Catacombe di Generosa

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Catacombe di Generosa
 Catacombe di Generosa
Antonello Anappo
Le Catacombe di Generosa sono una cava di tufo, divenuta un cimitero sotterraneo e
un santuario cristiano, legato alla memoria dei Martiri Portuensi (303 d.C).
La galleria principale (Spelonca magna) conduce alla Tomba di Generosa, decorata
con l’affresco del Buon Pastore, e di lì alla Tomba dei Martiri, con il grande affresco
della Coronatio Martyrum, che raffigura i santi Simplicio, Faustino e Beatrice
nell’atto di ricevere la corona del martirio. Iniziano da qui le gallerie cimiteriali vere
e proprie, estese per 2600 mq con loculi in 3 o 4 ordini. Due diverticoli danno
accesso al Cimitero degli Infanti e alla Camera etrusca. L’uso cimiteriale cessa nel
382, con l’edificazione in superficie della Basilica Damasiana e la trasformazione
dell’area in santuario. Il sito è stato abbandonato nel 682. La riscoperta avviene nel
1868, ad opera dell’archeologo De Rossi.
La cava di tufo
Il nostro percorso inizia da un casotto in mattoni, realizzato nel Primo Novecento.
internamente, ai lati del robusto portone in ferro, troviamo murate due grandi lastre
di marmo, la più celebre delle quali è l’Epitaffio di Elio Olimpio. L’Epitaffio è il
primo degli oggetti fuori posto che troveremo nel nostro percorso dentro le
catacombe. Si tratta di materiali provenienti dalla sovrastante Basilica Damasiana,
che i restauri novecenteschi hanno ricoverato in galleria per proteggerli dalle
intemperie: in questa monografia li segnaliamo, non li descriviamo e rimandiamo per
essi alla monografia specifica sulla Basilica. Superati quindi alcuni scalini in discesa
ci ritroviamo in un’ampia grotta, e siamo già nella parte più antica della catacomba,
appartenente alla fase edilizia della cava di tufo di Epoca repubblicana.
La cava consisteva in un impianto estrattivo in galleria, nel quale gli ergastolani schiavi o uomini che avevano perduto la libertà per debiti o gravi delitti - erano
condannati a vita a cavare pietre a colpi di piccone. Una vita terribile, abbrutita e
senza speranza di tornare a vedere il sole. I materiali, estratti in grandi frammenti,
venivano portati in superficie, raffinati in blocchi o polverizzati, e quindi avviati alla
vendita. La cava non produceva il pregiato tufo rosso lionato della vicina cava di
Pozzo Pantaleo, ma il dignitoso cappellaccio romano dal colore grigio-bruno, buono
soprattutto per fare mattoni a basso costo e pozzolana.
La grotta dove ci troviamo ha il nome moderno di Spelonca magna, nome
convenzionale con cui gli archeologi indicano la grotta più grande di una catacomba.
In ogni catacomba che in precedenza è stata anche una cava è presente una spelonca
magna: si tratta infatti dell’antico ergastolum, un ambiente di grandi dimensioni in
cui la sera erano riposti gli strumenti di lavoro insieme con gli schiavi, per evitare
furti o fughe. Testimonierebbe questa funzione la presenza di un pozzo per
l’approvvigionamento di acqua, il cui orlo in terracotta è ancora oggi visibile.
Avanziamo all’interno della Spelonca e segnaliamo altri materiali fuori posto:
frammenti di colonne scanalate provenienti dalla Basilica.
Ancora avanti, sulla sinistra, troviamo un diverticolo che conserva parte del frontone
dedicatorio della Basilica (fuori posto) e un deposito in catasta di tegole provenienti
dalle gallerie cimiteriali. Altre tegole sono murate alle pareti, e recano impressi sigilli
di fabbrica di epoche diverse, a partire da quella di Domiziano (regnante dall’81
d.C.). Ciò ci permette di ipotizzare che nel I sec. d.C. la cava si sia esaurita (lo
testimonierebbero nelle gallerie periferiche alcune brusche curve a gomito per evitare
gli strati di roccia dura), e sulle gallerie in disuso si sia innestato un uso funerario.
La necropoli pagana
Al termine della Spelonca scorgiamo, senza potervi purtroppo accedere, un
diverticolo che nel punto più stretto misura solo 40 cm, dal quale si distacca un
ipogeo a pianta quadrata, chiamato dagli archeologi Camera etrusca. Racconta lo
studioso Emilio Venditti che «al momento della scoperta questo ambiente era
completamente murato. Entrando, gli scopritori trovarono, scavato nella parete di
tufo, un grande loculo aperto, come un letto, sul quale era composto uno scheletro
secondo l’usanza degli Etruschi, come si ritrova sovente nelle tombe di Cerveteri e
Tarquinia». Accanto al letto funerario si trovano nicchie parietali per la deposizione
delle urne cinerarie. Segnaliamo qui, per concludere, la presenza di materiali
marmorei fuori posto.
Attiene probabilmente ad un contesto pagano anche il primitivo impianto dell’ipogeo
principale della catacomba, chiamato dagli archeologi Tomba dei Martiri. Esso
aveva in origine la forma di un ampio camerone a pianta rettangolare: a fine IV sec.
sarà ristretto con due finte pareti in laterizio, ma un’ispezione moderna attraverso un
foro ha rivelato al di là di una di esse la presenza di una soglia bisoma, cioè una
doppio letto funerario simile a quello della Camera etrusca.
Una terza struttura, diversa dalle prime due, è chiamata dagli archeologi Tomba di
Generosa e presenta una conformazione ad arcosolio, cioè una nicchia di modeste
dimensioni coperta da un arco ribassato: si tratta di una tipica struttura funeraria del I
sec. deputata ad accogliere l’urna cineraria di un defunto di rango. La pratica
dell’incinerazione non appartiene sicuramente al mondo cristiano, perché si riteneva
che essa pregiudicasse la resurrezione della carne.
Va precisato a questo punto che, se la presenza di tre tombe atipiche ravvicinate può
individuare un probabile settore necropolare pagano, l’ipotesi di un uso generale
pagano della catacomba è avversata. Venditti addirittura lo esclude del tutto ed
interpreta le tombe atipiche come fenomeni di resilienza: la comunità locale, salda
nella fede cristiana, avrebbe continuato per consuetudine a praticare gli usi funerari
che aveva un tempo.
Altra ipotesi degna di considerazione è che usi funerari pagani e cristiani abbiano
convissuto, in settori non contigui della cava, già dal tempo di Nerone, cioè ben due
secoli prima della nascita ufficiale della catacomba. Sembrerebbe suffragare questa
ipotesi la presenza di tegole sigillate del I e II sec., su loculi cristiani. I sigilli sono un
timbro impresso sulla terracotta non ancora indurita, al momento della fabbricazione.
Venditti ritiene che si tratti di vecchi materiali trasmessi dal I al IV sec. per ragioni di
economicità: «Questo sta a significare - scrive lo studioso - che i rustici abitanti
della Magliana, gente povera e semplice, per la chiusura dei loculi riutilizzò vecchio
materiale in disuso».
Il cimitero cristiano
Usciti dalla Spelonca magna entriamo nella Tomba dei Martiri.
Nella monografia sul Cammino di Beatrice narriamo diffusamente la vicenda storica
dei santi martiri titolari della catacomba: qui ci limitiamo a raccontare che, secondo
la Passio altomedievale, i fratelli Simplicio e Faustino vengono catturati durante la
feroce persecuzione di Diocleziano del 303 d.C. e quindi vengono condannati e
uccisi; sorte analoga tocca poco dopo alla terza sorella, Beatrice. La loro sepoltura
nella cava di tufo ne determina la trasformazione in cimitero cristiano, con il nome di
Cimiterium Generoses (Cœmeterium Generosæ in latino classico).
La Tomba dei Martiri ha oggi dimensioni apparentemente modeste: poco più grandi
della galleria che vi dà accesso. In realtà le due finte pareti in laterizio celano
nell’ampia superficie originaria i due ambienti segreti (cripte), destinati alle
sepolture dei martiri. Per la precisione, la finta parete di sinistra su cui poggia
l’affresco della Coronatio Martyrum celava le spoglie di Simplicio e Faustino,
deposte sulla soglia bisoma di cui abbiamo detto in precedenza. La parete di destra in
laterizi celava le spoglie di Beatrice, dei presbiteri Crispo e Giovanni e di un quarto
martire dalla biografia incerta: Rufiniano.
Facciamo ora pochi passi indietro e arretriamo fino alla nicchia ad arcosolio
chiamata Tomba di Generosa. Sebbene non vi sia l’evidenza storica che si tratti della
sepoltura della antica padrona della cava, l’ipotesi è generalmente condivisa, in
ragione della consuetudine di riservare gli arcosolii alla personalità più importante di
un complesso funerario. Alla base vi è della nicchia sotto l’arco ribassato si trova una
mensola in marmo, sopra la quale venivano deposte offerte e lumini ad olio. La
spalletta di destra è decorata a fresco con la raffigurazione del Buon Pastore, mentre
quella di sinistra presenta una Scena pastorale. Anche la parete frontale aveva in
antico decorazioni a fresco, oggi perdute: Abramo che immola il figlio Isacco e la
Misericordia del Signore per Isacco. Completava la decorazione la figuretta a fresco
di un Orante (anch’essa perduta) nella lunetta interna.
Le pitture sono state descritte per la prima volta da Giovan Battista De Rossi in «La
Roma sotterranea cristiana» del 1887, e studiate dagli archeologi tedeschi Wilpert e
Styger.
Il Buon Pastore
La spalletta di destra dell’Arcosolio di Generosa raffigura un giovane dalla corta
tunica, ornata con una doppia croce gammata (simbolo solare di origine orientale,
simile ad una moderna svastica, ma con tutt’altro significato); ha nella mano destra
un flauto di Pan (un flauto a canne di lunghezza diversa) e rivolge lo sguardo a due
pecore, una delle quali «solleva verso di lui il muso, quasi in atteggiamento di
ascolto» (Venditti). Una scritta didascalica oggi svanita riportava la parola «pastor»
(pastore).
Si tratta molto probabilmente di un riutilizzo - ottenuto mediante la sovrapittura delle
croci gammate e l’aggiunta dell’epigrafe didascalica - di un precedente affresco
ispirato al tema pagano di Orfeo. Orfeo è il cantore greco capace di ammansire le
belve feroci con la musica, che per amore della defunta Euridice si avventura
nell’Ade per cercarla e riportarla indietro, vincendo la paura con la musica. In un
contesto cristiano Orfeo diviene la rappresentazione simbolica dell’episodio
evangelico del Buon Pastore. «II Pastore è l’immagine di Cristo - scrive Venditti -,
buon pastore che ama e cura le pecore del suo gregge fino ad andare alla ricerca
della pecorella smarrita e, dopo averla ritrovata, la pone sulle sue spalle e la
riconduce all’ovile». Il flauto a canne ha «il significato allusivo della parola di Dio
che diviene musica dolce».
Anche la parete frontale presentava in origine decorazioni a fresco, oggi perdute. Si
trattava di una composizione in quattro scene, disposte sul fornice che corona
l’arcosolio. Di esse, due sono state danneggiate già in antico, mentre le altre sono
interpretate come Abramo che immola il figlio Isacco (in alto) e la Misericordia del
Signore per Isacco (in basso). La prima scenetta, sormontata dall’epigrafe
didascalica «Abraham», raffigura il patriarca nell’atto di sacrificare con una lama
affilata il suo unico figlio Isacco, in obbedienza al comando di Dio. La seconda
raffigura il montone che prende il posto di Isacco come offerta sacrificale: «Dio non
abbandona l’innocente nelle mani del carnefice ma al momento opportuno viene in
suo soccorso e lo salva, poiché è Signore misericordioso e giusto» (Venditti).
Una figuretta a fresco (oggi perduta) era presente anche nella lunetta della parete
interna dell’arcosolio e viene interpretata come un orante, cioè un uomo in piedi con
le braccia aperte in atto di preghiera.
La spalletta di sinistra si presentava invece, al momento della riscoperta nel 1868,
non più visibile a causa del muro di sostruzione grossolanamente realizzato nel 682
dai restauratori di Papa Leone II.
Riprendiamo adesso il percorso verso la Tomba dei Martiri, e segnaliamo, subito
dopo di essa, un tratto di galleria adibito dai restauratori a Tabularium, cioè un
deposito di lapidi marmoree provenienti dalla basilica di superficie.
Le gallerie
Dopo il Tabularium ci ritroviamo nel dedalo delle gallerie cimiteriali scavate nel
tufo. La loro superficie complessiva è stimata in 2600 mq. Esse disegnano
complessivamente, su un unico livello, un circuito, al termine del quale ci troveremo
nuovamente nella Tomba dei Martiri.
Gli incroci, le diramazioni e i gomiti sono contrassegnati da piccole nicchie profonde
pochi centimetri, che in antico ospitavano le lucerne. Attraverso deboli emissioni
luminose esse mostravano il percorso da seguire, come una sorta di segnaletica
interna. Inoltre, gli olii di combustione delle lucerne, aromatizzati con profumi,
mitigavano gli odori cimiteriali, non certo gradevoli.
Le gallerie nel complesso si presentano tutte piuttosto anguste e irregolari, prive di
aria, di luce e di acqua: nessuna di esse è quindi idonea a lunghe permanenze,
riunioni o assembramenti, come talvolta capita di vedere nei film. Le assemblee
eucaristiche si tenevano fuori dalle catacombe, nelle case dei credenti o nelle
«domus ecclesiæ», mentre la preghiera in catacomba aveva per lo più in forma di
raccoglimento individuale o in gruppi parentali, con lo scopo di suffragare le anime
dei defunti o venerare le spoglie dei Martiri, chiedendo intercessione e protezione. In
superficie si praticava anche il banchetto funebre (refrigerium o agape fraterna),
successivo al funerale o nelle ricorrenze annuali. Anche il luogo comune delle
catacombe che diventavano rifugio durante le persecuzioni è forzato, o comunque
raro.
I loculi sono posti orizzontalmente l’uno sopra l’altro, in tre o quattro ordini, o
eccezionalmente cinque. La loro densità è variabile: l’area a ridosso della tomba dei
Martiri si presenta satura, ma man mano che ci si allontana la densità diminuisce, e
nei settori periferici vi sono persino gallerie inutilizzate. I loculi hanno generalmente
la forma del corpo del defunto: sono scavati con maggior profondità nella parte del
torso, e sono più stretti verso gambe e piedi. I defunti non portavano con sé nel
loculo alcun corredo: niente moneta di Caronte, monile o altri oggetti utili per
l’aldilà. I corpi erano semplicemente avvolti in un sudario (un bianco telo di lino),
con la funzione di preservare l’unità del corpo in attesa della Resurrezione.
Esternamente i loculi erano chiusi con tegole (tavelloni di terracotta), legati fra di
loro con malta di calce.
Le epigrafi
La quasi totalità delle tegole non reca inciso il nome del defunto: «I senza nome sono
la stragrande maggioranza», osserva Venditti. Tanto gli abitanti dell’antica
Magliana non sapevano leggere, e soprattutto, per «i contadini della zona, cristiani
molto semplici e spesso poveri, era sufficiente riposare il più vicino possibile
accanto ai Martiri in attesa della resurrezione: qualsiasi ornamento esteriore
sarebbe stato superfluo». Segnaliamo una piccola lapide, collocata nella Camera
etrusca, che riporta al caso genitivo il nome della proprietaria «Viviane» (Vivianæ in
latino classico), ed un’altra lapide che sulla malta riporta il nome della defunta Paola,
salita a Dio nell’anno 372 d.C.
Tra le poche incisioni simboliche vanno ricordate quelle di una colomba che si leva
in volo, ed un’altra con una colomba con un ramo d’ulivo nel becco. Esse
rappresentano «l’anima innocente, liberata dal peso del corpo, che raggiunge la
pace di Dio». De Rossi segnala un paio di incisioni cruciformi, simbolo iconografico
piuttosto raro nelle catacombe poiché ancora associato al castigo per le condanne
capitali. Ben più frequente è il simbolo del chi-rho, dove le lettere greche chi (Χ) e
rho (Ρ) formano il monogramma di Kristos (Cristo). Al cristogramma si
accompagnano spesso le altre lettere alpha e omega (Α e Ω, prima e ultima
dell’alfabeto greco), ad evocare il motto evangelico «Cristo, redentore e salvatore è
il principio e la fine» (San Giovanni). Altre epigrafi, annotate da De Rossi, riportano
i seguenti contenuti: «Dio è tutto», «Sei nella pace», «Vivrai». De Rossi segnala, in
una specifica galleria, la presenza di epigrafi in lingua greca, purtroppo non
facilmente interpretabili. L’ipotesi è che si tratti di appartenenti alla comunità
bizantina di Roma (grecofona), venuta a Roma al seguito del generale Belisario.
L’esigenza pratica di riconoscere tra tante tombe anonime quella di un proprio
congiunto è assolta però dai c.d. graffiti mnemonici, incisi sui tavelloni o sulla malta
fresca. Si tratta di frequenti combinazioni di asticelle, disegni geometrici e piccoli
cerchi, ricavati incidendo con una canna la malta ancora fresca, o ancora pigiando
sassolini nella malta non indurita. Il cimitero sotterraneo si presenta quindi nel
complesso «povero di reperti archeologici, ma ricchissimo di penetrante eloquenza,
capace di trasmettere l’universale messaggio della fede» (Venditti).
Le altre gallerie
La percorrenza in galleria, dopo una serie di curve, ci porta alle spalle della Tomba
dei Martiri, in una galleria cieca che prende il nome di Cimitero degli Infanti. La
caratteristica di questo settore è la presenza di tombe di piccolissime dimensioni,
riservate alla sepoltura dei più piccoli. Scrive Venditti: «La vicinanza, anche fisica,
dei corpi dei piccoli defunti con il sepolcro dei Santi rivela il valore che gli antichi
attribuivano all’innocenza, tanto da avvicinarla idealmente alla santità di coloro che
avevano testimoniato la fede fino a morire per essa». Il numero di loculi degli
infanti, in rapporto al numero complessivo di sepolture, è elevatissimo, a
testimoniare il dato di una forte mortalità infantile.
Ritornati in galleria, la percorrenza prosegue, diramandosi spesso in diverticoli
laterali, che si replicano uguali a se stessi. Taluni di essi sono ciechi, con termine
nella roccia nuda, o in pareti di sostruzione in laterizio, e chiusura di antiche frane. In
particolare due frane sono ancora oggi ben evidenti: quella nella Galleria dei
Francesi, la più lunga dell’intero cimitero, che ha ceduto in prossimità delle cantine
di un vicino condominio, e la Galleria della Camera etrusca, dove la frana avvenuta
già in antico ha interrotto un importante tratto che raggiungeva il cuore della collina,
alle spalle dell’Oratorio Damasiano, e ne usciva presso l’attuale Parco Gioia (dove è
riconoscibile il terminale d’ingresso).
Da notare infine che le ultime diramazioni sono sprovviste di loculi. Vi era stata, nel
382 d.C., la promulgazione degli editti antipagani: si trattava di un complesso di
norme che rendono legale la sepoltura in superficie, e segnano, di fatto, la fine delle
funzioni cimiteriali della catacomba, e l’inizio di una sua seconda vita.
La Basilica di Papa Damaso
Nell’anno 382 viene abolita l’immunitas, cioè quell’antico istituto del diritto romano
che - in epoca di cristianesimo trionfante - garantiva comunque l’inviolabilità dei
luoghi consacrati alla religione tradizionale. Questo cambio di leggi investe anche il
Lucus Fratrum Arvalium, dove dall’oggi al domani diventa possibile l’abbattimento
degli alberi sacri alla Dea Dia, e l’edificazione di volumi fuori terra.
La basilica di superficie viene realizzata nel 382, da Papa Damaso (366-384). I suoi
architetti operano un ingente sbancamento nella collina e innalzano sopra le
catacombe una costruzione a pianta basilicale. L’impianto è del tipo ad corpus, cioè
con l’altare allineato al di sopra del santo corpo dei Martiri, sopra la loro tomba.
Questo comporta una serie di interventi strutturali sulle fragili volte delle catacombe,
per renderle idonee a sopportare il peso dell’edificato fuori terra. La Spelonca magna
viene rinforzata con poderose mura di sostruzione, fino ad assumere l’aspetto
odierno di galleria a volte bottate sorrette da arcate in laterizio. La Tomba dei Martiri
viene ristretta: le due pareti di sostruzione in posizione mediana lasciano al centro il
semplice camminamento che vediamo ancora oggi, mentre i due settori laterali si
chiudono a formare altrettante stanze segrete per la custodia delle venerate spoglie.
In superficie, nell’abside della nuova basilica, viene creato il nuovo ingresso. Si
tratta di una piccola porta, che prende il nome di «Introitus ad Martyres. Accanto
all’Introitus viene realizzata la «fenestella confessionis», cioè la finestrella della
confessione, dove il genitivo «confessionis» deriva dall’appellativo di confessori
della fede con cui erano chiamati i primi martiri. «Si trattava di una piccola finestra
chiusa da una grata - scrive Venditti -, che consentiva ai fedeli riuniti nella basilica
di stabilire un contatto visivo con la cripta martiriale, e di calare all’interno dei
piccoli pezzi di stoffa legati con una cordicella: essi diventano reliquie per contatto».
La nuova conformazione edilizia, insomma, segna il passaggio funzionale da
cimitero locale a santuario per la venerazione dei Martiri, per i pellegrini provenienti
da tutta la comunità imperiale. Se si escludono i santuari nelle località portuali di
Porto e Ostia, la Basilica Damasiana è il primo santuario che si incontra in
avvicinamento a Roma. Ma il momento di splendore è destinato a durare poco: meno
di trent’anni. Tre decenni dopo le campagne intorno a Roma si faranno insicure: le
tribù gotiche cominceranno a calare dal nord, portando con sé morte, saccheggi e
carestia.
La Coronatio Martyrum
Il barbarico condottiero Alarico assedia Roma in tre anni di fila: 408, 409 e 410. Il
Territorio Portuense non viene neppure lambito, ma il Sacco di Roma del 24 agosto
410 viene percepito dalla società romana intera come una cesura epocale, un evento
millenaristico. Sant’Agostino nel De civitate Dei non ha dubbi nell’interpretare la
Caduta di Roma come un chiaro segnale della imminente Fine dei tempi.
In questo clima da finimondo si colloca nella nostra catacomba l’affresco della
Coronatio Martyrum. Il tema dell’affresco è una visione apocalittica, cioè uno
sguardo su un futuro prossimo in cui Cristo giudice tornerà sulla terra per giudicare i
vivi e i morti. E «i santi marceranno», come dice un moderno canto spiritual. In quel
giorno, assicura l’ignoto autore dell’affresco, anche i santi titolari della catacomba di
Generosa marceranno al fianco del Redentore, e da lui riceveranno la corona del
martirio, cioè il premio finale della vita eterna.
Anche dal punto di vista stilistico siamo su un punto di cesura: tra la fine dell’arte
tradizionale romana e l’inizio di quella bizantina, in un contesto dove convivono le
regole della pittura figurativa latina (con i tratti dei volti del tutto realistici) e «la
ricca tonalità di colori, il portamento composto ed elegante, i nomi scritti
verticalmente, le aureole che ornano il capo», già tipici dell’arte bizantina (Venditti).
L’affresco è realizzato su una base intonacata, sulla parete di sostruzione di sinistra
nella Tomba dei Martiri (1,50 × 2 m). Rappresenta frontalmente, in sequenza da
sinistra verso destra, Beatrice, Simplicio, Cristo, Faustino e Rufiniano: impiedi,
nell’atteggiamento di marciare, seguiti idealmente dalle schiere dei giusti di tutti i
luoghi e tutti i tempi.
Il Cristo giudice è la figura centrale e chiave di lettura di tutto il dipinto. Il suo volto
«di regale bellezza è ornato da una breve gentile barba; i lineamenti hanno
espressione severa e dolce nel contempo» (Venditti). Dietro il capo un’aureola
circoscrive una croce: pare che si tratti della più antica rappresentazione di un nimbo
crociato (aureola + croce) mai documentata, perché, come detto, la croce non era tra
i simboli più graditi ai cristiani delle origini. Il Redentore indossa abiti porpora: con
la mano sinistra sostiene il Libro della Vita e con l’altra benedice. È stato osservato
che la benedizione è impartita alla bizantina, con indice, medio e mignolo sollevati.
Il gesto simbolico (che nelle tre dita evoca la Trinità di Dio) è interpretabile solo alla
luce dell’attualità del tempo, e della cosiddetta polemica ariana. Le tribù gotiche si
erano anch’esse cristianizzate, abbandonando il paganesimo, ma professavano per lo
più il monofisismo, dottrina ereticale che negava le tre nature di Dio: per essi, ha
voluto rimarcare l’autore dell’affresco, l’inferno è certo; invece per i devoti
pellegrini che visitano le catacombe il paradiso è a portata di mano.
A fianco del Cristo giudice marciano Simplicio e Faustino, con il capo circondato da
un nimbo dorato. Essi sono «imberbi e palesano dai lineamenti serena bontà e
dignità nel portamento». Vestono con una tunica bianca, proprio come preannuncia
l’Apocalisse di San Giovanni: «Chi sarà vincitore sarà vestito di bianco. E non
cancellerò mai più il suo nome dal Libro della Vita». Anche Beatrice, posta sulla
sinistra, indossa una tunica bianca, con la sola concessione estetica di una listatura
porpora e una dalmatica azzurra sulle spalle. Beatrice porta la tipica elegante
capigliatura in cercine delle donne romane, una collana di preziosi diademi e due
grandi orecchini aurei. Tutte e tre le figure portano nella mano sinistra una corona di
pietre preziose. Il riferimento è ancora una volta a San Giovanni: «Sii fedele fino alla
morte e riceverai la corona».
Sulla destra si colloca infine l’enigmatica figura di Rufiniano: Sanctus Rufinianus,
recita l’epigrafe. Anch’egli ha in mano la corona e indossa la bianca tunica: si tratta
quindi sicuramente di un martire, sebbene la Chiesa non lo annoveri come santo
ufficiale. A differenza dei tre fratelli, Rufiniano indossa sulle spalle una «clamis
coccinea», la clamide rossa che ne denota la professione terrena di militare. L’ipotesi
per lo più condivisa è che Rufiniano sia stato il soldato carnefice di Simplicio e
Faustino e, convertitosi, sia finito martire a sua volta: «Il sangue dei martiri genera
nuovi martiri».
La decadenza
Il mondo non era finito. Ma agli inizi del VI sec., Roma, immiserita e ammantata di
paura, si presenta come una città fantasma di appena 50.000 abitanti quando un’altra
tribù barbarica, gli Ostrogoti, torna ad assediarla. Il generale Vitige, per un anno
intero fra il 537 e il 538, con un esercito di 30.000 uomini attacca le 5 mila unità del
generale bizantino Belisario, che fortunosamente riesce a tenerli fuori dalle Mura
Aureliane. Gli Ostrogoti controllano tutta la riva destra del Tevere fino al mare, e la
convivenza con la popolazione portuense non dev’essere stata affatto facile.
Una nuova ondata di assedi, la terza, investe invece direttamente le Catacombe. Sono
ancora gli Ostrogoti: il loro re Totila pone nel 546 il suo accampamento in località
Campo Merlo, ad appena 2 km dalle catacombe. In questa circostanza dev’essere
avvenuta la prima traslazione delle reliquie dei Martiri verso un luogo sicuro: ne
riferisce incidentalmente un’epigrafe che vedremo a breve. Per fortuna, dopo i primi
successi di Totila, Belisario torna a Roma e ribalta le sorti. Totila torna ad assediare
Roma a più riprese fino al 553, quando il bizantino Narsete riporta la vittoria finale.
Papa Vigilio (537-555) può così tornare ad indossare le vesti di patrono civico di
Roma, ed esegue alcuni restauri sui luoghi che più avevano patito dalle scorribande
gotiche. Dei suoi interventi alle Catacombe rimane traccia in un’epigrafe marmorea
che in latino recita: «In questa galleria vedrai i corpi dei Santi Fratelli. E saprai, con
infinito dolore, che essi colsero il più bel frutto della vita, pagandolo col sangue.
[…] Da qui, o pellegrino, inizia la visita ai Santi che l’empia tribù gotica - orribile a
dirsi - scacciò dalle loro tombe». La lapide è purtroppo andata perduta.
Il mondo, dunque, non era finito; ma la millenaria storia di Roma quella fatalmente
sì. Il paesello di Roma sopravvive chiudendosi a riccio dentro le Mura. Riporta il
Liber Pontificalis che Papa Leone II (682-683) ordina come misura emergenziale di
evacuare tutti i santuari delle campagne intorno a Roma, portando le reliquie in essi
contenute «intra muros», cioè nelle chiese dentro le Mura.
In quell’occasione Leone II fa praticare un frettoloso foro alla base dell’affresco
Coronatio Martyrum, nella parete che cela le sepolture di Simplicio e Faustino.
Vuole l’aneddoto che quando, nel 1868, l’archeologo De Rossi riscoprì le
catacombe, si trovò di fronte al foro di Leone II ancora aperto. Probabilmente,
contemporaneamente al foro sulla parete di sinistra, le sue maestranze ne stavano
eseguendo un altro nella parete di destra, alla ricerca delle spoglie di Beatrice e
Rufiniano. Qualcosa però dev’essere andato storto, al punto che i manovali edificano
in fretta e furia una parete di rinforzo sulla destra, e un’altra sulla spalla sinistra della
Tomba di Generosa, temendo imminenti crolli. Questo frettoloso e maldestro
intervento è anche l’ultimo eseguito in Antico. Non risulta che le catacombe siano
state aperte per i successivi 1200 anni.
Le reliquie dei Martiri Portuensi finiscono nel 682 nella chiesa di Santa Bibiana
all’Esquilino, e di lì iniziano un turbinoso tour che le disperderà nei santuari di
mezza Europa.
La riscoperta
La riscoperta intellettuale delle catacombe romane avviene nel XVI-XVII sec.:
l’umanista Antonio Bosio nel 1600 scrive «Roma sotterranea», e San Filippo Neri
ripristina l’usanza dei pellegrinaggi alle tombe dei Martiri. Gli studi scientifici
iniziano nell’Ottocento, sotto il pontificato di Papa Pio IX e con l’impulso
dell’archeologo Giovan Battista De Rossi. È proprio De Rossi, nel 1868, che riscopre
le Catacombe di Generosa (per le modalità della fortunosa riscoperta: cfr.
monografia sulla Basilica Damasiana).
Una volta disceso in galleria, De Rossi si rende subito conto della pessima situazione
statica delle volte, rimasta invariata dai tempi dei Leone II e forse anche peggiorata.
De Rossi svolge un’operazione di grande audacia, avendo individuato il punto
debole delle catacombe nelle pareti di sostruzione nella Tomba dei Martiri,
insufficienti a sostenere il peso della Basilica Damasiana. Fa fare da un acquerellista
una copia della Coronatio Martyrum, e ne ordina il distacco dalla parete di
sostruzione, su cui intende intervenire. Il distacco danneggia l’affresco (tutta la parte
bassa viene perduta) ma l’affresco viene portato all’esterno e i restauratori di De
Rossi possono finalmente trasformare la parete in laterizi in un vero e proprio
pilastro, mettendo le volte e la basilica sovrastante in sicurezza. Subito dopo
l’affresco viene ricollocato al suo posto.
A questo primo intervento provvisionale di De Rossi segue il vero e proprio restauro,
avvenuto nel 1901 sotto la direzione dell’archeologo Marucchi, su commessa di
monsignor Crostarosa, segretario della Pontificia Commissione di Archeologia
Sacra. In particolare, all’ingegnere strutturista Bevignani si debbono i moderni
calcoli di portanza che hanno portato a rimuovere i vari muri di sostruzione che si
erano succeduti nel tempo con moderne pareti-pilastro. Del passaggio di Bevignani e
Crostarosa rimane traccia in due iscrizioni a matita, lasciate su alcuni tavelloni in
terracotta, recanti i rispettivi nomi. Poco distanti compaiono anche i nomi
dell’archeologo tedesco Kirsch e dello studioso Wilpert. Quella di Kirsch recita:
«Joh. Pet. Kirsch hoc sacrum coemeterium visitavit». Un’ultima epigrafe a matita,
anonima, recita: «Omnes Sancti Martyres, orate pro nobis».
Nel 1936 si svolge un secondo restauro, sotto la direzione dell’archeologo Enrico
Josi, ispettore della PCAS. Anche in questo restauro il ruolo degli ingegneri è
fondamentale, e per la prima volta vengono posizionate nelle volte delle moderne
putrelle, perni e travi in acciaio, che hanno messo definitivamente in salvo la
millenaria catacomba. I nuovi interventi permettono la rimozione di altri vecchi muri
di sostruzione, in particolare del muro sulla spalletta di sinistra dell’Arcosolio di
Generosa. Qui emerge il grazioso affresco della Scena pastorale, dove in un
paesaggio campestre, tre pecore e un agnello si dirigono beate verso l’ovile.
Saints Martyrs, protégez ma mère…
Nel 1944 due giovani soldati francesi visitano le catacombe. Si tratta del sergente
maggiore Gabriel Courrier e del suo compagno d’armi Paul Teyssier, giunti a Roma
con il loro contingente di paracadutisti. «L’accampamento - scrive Venditti - si
trovava al Castello della Magliana, requisito dalle truppe tedesche durante
l’Occupazione e da quelle alleate dopo la Liberazione». Il 17 luglio 1944 essi si
raccolgono in preghiera nelle catacombe e scrivono i loro nomi su una tegola. Paul
Teyssier, in un riquadro di piccole dimensioni, incide il monogramma AM (Ave
Maria) e un lis-de-France (emblema della nazione francese), preceduti
dall’invocazione AMDG (Ad maiorem Dei gloriam), e scrive questa toccante
invocazione: «Saints Martyrs, protégez ma mère» (Santi Martiri, proteggete mia
madre). Paul Teyssier sa che il suo contingente sarà impiegato di lì a poco per la fase
finale e più sanguinosa della Seconda guerra mondiale: lo sbarco in Normandia.
Scrive Venditti: «Si seppe poi che la missione di guerra finì tragicamente, con
l’annientamento di quasi tutta la compagnia. Fu un’ecatombe. Toccante è
l’invocazione, quasi un piccolo testamento spirituale, di quel giovane militare che
inconsapevole dell’imminente dramma, raccomanda ai Santi Martiri di questa
catacomba la sua mamma lontana».
Sempre a Venditti dobbiamo la cronaca di un altro episodio, avvenuto nel giugno
1970. Nottetempo ignoti profanatori irrompono nella catacomba, razziando 58 loculi
e tentando di rubare l’affresco della Coronatio Martyrum, che ne rimane
danneggiato. «L’aspetto più triste è stato constatare l’incivile e disgustoso
comportamento dei ladri, che, penetrati attraverso un foro dell’abside, profanarono
moltissime tombe, alla meschina e vana ricerca di preziosi od oggetti di qualche
valore da asportare». Meschina, e vana, sottolinea duramente Venditti: «Oltre al
gesto sacrilego, essi hanno subito la beffa di aver lavorato inutilmente, e non aver
trovato assolutamente nulla tra quelle ossa. Perché i cristiani non lasciavano alcun
oggetto nella sepoltura né sul corpo del defunto. Ladri meschini, quindi, ed anche
ignoranti». Racconta ancora Venditti: «Il vandalico atto ha ridotto questo pregevole
dipinto ad una triste e sbiadita scena. Tentando di strappare dalla parete i colori
con una tecnica imperfetta, i vili profanatori hanno irreparabilmente distrutto questa
preziosa memoria, giunta fino a noi dopo tanti secoli».
Il foro praticato nell’abside è stato oggi richiuso con un tappo in cemento armato. E,
all’interno delle catacombe, è stata realizzata dalla PCAS un’ulteriore parete in
mattoni a rinforzo, come ricorda una lastrina marmorea posta in quel punto. Nel
1983 l’affresco è stato restaurato dalla PCAS, reintegrando le parti danneggiate. Nel
1997 un secondo intervento di restauro, ispirato alla sensibilità attuale ed eseguito in
laboratorio, ha rimosso le sovra pitture del 1983, permettendoci oggi di ammirare
l’affresco, sebbene mutilo, nei suoi colori originari. Alcuni interventi di restauro
sono stati nuovamente eseguiti nel 2013.