni e a risorse naturali che provengono da aree anche molto lontane dai loro territori e in misura sproporzionata rispetto allo spazio ambientale con cui ciascun essere umano deve poter vivere. Secondo un termine entrato ormai in uso, la loro “impronta ecologica”, relativa al consumo di terra e risorse, è molto superiore ai loro stessi territori e alla loro popolazione. Ora a partire dagli anni ’70 l’impronta ecologica ha superato la superficie del pianeta biologicamente produttiva. Ogni anno noi consumiamo più risorse di quanto il mondo riesca a produrne. I primi ad essere colpiti da questa devastazione ecologica saranno le popolazioni che dipendono in maniera più diretta dagli ecosistemi locali e che fanno meno conto sullo sfruttamento e sull’approvvigionamento globale. La crisi ecologica dunque si tradurrà a livello locale in un aumento dei conflitti sociali. Non a caso negli ultimi decenni si sono registrate numerose guerre per le risorse in molti paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia. Queste guerre manifestano un conflitto tra beni comuni e appropriazione privata, tra uso locale sostenibile e sfruttamento globale. Dunque, come ha notato Wolfgang Sachs, la questione essenziale da sottolineare è che senza un disarmo ecologico, senza una contrazione nei consumi nei paesi più ricchi non ci sarà nessuna giustizia, nessuna democrazia globale: «La finitezza della biosfera proibisce di prendere lo standard di vita del Nord come misura per il benessere in generale. Il modello di benessere dei paesi ricchi non è capace di giustizia, non può essere democratizzato in tutto il globo se non al prezzo di rendere il globo inospitale» (Sachs, 2002, p. 30). Dunque se il modello di sviluppo dei paesi industrializzati di fatto è strutturalmente iniquo occorre ripensare la questione delle libertà democratiche sullo sfondo del legame “pesante” che esiste tra il modello di benessere basato sulla crescita, la crisi ecologica e la violenza politica internazionale. LA RESPONSABILITÀ INTERSPECIFICA: L’ESSERE UMANO E LE ALTRE SPECIE VIVENTI Infine rimane un ultimo aspetto, il tema della responsabilità inter-specifica, ovvero la messa in discussione dell’antropocentrismo e dello specismo implicito nella nostra ideologia politica. L’uomo moderno continua a ritenersi in cima ad una ipotetica scala degli esseri. Ma questa convinzione è basata in parte sull’ideologia ed in parte su un ignoranza. Noi sappiamo ancora poco della complessità e della varietà degli ecosistemi e dei suoi organismi. I biologi non sono nemmeno d’accordo sul numero delle specie viventi sul pianeta. La maggior parte degli studiosi stima che sulla terra ci siano circa 10-14 milioni di specie viventi. L’essere umano ne ha 84 Per biocapacità si intende la capacità della natura di produrre aria ed acqua pulita, alimenti, materiali e contemporaneamente di assorbire gli scarti dei processi produttivi e di consumo. 141 classificate per ora circa un milione e cinquecento mila. La nostra conoscenza della natura vivente è ancora oggi molto parziale. Moltissimo rimane ancora da scoprire e da conoscere. Ma molto minaccia di venir distrutto prima che ne comprendiamo la natura ed il ruolo. Ad ogni modo quello che sappiamo, oltre alla conoscenza diretta di un certo numero di specie animali, è l’importanza che il mantenimento della biodiversità ha per la conservazione della vita, dell’evoluzione e della sopravvivenza stessa dell’essere umano. Le possibilità dell’evoluzione della vita dipendono dal mantenimento della diversità biologica complessiva, a livello di specie, di ecosistema e planetaria. Questa biodiversità è il risultato di quattro miliardi di anni di evoluzione e allo stesso tempo la riduzione di biodiversità altera le possibilità di evoluzione della vita sul pianeta per il futuro. Da qualche anno alcuni scienziati e studiosi hanno iniziato a documentare e a metterci in guardia sul fenomeno della perdita di biodiversità, sulla scomparsa impressionante di specie animali. Ora lo studio sugli ecosistemi nel mondo nel terzo millennio patrocinato dall’Onu ha rivelato un dato sconcertante. Dalla analisi delle specie fossili, risulta che nel passato della storia del vivente ci sia stata una perdita di una specie di mammiferi ogni mille anni. Attualmente questa scomparsa avviene ad una velocità mille volte superiore. La situazione è tale che gli scienziati oggi sono convinti che ci troviamo di fronte ad una vera e propria nuova estinzione, precisamente la sesta estinzione di massa di esseri viventi sul nostro pianeta. Questa riduzione estrema della biodiversità rappresenta una violenza enorme contro la vita e la dignità delle altre specie vegetali e animali, nonché una minaccia per la salute globale del pianeta e, da ultimo, dello stesso genere umano. In verità molte specie animali ci hanno preceduto nell’evoluzione della vita e molte altre verosimilmente sopravviveranno alla nostra scomparsa. La centralità della specie umana nella storia del vivente è una pura pretesa ideologica. Non c’è bisogno di notare che le società democratiche contribuiscono in misura determinante a questi processi di distruzione attraverso la distruzione dei grandi spazi naturali sia terrestri che acquatici, attraverso uno sfruttamento e una commercializzazione senza limiti di esseri animali, attraverso l’emissione di agenti tossici e inquinanti e il contributo a processi di cambiamento climatico. Certo si potrebbe dire che uno dei motivi di questa responsabilità è dovuto ad un difetto di democrazia. La gente non avrebbe abbastanza informazioni o potere per decidere su questi temi. Ma una simile giustificazione va poco lontano. A parte il fatto che molte decisioni deleterie dal punto di vista ecologico sono prese quotidianamente da consessi democratici a tutti i livelli - cittadini, regionali, nazionali – resta poi da stabilire come mai per il resto, tante azioni che hanno avuto un impatto devastante sul pianeta, tanto da mettere a rischio la stessa la vita di interi ecosistemi e la nostra stessa vita, non sono state oggetto di un attento processo di discussione e deliberazione. Uno dei motivi, probabilmente è la nostra ristretta visione di che cosa riguarda la politica e che cosa deve abbracciare la nostra idea di democrazia. In effetti, come notava già anni fa Ulrich Beck (Beck, 2000, pp. 258-259), gran parte delle trasformazioni sociali promosse dall’agire tecnico ed economico all’interno dell’“immaginario religioso del progresso” sono rimaste al di fuori del nostro immaginario politico e democratico. Molte scelte scientifiche, tecnologiche, economiche, finanziarie che hanno orientato la nostra crescita e il nostro sviluppo sono state spesso semplicemente assunte dalla politica a posteriori come dati di fatto “esterni” alla politica, come fatti “impolitici”. Qui appare all’improvviso un enorme angolo buio nella nostra concezione democratica della politica. E d’altra parte la situazione di crisi ecologica nel quale oggi siamo precipitati è innanzitutto un segno del fallimento di un modo tradizionale di pensare la politica e la democrazia. 142 LA RESPONSABILITÀ INTERGENERAZIONALE: LE COORDINATE TEMPORALI DELLA POLITICA Un terzo aspetto riguarda il tema della responsabilità inter-generazionale e quindi degli orizzonti temporali della politica democratica. Da questo punto di vista il nostro sistema politico-economico sta conducendo una guerra non dichiarata alle generazioni future. Di fatto la politica tradizionale ci ha insegnato a svendere il futuro per pagare il presente. Sono soltanto pochi decenni che abbiamo iniziato a consumare in maniera così massiccia beni di ogni genere, eppure a questi ritmi rischiamo di bruciare in poco tempo il patrimonio naturale creatosi e evolutosi in milioni di anni: risorse fossili, energetiche, minerali, biotiche. Nei paesi più industrializzati stiamo vivendo in una bolla di euforia grazie alla disattenzione verso l’impatto ecologico delle nostre azioni sul medio e lungo periodo. Dietro la crisi economica aleggia una più profonda crisi ecologica che deve ancora manifestarsi il tutta la sua ampiezza. A questo proposito occorre domandarsi: quali sono le coordinate temporali della politica democratica? Qual è l’arco di tempo dentro al quale si muovono gli attori del processo democratico, la cornice temporale rispetto alla quale vengono valutati le possibili decisioni e azioni e le relative conseguenze? Nella maggior parte dei casi i politici hanno come termine temporale fondamentale la scadenza del proprio mandato o le successive scadenze elettorali. Ma in termini di routine generalmente l’orizzonte di riferimento dei politici non supera i 3-4 mesi. Ora in che rapporto questi orizzonti si misurano con fenomeni ambientali quali il cambiamento climatico, lo scioglimento dei ghiacciai, l’estinzione di specie vegetali ed animali e la conseguente perdita di biodiversità? Tutti questi processi presuppongono uno sguardo di più ampio respiro, delle coordinate temporali molto più ampie. Del resto mentre parliamo di sostenibilità il nostro presunto interesse per le generazioni futuro è tutto da dimostrare. Se c’è una tradizione culturale e politica che ha fatto tabula rasa del senso di radicamento verticale, della continuità tra generazioni, del sapere e dell’autorità che viene dalla tradizione e del senso di responsabilità che ci lega a chi viene dopo di noi è proprio quella a cui apparteniamo. La cultura illuministica, liberale, democratica che non ha mai smesso di autorappresentarsi come un taglio netto nei confronti del passato, come affermazione della libertà individuale contro i legacci della tradizione e i vincoli delle relazioni sociali. Non è un caso che nel sistema democratico liberale la responsabilità ma anche la legittimità delle scelte è tutta schiacciata sul tempo presente, quasi istantaneo della decisione democratica e della volontà della maggioranza. La stessa acritica assolutizzazione del principio maggioritario mostra da questo punto di vista i suoi limiti, che sono anzitutto temporali. Le decisioni che prende una maggioranza politica in maniera pienamente legittima possono alterare o compromettere le condizioni di vita per le generazioni successive. Concepire una “democrazia intergenerazionale” significa sapere che è democratico un sistema che non depriva delle condizioni di vita e quindi delle stesse possibilità di scelta e di libertà politica le generazioni a venire.85 Questo ci piaccia o meno significa incorporare il tema del limite ecologico e sociale nelle proprie istituzioni, nelle procedure, nelle leggi fondamentali. Di fatto si tratta di affermare una libertà responsabile e non un libertà assoluta. 85 Come sintetizza Hans Jonas, la responsabilità dell’arte del governo consiste nel far sì che la politica futura continui ad essere possibile (Jonas, 1993, p. 147). 143 In termini sostanziali una politica sostenibile è quella capace di inventare e definire istituti giuridici e legislativi che - stabilendo un orizzonte temporale di riferimento più ampio - pongono un limite alla sovranità e alla libertà di coloro che oggi possono prendere delle decisioni a garanzia delle possibilità di scelta, ovvero delle libertà politiche, per le generazioni a venire. Anche qui è attraverso il tipo di relazioni che costruiamo che definiamo chi siamo. La politica è fra esseri umani, è nell’infra, ci dice Hannah Arendt. La condizione umana è quella della pluralità: gli esseri umani e non il singolo uomo abita la terra. Per essere liberi, secondo Hannah Arendt dobbiamo rinunciare dunque ad un’idea di sovranità assoluta. Libertà e sovranità non coincidono. Tutto questo è vero ma questo non basta a chiarire la nostra condizione. Questo infra oggi deve essere ampliato fino a considerare popoli lontani nello spazio e generazioni lontane nel tempo; fino ad includere anche forme viventi non umane. Da questo punto di vista, come è stato notato, il problema è che non c’è una dimensione naturale, istintuale, un sentimento spontaneo di benevolenza che ci lega ad altre persone che non conosciamo e alle quali non siamo legate da una relazione diretta. Non è nemmeno questione di affermare astrattamente un principio di equità intergenerazionale. La benevolenza qui può scaturire solo come frutto di un orientamento culturale e spirituale profondo, relativo alla percezione di sé e della propria esistenza. Si tratta di pensare la propria stessa vita come qualcosa di inscindibilmente legato ad passato e aL futuro, di pensare la nostra stessa esistenza come un anello fra chi è venuto prima e chi verrà dopo. Jean Pierre Dupuy cita a questo proposito il detto amerindiano: «La Terra ci è data in prestito dai nostri figli». Una simile percezione della terra è il frutto di una percezione differente del sé e della vita. «Ora – commenta Dupuy –, il detto non si limita a invertire il tempo, lo rende circolare. Siamo noi, infatti, che facciamo i nostri bambini, biologicamente e soprattutto moralmente. Il detto ci invita dunque a proiettarci nel futuro e a vedere il nostro presente con le esigenze di uno sguardo che saremo stati noi stessi a generare. Attraverso questo sdoppiamento, che ha la forma della coscienza, possiamo forse stabilire la reciprocità tra il presente e il futuro. Può darsi che il futuro non abbia bisogno di noi, ma noi , noi abbiamo bisogno del futuro, perché che dà senso a tutto quello che facciamo» (Dupuy, 2006, p. 15). In questa prospettiva, come sintetizza Hans Jonas, la responsabilità dell’arte del governo da questo punto di vista consiste nel far sì che la politica futura continui ad essere possibile (Jonas, 1993, p. 147). In termini sostanziali una politica sostenibile (ispirata all’idea di decrescita) è quella capace di inventare e definire istituti giuridici e legislativi che pongono un limite alla sovranità e alla libertà di coloro che oggi possono prendere delle decisioni a garanzia delle possibilità di scelta, ovvero delle libertà politiche, per le generazioni a venire. In conclusione, come ha scritto Harald Welzer «una comprensione pratica della necessità di difendersi dalle conseguenze peggiori del global warming non richiede soltanto una cultura globale della riduzione radicale del consumo di risorse, ma anche una cultura della partecipazione del tutto nuova, che oggi appare ancora impensabile, ma deve essere pensata urgentemente, se deve accadere qualcosa di differente»86. 86 Welzer, op. cit, p. 268. 144 SCIENZA POSTNORMALE E DEMOCRAZIA Fino ad oggi abbiamo affrontato diverse problematiche ambientali emergenti: Il picco del petrolio e la crisi energetica, all’estinzione degli animali e la perdita di biodiversità, dalla crisi idrica e i conflitti per l’acqua alla crisi alimentare globale, dal cambiamento climatico ai rifugiati ambientali. Altri problemi potrebbero essere richiamati, dalle diverse forme di inquinamento, al problema dei rifiuti, alla questione demografica. Molti di questi problemi oggi ci mettono di fronte a sfide inedite su molteplici dimensioni che coinvolgono contemporaneamente l’economia, la tecnologia, la conoscenza scientifica, l’informazione, la responsabilità sociale, i processi democratici e le politiche pubbliche, il mutamento culturale e la revisione dei paradigmi epistemologici. Pian piano cercheremo di affrontare molti di questi aspetti e delle loro interazioni. Il primo aspetto da cui vorrei partire riguarda il rapporto tra il riconoscimento e la consapevolezza relativa a queste emergenze ambientali e la revisione delle pratiche scientifiche e dei processi decisionali. Molti di queste emergenze ambientali possiedono alcuni elementi in comune che li rendono particolari sia la scienza che per la politica. Da un punto di vista della portata essi manifestano effetti di carattere molto esteso o addirittura planetario. Sul piano degli conseguenze, possono avere effetti molto profondi e causare profonde modificazioni e gravi danni ambientali e umani in termini di salute o di vittime. In termini temporali presentano impatti a lungo termine e una profonda durevolezza, mentre le condizioni di emergenza delineano una forte urgenza nella determinazione di opzioni di intervento e correzione. Si tratta in generale di fenomeni complessi, solo parzialmente noti e compresi, che coinvolgono numerose variabili, producono effetti non-lineari, processi a catena e meccanismi di retroazione; sono dunque fortemente aleatori e difficilmente prevedibili con precisione. La scienza può fornire al massimo delle stime o – tramite l’impiego di modelli matematici e statistici - dei possibili scenari con relative variazioni di stato. La politica si trova dunque ad assumere la responsabilità di decisioni sulla base di condizioni di grandi rischi, forte urgenza, a fronte di una conoscenza solamente relativa e di certezze limitate. Infine data l’ampiezza e la profondità di questi fenomeni anche la natura dei provvedimenti da assumere per far fronte ai rischi si presenta molto radicale ed impegnativa, fino a rimettere in discussione alcune forme ed abitudini consolidate nella nostra società. Su questo piano due autori contemporanei Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz87 ci hanno fornito a partire dalla fine degli anni ’90, una serie di riflessioni cruciali per mettere a fuoco il problema. Questi due autori hanno sottolineato come le questioni ambientali oggi presentano nuove sfide per la scienza. Se la scienza normale si confrontava in passato con bassi livelli di incertezza e interessi limitati oggi questa si trova a confrontarsi con nuovi 87 FUNTOWICZ Silvio, RAVETZ Jerry, 1997, “Environmental problems, post-normal science, and extended peer communities” in Etudes et Recherches sur les Systèmes Agraires et le Développement, vol. 30, pp. 169-175; FUNTOWICZ Silvio, RAVETZ Jerry, 2008, “Post-Normal Science” in Cutler J. Cleveland (eds.), Encyclopedia of Earth, Environmental Information Coalition, National Council for Science and the Environment, Washington D.C.; RAVETZ Jerry R., 1999, “What is Post-Normal Science” in Futures, vol. 31, pp. 647-653; RAVETZ Jerry R., 2004, “The post-normal science of precaution” in Futures, vol. 36, pp. 347-357. 145 obiettivi, con nuove complessità e incertezze a fronte di decisioni e implicazioni tecnologiche che producono effetti su scala globale. Il nuovo contesto impone di riconoscere che la scienza e le applicazioni scientifiche non sono prive di valori né eticamente neutre. Inoltre è chiaro che scelte e le decisioni pubbliche non possono discendere automaticamente e meccanicamente dalle conoscenze scientifiche in quanto tali. Di fatto ci si trova ad assumere “decisioni politiche forti” con “dati scientifici deboli”. Di fronte a questo nuovo quadro Funtowicz e Ravetz hanno introdotto il concetto di “Scienza Post-Normale” (Post-Normal Science) per indicare dunque un nuovo modello di scienza da affiancare a quella più normale e tradizionale nelle condizioni in cui «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti»88. In altre parole la situazione è fuori dal comune sia da un punto di vista scientifico che politico. Uno schema proposto dai nostri autori può essere d’aiuto per comprendere le novità. Si tratta di un diagramma bi-assiale. Sull’asse delle ascisse troviamo il livello di incertezza del sistema, mentre sull’asse delle ordinate troviamo il livello degli interessi o della posta in gioco. Quando entrambi questi aspetti sono minimi la ricerca scientifica tradizionale che procede con un approccio “puzzle-solving” (secondo la logica di Thomas Khun) è ancora adeguata. Ma «nella scienza post-normale, quando sono coinvolte le questioni ambientali, la posta in gioco può diventare la sopravvivenza di una civiltà o di un ecosistema, e anche delle forme di vita presenti sul pianeta, e le incertezze dei sistemi sono corrispondentemente gravi»89. Funtowicz e Ravetz propongono dunque un “nuovo metodo” basato sul riconoscimento dell’incertezza, della complessità e della qualità. Si tratta in fondo di riconoscere anche una forma di “complessità morale” che attiene alla natura delle nuove decisioni. Nel tentativo di rispondere e porre rimedio alle patologie del nostro sistema industriale il processo di definizione della qualità dei risultati della ricerca dell’impresa scientifica, non più essere lasciato a comunità isolate di specialisti, ma deve essere rinnovato e arricchito: 88 FUNTOWICZ Silvio, RAVETZ Jerry, 1997, “Environmental problems, post-normal science, and extended peer communities” in Etudes et Recherches sur les Systèmes Agraires et le Développement, vol. 30, p. 170. 89 Ivi, p. 171 146 «Il dialogo sulla qualità, insieme a quello sulla politica, deve essere esteso a tutti coloro che hanno interesse in una questione e che si sono impegnati in un vero e proprio dibattito; noi chiamiamo questi "la comunità estesa dei pari"»90. In questo caso la comunità di esperti scientifica deve integrarsi con la la presenza di una un’expertise complementare, non solamente come necessario riconoscimento dovuto alle pressioni politiche esterne, ma come modalità che permette una maggior garanzia sul piano della qualità del processo di investigazione e indicazione scientifica. Infatti coloro che vivono nei contesti locali possono non solo indicare quali sono i dati più importanti e rilevanti, ed aiutare ad implementare le azioni politiche, ma possono integrare le analisi generali degli esperti con saperi artigianali, informazioni specifiche legate ad eventi concreti, evidenze aneddotiche, indagini informali, inchieste prodotte con un giornalismo investigativo, informazioni non divulgate ufficialmente o con saperi di storie e memorie sedimentate nel tempo. Anche le reti di internet possono dare un forte contributo ad ampliare le informazioni e le conoscenze necessarie ad implementare il processo qualitativamente. Questa integrazione ri-orienta in termini generali il processo scientifico. La “spiegazione scientifica” viene integrata in una più ricca “comprensione sociale”, le “predizioni scientifiche” vengono sostituite con delle “previsioni politiche” e l’ideale valutativo della “verità scientifica” viene modificato con la ricerca della “migliore qualità” possibile del processo decisionale. Con questo cambiamento vengono ovviamente riconosciute la compresenza di legittime visioni differenti del problema, dunque una pluralità di prospettive, che devono dialogare fra loro in un atteggiamento di mutuo rispetto, ascolto e apprendimento. In un certo modo questo suggerisce l’assunzione di valutazioni multi-criterio nei processi deliberativi. D’altra parte questa forma di “democratizzazione della conoscenza” rappresenta un link importante verso la definizione di “procedure democratiche di decisione”. 90 Ivi, p. 170. 147 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA E DELIBERATIVA Qualche anno fa, in una intervista, lo studioso Cornelius Castoriadis definiva la società democratica come «un’unica enorme istituzione pedagogica in cui ha luogo l’inarrestabile autoistruzione dei suoi cittadini» e notava tuttavia che le nella realtà politica contemporanea si è creata una situazione completamente opposta in cui la maggior parte degli spazi espressivi contribuiscono a diseducare i cittadini.91 Quali sono questi spazi espressivi? Da una parte abbiamo le istituzioni rappresentative tradizionali come i consigli comunali, provinciali, regionali o il parlamento; abbiamo i partiti politici e i sindacati. Da un'altra parte abbiamo i mass media e new media: giornali, televisioni e con un impatto sempre più importante anche Internet. Mentre tutti siamo probabilmente d’accordo nell’osservare che per una ragione o per l’altra le forme tradizionali di espressione e partecipazione basate sulla rappresentanza hanno perso in fiducia e capacità di coinvolgimento il giudizio sulle nuove forme di espressione è necessariamente articolato. I giornali sembrano essere in crisi mentre la televisione è un media ancora molto forte e condizionante, infine il web si sta lentamente costruendo il suo spazio e la sua credibilità. Attorno a questi media si discute anche di nuove forme di partecipazione ed espressione. Si pensi a quanto si insiste sulle virtù partecipative e democratiche di internet. Nel frattempo tuttavia si sono sperimentate in diversi paesi del mondo nuovi spazi di partecipazione e nuove modalità di espressione attraverso forme di democrazia partecipativa, diretta o deliberativa. 91 Le délabrement de l’Occident, intervista a C«ornelius Castoriadis di Oliver Mongin, Joel Roman e Ramin Jahanbe«gloo, cit. in Bauman, 2002, p. 161. 148 Anche per capire se e quanto questi mezzi possano portare realmente un contributo alla qualità dei nostri sistemi democratici occorre soffermarci almeno un momento su diverse idee di democrazia e sui differenti approcci alla partecipazione democratica (vd. Tabella). Tra le caratteristiche delle nostre tradizionali concezioni politiche c’è poi l’abitudine ad appoggiarsi su opposizioni immaginarie che contribuiscono a determinare non solo le nostre rappresentazioni ma anche l’organizzazione materiale Visioni della democrazia stessa delle nostre istituzioni Democrazia come competizione politiche. pluralità di gruppi in competizione tra loro, selezionati Una di queste opposizioni è attraverso elezioni costituita dal dualismo tra uguaglianza politica contro la tirannia della maggioranza rappresentanza e partecipazione diretta. Negli ultimi anni si è Rappresentazione e filtro elite rappresentative selezionate attraverso elezioni insistito moltissimo sulla crisi della filtraggio e raffinamento contro passioni e fazioni rappresentanza e della democrazia forme deliberative in consessi rappresentativi rappresentativa. Per sottolineare Democrazia diretta questa crisi è sufficiente ricordare espressione e decisione diretta ed autonoma dei cittadini il declino sempre più evidente della potere di approvare, respingere norme, potere di iniziativa partecipazione elettorale nelle contro la delega, come completamento della democrazia rappresentativa democrazie storiche. In Europa il primato negativo spetta alla Democrazia partecipativa partecipazione popolare e coinvolgimento di classi/soggetti Svizzera con solo un 43% dei più emarginati contro elitismo e poteri forti votanti (1999) e alla Gran costruzione arene partecipative e processi fortemente Bretagna con un 59% (2001). Ma regolati e organizzati relazione ravvicinata tra organi di governo e cittadini anche altri paesi hanno avuto (corresponsabilizzazione e copilotaggio) percentuali di votanti piuttosto basse: Finlandia (65%), Irlanda Democrazia deliberativa focalizzazione sulla qualità dell’informazione e della (66%), Portogallo (62%), Ungheria conoscenza (56% nel 1998). Anche gli Stati confronto tra posizioni, punti di vista e interessi e possibile modificazione posizioni attraverso la discussione Uniti presentano una percentuale critica dei sondaggi tradizionali e della democrazia istantanea di votanti molto bassa pari al 51% o plebiscitaria (2000). Confronto creativo Nella riflessione politologica la emersione e ascolto posizioni e passioni, mediazione e discussione tra fautori della gestione costruttiva del conflitto democrazia rappresentativa e costruzione di percorsi di contrattazione, mediazione, invenzione creativa e produttiva fautori della democrazia diretta si è critica del decisionismo e della partecipazione ingenua e configurata da sempre come uno anche del proceduralismo burocratico scontro tra sordi. Entrambi gli schieramenti davano per scontato che per quanto si potessero far convivere elementi dell’una e dell’altra nello stesso regime (per esempio elezioni e referendum) tuttavia da un punto di vista generale si riteneva che esse rappresentassero due principi irriducibili. In questo modo i due partiti si sono ciclicamente affrontati lanciandosi vicendevolmente accuse di “conservatorismo” per un verso e di “demagogia” per l’altro. Ancora recentemente uno studioso come Robert Dahl richiamava la “banalissima aritmetica” per sostenere le conseguenze inesorabili della combinazione tra tempo e numero di abitanti. Supponendo che ciascun cittadino abbia 10 minuti per intervenire e parlare in un assemblea, e moltiplicando per il numero di cittadini, intendeva dimostrare che «in una “polis” ideale di diecimila cittadini a pieno titolo, il tempo necessario andrebbe ben oltre ogni limite tollerabile. Dieci minuti a testa ci porterebbe a più di duecento giornate lavorative di otto ore». Dahl ne deduceva senza altre mediazioni che il numero massimo di partecipanti per forme di democrazia 149 assembleari fosse probabilmente assai meno di un centinaio (Dahl, 2001, pp. 113115). Nonostante la ferrea logica aritmetica di Dahl, in molte città che conducono esperienze di democrazia partecipativa si conducono riunioni anche con migliaia di persone. Dahl dimentica che non è fondamentale che nella discussione intervengano tutte le persone convenute, affinché ci sia partecipazione, quanto che intervengano possibilmente tutte le opinioni. E da questo punto di vista – dati determinati limiti di tempo per ciascuna persona - dopo un certo numero di interventi è probabile che tutte le ragioni siano già state messe sul tavolo. Oltretutto nessuno vieta che gruppi di cittadini stabiliscano in anticipo come e con che argomenti intervenire in un’assemblea pubblica. E tutto questo non esclude affatto che si inventino e siano presenti nuove forme di rappresentanza o di mandato, anzi. In definitiva ciò che molti autori hanno sempre dato per scontato è che le rispettive idee di rappresentanza o di partecipazione diretta fossero definite e immutabili. Non è che “rappresentanza” e “partecipazione” siano due categorie di per sé mutuamente respingenti. Semmai quella specifiche idee di rappresentanza come un mandato che scioglie il rappresentante da ogni vincolo una volta eletto e di partecipazione come un attivismo permanente e totale si ponevano, in quella forma, su estremi ideali opposti. È eloquente da questo punto di vista la definizione di “democrazia diretta” che ha fornito Giovanni Sartori, come di una democrazia senza rappresentanti, che è tale in quanto elimina i rappresentanti e ogni forma di intermediatori (Sartori, 1993, pp. 78 e 83). In fondo questa discussione rimaneva rinchiusa in quello che come abbiamo visto Gregory Bateson chiamava “apprendimento primario”. La soluzione al dilemma richiedeva invece una forma di “deuteroapprendimento” o di “apprendimento secondario”, in cui la soluzione non passa semplicemente per la scelta entro le alternative date, ma piuttosto attraverso la modificazione correttiva dell’insieme delle alternative dentro alle quali si effettua la scelta rivedendo così in termini nuovi la segmentazione o suddivisione della realtà (Bateson, 2000, pp. 338 e ss.). In realtà quello che si è visto a Porto Alegre e in altre esperienze partecipative porta a due acquisizioni fondamentali: 1. rappresentanza e partecipazione non sono affatto necessariamente in opposizione l’una con l’altra, e anzi si danno forme di interazione stretta e anche di continuità tra le due forme. 2. tale interazione-continuità si estrinseca in una pratica che integra in sé entrambe le forme determinando un ripensamento profondo delle tradizionali idee di partecipazione e rappresentanza. Concretamente nelle discussioni pubbliche i rappresentanti possono presentare le loro proposte e cercare di convincere le persone ad appoggiare nei loro piani, mentre i cittadini possono a loro volta essere istruiti dai rappresentanti sui termini della questione e quindi partecipare in maniera più consapevole alla costruzione di una progettualità politica. I rappresentanti traggono forza e autorevolezza nella loro progettualità politica se riescono ad ottenere l’appoggio e anzi il contributo dei cittadini nei loro intenti, mentre la gente riconosce la necessità di un confronto ravvicinato con i loro rappresentanti per valutare e integrare ogni elemento tecnico, economico amministrativo e di esperienza in modo da rendere concretamente realizzabili le loro aspirazioni ideali. A questo proposito ci si può scontrare facilmente con la tradizionale cultura politica degli amministratori. Quante volte abbiamo sentito dire dai politici e dagli amministratori con i quali si parlava di “democrazia partecipativa” o di “bilanci partecipativi” che se era la gente che sceglieva come andavano spesi i soldi pubblici allora i rappresentanti eletti non servivano più a nulla. Quante volte abbiamo sentito levare gli scudi ed esprimere la 150 preoccupazione per il fatto che i rappresentanti sono votati da tutti e rappresentano tutti i cittadini, mentre alle assemblee parteciperebbero solo piccole percentuali di persone interessate solo a portare avanti i loro micro-interessi? Tali preoccupazioni possono essere superate solo se da un punto di vista cognitivo si esce dall’opposizione rappresentanza/partecipazione diretta e si comincia a pensare nei termini di un processo di interazione continua tra cittadini e rappresentanti. A questo proposito Tarso Genro parla di co-gestione, ed effettivamente il termine è esatto per quanto riguarda la scelta tra alternative possibili nell’allocazione delle risorse date. Tuttavia nella misura in cui il processo partecipativo mira a decidere anche priorità tematiche ovvero a scegliere la priorità tra contesti alternativi (istruzione piuttosto che urbanizzazione o salute…) e addirittura mira - attraverso la decisione partecipata – a ridefinire quelle che sono le cornici di intervento possibili per l’evoluzione della città (come si abita un territorio, come ci si muove in questo territorio, quali forme di relazione si cercherà di stabilire tra persone, soggetti, istituzioni, quali nuovi soggetti pubblici o privati possono essere introdotti e fatti giocare nella realtà sociale, quali forme di ricerca si possono incentivare in relazione a ecc…) si potrebbe più correttamente parlare di co-pilotaggio. Quest’ultima categoria contiene in sé non solo l’idea di una condivisione dell’amministrazione e delle scelte possibili tra le alternative esistenti, ma anche la possibilità di scegliere tra schemi più ampi di determinazioni e con questo di stabilire un orizzonte di senso, una direzione, verso cui ci si intende muovere. Le dimensioni della partecipazione e l’imprevedibilità dell’agire politico Contrariamente a quanto si è soliti pensare, l’idea partecipativa non contiene in sé semplicemente l’idea di un estensione orizzontale del coinvolgimento dei cittadini. È bene sottolineare l’esistenza di almeno tre dimensioni collegate alla partecipazione e ai processi partecipativi. - verticalità della partecipazione - orizzontalità della partecipazione - profondità della partecipazione La prima dimensione, quella della verticalità, riguarda l’idea di una partecipazione che investe via via i diversi livelli di organizzazione politica ed amministrativa, dai quartieri e circoscrizioni, alle città, alle province, alle regioni, agli stati, alle organizzazioni sopranazionali. È evidente che se la partecipazione investe solamente uno di questi livelli – per esempio quello cittadino – ma non si estende per nulla agli altri livelli che si rivelano al contrario impermeabili a qualsiasi forma di decentramento e di codeterminazione nelle scelte fondamentali, la nostra esperienza concreta di coinvolgimento politico risulterà alla lunga certamente frustrante. In primo luogo perché ci sono problemi che vanno affrontati a determinati livelli e non ad altri, in secondo luogo perché a qualsiasi livello la determinazione delle scelte politiche dipende in gran parte dai quadri e dalle condizioni di riferimento fissate ad un livello più ampio dell’attività politica. Da questo punto di vista è importante notare che c’è una dimensione cruciale della politica che riguarda non soltanto l’attivazione di diversi processi partecipativi a diversi livelli ma anche la costruzione di azioni coordinate a differenti livelli territoriali e istituzionali. Si tratta dunque di coordinare processi partecipativi su differenti piani in modo da ottenere il massimo di efficacia in ciascun segmento. La seconda dimensione quella dell’orizzontalità riguarda il grado di estensione della partecipazione a ciascun livello di attività politica (locale, regionale, nazionale ecc…). La credibilità dei processi partecipativi si fonda in gran parte anche nella capacità di coinvolgere realmente una parte significativa della popolazione smuovendola spesso dalla tradizionale apatia e – soprattutto per alcune fasce sociali - dalla possibile 151 tendenza a delegare la gestione dei propri interessi direttamente al potere politico e a rapporti clientelari. Il terzo livello quello della profondità del processo partecipativo è il più difficile da comprendere ma è in realtà estremamente importante. Esso riguarda la determinazione delle cornici dentro alle quali si andranno ad effettuare le scelte. Ragionare su questo livello è cruciale quando se si vuole pensare che la politica non si gioca solamente sulla determinazione di investimenti in opere e servizi, ma quando si inizia a discutere di questioni quali modelli di produzione, forme del consumo, forme e spazi dell’educazione, modelli di sostenibilità ecc. Di più, cogliere questa idea è fondamentale per capire quale può e deve essere la linea evolutiva possibile delle forme di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini nelle scelte collettive, e qual è la dimensione dentro alla quale si deve condurre la negoziazione sociale. Si può fare un esempio concreto per capire. Ipotizziamo un Comune che per molti anni ha gestito allegramente la questione dei rifiuti e che si ritrova ad un certo punto di fronte ad una grave emergenza rifiuti. Le proprie discariche sono ormai colme, il proprio inceneritore è vecchio e non offre molte garanzie e ci si trova di fronte alla condizione di dover “esportare” i propri rifiuti verso altre città più attrezzate che però impongono un alto costo e che comunque stabiliscono dei limiti al possibile smaltimento. L’Amministrazione comunale si trova in mano una questione urgente e delicatissima che rischia di alienargli il consenso dei propri cittadini. Decide quindi di mettere in piedi un processo partecipativo per coinvolgere gli stessi cittadini nella risoluzione del problema. La possibilità di scelta relativa a quel momento e a quel processo partecipativo è fin dal principio limitata. Il grado di democrazia partecipativa e procedurale nella deliberazione può essere massimo ma egualmente la reale possibilità di scelta concessa effettivamente ai cittadini sarà piuttosto ridotta. Diverso è se ai cittadini viene offerta (o viceversa se i cittadini richiedono) la possibilità di partecipare ad un processo il cui scopo è quello di decidere - prima di arrivare ad una situazione di emergenza - come impostare la questione de rifiuti in generale. In questo caso il confronto politico può ampliarsi fino a investire il tema della raccolta differenziata, del compostaggio, dei piani di riciclo, delle tecnologie e dei sistemi più ecologici di smaltimento ecc. Si potrebbe inoltre decidere di affrontare la questione più alla radice chiamando in causa diversi soggetti - cittadini, imprese e aziende produttrici, catene di distribuzione – per studiare misure che possano incidere sulla produzione di rifiuti a monte riorientando la produzione, la distribuzione e il consumo verso una diminuzione degli sprechi, degli scarti o dei materiali più difficili da riciclare o da smaltire. Da un punto di vista teorico si può retrocedere ampliando via via le questioni e dunque lo spettro delle possibilità di intervento che si vuole assumere attraverso processi più ampi di negoziazione sociale. Da un punto di vista pratico ovviamente il processo presenterà naturalmente dei limiti. Anche perché i livelli più generali di discussione spesso trascendono il livello meramente locale di decisione e richiedono di fare i conti con contesti più ampi. Inoltre, prescindendo dalla dimensione territoriale, si può pensare che ogni livello più ampio di decisione comporterà verosimilmente anche una resistenza maggiore da parte dei soggetti sociali, economici e politici coinvolti dal possibile cambiamento e dunque una maggior difficoltà ad essere oggetto di processi decisioni democratici e partecipativi. Ad ogni modo, quello che è importante capire, è che lo spettro di decisioni possibili, ovvero l’agenda di possibilità, presente in un dato momento può essere modificato solo per una parte, per il resto esso dipende da un lungo processo precedente di scelte tra alternative e cornici di alternative.92 92 Arrivo a questo tipo di formulazione grazie ad uno studio condotto molti anni fa sull’azione politica a partire tra l’altro dall’intepretazione di M.K. Gandhi e di S. Weil del testo religioso indiano Bhagavad Gita. 152 Ogni nostra decisione dipende da decisioni prese precedentemente da noi stessi o da altri. In questo senso il momento della deliberazione non coincide assolutamente con quello della scelta reale. Come ha notato Simone Weil «Non è che non si abbia scelta, bensì che, se ci si colloca in un dato momento, non si ha più scelta. Non si può più fare diversamente; è vano sognare di fare diversamente; ma è bene elevarsi al di sopra di ciò che si fa. Così si sceglie, per un momento successivo, qualcosa di meglio [….] In un momento dato non si è liberi di fare qualsiasi cosa. È necessario accettare anche questa necessità interna. Accettare quel che si è, in un momento dato, come un fatto, anche la vergogna» (Weil, 1982, p. 274). In ogni esperienza partecipativa c’è una dimensione vincolante e costringente che è direttamente proporzionale al livello di chiusura dei possibili che il processo deliberativo permette. Viceversa il processo deliberativo diviene più democratico e sovrano mano a mano che si estende il livello di apertura delle cornici possibili di decisioni. Un certo automatismo culturale ci può portare a credere che partecipare significhi esercitare un diritto di scelta tra più alternative e che partecipare ad un processo deliberativo significhi dunque più democrazia. Questo pregiudizio non tiene conto della grande possibilità di manipolazione e di omologazione che può essere veicolata non tramite l’esclusione, ma al contrario tramite l’inclusione. Ci sono forme di coinvolgimento dei cittadini in cui la partecipazione delle persone è un aggiunta, un gadget ulteriore che si associa per promuovere nel mercato politico un prodotto che è già sostanzialmente predefinito e determinato. Queste esperienze di “compartecipazione” a conti fatti sono forme di complicità più che di libertà espressiva. In concreto dunque si potrebbe distinguere vari livelli di partecipazione non sulla base della cessione di minore o maggior potere (il concetto di potere è qualcosa che andrebbe discusso criticamente e non assunto ingenuamente), quanto seguendo la teoria dei diversi livelli logici di apprendimento batesoniani – sulla base delle diverse cornici di scelta, ovvero dei diversi livelli logici implicati nella possibilità di scegliere. Si potrebbe parlare dunque di: “partecipazione 1” quando si è coinvolti in un processo decisionale che riguarda due o più alternative predefinite; “partecipazione 2” quando la scelta può avvenire tra diversi insiemi di alternative; “partecipazione 3” quando il processo di interazione lascia aperta la possibilità di inventare o creare nuove soluzioni che modifichino le stesse condizioni iniziali di partenza, ovvero che in qualche modo che amplino la domanda. In termini più semplici - se volete – si potrebbe ricatalogare tutti quei processi partecipativi in cui le possibilità di scelta sono in qualche modo predefinite dal principio con il termine di “partecipazione orientata” e riservare il termine di “partecipazione aperta” a quei processi partecipativi che permettono di intervenire sugli stessi presupposti iniziali e che riservano uno spazio all’invenzione creativa. Questi ultimi sono processi che mettono in discussione le strutture e i paradigmi di fondo. Ad ogni modo, qualsiasi siano i termini che vogliamo usare per fare un po’ di distinzioni, affinché vi sia una reale partecipazione “politica” è fondamentale che il risultato o gli orientamenti emergenti dal processo partecipativo e deliberativo non siano già completamente predisposti e prevedibili ma che siano almeno in parte il risultato di un’invenzione collettiva, ovvero di un’interazione creativa tra i soggetti partecipanti. In altre parole, ogni sincero processo partecipativo deve custodire in sé una parte di ignoto e di imprevedibile che è anche quella che permette un reale cambiamento e una reale innovazione. 153 Tutto questo discorso non intende stabilire a priori che cosa è democratico e partecipativo e cosa no, ma a riflettere sul fatto che il compito di una cittadinanza non ingenua ma consapevole della complessità in gioco sia quello di ragionare con intelligenza sui margini di opportunità e incisività della propria partecipazione al processo decisionale rispetto alla determinazione del bene della collettività. In certe condizioni, se il processo è troppo “orientato” e il margine di libertà troppo risicato, si può rinunciare a partecipare e lottare per affermare un significato di partecipazione più consistente. Nulla vieta d’altra parte che date certe condizioni - si possa accettare di partecipare partendo anche dai contesti deliberativi più semplici e a fronte di cornici predefinite piuttosto costringenti. Tuttavia in questo caso, si dovrebbe predisporre un “patto partecipativo” tra cittadini e governanti che includa anche una “clausola di apertura” che predisponga gli impegni e le misure necessarie all’allargamento delle possibilità di partecipazione e di scelta riconosciute ai cittadini perlomeno per il futuro. Il compito di una cittadinanza consapevole è infatti quella di ampliare continuamente le cornici della partecipazione per arrivare a porsi dentro l’orizzonte ottimale dentro a cui orientare la scelta. LE ESPERIENZE DEI BILANCI PARTECIPATIVI Sperimentato dall’Amministrazione Municipale a partire dal 1989, il Bilancio Partecipativo (Orçamento Partecipativo OP) di Porto Alegre – Brasile è un processo partecipativo attraverso il quale i cittadini decidono sul 100% delle spese di investimento in opere e servizi della Municipalità, che rappresenta tra il 15% e il 25% delle spese comunali. Il processo si fonda su: - una base geografica, attraverso la formazione di 16 regioni create nel 1989 attraverso un accordo tra l’amministrazione e il movimento comunitario - una base tematica, attraverso le cosiddette Plenarie Tematiche in cui le assemblee vengono organizzate non per regione ma per tema. Nel definire le spese di investimento si incrociano le preferenze espresse attraverso il processo partecipativo con criteri oggettivi e tecnici quali il numero di abitanti e la carenza di servizi rilevata. A Porto Alegre si contano 16 assemblee plenarie regionali e 6 assemblee tematiche, a cui partecipano circa 45.000 persone. Nelle Assemblee pubbliche del Bilancio Partecipativo i rappresentanti delle istituzioni sono obbligati a partecipare, per dialogare con i cittadini ma non hanno diritto di voto. Il bilancio partecipativo di Porto Alegre è stato selezionato dal Programma di Gestione Urbana dell’ONU come una delle 22 migliori pratiche di gestione pubblica 154 nella sezione per l’America Latina, mentre è stato indicato dal comitato tecnico dell’ONU - Habitat II (seconda Conferenza Mondiale dell’Onu sugli insediamenti Urbani, Istanbul, 1996) – come una delle 42 migliori pratiche di gestione urbana del mondo. Anche l’UNDP e la Banca Mondiale hanno mostrato negli ultimi anni un grande interesse per l’esperienza di Porto Alegre. Non si tratta di una modalità spontaneistica, ma al contrario di un processo complesso e minuziosamente organizzato. Per dare un’idea della complessità si può vedere qui di seguito il normale calendario dei lavori: • MARZO/APRILE Riunioni Preparatorie Riunioni di organizzazione e preparazione nelle regioni, microregioni, ambiti tematici. Ordine del giorno: Rendiconto anno precedente; Presentazione del Piano degli Investimenti; Presentazione del Regolamento Interno; Presentazione del Bilancio Partecipativo Statale; Discussione Priorità Tematiche; Criteri per le squadre di candidati consiglieri • APRILE/MAGGIO Plenarie Regionali e Tematiche (turno unico) Ordine del giorno: Votazioni delle Priorità Tematiche; Elezioni dei Consiglieri Popolari; Definizione del numero dei Delegati Popolari; Rendicontazione scritta. • MAGGIO /GIUGNO/LUGLIO Assemblee regionali e tematiche Ordine del giorno: Elezione dei delegati/e; Gerarchizazzione delle Opere e dei Servizi; Decisione sulle domande pervenute via Internet (Forum dei delegati); Prima della gerarchizzazione delle richieste sopralluogo dei Delegati nelle zone richieste, per conoscenza. La struttura del bilancio partecipativo Tratto da G. Allegretti, L’insegnamento di Porto Alegre, Alinea, Firenze, 2003. • PRIMA QUINDICINA DI LUGLIO Assemblea Municipale Ordine del giorno: Entrata in carica dei nuovi Consiglieri; Consegna della Lista gerarchicamente ordinata di Opere e Servizi; Discussione su tecniche di portata generale • LUGLIO/AGOSTO/SETTEMBRE 155 Analisi delle Richieste e Costruzione della Matrice Giunta (e strutture teniche): Analisi tecnico/finanziaria delle domande; Costruzione della matrice di Bilancio • AGOSTO/SETTEMBRE Votazione della Matrice Discussione e votazione della Matrice di Bilancio e inizio della distribuyzione dei fondi nelel Regioni e negli Ambiti Tematici • OTTOBRE/NOVEMBRE Definizione del Piano degli Investimenti e servizi; Presentazione e votazione della proposta di PI nei Forum dei Delegati Regionali e Tematici; Progetto Pilota di Consulta sul Piano degli Investimenti approvato • NOVEMBRE/DICEMBRE Discussione nei Forum regionali e tematici delle alterazioni al RI (Regolamento Interno), Criteri Generali e tecnici; Presentazine del PI e delle votazioni dei Forum regionali e tematici nel COP e valutazione delle risorse disponibili • DICEMBRE/GENNAIO Discussione e votazione de Regolamento Interno, Criteri generali e tecnici • FEBBRAIO Sospensione dei lavori Esperienze di bilanci partecipativi o di forme di democrazia partecipativa avanzatae si sono riprodotte in diverse parti del mondo: Dove è stato sperimentato? In Brasile La pratica del bilancio partecipativa si è ormai estesa in oltre 100 città brasiliane tra cui Belo Horizonte, Belèm, Santo Andrè, Barra Mansa, Icapuí, San Paolo, Río Bonito e in numerosi città nel mondo. In AMERICA LATINA esperienze significative si sono registrate in Argentina (Buenos Aires, Córdoba), Uruguay (Montevideo), Costarica (San José), Honduras (Puerto Cortés), Bolivia (Cochabamba), Equador (Quito, Area Metropolitana Ciudad de Alfaro), Perù (Villa El Salvador, Area metropolitana di Lima), Colombia (Pasto). Per l'AFRICA si segnalano in particolare Camerun (Douala, Yaoundé, Bafoussam) e Senegal (Gorée, Dakar). In ASIA le esperienze più significative riguardano alcuni stati dell’India (Rajastan, Andhra Pradesh e Bangalore, Kerala), In EUROPA si sono distinte Francia (Saint-Denis, Morsang sur Orge, Bobigny, Petit-Bourg), Spagna (Sant Feliu de Llobregat, Rubi), Germania (Blumenberg, Mönchweiler, Emsdetten, Rheinstetten, Passau, Arnberg, Hamm, Hilden, Monheim, Castrop Rauxel, Vlotho), Gran Bretagna (Manchester), Finlandia (Hameenlinna). In Italia le esperienze storiche e più significative sono state condotte a Grottammare (dal 2002), a Pieve Emanuele (2003-2007), nel Municipio XI di Roma (dal 2003). Esperienze significative di bilancio partecipativo sono state condotte a Paderno Dugnano, Locate Di Triulzi, Vimodrone, Bollate, Senago, Canegrate, Colorno, Modena, Novellara, Reggio Emilia, Arezzo, Calcinaia, Acquapendente. Tra le esperienze attuali si segnalano per interesse quella di Modena (dal 2005) e quella di Capannori (dal 2011). 156 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu LA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA In una società democratica ciascuno desidererebbe che la propria opinione contasse veramente. Che non solo potesse essere espressa liberamente e chiaramente, ma anche che fosse in qualche misura ascoltata e contribuisse ai processi di costruzione delle policy. Tuttavia quanto la nostra opinione è realmente la nostra opinione? Ovvero quanto si basa davvero sui nostri valori e sulla reale conoscenza delle questioni che ci interessano in modo tale da essere da noi stessi rielaborate, e quanto invece è il frutto di varie forme di pressione, di propaganda, manipolazione, o semplicemente di sentito dire? 1. Farsi un’opinione… Il punto di partenza delle riflessioni sulla “democrazia deliberativa”93 è legato al fatto nelle forme tradizionali di espressione democratica - voto, referendum, sondaggi - quello che viene registrato non è in assoluto quello che la gente pensa, ma semplicemente l’idea che le persone hanno in quel preciso momento, spesso prima di prendere realmente in esame una questione in modo da sviluppare un proprio punto di vista consapevole. 93 Il dibattito della democrazia deliberativa si avvia a partire dagli anni ’80, in particolare con il saggio di JOSEPH BESSETTE, Deliberative Democracy: The Majority Principle in Republican Government, in R. GOLDWIN, W. SHAMBRA (eds.), How Democratic is the Constitution?, America Enterprise Institute, Washington Dc, 1980, pag. 102-116. Tra gli studi più importanti possiamo citare JAMES BOHMAN, Public Deliberation: Pluralism, Complexity and Democracy, The Mit Press, Cambridge, 1996; JOHN S. DRYZEK, Deliberative Democracy and Beyond Liberals, Critics, Contestations, Oxford University Press, Oxford and New York, 2000; JON ELSTER (ed.), Deliberative Democracy, Cambridge University Press, Cambridge, 1998; JAMES S. FISHKIN, Deliberation. New Direction for Democratic Reform, Yale University Press, New Haven and London, 1991; JAMES S. FISHKIN, When the People Speak. Deliberative Democracy & Public Consultation, Oxford University Press, Oxford and New York, 2011; ROBERT E. GOODIN, Innovating Democracy. Democratic Theory and Practice After the Deliberative Turn, Oxford University Press, Oxford and New York, 2012; JOHN PARKINSON and JANE MANSBRIDGE (eds.), Deliberative Systems, Cambridge University Press, Cambridge, 2013. In italiano si possono leggere LUIGI BOBBIO (a cura di), A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004; GIANCARLO BOSETTI, SEBASTIANO MAFFETTONE (a cura di), Democrazia deliberativa: cos’è, Luiss University Press, Roma, 2004; JAMES S FISHKIN, La nostra voce. Opinione pubblica & Democrazia, una proposta, Marsilio, Venezia, 2003; ANTONIO FLORIDIA, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci Editore, Roma, 2012; GUIDO PARIETTI, La democrazia deliberativa. Una ricostruzione critica, manifestolibri, Roma, 2013; IOLANDA ROMANO, Cosa Fare, come fare. Decidere insieme per praticare davvero la democrazia, chiarelettere, Milano, 2012; MARIANELLA SCLAVI, LAWRENCE E. SUSSKIND, Confronto creativo. Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, et al., Milano, 2011; YVES SINTOMER, Il potere al popolo. Giurie cittadine, Sorteggio e Democrazia Partecipativa, Dedalo, Bari, 2009. 157 Richiamare l’idea di sovranità popolare in queste condizioni risulta quindi piuttosto riduttivo o semplificatorio. La raccolta delle opinioni o dei voti rischia di registrare da questo punto di vista lo stato di più o meno ampia ignoranza diffusa nell’opinione pubblica rispetto a questo o a quel problema. Come ha scritto Guido Parietti, «la democrazia deliberativa principia dalla consapevolezza che volontà e opinioni politiche non esistano in modo significativo prima di essere state elaborate e messe alla prova nel discorso pubblico»94. In altri termini il carattere democratico emergerebbe non da una fotografia statica ma da una dimensione di interazione dinamica che va rafforzata e potenziata; attraverso l’accesso a un’informazione approfondita, attraverso l’ascolto dell'opinione di altri cittadini o di differenti portatori di interessi, attraverso il confronto con esperti, e in generale attraverso il confronto tra più punti di vista si può ottenere in tempi piuttosto rapidi un processo di rafforzamento delle competenze e di trasformazione delle proprie stesse idee. Da questo punto di vista è bene chiarire che il concetto di democrazia deliberativa si presta nella lingua italiana a qualche possibile fraintendimento. Mentre in italiano la deliberazione è il momento finale, successivo alla discussione e alla valutazione della questione rispetto alla quale si assume una decisione, viceversa in inglese “deliberation” si riferisce al processo attraverso il quale si va ad esaminare una questione, una problematica, un progetto e se ne analizzano tutti i punti di vista, si soppesano i possibili risvolti positivi e negativi e le possibili risposte, azioni o vie d’uscita, si offrono ragioni e argomenti in un senso o in un altro. 2. …e magari cambiare idea L’idea di fondo dunque è che ciò che qualifica davvero il processo democratico non sia semplicemente la conta dei voti o delle teste, ma più in profondità il processo di discussione e di confronto “faccia a faccia”. In democrazia noi dovremmo essere sempre pronti a cambiare idea qualora gli argomenti portati da altri soggetti o da altri cittadini si dimostrassero più solidi e lungimiranti dei nostri. Ciò a cui i teorici della democrazia deliberativa mirano è dunque trovare gli spazi e le condizioni adeguate per potenziare la facoltà di confronto tra più persone e la facoltà di giudizio dopo una riflessione ponderata. Come ha scritto uno dei più noti teorici di questo approccio, James S. Fishkin: «alla domanda che percorre la storia della sperimentazione democratica: “Quando il popolo può esprimere al meglio la propria voce in suo nome?”, si può rispondere semplicemente: il pubblico può parlare al meglio in suo nome quando riesce in qualche modo a riunirsi per ascoltare le argomentazioni a favore o contro una determinata questione e in seguito, dopo aver discusso faccia a faccia, giunge a una decisione collettiva».95 Idealmente l’opinione politica non dovrebbe essere ostaggio dei preconcetti o congelata in identità inscalfibili; ogni cittadino dovrebbe essere disponibile a prendere in esame anche altri punti di vista o aspetti non riconosciuti in precedenza, o semplicemente dovrebbe essere disponibile a ripensare i propri interessi e desideri alla 94 GUIDO PARIETTI, La democrazia deliberativa. Una ricostruzione critica, manifestolibri, Roma, 2013, pag. 276. 95 JAMES S FISHKIN, La nostra voce. Opinione pubblica & Democrazia, una proposta, Marsilio, Venezia, 2003, pag. 19. 158 luce del vissuto e delle necessità di altre persone, o della comunità più in generale. In questo senso il processo democratico dovrebbe offrire la possibilità di andare incontro alle necessità di tutti, trovando una mediazione il più possibile equa e accettabile tra le diverse posizioni. Da queste prime considerazioni si capisce come la filosofia politica della democrazia deliberativa contempli al proprio interno una forte dimensione normativa relativa all’ideale del buon cittadino e del confronto civile tra cittadini. Inoltre è presente una evidente dimensione educativa. Le modalità di partecipazione alla vita in comune dovrebbero costituire una sorta di scuola di politica, in cui si impara ad ascoltare, esprimersi e discutere. In questi elementi si possono d’altra parte cogliere in filigrana alcuni rischi o problematicità che approfondiremo in seguito. 3. Una certa idea di democrazia Partiamo innanzitutto dagli aspetti più interessanti sottesi a questa impostazione. L’approccio deliberativo prende chiaramente le distanze da una visione della democrazia troppo individualistica, in cui ognuno ragiona per conto proprio e si muove sulla base dei propri interessi. In questo c'è anche un rifiuto della democrazia come mercato politico, in cui i cittadini sono pensati come singoli consumatori isolati che si ritrovano a scegliere o a negoziare per il prodotto politico migliore. D'altra parte nell'impianto deliberativo c'è al fondo anche una critica delle scorciatoie maggioritarie che registrano come volontà del popolo i rapporti di forza e le maggioranze che volta per volta si impongono. Nell’idea di democrazia deliberativa i cittadini sono cittadini insieme e la vita politica e frutto del confronto e dell’interazione e non semplicemente dell’aggregazione delle opinioni o degli interessi. L'aspetto importante da cogliere è che - pur partendo dal riconoscimento delle differenze e dei diversi punti di vista - si vuole alludere a dimensioni che in qualche modo vanno oltre le singole persone. C'è in effetti un richiamo a volte implicito e a volte esplicito a una dimensione intersoggettiva. Jürgen Habermas, per esempio, uno dei padri filosofici di questi approcci, esplicita chiaramente che «La teoria del discorso punta sull’intersoggettività di grado superiore caratterizzante i processi d’intesa che si compiono nelle procedure democratiche oppure nella rete comunicativa delle sfere pubbliche».96 Per Habermas sia all'interno che all'esterno del complesso parlamentare può prendere piede una formazione più o meno razionale dell'opinione relativamente ad alcune materie rilevanti che richiedono una disciplina o un orientamento. In altre parole c'è una fiducia nella possibilità di produrre discorsivamente degli orientamenti che possono essere tradotti dalle istituzioni legislative in un "potere amministrativamente esercitabile". La dimensione di razionalità della deliberazione è per Habermas fondamentale, in quanto gli elementi di generalità e inclusione da soli non garantirebbero la qualità del processo. Il discorso razionale per Habermas sarebbe un «procedimento appropriato per risolvere i conflitti, perché rappresenta una procedura che assicura l'inclusione di tutti gli interessati e la pari considerazione di tutti gli interessi toccati» 97. Ciascun partecipante può portare a casa i migliori risultati solo se convince gli altri partecipanti 96 JÜRGEN HABERMAS, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2013, p 334. 97 JÜRGEN HABERMAS, La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. 57. 159 o gli oppositori della validità del suo punto di vista, sulla base degli argomenti migliori che riesce a produrre. Si può imputare all'approccio della razionalità comunicativa di Habermas un eccesso di razionalismo (i criteri di valutazione pertinenti sono qui puramente razionali) e una svalorizzazione di altre dimensioni importanti per la conoscenza, l'incontro e lo scambio tra persone. Sui limiti di questa impostazione dirò qualcosa in seguito. Ciò nonostante non c'è dubbio che la centralità della dimensione intersoggettiva rappresenta un punto importante in questo approccio alla democrazia. «Lo spazio, intersoggettivamente condiviso, della situazione discorsiva afferma il filosofo tedesco - si dischiude solo a partire dal momento in cui i partecipanti entrano personalmente in relazione, prendendo posizione su reciproche offerte linguistiche oppure assumendosi obblighi illocutivi»98. Una delle critiche che sono state rivolte agli approcci deliberativi è che costituirebbero una forma di rimozione dei conflitti sociali e politici che attraversano la società. Certamente la capacità di riconoscere la pluralità di valori e punti di vista presenti nella società e di tradurli in una logica di confronto democratico è una delle sfide, forse la sfida per eccellenza, dei regimi democratici. Va detto tuttavia a questo proposito che le forme assunte della democrazia rappresentativa, specialmente nelle sue espressioni più duramente maggioritarie, mostrano una forte incapacità di far spazio a queste conflittualità, di offrire un terreno di ascolto e di dare risposta a queste tensioni. Anzi se c'è un tratto diffuso è l'emergenza di forti tensioni laddove le autorità pubbliche procedono nelle loro scelte facendo riferimento all'autorità che deterrebbero sulla base dell'investitura elettorale e saltando completamente il passaggio dell'ascolto e del confronto con i territori, i soggetti e la popolazione rispetto a scelte che impattano profondamente sulla vita delle persone. Da questo punto di vista il modo in cui nel nostro paese è stata gestita la questione dell'Alta Velocità rappresenta un esempio assolutamente paradigmatico. Negli approcci deliberativi non viene supposta affatto un’unica volontà generale. Il punto di partenza è al contrario la differenza di punti di vista, anche oltre quelli che trovano rappresentazione politica nelle forme tradizionali e riconosciute. Certamente c'è il tentativo implicito in questi processi di ricondurre le diverse parti ad un confronto faccia a faccia, specialmente in quel tipo di processi che coinvolgono in qualche misura i diversi stakeholders e che si propongono di affrontare creativamente i conflitti sociali. Nella discussione, anche conflittuale - suggerisce Habermas - le diverse parti «imparano a includersi vicendevolmente in un mondo costruito in comune, in modo tale che poi possano giudicare le azioni controverse alla luce di valutazioni concordanti e a risolverle consensualmente»99. Ci possono essere tuttavia situazioni in cui il conflitto di valori e di prospettive è radicale e forse incomponibile. La distanza tra le posizioni in campo è il riflesso di orizzonti fra loro alternativi e non semplicemente differenti, e dunque non è possibile nei fatti una significativa convergenza. Tuttavia anche in questi casi garantire la qualità di un confronto deliberativo può assolvere diverse importanti funzioni. Può diminuire i pregiudizi o i processi di demonizzazione degli avversari; può chiarire meglio le diverse posizioni; può definire con più precisione i punti di distanza e disaccordo nonché le alternative e i diversi orientamenti possibili nell'assunzione di indirizzi politici. In questo caso possono intervenire altre procedure decisionali, come il voto a maggioranza o i referendum 98 JÜRGEN HABERMAS, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2013, p 404. 99 JÜRGEN HABERMAS, La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. 57. 160 popolari per sancire una decisione ma sulla base di un percorso che ha garantito comunque un confronto più ricco, civile e approfondito. 4. Procedure o processi Una domanda che ritorna spesso nel dibattito politico è se nell'approccio deliberativo vi sia una concezione sostanziale o puramente procedurale della democrazia. Tale discussione rischia perfino di essere oziosa nel suo limitarsi a opporre finalità estrinseche o l'autosufficienza della procedura in se stessa. È vero che dal punto di vista della filosofia deliberativa il risultato finale non può essere scontato e lo stesso procedimento non può essere legittimato a partire dal risultato, ovvero dai contenuti effettivi delle decisioni, tuttavia mi pare riduttivo e semplicistico pensare all'approccio deliberativo come avulso da assunti normativi e puramente procedurale. Da una parte infatti quelle che sembrano procedure neutrali e impersonali sono traduzioni pratiche e approssimative di assunti valoriali di partenza. L'idea che ciascuno dei partecipanti debba poter accedere a un certo grado di informazioni e conoscenze; che ciascuno (a seconda dei casi i cittadini direttamente interessati, gli stakeholders o dei cittadini estratti a sorte) debba poter esprimere il proprio punto di vista; che nessuno possa impedire ad un altro di prendere parola; che ciascuno possa essere ascoltato; che si debbano ricercare le migliori condizioni per confrontarsi liberamente; che si debba fare il possibile per tener conto dei diversi punti di vista; che ci si debba basare sui buoni argomenti piuttosto che sul denaro o sulla forza; che vadano evitate forme di coercizione di qualsiasi tipo, e infine che quello che si genera in questo tipo di confronto sia qualcosa di più e di diverso - in termini cognitivi e politici - dalla conta dei voti: tutto questo rappresenta evidentemente l'incorporazione di assunti valoriali fondamentali, non banali né scontati. D'altra parte le procedure sono dei dispositivi che possono essere criticati, rivisti e ripensati nella misura in cui non permettono le migliori condizioni possibili per questo necessario confronto. Più che alle procedure in sé occorrerebbe prestare attenzione alla qualità dei processi e ai significati impliciti in ciò che accade nelle relazioni intersoggettive tra le persone coinvolte. Ci sono per esempio tutta una serie di sensibilità e attenzioni politiche e culturali relativamente al contesto deliberativo che riguardano orari, tempi, organizzazione, accesso alle risorse, servizi di supporto, equità nella espressione di genere, generazioni e appartenenze sociali o culturali che vanno al di là delle procedure e che possono contribuire a garantire la qualità di un processo democratico e deliberativo. Ciò non toglie che tutti i partecipanti portino con sé non solo pregiudizi personali ma anche pregiudizi sociali o addirittura culturali, rispetto ai quali è difficile intervenire. Per cui anche nelle migliori condizioni, l'attenzione al processo e ai percorsi di costruzione dell'opinione non possono garantire la migliore soluzione possibile, ma solamente una possibile intesa, una mediazione o al limite la chiarificazione delle diverse posizioni. 5. Esperienze e sperimentazioni La filosofia deliberativa, come si è visto nell'approccio di Habermas, può informare sia le forme di discussione nelle arene istituzionali e legislative tradizionali, sia la discussione al di fuori di esse negli spazi pubblici della società civile. Tuttavia nelle arene tradizionali il dibattito è spesso fortemente condizionato dalle appartenenze partitiche e ideologiche e raramente si generano le condizioni per un'effettiva discussione aperta che permetta a ciascuno di esprimere liberamente il proprio punto di vista, di confrontarsi ed eventualmente di cambiare idea. Diversamente, nelle assemblee e manifestazioni della società civile, se da una parte si può registrare una 161 maggiore libertà di espressione dovuta anche al fatto di essere sollevati dal dover prendere decisioni effettive e vincolanti, dall'altra tali discussioni rischiano di rimanere molto astratte e di esprimere orientamenti che non hanno poi un evidente influenza sui decisori politici. Non a caso dunque il dibattito attorno agli approcci deliberativi ha avuto un forte sviluppo anche rispetto alla possibile costruzione di luoghi e contesti di discussione sperimentali particolarmente adeguati all'ideale del confronto discorsivo. In quest'ambito gli strumenti elaborati sono diversi e portano nomi differenti: Deliberative pollings, Consensus conferences, Conférence de citoyens, Citizens’ Juries, Planunsgzelle ecc. Il principio ispiratore comune è comunque quello di creare degli spazi pubblici che permettano effettivamente ai cittadini partecipanti - attraverso la raccolta di informazioni, il confronto con esperti e portatori di interessi e il confronto dei diversi punti di vista - di diventare quei cittadini informati, consapevoli, riflessivi che ci aspetteremmo da dei decisori democratici. In generale questi consessi esprimono più delle raccomandazioni che delle vere e proprie decisioni. Ma anche quando si arriva al voto, l'aspetto ritenuto fondamentale è che la votazione a maggioranza è comunque preceduta da un processo deliberativo. In tutti i modi si tratta di dispositivi messi in atto generalmente da amministrazioni e altri attori pubblici che dimostrano in qualche misura un interesse ad ascoltare i risultati e le indicazioni che emergano da simili processi. Vediamo ora alcuni di questi strumenti. Citizens Juries Una modalità diffusa è una famiglia di esperienze nelle quali un piccolo gruppo di cittadini estratti a sorte per un periodo di tempo determinato (in genere da 2 a 5 giorni) approfondisce e discute una specifica questione o controversia. Il termine fa riferimento alla modalità di funzionamento delle giurie dei processi penali tipici ad esempio degli Stati Uniti, con la differenza che in questo caso il fine non sono dei verdetti ma delle possibili soluzioni o orientamenti per le politiche pubbliche. Il politologo Ned Crosby ha sviluppato l'idea delle Citizens Juries a partire dal 1971 con lo scopo di realizzare un processo che accresca la riflessione e l'empatia dei cittadini mentre discutono di una questione di ordine pubblico o della candidatura di specifici candidati. Qualche anno più tardi, nel 1974, Crosby fonda il Jefferson Center100 che negli anni successivi implementerà oltre una trentina di esperienze di giurie cittadine in gran parte negli Stati Uniti. L'idea è che un microcosmo del pubblico possa essere abilitato a trattare questioni complesse in modo più efficace del pubblico generico solitamente consultato nei sondaggi demoscopici e che i decisori politici si possano avvantaggiare dal comprendere quello che la gente può pensare osservando un problema da vicino. Una Citizens Jury offre l'opportunità a un gruppo di cittadini di conoscere un problema, di discuterlo insieme in maniera ben informata e di sviluppare assieme delle soluzioni comuni e praticabili per questioni pubbliche difficili. In genere una giuria comprende un gruppo di cittadini (di solito tra i 18 e i 24) selezionato in modo casuale, ma rappresentativo in termini demografici, che si riunisce per alcuni giorni per esaminare attentamente una questione di rilevanza pubblica. I giurati sono pagati con una sorta di stipendio per l'utilizzo del loro tempo. Si trovano ad ascoltare un certo numero di testimoni ed esperti e sono invitati a discutere assieme sulla questione. L'ultimo giorno delle loro audizioni i membri della Citizens Jury espongono le loro raccomandazioni ai decisori politici e al pubblico. La prima Citizens Jury è stata sperimentata nel 1974 e riguardava il National Health Care Plan. Nei successivi quarant'anni sono state condotte oltre una trentina di esperienze su temi che riguardavano tornate elettorali ed elezioni a 100 http://jefferson-center.org/ 162 vari livelli, impatti dell'agricoltura sulla qualità dell'acqua, trapianto degli organi, progetti nelle scuole, edilizia popolare, progetti di riforme sanitarie e del welfare, questioni fiscali, politiche del traffico, piani di distribuzione elettrica o di uso della terra, piani di gestione dei rifiuti, politiche sul cambiamento climatico, piani educativi ed economici. Un esperimento interessante di giurie cittadine per progetti microlocali è stato condotto a Berlino tra il 2001 e il 2003 in 17 quartieri della capitale con una formula basata su una quindicina di sessioni di 2-3 ore ciascuna101. Planungszelle (cellule di pianificazione) La formula delle Planungszelle (cellule di pianificazione) non è molto differente.102 È stata elaborata dal sociologo Peter Dienel (1923-2006) della Bergische Universität di Wuppertal in Germania negli anni '70 mentre era membro dello staff di pianificazione della Cancelleria di Stato della North-Rhine/Westphalia. Il processo coinvolge circa 25 cittadini selezionati con criteri sociodemografici a partire da un numero molto più ampio di persone che viene contattato. Questi lavorano come consulenti pubblici per un periodo limitato di tempo (in genere 4 giorni) per presentare proposte e soluzioni per un problema o una questione politica difficile o complessa. La cellula è accompagnata da due facilitatori del processo che, pagati per il loro servizio, sono responsabili della pianificazione dell'informazione e della moderazione delle sessioni plenarie. Ci sono 9 elementi che compongono una Cellula di Pianificazione103. Il primo è il lavoro di squadra poiché per i 4 giorni del processo i cittadini coinvolti lavorano continuamente in piccoli gruppi ruotandone la composizione, in modo che prima o dopo ciascuno si confronti e cooperi con tutti gli altri. In secondo luogo viene chiaramente definito il ruolo dei partecipanti, che sono chiamati ad agire come decisori, ma in quanto cittadini come gli altri. Essi devono rimanere obiettivi, cooperare e cercare di tutelare l'interesse pubblico. La terza caratteristica di questo metodo è che i partecipanti sono pagati, perché questo rafforza la dedizione e la serietà con cui possono assumere questo incarico visto che dovranno per qualche giorno abbandonare le loro normali attività e non tutti possono permetterselo senza un rimborso. Questo elemento differenzia questo processo da altri simili, rendendolo più costoso anche se più inclusivo. In quarto luogo i partecipanti sono supportati per soddisfare le necessità famigliari e quotidiane - per esempio per la cura dei figli, degli anziani o di parenti ammalati -, in modo tale che possano concentrarsi sul processo politico per tutta la durata del lavoro. La quinta caratteristica della proposta di Dienel è la delimitazione temporale della incontro a quattro giorni. Tale quadro assicura la neutralità dei partecipanti che non hanno il tempo in questo modo di sviluppare o organizzare interessi di gruppo. Il sesto elemento riguarda il metodo di selezione, ovvero il campionamento casuale, che Dienel ritiene una procedura più ragionevole del voto o dell'autoselezione volontaria poiché garantisce la partecipazione di persone comuni di diverse posizioni politiche, sociali ed economiche, che magari non parteciperebbero spontaneamente ed evita inoltre l'intrusione di interessi privati o organizzati nel processo deliberativo. 101 YVES SINTOMER, Il potere al popolo. Giurie cittadine, Sorteggio e Democrazia Partecipativa, Dedalo, Bari, 2009 102 Sul tema si può leggere GIOVANNI TONELLA, Die Planungszelle. Processi di coinvolgimento deliberativo e forme di amministrazione partecipativa, Il poligrafo, Padova, 2012. 103 Per un approfondimento si veda ANTOINE VERGNE, "Portrait of A Pioneer", Journal of Public Deliberation: Vol. 1: Iss. 1, Article 11, 2005. Available at: http://www.publicdeliberation.net/jpd/vol1/iss1/art11 163 Il settimo aspetto riguarda il fatto che i cittadini non sono selezionati sulla base di autorità o competenze particolari. Sono i semplici cittadini a partecipare, perché si intende sottolineare che i cittadini - se messi nelle opportune condizioni - possono essere competenti per affrontare e risolvere i problemi che li riguardano. L'ottavo aspetto da considerare è che i partecipanti saranno supportati in due modi: il confronto con esperti che dopo essere stati ascoltati rimarranno comunque a disposizione per chiarire eventuali dubbi e l'aiuto dei due facilitatori che si occuperanno di tutti gli aspetti organizzativi e pratici del processo. Infine l'ultimo aspetto è che attraverso il processo della cellula di pianificazione i cittadini rispondono a un problema predeterminato, ovvero non deciso da loro stessi ma ad essi proposto. Il processo di pianificazione può coinvolgere anche più cellule allo stesso tempo (spesso quattro contemporaneamente). In ciascuna cellula i partecipanti si sforzano di acquisire informazioni, dati e conoscenze sul problema, di discutere assieme le possibili soluzioni e valutare la proposta più vantaggiosa in termini di conseguenze più o meno desiderabili. Anche in questo caso i cittadini possono apprendere qualcosa a proposito dei diversi aspetti tecnici e politici delle diverse opzioni o decisioni. Alla fine del processo i risultati vengono presentati nella forma di un "rapporto cittadino" che viene consegnato alle autorità e ai partecipanti. Anche questa modalità ha alle spalle circa 35 anni di sperimentazione. Dal 1978 ad oggi sono state condotte oltre trecento cellule di pianificazione. Nel 1980 il metodo è stato usato per la progettazione del Municipio di Colonia. Nel 1985 per determinare il futuro dell'erogazione energetica in diverse città tedesche. Nel 1996 ad Hannover è stato organizzato un set di cellule di pianificazione che ha coinvolto 300 cittadini per rinnovare il sistema di trasporto urbano della città. Nel 2001 in Baviera un sistema di cellule che ha visto la partecipazione di 435 partecipanti si è confrontato sul tema della protezione del consumatore. In Spagna questo sistema è stato utilizzato fra l'altro per progettare la costruzione di stadi e impianti sportivi (1992), per la pianificazione di una nuova autostrada in una regione dei territori Baschi (1993-94), per pianificare e potenziare le politiche del turismo a Onati (1997). Consensus conferences Le Consensus conferences hanno origine negli USA nel 1977 quando il National Institute of Health organizzò una conferenza in cui un campione di 15 medici interrogò alcuni esperti attorno ai metodi di protezione dal cancro al seno al fine di costruire un certo consenso sull'argomento e di stendere un rapporto pubblico per la comunità medica. Questo sistema è stato riutilizzato molte volte in ambito medico. L'idea e la modalità vennero riprese nel 1987 dal Danish Board of Technology, un organismo creato dal Parlamento danese per supportare il dibattito sulle nuove tecnologie e le loro implicazioni. Da allora la metodologia di coinvolgere gruppi di 15 cittadini selezionati con criteri socio-demografici tramite sorteggio, su temi scottanti quali le centrali nucleari, gli OGM e le biotecnologie alimentari, la mappatura del genoma umano e la clonazione, sulle forme di protezione ambientale ecc. si è diffuso enormemente in Danimarca e in altri paesi. Pur avendo in comune alcuni elementi con gli altri approcci, le Consensus Conferences, che possono essere organizzate da organismi pubblici o privati, si distinguono poiché vengono organizzate in due tappe in un arco temporale di diversi mesi. In un primo momento il gruppo di gestione che comprende conduttori e animatori riunisce il campione di cittadini in un paio di week end. In questa fase viene distribuito e messo a disposizione materiale informativo e si comincia ad approfondire il tema, si selezionano gli esperti che saranno contattati e interpellati e si definiscono le domande 164 che potranno essere loro rivolte. Il momento successivo è quello della conferenza vera e propria che dura dai tre ai quattro giorni. Nei primi giorni i partecipanti interrogano gli esperti e discutono con loro dei diversi risvolti della problematica. Nei giorni successivi i partecipanti lavorano a porte chiuse con l'obiettivo di stendere - in genere con l'aiuto di un segretario - un vero e proprio rapporto conclusivo di 15-30 pagine. Nel rapporto, che sarà presentato alla stampa, ai cittadini e quindi inviato ai decisori pubblici, viene espresso un orientamento complessivo integrato da pareri di eventuali minoranze. Le Consensus conferences hanno avuto un impatto importante in Danimarca dove sono divenute un sistema riconosciuto e formalizzato che ha influenzato anche le decisioni del parlamento in campo medico-sanitario, ambientale o della ricerca scientifica. Deliberative Polling La formula dei Deliberative Polling o Sondaggi deliberativi è stata proposta dal politologo americano James S. Fishkin104 sulla base della problematizzazione delle tecniche dei sondaggi d’opinione inventati da George H. Gallup e a partire dalla riscoperta dei sistemi ad estrazione (anziché a elezione) abitualmente utilizzati nell’esperienza storica della democrazia ateniese105. Si tratta di selezionare un campione casuale di popolazione che rispetti tuttavia nella composizione le dimensioni socio-demografiche della popolazione, a cui somministrare all’inizio un questionario preliminare come se si trattasse di un normale sondaggio. In una seconda fase, a partire da questo campione viene definito un gruppo più piccolo composto da 200 a 400 persone. Questo gruppo viene coinvolto in una riunione deliberativa della durata di un week end in un luogo prescelto a fronte di un piccolo rimborso per il loro impegno. Operativamente il gruppo generale viene suddiviso in gruppi più piccoli di circa 12-15 persone per facilitare la discussione e il confronto faccia a faccia. A tutti i partecipanti vengono distribuiti in via preliminare materiali ed opuscoli il più possibile obiettivi o bipartisan, mentre la conduzione dei gruppi viene affidata a dei moderatori con il compito di garantire la correttezza della discussione. Alla fine del week end di discussione viene somministrato un secondo questionario con le medesime domande del primo e si valuta l’orientamento ottenuto a seguito di una discussione ponderata e approfondita. Nella totalità dei casi si verifica una modificazione, talvolta radicale, delle posizioni iniziali. Segno che la qualità della discussione può influenzare profondamente l’orientamento delle persone. Questa modalità di confronto è stata integrata successivamente dalla proposta di estensione - nella forma di un Deliberation Day - avanzata da James S. Fishkin e Bruce Ackerman106. Si tratterebbe di una festa nazionale in cui i cittadini (selezionati attraverso campioni casuali e rappresentativi) sarebbero chiamati a dibattere pubblicamente in modo equilibrato e avendo accesso a una buona informazione, nella speranza di favorire una opinione pubblica meglio informata e più attenta politicamente. Sulla base di un rimborso spese giornaliero si chiederebbe ai cittadini di riunirsi in piccoli gruppi per zona geografica per guardare un dibattito televisivo in cui i candidati presenterebbero le loro posizioni mettendo a fuoco un paio di questioni a testa. In seguito i cittadini potrebbero discutere insieme in gruppi alternativamente 104 JAMES S. FISHKIN, Deliberation. New Direction for Democratic Reform, Yale University Press, New Haven and London, 1991; JAMES S. FISHKIN, When the People Speak. Deliberative Democracy & Public Consultation, Oxford University Press, Oxford and New York, 2011; JAMES S. FISHKIN, La nostra voce. Opinione pubblica & Democrazia, una proposta, Marsilio, Venezia, 2003. 105 Fondamentale a questo proposito lo studio di MOGENS HERMAN HANSEN, La democrazia ateniese nel IV secolo a. c., LED Edizioni Universitarie, Milano, 2003. 106 BRUCE ACKERMAN, JAMES S. FISHKIN, Deliberation Day, Yale University Press, New Haven & London, 2004. 165 piccoli e grandi. L'idea alla base di questa proposta è che anche una sola giornata di discussione di qualità avrebbe un notevole effetto sulla maturazione dell'opinione pubblica e influenzerebbe la stessa disposizione dei candidati che si dovrebbero riferire ad un pubblico più attento. 6. Quale partecipazione? Condizioni, limiti e rischi degli esperimenti deliberativi Gli esempi che abbiamo presentato sono solo alcune - sebbene tra le più rappresentative - delle numerose sperimentazioni che sono state proposte e avanzate negli ultimi decenni nella logica di rafforzare la qualità deliberativa delle democrazie contemporanee. Se certamente queste idee e queste proposte rappresentano nel complesso un importantissimo contributo al rinnovamento di una democrazia rappresentativa sempre più in crisi, ciò nonostante queste proposte presentano alcune questioni critiche o problematiche che vanno certamente discusse e approfondite. La selezione dei partecipanti Una prima questione che può essere posta riguarda chi partecipa a questo tipo di esperienza, ovvero i criteri che determinano la selezione dei partecipanti. In generale le esperienze deliberative si caratterizzano per preferire i campioni casuali, basati sul sorteggio o su criteri socio-demografici generali. Le alternative possono essere rappresentate da quei consessi in cui sono invitati a partecipare i principali stakeholders oppure quelli che sono aperti ad un'autoselezione. La formula che prevede il coinvolgimento dei portatori di interesse ha il vantaggio di coinvolgere un tipo di partecipanti fortemente motivato, dunque più attivo e informato, e meno esposto al rischio di manipolazione. Inoltre la partecipazione ad un processo aperto a tutti i soggetti interessati rappresenta già un primo risultato poiché normalmente gli attori più potenti agiscono la loro influenza attraverso modalità più sotterranee e meno trasparenti (talvolta anche meno democratiche). Dunque la partecipazione ad una discussione fondata sulle buone argomentazioni rappresenta un potenziale fattore di democratizzazione. Il raggiungimento eventuale di forme di accordo o consenso tra tutti gli stakeholders rappresenta quindi un successo in se stesso perché permette di superare positivamente il conflitto sociale e può determinare un forte consenso sociale. Per contro questo tipo di partecipazione ha anche alcuni svantaggi. Spesso i portatori di interessi sono anche titolari di posizioni più rigide e estremizzate e non sempre sintonizzate sull'interesse complessivo della comunità o della cittadinanza. Il raggiungimento di una posizione condivisa può da questo punto di vista essere più difficile. I processi deliberativi completamente aperti o fondati su una partecipazione autoselezionata possono di primo acchito sembrare più inclusivi e democratici. Ma si scontrano d'altra parte con numerosi problemi e contraddizioni. I processi partecipativi funzionano bene laddove si crea la possibilità di discutere in piccoli gruppi. Solamente i piccoli gruppi permettono infatti a ciascuno di potersi esprimere e di poter essere ascoltato con attenzione, mentre nelle grandi assemblee le risorse retoriche e oratorie di chi è abituato a parlare in pubblico assumono un ruolo preponderante e rischiano di ridurre al silenzio chi non è abituato a queste modalità. Inoltre le assemblee autoselezionate rischiano di riproporre la partecipazione di quella parte di popolazione che possiede maggiori risorse economiche, di tempo, culturali e politiche a discapito di altre. In questo senso nei processi deliberativi diventa importante la rappresentatività sociodemografica, il pagamento e il supporto più ampio ai partecipanti a questi 166 consessi. L'elemento di forza dei consensi deliberativi fondati sull'estrazione o sul campione socio-demografico è che in generale possono ospitare una diversità sociale nettamente superiore alle assemblee organizzate sulla base della partecipazione volontaria. Rimane invece il fatto che le esperienze deliberative risultano formative sul piano della coscientizzazione e della formazione dell'opinione pubblica soltanto per un piccolo numero di persone rispetto alle possibilità offerte per esempio da alcuni sistemi di democrazia partecipativa (si pensi per esempio allo strumento dei Bilanci partecipativi diffuso in Brasile e in molti altri paesi). Alcuni teorici della democrazia deliberativa hanno proposto come parziale bilanciamento di questo fatto che i processi deliberativi siano supportati da una forte attenzione alle dimensioni della comunicazione pubblica, come ad esempio la possibilità di riprendere e trasmettere i momenti centrali della discussione attraverso la televisione, la radio o internet. Al di là di questo ritengo comunque che, laddove sia possibile, occorrerebbe pensare processi democratici di inclusione differenziati o articolati che prevedano forme di partecipazione o di intervento diverso per i differenti soggetti, e che quindi integrino in ruoli differenti rappresentanti politici, i cittadini estratti a sorte, i portatori di interesse e la libera cittadinanza. Le forme di condivisione e confronto Come abbiamo visto, il tipo di intersoggettività a cui pensano i teorici deliberativi è in gran parte basata sulla razionalità discorsiva. Nei modi di concepire il confronto si presuppone cioè una superiorità della comunicazione razionale su altri tipi di comunicazione. Tuttavia c’è in questo una forte sottovalutazione della complessità delle dimensioni espressive e comunicative tra esseri umani. Altri elementi – emozioni, sentimenti, passioni, espressioni artistiche, visioni – non sono prese in considerazione o sono tendenzialmente ritenute forme di contaminazione o corruzione del confronto razionale. Eppure su molte questioni e problemi che riguardano la qualità della nostra vita quotidiana e il nostro benessere emozioni, sentimenti, desideri, timori, rischi, paure, aspirazioni, sogni, fanno normalmente parte del nostro pensare e conversare quotidiano. Non è solo questione di notare pragmaticamente che non esiste e non può esistere un confronto discorsivo che prescinda completamente da queste dimensioni, ma anche di ritenere queste dimensioni un arricchimento e non una degenerazione della facoltà di conoscere. Una società che escludesse tutte queste dimensioni e che fosse governata solo sulla base della ragione sarebbe più misera o forse più schizofrenica, non più ragionevole. L’immagine più complessa del mondo e delle faccende umane integra e tiene insieme la razionalità e l’emozione, i bisogni e i desideri, i ragionamenti astratti e le storie, il computo analitico e la visione, la statistica e la creatività, il rischio e la speranza, l’interesse e il sogno. È chiaro che la logica dell'argomentazione, la chiarezza e la capacità di valutare una questione in maniera analitica sono aspetti fondamentali della discussione pubblica dai quali non si può prescindere, tuttavia la sperimentazione di forme di incontro, ascolto e confronto differenti che prevedano l'uso di linguaggi diversi (arte, disegni, fotografie, video, uso di plastici ecc…), e di diverse modalità di interazione e condivisione (attivazioni teatrali, racconti condivisi, simulazioni, forme di visualizzazione ed elaborazione di visioni) potrebbe arricchire di molto questi confronti e soprattutto avvicinerebbe al confronto anche persone non abituate alle animati discussioni pubbliche e al confronto intellettuale. Esistono a questo proposito tutta una serie di tecniche e strumenti operativi ("European Awareness Scenario Workshop", "Action Planning", "Planning for real, "Search conference", "Open Space Technology", "Laboratori di quartiere", "Camminate 167 di quartiere", "World Cafe" ecc.) ormai piuttosto sperimentate e strutturate e tante altre meno note e altrettanto interessanti che andrebbero testate e valutate. La discussione razionale permette di raggiungere molti risultati, ma non è sufficiente a vedere le persone, le interazioni tra persone e le esperienze vitali nella loro complessità. Discutere di come deve essere fatto un quartiere a misura di bambini o dei portatori di handicap è una cosa, ma un gruppo di persone normodotate - cittadini, amministratori, architetti e pianificatori urbani - che si sedesse per la prima volta su delle carrozzelle e cominciasse a provare a girare il quartiere in quel modo guadagnerebbe una visione delle cose differente in maniera molto più rapida e profonda che con una elaborata discussione. Allo stesso modo girare un quartiere con dei bambini piccoli e osservare rischi, pericoli oppure opportunità di movimento, di esplorazione e di gioco permetterebbe meglio di assumere un punto di vista diverso sulla realtà. Quello che voglio dire è che le forme di condivisione e confronto che mettono in gioco il corpo, i sensi e le emozioni in maniera più complessa e integrata possono arricchire e completare la discussione basata sulla razionalità discorsiva. Dunque occorrerebbe sviluppare una concezione dell'intersoggettività più ampia e complessa che implichi in maniera più complessa corpi, razionalità, parole, emozioni, visioni, aspettative, rischi, desideri ecc. La costruzione della cornice C'è una dimensione della partecipazione, che riguarda la sua profondità, che è difficile da comprendere ma è in realtà estremamente importante. Essa riguarda la determinazione delle cornici dentro alle quali si andranno ad effettuare le scelte. Si può fare un esempio concreto per capire. Ipotizziamo un Comune che per molti anni ha gestito in maniera superficiale e irresponsabile la questione dei rifiuti e che si ritrova ad un certo punto di fronte ad una grave emergenza. Le proprie discariche sono ormai colme, il proprio inceneritore è vecchio e non offre molte garanzie e ci si trova di fronte alla condizione di dover “esportare” i propri rifiuti verso altre città più attrezzate, che però impongono un alto costo e che comunque stabiliscono dei limiti al possibile smaltimento. L’Amministrazione comunale si trova in mano una questione urgente e delicatissima che rischia di alienarle il consenso dei propri cittadini. Decide quindi di mettere in piedi un processo inclusivo per coinvolgere gli stessi cittadini nella risoluzione del problema. La possibilità di scelta relativa a quel momento e a quel processo inclusivo è fin dal principio limitata. La qualità della partecipazione e della discussione può essere molto elevata, ma egualmente la reale possibilità di scelta concessa effettivamente ai cittadini sarà piuttosto ridotta. Diverso è se ai cittadini viene offerta (o viceversa se i cittadini richiedono) la possibilità di partecipare ad un processo il cui scopo è quello di decidere - prima di arrivare ad una situazione di emergenza - come impostare la questione dei rifiuti in generale. In questo caso il confronto politico può ampliarsi fino a investire il tema della raccolta differenziata, del compostaggio, dei piani di riciclo, delle tecnologie e dei sistemi più ecologici di smaltimento ecc. Si potrebbe inoltre decidere di affrontare la questione più alla radice chiamando in causa diversi soggetti - cittadini, imprese e aziende produttrici, catene di distribuzione – per studiare misure che possano incidere sulla produzione di rifiuti a monte (per arrivare a ridurli il più possibile), riorientando la produzione, la distribuzione e il consumo verso una diminuzione degli sprechi, degli scarti o dei materiali più difficili da riciclare o da smaltire, e dall'altra parte a immaginare forme di riciclo e reinvestimento materiale energetico a valle nei processi di smaltimento. Da un punto di vista teorico si può retrocedere ampliando via via le questioni e dunque lo spettro delle possibilità di intervento che si vuole assumere attraverso processi più ampi di confronto e discussione sociale. Da un punto di vista pratico il 168 processo presenterà naturalmente dei limiti. Anche perché i livelli più generali di discussione spesso trascendono la sfera meramente locale di decisione e richiedono di fare i conti con contesti più ampi. Inoltre, prescindendo dalla dimensione territoriale, si può pensare che ogni livello più ampio di decisione comporterà verosimilmente anche una resistenza maggiore da parte dei soggetti sociali, economici e politici coinvolti dal possibile cambiamento e dunque una maggior difficoltà ad essere oggetto di processi decisioni democratici e partecipativi. Ad ogni modo, quello che è importante capire è che lo spettro di decisioni possibili, ovvero l’agenda di possibilità, presente in un dato momento può essere modificato solo per una parte; per il resto esso dipende da un lungo processo precedente di scelte tra alternative e cornici di alternative. Ogni nostra decisione dipende da decisioni prese precedentemente da noi stessi o da altri. In questo senso l'ampiezza e le possibilità di un processo deliberativo sono sempre limitate e contestuali. In ogni esperienza di partecipazione e deliberazione c’è una dimensione vincolante e costringente che è direttamente proporzionale al livello di chiusura dei possibili che il processo consente. Viceversa il processo deliberativo diviene più democratico e sovrano mano a mano che si estende il livello di apertura delle cornici possibili di discussione, orientamento e decisione. Da questo punto di vista il carattere democratico di un processo deliberativo non può essere limitato all'osservazione di come viene data risposta alla domanda proposta dagli amministratori o dai committenti del processo. Affinché vi sia una reale apertura “politica” è fondamentale che il risultato o gli orientamenti emergenti dal processo partecipativo e deliberativo non siano già completamente predisposti e prevedibili ma che siano almeno in parte il risultato di un’invenzione collettiva, ovvero di un’interazione creativa tra i soggetti partecipanti. In altre parole, ogni sincero processo di coinvolgimento dei cittadini deve custodire in sé una parte di ignoto e di imprevedibile che è anche quella che permette un reale cambiamento e una reale innovazione. Rivoltando la questione potremmo anche dire che il processo deliberativo è tanto più aperto e creativo tanto più è possibile ridefinire la domanda o la questione di partenza. In questo caso non si tratterebbe semplicemente di offrire risposte o soluzioni, ma di arrivare a porre la domanda nella sua forma ottimale o migliore per permettere di sviluppare i percorsi più efficaci e promettenti. Influenza e incisività: tra potere, autorità e consenso Un altro aspetto da tenere in considerazione è quanto queste esperienze deliberative incidano realmente nella costruzione di processi di policy. Nella quasi totalità dei casi questi meccanismi di discussione sono puramente consultivi e non vincolano in alcun modo i decisori politici. È chiaro che assai difficilmente le arene deliberative nate in maniera estemporanea potrebbero sostituirsi alle decisioni assunte nelle istituzioni ufficialmente preposte all'assunzione di decisioni vincolanti. È d'altra parte evidente che se questi processi divengono troppo istituzionalizzati e se la loro discussione deve procedere verso decisioni normativamente vincolanti, questo significherebbe attribuire loro un potere molto forte e arriverebbe a cambiare la loro natura. Questo determinerebbe un aumento dell'irreggimentazione formale e burocratica di questi consessi e un aumento della pressione politica nei confronti dei loro partecipanti rendendo la discussione più faticosa e difficile piuttosto che più flessibile e condivisa. All'estremo opposto è altresì evidente che se i cittadini che partecipano sentono di non aver nessun potere di determinare o influenzare le decisioni pubbliche su quell'argomento possono con molte buone ragioni decidere di perdere tempo per nulla e di investire le loro energie più fruttuosamente. 169 Personalmente ritengo che questo tipo di processi debbano ricoprire una posizione intermedia e riconosciuta tra la pura espressione delle opinioni e l'assunzione di decisioni vincolanti. Ciò a cui dovrebbero mirare questi processi non è il massimo del potere vincolante ma il massimo dell'autorevolezza e quindi del consenso. Essi dovrebbero valere come arene di costruzione di indirizzi consensuali nella determinazione delle politiche pubbliche. Il riconoscimento più ampio e l'incisività più profonda possibile per questi percorsi si ottiene attraverso la garanzia di processi che per le loro caratteristiche di discussione libera, superpartes e per l'assenza di strumentalità, divengono punti di riferimento riconosciuti e in qualche misura imprescindibili per l'opinione pubblica e per i decisori politici. In questo caso i decisori politici non rinuncerebbero alle loro prerogative e alla loro responsabilità, ma assumerebbero un ruolo differente e diventerebbero i garanti e i primi interlocutori di un processo di costruzione consensuale delle politiche pubbliche. In questo nuovo ruolo le loro funzioni diventerebbero quelle di proporre una cornice di discussione, di condividere dati, informazioni, conoscenze, di assicurare contesti di discussione liberi da influenze e pressioni politiche, di interloquire e rispondere a domande e dubbi, di impegnarsi a far propri e a tradurre amministrativamente gli orientamenti raggiunti attraverso il processo deliberativo. 7. Approcci deliberativi e sistema politico democratico C'è un'altra domanda che possiamo porci e che può aiutarci a compiere un passaggio successivo nella nostra analisi: chi e quando può decidere dell'attivazione di una procedura deliberativa? Nella grande maggioranza dei casi si è trattato di processi attivati dall'alto da parte di amministrazioni e organismi pubblici che hanno deciso quindi i temi e i momenti in cui attivare queste speciali procedure deliberative. A volte è stata la particolare delicatezza di una questione o il carattere di emergenza di un problema a suggerire l'attivazione di simili processi. Tuttavia finché la possibilità di porre in essere questi processi rimane nella totale discrezione dei singoli governi o amministrazioni è evidente che molte questioni particolarmente importanti per i cittadini non troveranno spazio per un tipo di discussione così aperto. Essendo procedure a carattere completamente discrezionale è lecito sospettare che i temi che possono mettere più in contrapposizione o in conflitto gli interessi delle elite politiche ed economiche e quelli della cittadinanza nel suo complesso non abbiano trovato e difficilmente possano trovare eco in questo tipo di esperienze. Non è probabilmente un caso che fino ad oggi, nonostante 30 o 40 anni di sperimentazioni, questi esperimenti siano rimasti piuttosto isolati in relazione al funzionamento più generale del sistema politico delle democrazie contemporanee. Più in generale occorre domandarsi in che misura questo sperimentalismo deliberativo possa influenzare radicalmente il sistema politico democratico complessivo. Da questo punto di vista, negli ultimi anni gli studiosi di queste tematiche hanno iniziato ad avanzare una lettura ed un'analisi degli approcci deliberativi sulla base di un approccio più sistemico107, mettendo in luce come queste esperienze non possano essere considerate e giudicate solo come arene isolate, ma occorra prendere in esame il rapporto con la più ampia sfera politica e istituzionale. Come ha ben sintetizzato Antonio Floridia, «quando si analizza un determinato processo partecipativo e/o deliberativo, si deve sempre guardare anche ai contestuali meccanismi democratici non deliberativi che si svolgono attorno alla stessa policy che 107 Si vedano per esempio JOHN PARKINSON and JANE MANSBRIDGE (eds.), Deliberative Systems, Cambridge University Press, Cambridge, 2013 e ANTONIO FLORIDIA, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci Editore, Roma, 2012. 170 è oggetto di quel processo, e ai possibili meccanismi non democratici (e, a fortiori, non deliberativi) che possono condizionarlo o che agiscono al suo esterno»108. Il punto dunque non è solamente la qualità della singola arena deliberativa, ma la lotta per rendere i processi deliberativi un fattore normale e strutturante della vita democratica. Un punto importante sarebbe quindi discutere come i processi deliberativi possano entrare negli statuti comunali, nelle leggi regionali o nelle costituzioni nazionali come pilastri di un nuovo modo di concepire la democrazia. In senso più ampio ci si può interrogare sulla qualità deliberativa di un regime, nella misura in cui la cura e la qualità della discussione diventano un fattore strutturante del confronto e degli orientamenti nell'opinione pubblica, nelle istituzioni parlamentari e nelle arene deliberative ad hoc. Jane Mansbridge et al. hanno proposto di guardare la riflessione sulla democrazia deliberativa come il susseguirsi di tre fasi: la prima focalizzata nello sviluppo dell'ideale deliberativo e delle sue implicazioni teoriche e filosofiche; una seconda fase che ha visto la proliferazione di studi empirici e applicazioni pratiche della teoria; e concludono prospettano una terza fase in cui la teoria deliberativa si confronti con l'intero e complessivo processo democratico e quindi sulle relazioni tra le parti e l'insieme. Intendendo con questo che «la democrazia deliberativa è più di una somma di momenti deliberativi»109. C'è da scommettere che questo ulteriore livello di confronto e discussione si riveli più ostico e difficile per le teorie deliberative e che possa creare una divisione tra gli approcci più pragmatici e disincantati e quelli più radicali e visionari. Quel che è evidente fin d'ora è che il progetto deliberativo presenta dei punti di forza e delle qualità ma anche dei limiti e dei problemi specifici ed intrinseci dai quali è difficile sfuggire. Difficilmente può essere pensato come una prassi estendibile a qualsiasi ambito della costruzione di policy sia per ragioni pragmatiche che per ragioni ideali. In questo senso non potrà sostituire in toto le forme tradizionali di democrazia anche se rappresenta un contributo fondamentale per un rinnovamento delle prassi democratiche nelle società contemporanee. Probabilmente occorre ripensare i sistemi democratici in modo che siano contemplati e integrati tra loro dimensioni rappresentative, partecipative, deliberative, dirette, a seconda che si debbano stabilire indirizzi e norme, priorità e progetti, o che si debba discutere di questioni e temi specifici o che si debba scegliere tra una o più opzioni in alternativa fra loro. 108 ANTONIO FLORIDIA, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci Editore, Roma, 2012, pag. 73. 109 JANE MANSBRIDGE, JAMES BOHAMN, SIMONE CHAMBERS, THOMAS CHRISTIANO, ARCHON FUNG, JOHN PARKINSON, DENNIS F. THOMPSON AND MARK E. WARREN, "A systemic approach to deliberative democracy", in JOHN PARKINSON and JANE MANSBRIDGE (eds.), Deliberative Systems, Cambridge University Press, Cambridge, 2013, pag. 26. 171 Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015 Verso una democrazia ecologica? La discussione pubblica e la partecipazione politica di fronte alla crisi ambientale Docente: Marco Deriu SCENARI DI RIGENERAZIONE DEMOCRATICA Nelle forme della democrazia liberale sono incorporati una serie di “riduzionismi” che nella prospettiva della decrescita andrebbero superati o quantomeno temperati. In primo luogo si parte da un sostanziale antropocentrismo che non solo inquadra e tratta tutte le altre specie viventi in funzione dell’utilità maggiore o minore per gli esseri umani, ma impedisce agli stessi cittadini delle democrazie contemporanee di pensarsi “in contesto”, ovvero di riconoscere la propria dipendenza e interrelazione costante con l’ambiente ecologico e sociale nel quale si vive. Un secondo tipo di riduzionismo è rintracciabile nella propensione dei governi a pensare e a decidere sulla base di un nazionalismo metodologico, ovvero tenendo conto primariamente, quando non unicamente, degli interessi nazionali. Molte delle decisioni sono prese attraverso una logica nazionale e sulla base degli interessi nazionali. È chiaro che né le istanze ecologiche, né quelle sociali o intergenerazionali possono essere correttamente trattate o affrontate sulla base di un orizzonte primariamente nazionalistico. Una terza forma di semplificazione è rappresentato dal maggioritarismo, ovvero la riduzione del principio di legittimità alla regola delle semplici maggioranze politiche. È ovvio che per il funzionamento delle istituzioni politiche il principio maggioritario svolge un ruolo importante. Tuttavia si può rifiutare il criterio maggioritario come unico fondamento di legittimità. Occorre tener conto per esempio dei diritti delle minoranze o degli interessi di soggetti non possono partecipare direttamente. Soprattutto occorre acquisire una maggiore attenzione alla qualità dei processi che sottendono all’informazione, alla discussione e alla deliberazione politica e democratica. Un ultimo tipo di riduzionismo implicito nel funzionamento stesso del sistema politico è che la dinamica di produzione del consenso sembra spingere a corrispondere agli interessi di breve periodo (i votanti in un dato momento e gli interessi delle maggioranze attuali) rispetto a quelli di lungo periodo (gli interessi di più ampio respiro, gli interessi o i diritti delle generazioni a venire e i criteri di sostenibilità di lungo periodo). Anche qui allo stato attuale favorire i diritti dei posteri rispetto alle possibilità dei contemporanei sembra profilarsi come una strategia politica fallimentare. Ci sono beni e valori che vanno sottratti al possibile egoismo di una maggioranza di un momento. Queste attitudini o inclinazioni al riduzionismo non possono probabilmente essere del tutto eliminate, ma possono certamente essere problematizzate e diventare oggetto di ripensamento teorico e pratico. Occorre, dunque che alcune possibilità di azione e regolazione siano prese prescindendo da queste limitazioni. 172 Nella visione tradizionale il valore di un regime democratico si misura sulla capacità di rispondere e soddisfare le preferenze immediate della maggioranza della popolazione attuale di un singolo paese, senza vincoli di sorta. Al contrario in una prospettiva di rigenerazione democratica il valore di un regime democratico si misura sulla capacità di incorporare nelle forme e nelle prassi istituzionali il principio del limite e dell’automoderazione, sulla base del criterio generale che un regime democratico “capace di futuro” debba assicurare anzitutto la propria rigenerazione. In altre parole secondo un principio di equivalenza dobbiamo consegnare alle generazioni future le stesse possibilità di godere dell’ambiente ecologico e sociale di cui abbiamo goduto noi. Come ha scritto Vandana Shiva: «Impegnarsi in un progetto di democratizzazione ecologica e sociale significa […] concepire e progettare delle democrazie che tutelino la vita assicurando a tutti la possibilità di esprimersi su questioni fondamentali come il cibo, che mangiamo o che ci viene negato, come l’acqua, che beviamo o che ci viene sottratta perché è stata inquinata o privatizzata, come l’aria, che respiriamo o che forse ci avvelena. Le democrazie che tutelano la vita si fondano sul riconoscimento del valore intrinseco di tutte le specie, di ogni popolo e di ogni cultura, sull’equa ripartizione delle risorse terrene e sulla comune gestione di tali risorse». Ripensare la democrazia dal punto di vista della sostenibilità ecologica e della decrescita significa dunque introdurre cambiamenti radicali nelle forme e nelle prassi istituzionali che stimolino i cittadini e gli organi di governo a tutti i livelli a rafforzare la sensibilità verso le cose essenziali e allo stesso tempo sviluppare riflessioni di lungo respiro, che riguardino tutta la comunità in un’ottica spaziale e temporale più ampia. Di seguito provo ad elencare quelli che mi sembrano i possibili percorsi e scenari più promettenti. Paideia Un primo percorso mette al centro il tema dell’autoeducazione e della formazione dei cittadini. Come ha sottolineato Cornelius Castoriadis una società democratica va concepita come un’unica enorme istituzione pedagogica in cui ha luogo l’inarrestabile autoistruzione dei suoi cittadini. In altre parole il compito di un regime democratico non è solo quello di contare le teste dei cittadini ma anche di formare quegli stessi cittadini all’insegna di un ethos sociale comune. In questa direzione occorre pensare gli strumenti, gli spazi e le condizioni dell’emersione di un nuovo ethos democratico ispirato ai principi della decrescita e della sostenibilità. È chiaro, da questo punto di vista, che questa prospettiva si scontra frontalmente con le tendenze attuali del sistema dell’istruzione interessato a valorizzare solamente quei saperi tecnicoscientifico-manageriali rivolti alla traduzione immediata della conoscenza in profitto economico. Ossessionati dall’imperativo della crescita anche la logica e la struttura educativa viene piegata a logiche contabili e di efficacia strumentale, mentre si dimentica di coltivare quei saperi e quelle intelligenze critiche fondamentali non solo per affrontare i problemi e le sfide contemporanee ma anche per nutrire e rigenerare lo stesso spirito critico che supporta la democrazia.110 In questa prospettiva è fondamentale dunque non solo difendere un’impostazione critica e una concezione non strettamente utilitaristica della formazione educativa, ma spingendosi oltre è importante prevedere l’introduzione e incentivazione di percorsi educativi sui limiti ecologici e sociali e sulla sostenibilità, nelle diverse agenzie 110 Su come la logica del profitto stia modificando radicalmente le forme e i contenuti dell’istruzione si veda il libro di Martha Nussbaum. 173 educative e formative (scuole, università, formazione lavoro ecc.), sostenendo sia processi top-down che bottom-up. In altre parole i programmi educativi pubblici, a partire da ogni ordine e grado, dovrebbero mettere al primo posto il tema della formazione del “cittadino planetario”. Un simile cittadino dovrebbe divenire via via sempre più consapevole di vivere in una rete multipla di interdipendenze ecologiche, sociali ed economiche che richiede responsabilità, doveri, attenzioni, forme di empatia, di solidarietà e di collaborazione che trascendono le specifiche appartenenze. Da questo punto di vista Edgar Morin ha espresso in più occasioni la necessità di una Democrazia cognitiva, ovvero di una democratizzazione della conoscenza scientifica che permetta ai cittadini di incorporare almeno gli apporti più fondamentali delle scienze ed in particolare quelli necessari ad una consapevolezza planetaria. Questo obiettivo può essere perseguito e messo in opera con maggiore successo se a fianco delle iniziative istituzionali si moltiplicano anche le iniziative educative ed (auto)formative dal basso. Associazioni, reti, movimenti già oggi creano occasioni di formazione e di riflessione critica su questi temi. Tali iniziative andrebbero sostenute, ampliate e resi più sistematiche. Lo sforzo educativo e auto formativo che proviene dal basso pur essendo per sua natura più fragile e discontinuo svolge comunque una funzione di mantenimento e coltivazione della diversità di punti di vista, di categorie critiche e prospettive di analisi che essendo originali ed eterodosse difficilmente trovano spazio nei programmi istituzionali. Si può inoltre ipotizzare la nascita di istituzioni ad hoc, superpartes, rivolte a raccogliere e diffondere conoscenze su alcuni temi di importanza cruciale per il nostro futuro, come quelli legati alla sostenibilità ecologica e sociale. Qualcuno ha proposto per esempio l’istituzione di un’Accademia del futuro cui può essere attribuito il compito di attuare una forma di monitoraggio, di promuovere la conoscenza scientifica, di alzare il livello del dibattito pubblico, di informare le autorità pubbliche, ecc. Demos Una rigenerazione della democrazia presuppone anche un ripensamento dell’idea di Demos. Se l’idea di sovranità nella visione tradizionale era riferita al popolo e se con questo si intendeva legittimare la volontà dei cittadini (o della loro maggioranza), oggi occorre integrare questo punto di vista sia in termini temporali che sostanziali. Quando per esempio Vandana Shiva parla di “Democrazia della terra” essa si rifà al concetto della filosofia indiana di vasudhaiva kutumbkham, parola che in sanscrito significa “l’intero mondo è un'unica famiglia” (the whole world is one single family). Questa “famiglia terrestre” coinvolge tutte le generazioni passate, presenti e future e le diverse forme viventi, umane e non umane. L’obiezione più scontata a questo tipo di ragionamenti è che le generazioni future come gli esseri viventi non umani non possono fare valere realmente il loro punto di vista. Tuttavia, per quanto questa “impossibilità” meriterebbe una discussione più approfondita, la questione che si pone è principalmente rivolta a modificare il criterio di “titolarità dei diritti” democratici più che l’“esercizio” diretto di tali diritti. In secondo luogo mi pare che per questa strada si introduca contemporaneamente anche un’idea di “titolarità di doveri”. L’appartenere a una comune “famiglia terrestre” comporta alle generazioni presenti non solo dei diritti o delle opportunità ma anche delle responsabilità e dei doveri verso le generazioni future e verso le altre specie viventi. In questo modo anche se gli animali o le future generazione non possono prendere parola si afferma un principio di relazionalità e di tutela di tutti gli esseri viventi che traggono sostentamento dal nostro pianeta nella comune appartenenza alla “famiglia terrestre”. In qualche modo, non definiamo 174 comunque che tipo di relazione vogliamo impostare con questi soggetti anche in una dimensione di evidente asimmetria. Per quanto riguarda il riconoscimento di soggetti non umani è attivo un “Progetto Grandi Scimmie Antropomorfe” (Great Ape Project), un movimento internazionale che mira all’estensione dei diritti agli animali a partire dai nostri parenti più prossimi, i grandi primati antropomorfi (scimpanzé, gorilla, orangutango, bonobo). Tra i diritti che si chiede vengano riconosciuti ci sono il diritto alla vita, alla protezione della libertà individuale, e la proibizione della tortura. Negli ultimi decenni timidi innovazioni sono state assunte in alcuni paesi fra cui: la Nuova Zelanda, dove nel 1999 sono stati riconosciuti alcuni diritti a cinque specie di scimmie; la Germania dove nel 2002 un emendamento costituzionale ha introdotto un riferimento all’obbligo dello Stato a rispettare e proteggere la dignità degli esseri umani e degli animali; e la Spagna (2008) dove nel 2008 un comitato parlamentare ha proposto alcune risoluzioni sui diritti delle grandi scimmie. Un discorso a parte riguarda le nuove Costituzioni dell’Ecuador entrata in vigore nell’ottobre del 2008 e della Bolivia entrata in vigore nel febbraio 2009. Nel preambolo della Costituzione ecuadoregna idealmente il popolo richiama la celebrazione della natura, della “Pacha Mama”, e afferma di voler costruire “una nuova forma di convivenza cittadina, nella differenza e nell’armonia con la natura, per raggiungere il ben vivere, il sumak kawsay”. L’intero Capitolo settimo della costituzione è dedicato ai “Diritti della natura”. Nell’art. 71, si può leggere: “La Natura o Pacha Mama, dove si riproduce e si realizza la vita, ha diritto che si rispetti integralmente la sua esistenza e il mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, strutture e funzioni e processi evolutivi. Ogni persona, comunità, popolo o nazionalità potrà pretendere dall’autorità pubblica l’osservanza dei diritti della natura. […] Lo Stato incentiverà le persone fisiche e giuridiche e le collettività a proteggere la natura e promuoverà il rispetto di tutti gli elementi che formano l’ecosistema”. Anche nella Costituzione boliviana si richiamano la Pachamama e il principio del ben vivere o della vita buona. E nel Titolo II, Capitolo Primo, art. 342 si afferma che “è dovere dello stato e della popolazione conservare, proteggere e sfruttare in maniera sostenibile le risorse naturali e la biodiversità, nonché mantenere l’equilibrio naturale”.111 La questione del cambiamento del demos può essere posta anche in termini di possibili rielaborazioni o esperimenti di Democrazia intergenerazionale. L’idea di una possibile democrazia intergenerazionale può essere intesa in modi anche sensibilmente diversi a seconda che si intenda il rapporto tra generazioni compresenti e contigue già nel presente o un rapporto tra diverse generazioni anche lontane fra loro nel tempo. In primo luogo l’incorporazione dei diritti o necessità delle generazioni future richiama il tema della partecipazione anche delle diverse fasce di età di una popolazione. Kirsten Davies per esempio la definisce “as a method of social engagement and capacity building, requiring the inclusion of citizens representing all age groups within a specific community. It aims to assist the reconstruction of generational and environmental relationships by engaging whole communities, from children to the elderly, in planning and managing their futures”. In pratica Davies illustra delle possibili metodologie di coinvolgimento, ascolto ed interazione di membri della comunità secondo diversi raggruppamenti di età a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione di diverse sensibilità ed interessi rinvenibili in diverse generazioni (bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani ecc...). Questo rappresenta una questione non banale visto che le tradizionali istituzioni democratiche presentano una serie di regole e di prassi formali ed informali per la partecipazione, per l’elettorato 111 Per un approfondimento sui dei diritti della Natura si vedano fra l’altro il lavoro curato da Alberto Acosta e Esperanza Martínez e il lavoro di Giuseppe De Marzo, Tim Hayward. 175 attivo e passivo, e più in generale per l’attribuzione di una rilevanza dei propri interessi e desideri. Chiaramente non si tratta semplicemente di abbassare l’età della partecipazione ma di rendere evidente e rilevante le possibili differenze nelle aspettative e nelle proiezioni delle diverse generazioni che compongono una popolazione. Da questo punto di vista le generazioni più giovani che generalmente sono le meno coinvolte, considerate ed ascoltate poiché non possono o no riescono ad accedere alle tribune politiche o mediatiche sono quelle che per “prossimità” possono su alcuni temi o interessi rappresentare più da vicino il punto di vista delle generazioni a venire. D’altra parte si pone il problema della responsabilità tra generazioni lontane nel tempo. Come nota Barry Holden la popolazione futura può essere concepita come parte del “popolo” di una democrazia. Certamente più pensiamo a persone rispetto alle quali ci separano interi secoli o millenni e più è difficile disquisire su quali saranno i loro desideri o le loro volontà. Tuttavia questo non significa che non possiamo riconoscere dei doveri nei loro confronti sia positivi (per esempio mantenere un ambiente sano e un certo equilibrio nelle risorse ecologiche) che negativi (per esempio non abbandonare in quantità rifiuti tossici, inquinanti o radioattivi che possano creare seri problemi alla salute delle comunità future). Da una parte questo comporta che le decisioni richiedano uno sforzo immaginativo più ampio in termini temporali, quindi ecologici e sociali. I decisori di oggi devono sentire di far parte di un processo decisionale intergenerazionale, per cui le proprie decisioni strategiche saranno viste e giudicate dalle generazioni successive. Diritti sostanziali e procedurali La trasformazione delle democrazie realmente esistenti in democrazie sostenibili da un punto di vista economico, sociale ed ecologico, può essere perseguita anche attraverso l’introduzione di nuovi diritti di tipo procedurale. Questo tipo di diritti divengono fondamentali soprattutto per impedire o controllare quei tipi di interventi quali grandi opere o infrastrutture, grandi progetti di sfruttamento di risorse o piani di sviluppo industriale territoriali (inceneritori, dighe, ponti, centrali nucleari, nuove aree industriali o produttive, nuove autostrade, porti o aeroporti, ecc.) che hanno al contempo un grosso impatto ambientale e sociale, modificando le condizioni degli ecosistemi, le condizioni di vita e le possibilità di lavoro e sostentamento in una regione. In questi casi, di prassi gli organi di governo o le amministrazioni locali procedono decidendo e avviando i lavori in nome del “bene superiore” della collettività che presumono di conoscere meglio delle comunità stesse. Spesso non c’è nessun obbligo di consultare le comunità locali e la popolazione, o quando questo è previsto si tratta solo di rituali vuoti e formali senza una reale disponibilità a rivedere i propri progetti. Da questo punto di vista, si possono introdurre diritti e norme sia di tipo procedurale che sostanziale. In termini procedurali si può prevedere per legge che in relazione a qualsiasi intervento con un significativo impatto ambientale, sociale e urbanistico le autorità siano tenute a presentare pubblicamente in primo luogo alle comunità interessate il progetto dei lavori, garantendo l’attivazione di assemblee partecipative dedicate all’approfondimento, al dibattito e alla deliberazione su tali progetti o sulle alternative possibili. Su questa strada si può arrivare a prevedere un diritto di ricorso ad autorità indipendenti, da parte di un certo numero di cittadini, contro attività di soggetti pubblici o privati che si ritengono gravemente lesive del patrimonio ambientale, monumentale e sociale di un territorio. In termini sostanziali si possono stabilire dei criteri fondati su un principio di equa distribuzione di costi, oneri e vantaggi tra territori e comunità per tutelare le risorse, gli ecosistemi e le condizioni di vita di tutti, evitando le facili divaricazioni tra oneri e benefici tra un luogo e un altro. 176 Pratiche partecipative e collaborative Uno dei problemi cruciali delle democrazie storiche è la diminuzione della partecipazione dei cittadini, sia nelle forme organizzative tradizionali sia, soprattutto, per quanto riguarda la partecipazione al voto. I cittadini si sentono sempre più impotenti e sempre più distanti dalle istituzioni politiche. In quasi tutti i paesi di tradizione democratica la fiducia nei politici e nelle istituzioni è andata declinando in maniera piuttosto netta negli ultimi decenni. Questa sfiducia spesso si trasforma in apatia, in passività, in forme di delega senza che tutto questo sia registrato come elemento screditante della realtà di un regime democratico. Lungi da essere una condizione che può essere assunta come dato di fatto e normalizzata si tratta piuttosto di un problema da prendere in considerazione e affrontare seriamente, Come ha sottolineato Cornelius Castoriadis “il desiderio e la capacità dei cittadini di partecipare alle attività politiche sono essi stessi problemi e compiti politici. E in parte derivano dalle istituzioni che li inducono e li prescrivono, creando cittadini spinti in questa direzione e non verso la garanzia del proprio godimento”. Dunque la questione dell’estensione e della qualità della partecipazione va vista come un reale banco di prova di un progetto di rigenerazione democratica. Ora uno dei primi aspetti che nella prospettiva U.S. elections costs della decrescita occorre porsi è quello dei costi della Total Cost of partecipazione. Nei moderni sistemi democratici le Cycle Election candidature e quindi l’ingresso nei possibili organi di governo di un territorio o della nazione sono sempre 2008* $ 5,285,680,883 più condizionate dalla capacità di investire o 2006 $ 2,852,658,140 raccogliere finanziamenti privati. Gli Stati Uniti sono 2004* $ 4,147,304,003 un esempio di quale possa essere l’esito di un sistema 2002 $ 2,181,682,066 politico sempre più condizionato dalla capacità di attrarre finanziamenti privati e di investire in 2000* $ 3,082,340,937 marketing politico e mediatico. Per esempio nelle 1998 $ 1,618,936,265 elezioni presidenziali del 2008 lo sconfitto McCain ha *Presidential election cycle raccolto 383,913,834 dollari (spendendone 379,006,485) mentre il vincitore Barack Obama ha Fonte: Center for Responsive Politics raccolto la cifra record di 778,642,055 milioni di dollari (spendendone 760,369,688) [34]. Secondo le cifre fornite dal Center for Responsive Politics, complessivamente le presidenziali del 2008 sono state le più costose della storia americana. Le spese complessive di candidati, partiti politici e gruppi di interessi avrebbero quasi raggiunto la cifra di 5,3 miliardi di dollari. Se si mettono a confronto i costi totali dei cicli elettorali presidenziali, l’evoluzione è impressionante. Si passa da a 3,082,340,937 nel 2000, a 4,147,304,003 nel 2004, a 5,285,680,883 nel 2008 Solamente dal 2004 al 2008 ci sarebbe stato dunque un incremento del 27%. L’aumento delle spese elettorali a tutti i livelli della carriera politica, ci dice diverse cose. In primo luogo come le carriere politiche siano sempre più riservate a persone che dispongono di mezzi finanziari propri o che dimostrano forti capacità di attrazione di fondi privati. In questo tipo di competizione al rialzo c’è il forte rischio che venga favorito chi ha più disponibilità o chi può godere dell’appoggio dei soggetti economici più forti o anche chi è più spregiudicato nell’accettare contributi dai soggetti più disparati. Di fatto in una prospettiva di “scambio” molte aziende o soggetti privati “si comprano” delle vie preferenziali nel rapporto con l’amministrazione, finanziando generosamente la campagna elettorale di questo o quel candidato. Per affrontare questi rischi è necessaria una regolamentazione e un controllo molto rigoroso sulle spese politiche ed elettorali. Occorre stabilire un tetto di spesa per moderare la corsa al rialzo e per permettere a tutti di partecipare con eguali possibilità. Inoltre occorrerebbe limitare fortemente la grandezza dei contributi privati in modo che nessuno possa diventare strategico innescando delle forme implicite di 177 scambio. I candidati sarebbero quindi costretti a puntare sull’allargamento della propria base di appoggio e non sugli accordi con grandi finanziatori. Un secondo aspetto cruciale riguarda il tema della partecipazione dei cittadini al di là del sistema rappresentativo tradizionale. Come abbiamo visto presentando le esperienze di democrazia partecipativa e di bilanci partecipativi è possibile andare oltre l’opposizione ideologica tra rappresentanza e partecipazione diretta e cominciare a pensare nei termini di un processo di interazione continua e regolata tra cittadini e rappresentanti. A questo proposito si può parlare di co-gestione, o meglio ancora di co-pilotaggio. Quest’ultima categoria contiene in sé non solo l’idea di una condivisione dell’amministrazione e delle scelte possibili tra le alternative esistenti, ma anche la possibilità di scegliere tra schemi più ampi di determinazioni e con questo di stabilire un orizzonte di senso, una direzione, verso cui ci si intende muovere. D’altra parte questo tipo di trasformazione permette anche di mettere l’accento sul processo deliberativo più che sul semplice conteggio dei voti. Il ripensamento del rapporto tra rappresentanti e cittadini coinvolti deve mirare alla costruzione di un processo di discussione, formazione e contrattazione che stabilisca una logica differente dalla semplice aggregazione di interessi privati. L’individuazione di una prassi che comporta la raccolta di informazioni, il confronto con diversi esperti, le simulazioni, la definizione di priorità e la costruzione di proposte condivise può aiutare a contenere gli interessi puramente individualistici sostenendo l’emergere di visioni più complesse e avanzate e opponendo alle logiche competitive l’efficacia e il vantaggio delle logiche collaborative per ottenere il miglior risultato anche per se. Commons, comunità locali e trusts Un orizzonte importante per ridefinire un sistema democratico nell’ottica della decrescita è quello dei commons o beni comuni. Nella prospettiva dei beni comuni si mette in discussione non solo la concezione dominante del possesso e della proprietà privata, ma più in generale l’idea di democrazia e il rapporto tra una comunità democratica e il proprio territorio. L’idea dei commons va anche oltre la tradizionale opposizione tra proprietà privata e proprietà pubblica. L’esperienza ci dice infatti che la pubblicizzazione di alcuni beni non garantisce da sola la sostenibilità né il rispetto verso le generazioni a venire, e al contempo il coinvolgimento di privati non dovrebbe significare diritti di sfruttamento indiscriminato. I beni comuni richiamano invece ad un intreccio di rapporti di responsabilità e di solidarietà tra i singoli cittadini e la collettività, tra generazioni presenti, passate e future, tra esseri umani ed ecosistemi. Dunque lungi da essere riconducibili ad un puro problema di amministrazione o gestione, i commons sono costitutivi anche di legami di riconoscimento, reciprocità, condivisione e corresponsabilità. In altre parole una comunità riconosce dei beni comuni e si riconosce attraverso dei beni comuni. La prospettiva di una lotta per l’estensione dei riconoscimento dei commons – dalle sorgenti, ai fiumi ai laghi, dalle foreste alle coste, dal patrimonio monumentale a Internet, ecc., conduce di fatto non a una eliminazione del mercato e delle logiche mercantili ma ad una loro forte delimitazione verso ciò che non attiene ai beni fondamentali della collettività. Come ha scritto Paolo Cacciari: “Se partissimo non dall’accumulazione monetaria, ma dalla necessità di preservare i beni comuni il più a lungo possibile e nelle migliori condizioni, il dogma sviluppista crollerebbe subito. Posti di fronte al problema della miglior utilizzazione dei beni comuni, i principi prevalenti e ordinatori della nostra società subirebbero una rivoluzione copernicana: da un’economia della “distruzione creativa” (prelievi indiscriminati e consumi illimitati) ad una della sufficienza (conservazione, riuso, riciclo, restituzione…); da una economia del massimo 178 rendimento ad una del massimo risparmio; da una finanza del debito ad una della responsabilità; da una società della competizione ad una della reciprocità; da rapporti sociali atomizzati e individualistici ad altri condivisi, fiduciari e capaci di rispondere in solido”. Le forme che il riconoscimento dei commons possono prendere sono differenti: dall’istituzione giuridica delle comunità locali, alle amministrazioni fiduciarie (trusts), ai modelli ibridi o al partnernariato pubblico-privato. Ognuna di queste forme contribuisce ad ampliare la percezione di uno spazio pubblico e collettivo che mentre è tutelato dalla logica privatistica non è riducibile alla forma statale. Richiamando un’idea di partecipazione e di responsabilità nella gestione delle risorse, più ampia di quella a cui siamo abituati si fa strada dunque l’idea di un modello di “democrazia dei beni comuni” o “Democrazia della terra”. Un modello in cui i soggetti, gli spazi, i beni, le forme della democrazia ne vengono profondamente modificati e trasformati. Costituzioni e invenzione istituzionale Un progetto di rigenerazione democratica richiede anche una trasformazione profonda delle regole fondamentali e delle forme istituzionali. Come ha notato Robyn Eckersley, “One of the aims of green constitutional design should be to facilitate a robust ‘green public sphere’ by providing fulsome environmental information and the mechanisms for contestation, participation, and access to environmental justice – especially from those groups that have hitherto been excluded from, or underrepresented in policy-making and legislative processes. Such mechanisms are not only ends in themselves but also means to enhance the reflexive learning potential of both the state and civil society”. Un interessante esempio ci viene dai casi Boliviano ed Ecuadoregno che abbiamo già incontrato. È interessante notare come i movimenti contro la privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni, contro il neo imperialismo delle multinazionali estrattive abbiano nel giro di pochi anni creato le condizioni per promuovere un processo costituente che ha portato alle nuove Costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia sanzionate da referendum popolari. Il passaggio è interessante perché rappresenta il tentativo di colmare la divaricazione tra i nuovi movimenti per i beni comuni, per il buen vivir e per il riconoscimento della pluralità delle componenti nazionali e le forme istituzionali dello stato democratico. I movimenti dal basso sono andati oltre le semplici proteste o rivendicazioni locali per promuovere o supportare un processo di istituzionalizzazione di nuovi valori collettivi e di nuove regole democratiche. Io credo che anche in Europa lo scollamento tra politica e società civile deve essere affrontato attraverso l’invenzione e la sperimentazione di nuove istituzioni democratiche e attraverso un processo costituzionale che sancisca una modificazione delle regoli fondative della comunità politica. Come ci ha insegnato Cornelius Castoriadis, infatti, una società democratica è una società che si auto istituisce, riconoscendo i propri valori fondanti e dandosi regole e limiti che definiscono le forme del vivere comune. Ora, come ha argomentato Stein Rokkan, i sistemi politici europei si sono andati costruendo attorno a quattro fondamentali fratture (cleavages), le prime due, l’opposizione centro/periferia e l’opposizione stato/chiesa, nate dai processi di unificazione nazionale e le altre due, l’opposizione campagna/città e quella tra capitale/salariati, nate in seguito ai processi di industrializzazione [45, 46]. Da questo punto di vista l’opposizione tra crescita e decrescita, quella posta dal movimento ecologista tra consumo e sostenibilità, quella posta dal movimento noglobal tra globale e locale, quella posta del movimento femminista tra produzione e riproduzione rappresentano in nuce nuovi cleavages che tagliano diagonalmente i 179 quattro cleavages storici su cui si sono strutturati i sistemi politici democratici. In altre parole queste istanze difficilmente verranno semplicemente assunte dalle forze politiche e incorporate nelle istituzioni esistenti che sono nate come risposta ad altri questioni o conflitti, ma piuttosto richiedono una riconfigurazione del sistema politico ed istituzionale. Le istanze della decrescita, della sostenibilità, della rilocalizzazione, della riproduzione sono in altre parole portatrici di altre logiche valoriali, spaziali e temporali che richiedono una rigenerazione delle stesse istituzioni democratiche fondamentali. Sto parlando non solo di norme costituzionali, di regole procedurali, di processi partecipativi e deliberativi, di nuovi diritti e doveri di cittadinanza ma anche di nuovi arene, forum o assemblee istituzionali. Queste nuove istituzioni dovrebbero incorporare nella loro stessa forma, organizzazione e funzionamento una diversa logica democratica in relazione a nuove dimensioni spaziali, temporali e valoriali. Da un punto di vista temporale si può pensare a istituzioni che incorporino nella propria logica organizzativa e processuale una prospettiva temporale più ampia. Da questo punto di vista c’è stato chi ha proposto di istituire un senato – o una camera alta – dedicati alle sfide ecologiche di lungo periodo. Questa nuova camera alta “ecologica” sarebbe concretamente istituita per analizzare, discutere e definire le cornici o le direttrici di lungo respiro, o per controllare ed eventualmente bloccare (potere di veto) decisioni del governo e della camera bassa che rappresentino un vantaggio per le generazioni attuali ma contemporaneamente una minaccia o un grave carico sulle spalle delle generazioni future. Tematiche quali le prospettive e gli investimenti di politica energetica, di conservazione del patrimonio naturale, di politiche migratorie, di riorientamento delle politiche produttive o dell’evoluzione degli insediamenti urbani e agricoli, troverebbero nella camera alta una prima definizione prospettiva, mentre l’iniziativa legislativa e l’azione di governo rimarrebbero alla camera bassa e alla compagine governativa. La logica organizzativa che dovrebbe presiedere a questo nuova camera dovrebbe essere coerente con i propri obiettivi. Alcuni accorgimenti procedurali potrebbero contribuire a questo compito. Le elezioni non si fonderebbero su partiti o su liste di partito ma su liste a progetto che si scioglierebbero immediatamente dopo le elezioni. Le liste sarebbero composte di persone impegnate da tempo sui temi ambientali e sociali. Il mandato degli eletti potrebbe essere un poco più ampio in termini temporali, tuttavia non sarebbero concessi successivi mandati in modo tale che gli eletti siano concentrati sul proprio compito e non sulla possibilità di essere rieletti attraverso meccanismi di scambio o favoritismi. Dovrebbe essere prevista una procedura di revoca del mandato in caso di indegnità (interessi privati, corruzione, ripetute assenze ecc). Per favorire l’attenzione verso le generazioni future si potrebbe rovesciare la logica tradizionale delle camere alte, solitamente rivolte ai più anziani (da cui la qualifica di “senato”) e favorire invece una più ampia componente di giovani. In questo modo si può ipotizzare che le scelte siano assunte da persone che potrebbero essere più interessate a conservare le migliori condizioni per le generazioni a venire a partire dai loro figli e dai loro nipoti. Anche le procedure deliberative andrebbero ripensate. Poiché il funzionamento non sarebbe tarato sulla velocità ma sulla profondità e consapevolezza nelle decisioni si dovrebbe riservare gran parte del tempo e del’impegno ad un opera di monitoraggio, raccolta di informazione, audizione di esperti, predisposizione di scenari alternativi, valutazioni delle possibili conseguenze, incontri e discussioni con comunità di cittadini tenendo conto delle differenze di genere, generazioni e appartenenze. In casi particolarmente ambivalenti la camera alta avrebbe la possibilità di indire una consultazione referendaria che potrebbe sovraintendere per garantire la migliore informazione e discussione pubblica possibile. Entrambi gli esempi appena fatti costituiscono espressioni possibili di quelle che Bourg e Whiteside chiamano istituzioni “meta rappresentative”. Istituzioni cioè 180 che hanno il compito di superare, in una logica di innovazione spaziale o temporale, i blocchi e gli ostacoli costituiti da interessi ed egoismi diffusi e contrapposti per lasciar spazio a luoghi e procedure che stimolino un processo deliberativo avvertito e sostenibile. 181 BIBLIOGRAFIA - BIBLIOGRAPHY GENERALI ARENDT Hannah, 1993, Vita Activa, Bompiani, Milano. BATESON Gregory, 1976, e rist. ampliata, 2000, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano. BATESON Gregory, 1984, Mente e natura, Adelphi, Milano. BATESON Gregory, BATESON Mary Catherine, 1989, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano. BATESON Gregory, 1997, Una sacra unità, Adelphi, Milano. BECK Ulrich, 2011, Disuguaglianze senza confini, Laterza, Roma-Bari. CAILLOIS Roger, 1988, L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina, Milano. CAILLOIS Roger, 1999, Tre lezioni delle tenebre, editrice Zona, Lavagna (Ge). 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