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Quaderno di
OMUNICazione
del Corso di Laurea
Interfacoltà in Scienze della Comunicazione
dell’Università di Lecce
anno accademico 2001-2002
Manni
© 2003 Piero Manni s.r.l. - Via Umberto I, 51 - 73016
S. Cesario di Lecce - [email protected]
Indice
MEZZOGIORNO DI RADIO. CENTO ANNI DI STORIA/E
Stampato col contributo
del Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali
dell’Università di Lecce
Un bilancio provvisorio
13 Cento anni, e non li dimostra di Angelo Semeraro
19 La radio, fonte storica di Giovanni De Luna
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RADIO E STORIA. IL MEZZOGIORNO
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La voce dell’Italia libera di Michele Campione
Radio Bari 1943-1944 di Vito Antonio Leuzzi
Radio Napoli di Antonio Ghirelli
Radio Palermo, un avamposto di libertà di Franco Nicastro
Da Radio Sardegna al radiodramma di Antonio Santoni Rugiu
Radio e mezzogiorno nelle strategie confindustriali degli anni
Cinquanta di Anna Lucia Denitto
LINGUAGGI & SOCIETÀ
La radio modello di lingua? Che cosa ne pensano i giovani,
all’inizio del 2000 di Alberto A. Sobrero
92 La pronuncia alla radio nel periodo fascista di Sergio Raffaelli
102 Radio e letteratura: momenti di un (contrastato) rapporto
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di Antonio Lucio Giannone
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Lettura, ascolto, visione: radio e media system di Mario Proto
Vocazioni culturali, vocazioni di consumo. Radio locali, syndication
e identità culturali giovanili di Daniele Pitteri
RADIO IN RETE
Radionet di Gianluca Nicoletti
139 Lavorare alla radio di Alessandra Scaglioni
146 La terza generazione di Enrico Menduni
152 Glocal medium di Michele Sorice
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Le foto sono tratte dal catalogo Sulle onde della radio 1895-1995
del Comune di Tuglie - Assessorato alla cultura, a cura di Luigi Scorrano.
Quaderno di COMUNICazione
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INTERVENTI
Radio & Regioni di Antonio Bottiglieri
Radio & Università di Stefano Cristante
171 Web & Radio di Enrico Fedi
177 Dalla parte dell’ascoltatore di Alberto Abruzzese
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Mezzogiorno di radio.
Cento anni di storia/e
BIBLIORADIO
Schede a cura di Giovanni Fiorentino
COMUNICARE LE INFANZIE
Osservatorio
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Infanzie di carta. Indagine sull’immaginario dei media a stampa
di Loredana De Vitis
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Play, sul videogioco di Giovanni Fiorentino
IL CORSO DI LAUREA DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE A LECCE
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Identikit
Quaderno di COMUNICazione
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un bilancio
provvisorio
Quando nel 1895, un anno medialmente importante,
la radio nasce, assieme al cinema e al fumetto, è semplicemente telegrafo senza fili, radiotelegrafia. La radio
generalista, quella musica e parole, arriva negli anni
Venti: da un lato l’apparato che emette il segnale, dall’altro gli apparecchi nei salotti, scatole per ricevere
suoni che si moltiplicano tra le due guerre, propagando
radio days e serate familiari in casa intorno al nuovo elettrodomestico. Poi ci saranno le arringhe alle masse,
l’informazione di guerra con Radio Londra, la concorrenza della tv e il flusso sonoro del rock, le radio libere degli anni
Settanta, lo spazio individuale e il primo medium elettronico personale, miniaturizzato ed economico, la radiolina a transistor mobile
e trasportabile. Oggi in Italia circa 1400 stazioni radiofoniche rappresentano un universo in movimento; nel mondo 2000 emittenti
trasmettono via Web e, celebrazioni a parte, in Internet puoi anche
recuperare il fantasma della voce di Guglielmo Marconi –pacata,
accento inglese e inflessioni bolognesi– mentre spiega l’invenzione
nella sua casa laboratorio galleggiante, il panfilo Elettra, in viaggio
tra l’Italia e il mondo.
Difficile catalogare il medium radio, difficile ingabbiare un mezzo
di comunicazione prima generalista poi marginale, ora personale e
glocale, singolarmente accostabile alla fotografia nelle possibilità di
rigenerarsi, nel suo essere slegato dalla materia, quindi interstiziale,
e ancora pervasivo nella capacità di essere in qualsiasi ambiente. Lo
spazio storico, l’asse diacronico e il rapporto con un territorio specifico –per noi evidentemente il Mezzogiorno italiano– possono diventare
chiavi potenti di lettura per il presente della radio, cartina al tornasole, luoghi di partenza per ragionare sui destini di un evoluzione centenaria, per dialogare con le più recenti prove di sistematizzazione
scientifica, per stabilire connessioni con la natura evocativa di un linguaggio diegetico che, nella privazione d’immagini, è solito privilegiare gli spazi rarefatti dell’ascolto e della costruzione immaginaria.
Dunque la memoria orale, personale, biografica, quei brandelli
di storia/e mai fissati da qualsiasi mezzo di comunicazione. La radio fonte storica, inesplorata, se vogliamo quella della centralità
Mezzogiorno di radio
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Quaderno di COMUNICazione
Mezzogiorno di radio
in quello vivo e radicato nei consumi giovanili del presente (Daniele
Pitteri), rappresentato dalla proliferazione indiscriminata di emittenti
che trasmettono in Internet, spesso legate a territori, talvolta geografici, più spesso risposta a sensibilità specifiche che si ritrovano in
comunità identitarie e nicchie di utenza. La radio in costante dialogo
con l’intera produzione mediale, si ri-media, è Webradio delle connessioni (Enrico Fedi), è quella sinteticamente esplicata dal termine
glocal, come scrive Michele Sorice, in grado quindi di conciliare la dimensione globale con l’identità e le realtà locali. Una ragione in più
perché se ne dovesse discutere in un corso di studi di Scienze della
comunicazione, che ha posto al centro fin dal suo nascere, a Lecce,
una riflessione sul glocale rivelatasi nel tempo lungimirante.
La radio raccontata, nel suo complesso farsi (Alessandra Scaglioni), può essere anche quella proposta da Rainet, quella ad esempio di un autore radiofonico come Gianluca Nicoletti (Golem)
che da sempre lavora alla ibridazione dei linguaggi e alla sperimentazione, costruendo un mondo sonoro che fa a meno di qualsiasi supporto fisico e si propaga smaterializzandosi, definendosi
per distanza dal mondo delle immagini, e stabilendo nuove connessioni triangolari tra Internet, radio e telefonino cellulare.
Del resto il mezzo di comunicazione che emerge dagli studi sistematici e recenti di Enrico Menduni, caratterizza sempre più distintamente la sfera emotiva della nostra società, la dimensione
sonora, semplicemente e efficacemente musicale, quella che connette identità locali e sensibilità collettive, una sorta di radio “meridiana”, se si passa il termine, destinata a climatizzare e offrire
una colonna sonora che parla il linguaggio della differenza e delle
emozioni, è voce del corpo per il corpo, che si relaziona e interagisce intimamente con l’intelligenza personale ed emotiva di ognuno
di noi. È una radio che caratterizza sempre più distintamente la
sfera emotiva della nostra società, che ci accompagna nelle ventiquattrore quotidiane, strumento di informazione in tempo reale e
contenitore soffice di una nuova oralità, davanti lo specchio o nell’abitacolo dell’automobile, è la radio del Sud, o se si vuole quella
dell’Oriente, destinata a climatizzare e offrire una colonna sonora
differenziale, emozionale, all’intero Occidente. E con questo si ritorna alla territorializzazione di un medium efficacemente problematizzata nelle conclusioni di Alberto Abruzzese.
È possibile allora che la radio dei flussi sonori, da tempo cucita
Quaderno di COMUNICazione
Mezzogiorno di radio
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generalista tra le due guerre, fonte di registrazione di un immaginario ampiamente omologato e controllato imposto dai regimi, ma
non solo, come precisa metodologicamente lo storico Giovanni De
Luna, o come riscontra Lucia Denitto nella sua indagine ai margini
dei consumi radiofonici nel Mezzogiorno dei primi anni Cinquanta.
La radio gioca con una dimensione del tempo non propriamente lineare, ha a che fare con gli accidenti del ricordo e della memoria,
spesso e semplicemente affidati all’unicità della testimonianza. Da
qui riparte questa raccolta di contributi, dal sovrapporsi delle storie
con la storia, dal fissare la voce preziosa, e volatile, dell’informazione radiofonica dell’Italia liberata, della propaganda antifascista e
antinazista, di un’esperienza diretta che vede protagonista l’entusiasmo di giovani intellettuali a turno improvvisati giornalisti, radiocronisti, registi. Le prime improbabili trasmissioni per le frequenze
di Radio Bari (Vito Leuzzi e Michele Campione), di Radio Napoli (Antonio Ghirelli), di Radio Sardegna, nella memoria di Antonio Santoni
Rugiu, legate direttamente al supporto logistico, culturale e comunicativo delle truppe americane, non solo guerriglia controinformativa, ma anche laboratorio sperimentale e creativo, propedeutico
tra l’altro agli sviluppi dell’industria culturale del dopoguerra. Evidentemente diversa è la perizia della ricerca messa in gioco nella
ricostruzione storica di Franco Nicastro intorno alla programmazione di Radio Palermo.
Radio della parola e del legame privilegiato con il testo scritto,
almeno per lungo tempo e in molti casi, nello sviluppo storico e nelle chiavi di interpretazioni offerte da diversi percorsi di lettura. Nell’analisi dei linguaggi radiofonici, nel loro evolversi connesso a un
mezzo in continuo divenire, alla ricerca costante di nuove corrispondenze territoriali (Antonio Bottiglieri), Sergio Raffaelli ha esplorato
la sua funzione “normativa” durante il ventennio fascista; Lucio
Giannone ha ricostruito le alterne vicende che hanno coniugato letteratura, scrittori e radiofonia in Italia; Mario Proto ha interrogato i
classici dell’analisi sociologica, rintracciando una possibile frattura
del sentire e del fare radio, una sorta di incrinazione del modello testuale, a favore di una nuova e diversa oralità. Il transito al presente
e al passato più recente, lascia emergere un medium incredibilmente mobile e interattivo, linguaggi, costumi, usi completamente
trasformati, linguistici e generazionali (Alberto Sobrero).
Il mezzo di comunicazione generalista dei salotti si è trasformato
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Radioricevitore
ANSALDO LORENZ
mod. SRI-44, 1928
Quaderno di COMUNICazione
La prima è legata a una ricorrenza che non poteva
passare inosservata in un corso di studi di comunicazione che è entrato nel terzo anno di vita di una laurea triennale. Dalla radio a galena a quella digitale vi
sono poco più di cento anni di storia nazionale. Cento
e più anni in cui essa ha accresciuto il suo fascino,
guadagnandosi un ruolo straordinario nel panorama
dei media di massa e della cultura del Novecento.
Sono oltre 35 milioni gli italiani che ogni giorno ascoltano radio. In casa, in auto, in ufficio essa è diventata una compagna di sfondo delle nostre attività, la
“colonna musicale” del nostro vivere quotidiano. Una
compagna fedele, se è vero che difficilmente tradiamo il canale preferito e di esso facciamo il nostro
“tamburo tribale”, per dirla con McLuhan: l’interfaccia tra il nostro privato e la sfera dei rapporti pubblici.
Non vi è dubbio che questo medium, di voci e di suoni, “parli in
altro modo alla nostra mente, stimolando interazioni che gli altri
media non chiedono”, come ha scritto Menduni. Suono e voce hanno
maggiore potere di astrazione rispetto alle immagini; sollecitano più
immediatamente la nostra intelligenza emotiva, una delle sette intelligenze gardneriane, la più sviluppata forse nelle fasce giovanili.
L’amore per le onde hertziane è in crescita soprattutto tra i giovani. La radio dà voce e offre ascolto a un mondo sonoro e musicale che maggiormente li attrae, facendone i primi e più esigenti
consumatori. La generazione visiva, quella allevata dalla tv, ne è
oggi la più forte consumatrice. Possiamo avanzare l’ipotesi che
una saturazione e crescente disaffezione al piccolo schermo stia
spostando un’intera fascia generazionale sul più versatile tra i
mezzi di comunicazione, aperto a tutte le contaminazioni e interferenze con i nuovi e nuovissimi media.
Non saprei dire se con l’ipotesi di una nuova dominanza dell’orec-
Quaderno di COMUNICazione
Mezzogiorno di radio
Mezzogiorno di radio
G. F.
Alcune buone ragioni giustificano la scelta di un convegno (e di questo fascicolo) dedicato alla radio, nella
sua formulazione di “Mezzogiorno di radio. Storia/e”.
angelo semeraro
cento anni, e non li dimostra
sulla pelle del disagio giovanile, lasci ipotizzare un vagheggiato e ideale campus radiofonico universitario (Stefano Cristante). Il che evidentemente –e lo rilevano tanto Angelo Semeraro nella sua introduzione che Alberto Abruzzese nelle sue conclusioni– non è solo
pura provocazione da convegno di studi, rientra nell’ordine del pensare in quanto soggetti della dimensione radiofonica, parlare da
protagonisti, progettare avventure da compiere più che da raccontare. È parte di un rilancio che mira ad affrontare un più generale
problema formativo dell’Università italiana e, nel particolare, dei
corsi di Scienze della Comunicazione che, anche nel Mezzogiorno,
si sono moltiplicati.
L’esperienza avviata da Menduni a Siena, in tal senso segna la
strada. Creare ambienti radiofonici negli spazi universitari dei futuri comunicatori è una modalità già praticata, oltre che ipotizzata. In
definitiva e più semplicemente risponde alla necessità di creare
quella dimensione relazionale intensa, da punto a punto, che è sostanza e dimensione indispensabile della formazione e che permette di coniugare le intelligenze multiple dell’apprendere con le
sfere altrettanto molteplici e potenti della comunicazione.
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Mezzogiorno di radio
ragioni del successo del mezzo radiofonico: un medium in grado di
soddisfare gusti ed esigenze di fasce diverse di popolazione. Quante Italie la radio ha saputo rappresentare in poco più di un secolo,
a quante ha saputo dar voce: l’Italia del melodramma, dell’opera
lirica, della canzone e della musica pop; l’Italia calcistica, religiosa; letteraria; l’Italia degli emigrati, delle differenze regionali, e
tante altre ancora.
So di accennare a una questione su cui difficilmente possiamo
incontrarci tutti. Tra gli studiosi della società vi è sempre stata divisione tra coloro che privilegiano la struttura e coloro che si sono
concentrati sugli agenti delle trasformazioni sociali. E tuttavia, pur
rimanendo strettamente aderenti alla struttura, non possiamo dimenticare che tutta la letteratura dell’Evo di mezzo fu prodotta per
un pubblico di ascoltatori, non certo di lettori. Un buon ascolto veicola sempre al testo, alle biblioteche (e alle librerie).
Rispetto agli altri media la radio, che McLuhan annoverava al
pari del cinema tra i media “caldi”, fa differenza, perché agisce direttamente sull’intelligenza emotiva, quella su cui continuiamo a
saperne poco, ma la più ancestrale, la più utile a sviluppare relazioni, empatia, cooperazione, premura per l’altro, problem solving,
poiesi creativa. Un’intelligenza non solo giovanile, ma generale, di
ogni età e condizione sociale.
Il flusso di emozioni evocato dalla sonorità vocale è una delle
Abbiamo voluto rendere possibile un incontro tra i testimoni
delle prime emittenti dell’Italia liberata, riaprendo così una pagina
di storia nazionale che può avvalersi oggi di nuovi arricchimenti.
A Palermo il 6 agosto erano cominciate le trasmissioni di carattere prevalentemente militari e le stazioni liberate dell’EIAR di Bari,
Napoli e Cagliari rassicuravano gli italiani sulle intenzioni degli alleati. Nei mesi successivi all’8 setembre. del 1943, quando gli italiani appresero da Radio Londra della firma dell’armistizio di Badoglio, la radio funse da catalizzatore di sforzi per la riconquista della
libertà: fu la prima voce sonora della democrazia riconquistata.
Questo momento ricostruiscono gli amici di Bari, intrecciando le loro testimonianze con quelle dei testimoni di radio Napoli (Ghirelli),
radio Palermo (Nicastro), radio Sardegna (Santoni Rugiu).
Gli italiani avrebbero avuto modo di accorgersi subito del mutamento del linguaggio e della struttura dei notiziari, nonostante si
trattasse di informare un paese occupato militarmente. Da quella
Quaderno di COMUNICazione
Sui vantaggi evolutivi e semiotici della vocalità e della sonorità,
punti di forza del broadcasting radiofonico hanno riflettuto in questi anni da prospettive diverse linguisti e sociologi della comunicazione e dei nuovi media. Si tratta di studiosi tutti felicemente attivi,
alcuni dei quali hanno già avuto modo di incontrarsi nei tanti convegni che il centenario della scoperta di Marconi ha provocato. Essi forniscono anche in queste pagine ulteriori spiegazioni sulle
cause del suo filing inarrestabile e ne affrontano da più angolazioni gli aspetti ibridativi; il suo rapporto con le avanguardie artistiche; gli aspetti commerciali, industriali, e le prospettive del fare
radio oggi.
C’è tuttavia una particolare cifra identificativa di questo nuovo
appuntamento proposto da una sede universitaria del Sud, che
vuol tentare un possibile intreccio tra memoria e futuro.
Quaderno di COMUNICazione
Mezzogiorno di radio
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chio sull’occhio, sostenuta anni fa da Raffaele Simone in un noto volume laterziano, possiamo trovarci tutti d’accordo: se il pendolo abbia ripreso ad oscillare spostandosi sull’ascolto. Se così fosse ne scaturirebbero nuovi doveri anche formativi, un nuovo impegno a costruire
una cultura dell’ascolto, che è ancora tutta da conquistare. La mancanza di educazione all’ascolto –oltre tutto– è causa non seconda dei
nostri disturbi di comunicazione, responsabile dell’entropia nei contesti di relazione.
Simone ha parlato di una terza fase in cui saremmo già immersi: una fase in cui l’intelligenza simultanea della visione cede il
passo a quella sequenziale dell’udito, che rende meno rilevante la
visone alfabetica e le sue materializzazioni testuali.
Non serve piangere, né ridere per le “forme di sapere che stiamo
perdendo” (sottotitolo del fortunato volume): giova di più un’attitudine a valorizzare quel non-proposizionale; che segna oggi una distanza incolmabile tra l’insegnamento scolastico e universitario e il mondo della produzione simbolica giovanile, i suoi linguaggi.
Simone ha chiuso quel saggio con lo “Zibaldone” di Leopardi,
che già si domandava, ai suoi tempi, se l’analisi (l’analisi dei testi,
a cui prevalentemente dedichiamo la nostra attività di chierici accademici) non fosse nemica delle emozioni, “…la morte della bellezza e della grandezza loro”.
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Da queste riflessioni sul medium radiofonico sono venuti stimoli che evocano voci più antiche sedimentatesi nel corso del Novecento, cariche ancora dei primi stupori sulle potenzialità del mezzo radiofonico e la sua intrinseca vocazione pedagogica. Sono giustamente sbalzate sulla radio smaterializzata dell’età di Internet
le analisi di Arnheim, e dell’intero percorso cognitivo che sta tra
Benjamin a Brecht, Adorno e Gadda, McLuhan e Enzensberger. Un
filo rosso che attraversa anche queste pagine.
La radio non dispone di un suo archivio, perché difficilmente si
sono conservati testi destinati al consumo quotidiano di informazioni e di intrattenimento (De Luna ci intrattiene brevemente su
Quaderno di COMUNICazione
questo aspetto: sugli sforzi che egli conduce per la costruzione di
un archivio storico di documentazione). Comincia a disporre invece
di una crescente attenzione bibliografica, che la racconta, la indaga, ne esalta le funzioni sociali: prima fra tutte la formazione di un
comune senso dell’appartenenza, dell’identità degli italiani, nella
vivacità delle loro differenze narrative che la radio più ancora della
televisione ci ha saputo descrivere.
Un Convegno di studio sulla Radio, al di là degli aspetti storici, sociolinguisti, industriali, non può tacere tuttavia sulle condizioni in cui
versa in questo momento l’azienda pubblica RAI. E questa è un’altra
delle buone ragioni che ci hanno orientato nella scelta del tema.
Non tocca a noi prendere la parola su questo aspetto, pur avendo sottolineato nelle giornata sull’informazione che si è svolta il 6
marzo e nei seminari che ne sono seguiti nel corso dell’a.a. 200102 svolti con operatori locali della carta stampata e delle televisioni, tutti i rischi connessi a una limitazione dei diritti compresi nell’art.21. L’informazione –abbiamo scritto in un breve testo firmato
da alcune decine di docenti del nostro Ateneo, inviato al Capo dello
Stato e ai due Presidenti di Camera e Senato– è un bene di tutti ed
è un esercizio di sovranità popolare quello di vigilare sul pluralismo dei mezzi di comunicazione. La questione è tutt’altro che risolta e ce lo conferma ogni giorno lo stato di degrado in cui versa
la cultura editoriale del servizio pubblico. La presenza tra noi di un
dirigente della Divisione radiofonica Rai, Antonio Bottiglieri, potrà
aiutarci a capire qualcosa sulle scelte che vanno maturando nella
devolution radiofonica. E chissà che non ci faccia comprendere pure le ragioni, ai più misteriose, della scomparsa dai palinsesti di
RadioTre di trasmissioni intelligenti, come MattinoTre, Buddha Bar
e Arcimboldo.
Fare radio, una radio di Ateneo, fu la prima richiesta che alcuni
dei nostri studenti rivolsero già sul suo nascere del corso di Scienze della Comunicazione, e ricordo il primo collegamento con Siena, in cui spiegavamo come e perché un corso di comunicazione
nel tacco d’Italia. Un’iniziativa che allora fu frenata (dovevamo
convincere molti colleghi dubbiosi che non si era dato vita a un
corso per nani & ballerine, come si scriveva in quei mesi nel noto
scambio di cortesi strambotti tra filosofi e comunicazionisti togati).
Quaderno di COMUNICazione
Mezzogiorno di radio
Mezzogiorno di radio
emittente si alternarono le prime voci dell’antifascismo (Giorgio
Spini, Alba de Céspedes, Anton Giulio Majano, Pio Ambrogetti, Agostino Degli Espinosa, l’autore della Storia del Regno del Sud, e
tanti altri). La rubrica l’Italia combatte parlava all’opinione pubblica meridionale e ai partigiani: un compito decisivo nell’orientamento delle tante anime spesso contrastanti dell’antifascismo
meridionale. Fu dall’emittente del capoluogo regionale pugliese di
via Putignani che si cominciarono a diffondere nelle case degli italiani i primi brani di jazz, del boogie-woogie.
La prima sezione di questo Quaderno si chiude con un flash
sulla radio degli anni Cinquanta, la radio che orienta ai consumi
(De Nitto), ben consapevoli dei tanti altri tasselli che si potrebbero
far emergere su questa fase più pedagogica che la radio ha svolto.
Un solo esempio per tutti: sono stati raccolti e pubblicati a
stampa per la prima volta i testi di un ciclo di trasmissioni radiofoniche di Ernesto de Martino, registrate e poi trasmesse nel 1954
dal Terzo programma della RAI. La “voce” di De Martino, introdotta da Lombardo Satriani e Letizia Bindi in un agile e utile libretto di
Boringhieri appartengono all’Archivio della RAI Televisione e sono
state riproposte nel 1999 da Radio Tre, in una trasmissione monografica dedicata all’ autore della Terra del rimorso e di Sud e Magia. Una miniera di spunti per un lavoro didattico pluridisciplinare
che ci aiuterebbe a recuperare in un corso, che con forti motivazioni culturali abbiamo voluto che fosse interfacoltà, tutto lo spessore culturale che sta dietro quel fenomeno di largo consumo e di
marketing giovanile che si cela nel fenomeno del tarantismo e delle “pizziche” estive turistizzate.
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Ringraziamenti
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Quaderno di COMUNICazione
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Mezzogiorno di radio
Mezzogiorno di radio
Al Magnifico Rettore, per il saluto “argomentato” ai nostri lavori e per
il sostegno finanziario.
Al Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali che ha patrocinato convegno e fascicolo n.2 di Comunicazione in co-finanziamento.
Agli Studenti che hanno realizzato il bozzetto (Raffaella La Torre, Mariannicole Grieco, Nunzio Pacella, Valeria Potì, Annalisa Tedeschi) e sostenuto gli aspetti organizzativi (Elisa Tramacere, Laura Mangialardo,
Sara Trisciuzzi, Valentina Strafino, Angelo Lombardi), sbobinato le registrazioni degli interventi (Annalisa Gentile, Valeria Gioia, Annamaria
Boffola); al gruppo PAZ che ha organizzato il pomeriggio presso i Cantieri Koreja, ai web (Vincenzo Urso, Pierfausto Martina e Andrea Ingrosso).
A Claudio D’Attis, Annalisa Gentile, Fabio Ingrosso, Emanuela Musca che
hanno realizzato il videoclip Mezzogiorno di radio.
Ai Professori che li hanno guidati e sostenuti (Favale e Valletta in particolare).
Ai Cantieri Koreja e a Franco Ungaro per la squisita ospitalità.
Alla Banca popolare pugliese.
Agli Organi di informazione, stampa e tv locali e alla Terzarete Rai
che ci seguono con interesse e attenzione.
A Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea per la documentazione fornita, nonché per lo spirito di viva e cordiale collaborazione.
Parlare della radio come fonte per la ricerca storica
vuol dire innanzitutto confrontarsi con la storia della
radio, o, meglio, con la storia della sua ascesa egemonica nei confronti degli altri mezzi di comunicazione di
massa. Questa vicenda é strettamente intrecciata a
quella della “grande trasformazione” che investì il
mondo tra le due guerre mondiali. La radio fu l’assoluta protagonista di quel periodo lasciandoci dei documenti che non sono soltanto documenti “della sua storia”. Più é stata forte, determinante, incisiva la sua
presenza nella società, nel costume, nella cultura,
nella politica, più é forte in senso storiografico la documentazione sedimentata dalla produzione radiofonica. Non a caso il suo declino come fonte coincide con
la sua perdita di egemonia, con l’avvento della televisione che le si sostituì in tutto, anche nell’intreccio con la storia.
Conoscerne la storia, avere familiarità con la “cultura radiofonica”, vuol dire quindi essere consapevoli che, grazie alle parole e
al modo in cui sono state raccolte, la radio ripropone una storia
con una dimensione del tempo che non é quella lineare della diacronia quanto quella accidentata del ricordo e della memoria; lo
storico che ascolta le sue trasmissioni utilizzandole come fonti deve avere la capacità di coglierne il sapore evocativo, stabilendo una
risonanza emotiva con quei suoni che vengono dal passato tale da
consentirgli di ricrearlo non più solo come ricordo ma come testimonianza e fonte di conoscenza. Basta saper ascoltare non solo
con le orecchie ma formulando domande guidate da un robusto
progetto di ricerca. Si prenda ad esempio il materiale radiofonico
sulla seconda guerra mondiale. In un mondo come quello della
“guerra totale”, tutto quanto appariva ferocemente contrapposto
nel cielo delle ideologie e nella drammaticità degli eventi militari,
tendeva ad assumere tratti di marcata uniformità quando ci si avvicinava ai comportamenti collettivi, al modo di vivere, alle abitudini, alla quotidianità della gente. Ebbene la radio appare oggi uno
strumento di straordinaria efficacia per lasciare affiorare questa
uniformità. Dai microfoni delle emittenti dei vari paesi belligeranti
giovanni de luna
la radio, fonte storica
Un’idea che oggi potrebbe essere più fondatamente ripresa e sperimentata. Chissà che essa non aiuti a lenire le entropie istituzionali, la ridondanza delle informazioni, e che la stessa scena teatrale dell’insegnamento non possa trarne beneficio.
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Mezzogiorno di radio
rimbalzavano gli stessi termini, gli stessi argomenti, nelle canzoni,
nei radiodrammi, nelle trasmissioni di propaganda, nelle rubriche
di cucina, nelle conversazioni con gli ascoltatori. La nascita del
mondo della “grande trasformazione” assumeva così precocissimi
caratteri di “omologazione” che la televisione e gli altri mezzi di
comunicazione del “villaggio globale” avrebbero in seguito enormemente dilatato e enfatizzato.
Proprio nella radio, l’intenzionalità, intesa nell’accezione classica di sfida al futuro per imporre la propria versione dei fatti storici
e una propria immagine particolarmente edificante, é ovviamente
massima nei discorsi radiofonici dei grandi leaders politici che
parlano direttamente “alla storia”. È anche massicciamente presente, in generale, in tutta la documentazione degli eventi politici,
diplomatici e militari, per sfumare e diminuire progressivamente
man mano che si passa alle zone grigie e indistinte della cronaca
della quotidianità, dove i documenti radiofonici diventano appunto
le classiche fonti che parlano “malgrado se stesse”, che forzano
l’intenzionalità dichiarata dei propri autori racchiudendo una miniera di informazioni “inconsapevoli”.
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Radio e storia.
Il Mezzogiorno
Radioricevitore CGE
mod. Audiola,1932
Quaderno di COMUNICazione
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michele campione
la voce dell’italia libera
C’è una ragione che dà concretezza storica all’evento di oggi e ai risultati che dall’incontro odierno si potranno ricavare: e cioè la riproposta del ruolo e del significato che Radio Bari ebbe subito dopo l’armistizio
del settembre del ’43 nella seconda guerra mondiale.
Fu un ruolo di eccezionale importanza per il tempo, per lo scenario nel quale questa attività si inserì,
per i risultati conseguiti, per il contributo che l’attività
di Radio Bari diede alla nascente democrazia dopo la
caduta del fascismo, per il significato politico dell’azione svolta dallo sparuto gruppo di antifascisti che
dall’inizio gestì le trasmissioni dell’emittente barese,
per i rapporti non semplici con gli Alleati, con il governo Badoglio, per la presenza del Re a Brindisi.
“Le giornate eroiche e romantiche di Radio Bari”:
così ebbe a definirle il maggiore inglese Jan Greenless che il Comando Supremo Alleato aveva designato come responsabile di Radio Bari.
Ed aggiunge Walter Galasso che “la coabitazione in Radio Bari
di antifascisti italiani e degli Alleati è un momento particolarmente
importante perché significò il passaggio dalla occupazione alla responsabilità, non più determinismo ma determinazione”.
Conviene, quindi, rifarci al quadro globale del momento storico
nel quale questi eventi si collocano. E prima di andare avanti in
questo viaggio un po’ a ritroso nel tempo, consentitemi una notazione personale.
Sono stato il Direttore di Radio Bari alla fine degli anni ’80 e sino
al momento in cui, per limiti di età –come si dice con un’allocuzione ingenerosa– dopo circa quarant’anni di giornalismo, ho lasciato
la RAI. Sono quindi, in un certo senso, il successore di quel Direttore di Radio Bari dell’estate del ’43, che si trovò ad avere a che fare
con tre antifascisti, espressione del CLN –il Comitato di Liberazione Nazionale– che volevano “parlare alla radio”, come i tre, e cioè
Michele Cifarelli, Segretario del Comitato e magistrato, il professor
Michele D’Erasmo, docente di Lettere ed il professor Giuseppe
Bartolo, docente di Storia e filosofia, dissero di voler fare.
Radio e storia
Quaderno di COMUNICazione
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
fascisti, spiega chi siano e che cosa vogliano. Poi chiede consigli e
suggerimenti su come comportarsi.
Il Prefetto annota diligentemente i nomi dei tre e assicura che
farà saper qualcosa al più presto. Quindi scrive a matita, non si sa
mai, una “riservata” come si dice in gergo, indirizzata al Ministro
dell’Interno. Aggiunge di suo pugno la notazione che Cifarelli è un
magistrato e quindi ci si può fidare.
Tra la caduta del fascismo, il 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre, c’è una specie di zona grigia, di limbo politico-amministrativo durante il quale emerge come dato importante e significativo il
contrasto fortissimo tra l’azione dei partiti antifascisti che puntano
alla sostituzione degli amministratori pubblici compromessi con il
fascismo e il tentativo del governo Badoglio di frenare l’attività dei
Comitati di Liberazione Nazionale per favorire, invece, la presenza
di esponenti di idee conservatrici e liberali fedeli soprattutto alla
monarchia.
Sostiene Vito Antonio Leuzzi in Prime voci dell’Italia libera (Edizioni dal Sud), che “l’intento della monarchia e del governo era
quello di ricostituire un blocco di forze moderate non dissimili da
quelle che avevano favorito l’avvento del fascismo, capaci di facilitare il processo di passaggio al dopo fascismo sotto il segno della
continuità”.
Forse c’è da fare, a nostro parere, anche un’altra considerazione politica per capire a fondo lo scenario di quel periodo. Michele
Cifarelli, Michele D’Erasmo e Giuseppe Bartolo appartengono al filone del riformismo laico e liberal-repubblicano. Non va dimenticato che i tre facevano parte del gruppo che si riuniva a Villa Laterza ogni qual volta don Benedetto –cioè Croce– veniva a Bari per
incontrare i suoi interlocutori politici giovani e meno giovani. Sono
quindi particolarmente impegnati, come prospettiva politica prioritaria, nella creazione di una classe dirigente pugliese e meridionale che dovrà prendere il posto dell’establishment burocraticoamministrativo creato dal fascismo.
Questa prospettiva politica di ispirazione salveminiana e che si
rifà all’azione politica dello storico molfettese, colloca necessariamente in secondo piano l’esigenza di collegarsi con le forze popolari cattoliche da una parte, di estrazione moderata e con quelle
socialista e marxiste dall’altra.
Sono due mondi, due arcipelaghi politici, due galassie che i tre al-
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
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Era il 26 luglio del ’43. Siamo all’indomani della caduta del fascismo. Grandi manifestazioni popolari di esultanza anche a Bari. I
soldati inneggiano alla fine della guerra, ma così non sarà.
Per i baresi è in agguato la tragedia del 28 luglio: su una pacifica dimostrazione di studenti, operai, antifascisti appena liberati
dal carcere, si abbatté in via Niccolò dell’Arca, sede della federazione fascista, la inconsulta reazione di un reparto di soldati che
sparò senza preavviso.
Il tragico bilancio fu di decine di morti e feriti. Tra le vittime
Graziano Fiore, figlio di Tommaso Fiore. Di questo eccidio non un
rigo sulla stampa sottoposta alla censura.
Nel processo che seguì anni dopo non fu possibile accertare la
verità. Fatale riferimento la circolare del Comando Supremo del
Regio Esercito che così stabiliva: “Siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni
e la persuasione e non sia tollerato che i civili sostino presso postazioni militari. Si apra il fuoco a distanza, anche con artiglierie e
mortai senza preavviso come se si procedesse contro truppe nemiche. Si tiri sempre a colpire come in combattimento”.
Accanto a queste draconiane disposizioni ne erano in vigore altre che riguardavano il coprifuoco dal tramonto all’alba, il divieto
di radunarsi in più di tre persone, di tenere comizi e conferenze
anche al chiuso, il ripristino della censura su ogni tipo di pubblicazione, dai giornali ai libri.
Siamo dunque al 26 luglio. I tre antifascisti si presentano alla
sede di Radio Bari in via Putignani e chiedono di parlare con il Direttore, l’ingegner Damascelli. È un ingegnere barese, fascista come tutti i dirigenti dell’epoca, convinto, tenace burocrate. Senza
mezzi termini i tre dicono a Damascelli che vogliono “parlare alla
radio” e che rappresentano i partiti antifascisti e il Comitato di Liberazione Nazionale.
L’ingegnere li sta ad ascoltare. In realtà non sa che pesci prendere, ma poi ha una folgorante illuminazione sbocciata dalla burocrazia. Ai tre interlocutori dice: “Ho bisogno di un po’ di tempo perché devo parlare con Torino. Vi farò sapere”.
I tre rimangono un po’ interdetti, ma poi si accontentano dell’impegno preso. Se deve parlare con Torino, parli pure. Se ne vanno, ed appena i tre sono usciti Damascelli telefona, non a Torino,
ma al Prefetto di Bari Li Voti. Lo informa che sono venuti tre anti-
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Da Taranto, a bordo di una jeep, Greenless viaggia alla volta di Bari. Arriva in via Putignani, sede della RAI –allora EIAR–, riceve il saluto di un carabiniere di guardia all’ingresso, e si installa nei locali della Direzione della Sede a pianoterra. Subito dopo si incontra con il
gruppo degli antifascisti che presidiano sede ed impianti.
Chi è Greenless? È un ufficiale di origine scozzese, buon conoscitore della lingua e della letteratura italiane, traduttore delle opere di Croce per la casa editrice Mc Millan. Sembra un personaggio fatto su misura per il compito che gli è stato affidato: far funzionare al meglio Radio Bari.
È lo stesso Greenless che ricorda il primo incontro con gli italiani. “C’erano –egli dice– Giuseppe Bartolo, Michele e Raffaele Cifarelli, Michele D’Erasmo, Vittore Fiore, Beniamino D’Amato, Franco Cagnetta, Domenico Loizzi, Antonio D’Ippolito. Ci riunimmo tutti
e decidemmo di cominciare subito le trasmissioni, dapprima modeste e fatte soprattutto di notizie, poi di commenti politici, di programmi speciali come quelli indirizzati ai partigiani con ‘Italia
combatte’, e poi ancora i programmi per i lavoratori”.
Il primo notiziario va in onda letto da “Simplicius”, così si firma
Giuseppe Bartolo, la cui voce fu ritenuta la più “radiofonica” fra le
altre. Agostino Degli Espinosa è “Astolfo”. Diego Calcagno preferisce chiamarsi “Abele”. Waldo Spini è “Waldo Gigli”, Antonio Picone
Stella “Francalancia”, Alba De Cespedes “Clorinda”, Antonietta
Drago “Giuditta”, Antonio Aldini è “Antonio Rivolta”. Sono scrittori,
giornalisti, uomini di cinema, poeti, ma anche tecnici ed esperti di
radiofonia che non possono raggiungere Roma occupata dai tedeschi e si ritrovano attorno a Radio Bari. Li chiamarono “i Cento di
Radio Bari”. Si arrangiano alla meglio con i buoni mensa forniti loro dagli Alleati.
La polemica politica tra Radio Bari e il Governo di Brindisi è sempre viva e non di rado dura. Badoglio un giorno ordina al Questore di
vietare al gruppo degli antifascisti di entrare nella sede RAI. Greenless che ha avuto ampi poteri dal Quartiere Generale Alleato deve
impegnarsi a fondo per respingere la iniziativa del Governo di Brindisi. Il divieto è annullato e le trasmissioni di Radio Bari continuano.
Anzi crescono fino a coprire con il palinsesto quotidiano l’arco di
tempo che va dalle sei di mattina all’una di notte con tredici edizioni
del giornale radio oltre a concerti, commenti, rubriche.
Norme severissime vengono impartite alle autorità militari dal
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
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meno per il momento si guardano bene dall’esplorare e dall’indagare
a fondo. Non averlo fatto o avendo sperimentato con scarso successo
itinerari politici di possibili ampie aggregazioni dei ceti borghesi e di
quelli proletari, impedisce tutto sommato a Radio Bari di crescere
per comprendere, in termini politici, scenari a tutto tondo, anche se
in nuce, con felici intuizioni, tutto questo si ritrova nelle trasmissioni
di Radio Bari. Né ci pare possa essere sottovalutato il fatto che esiste
una emergenza sovrana su tutto ed è la lotta al nazismo ed al fascismo e la liberazione del nostro Paese.
Comunque l’iniziativa di Cifarelli, Bartolo e D’Erasmo presenta
caratteri eccezionali con straordinarie imprevedibili prospettive
nel gestire, al servizio della nascente democrazia, un mezzo di comunicazione sociale come la radio che rappresenta in quel momento storico il massimo di presenza capillare che può essere
realizzata.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché i tre puntino sull’impiego della radio, un mezzo che presuppone anche conoscenze
tecniche non indifferenti invece di ripiegare su strumenti tradizionali come i giornali.
Forse c’è la consapevolezza che la radio, come servizio pubblico, può essere legittimamente a disposizione della comunità e
quindi dei partiti che della società sono gli interpreti ed i portatori
delle istanze, delle attese, delle speranze dei cittadini. Poi perché
con la radio è facile arrivare nelle case. Il giornale, invece, oltre
che stamparlo va distribuito capillarmente nei grandi come nei
piccoli centri se si vuole che il messaggio arrivi a tutti.Quindi occorrono mezzi per collegare i vari paesi e non ci sono né i mezzi,
né la benzina, e soprattutto i partiti non hanno fondi per i giornali.
Dunque la radio, in grado di collegarsi con i patrioti che operano al Nord, come con gli italiani che si trovano nei territori occupati dai tedeschi e dai fascisti.
Infine la considerazione che gli Alleati puntano proprio sul ruolo
dei messaggi radiofonici, sulla loro importanza per tener vivi i collegamenti al di là del fronte.
E veniamo ora al 10 settembre del ’43.
A Taranto da un sommergibile sbarca il maggiore inglese Jan
Greenless che ha ricevuto dal Quartiere Generale Alleato di Algeri
un compito preciso: occupare Radio Bari, far funzionare gli impianti per avere una voce dall’Italia, dall’Europa continentale.
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
sono disperati. Ma ecco che prima di passare alla sigla di chiusura
l’annunciatore tedesco dice: “Ed ora una notizia che riguarda l’Italia occupata. Il Congresso di Napoli non si tiene più” e giù con pesanti ironie sulle mirabolanti promesse di libertà e sulle bugie degli angloamericani.
Il gioco è fatto. Eisenhower in persona dispone che il Congresso
si faccia a Bari. Ultime resistenze degli inglesi: è meglio che i civili
non entrino nel Piccinni, sede del Congresso, perché ci possono
essere attentati. Si promette che gli interventi di maggiore importanza saranno registrati da tecnici inglesi e divulgati in piazza Prefettura, il che puntualmente non avviene.
L’eco politica del Congresso di Bari è enorme tra i partiti. Molti
delegati attraversano le linee tedesche per essere presenti all’incontro che Radio Londra definisce come “il primo Congresso democratico che si raduna sul continente europeo dal giorno in cui
Hitler vi spense il lume della democrazia”.
A Bari giunge anche Cecil Sfrigge, il mitico inviato del Times di
Londra. La BBC inglese trasmette per suo conto le sintesi degli interventi di rilievo, tra cui il discorso di Benedetto Croce sulla libertà, la requisitoria del conte Sforza contro la monarchia e i contributi dei rappresentanti dei partiti antifascisti italiani. Segretario
del Congresso di Bari è Michele Cifarelli.
Sono giornate vibranti di passione politica. Paradossalmente
questo momento così intenso segna l’inizio del declino di Radio
Bari. A poco più di un mese dalla data del Congresso, tutto il personale della PWB, da Bari viene trasferito a Napoli. Anche i tecnici e i giornalisti lasciano il capoluogo pugliese. Siamo a metà
marzo. Delle trasmissioni politiche, dell’impegno a favore della
democrazia e della libertà nemmeno l’ombra nei notiziari irradiati
da Radio Napoli, che è sotto l’egida degli americani del generale
Clark. Commenta Greenless: “Tutto è in mano ad un ‘piccolo americano’”.
La grande stagione degli ideali pareva tramontata. A Napoli furono cancellati i commenti politici e le rubriche sulla vita dei partiti. Favorite invece le trasmissioni di varietà, le canzoni, il divertimento come si diceva allora. E varietà, canzoni e divertimento erano tutti di matrice americana.
Dalle colonne della rivista “La Rassegna” di Antonio Amendola
e dai microfoni di Radio Bari il giovane Aldo Moro, allora Capitano
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Radio e storia
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governo Badoglio: riguardano il coprifuoco, la censura preventiva,
le autorizzazioni innumerevoli e complesse per ottenere il permesso di pubblicare un giornale, compresi quelli per i ragazzi. Tra
l’altro occorre dimostrare di disporre della carta necessaria per la
stampa. Quasi tutte le richieste vengono respinte dalla Commissione per la censura. Se questo vale per i giornali, figuriamoci una
emittente radio in mano ai nemici della monarchia.
Il momento più alto dell’azione politica svolta da Radio Bari è il
Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale di tutta Italia che
si tenne a Bari il 28 e 29 gennaio del 1944.
Il Governo Badoglio e i Circoli filomonarchici, con l’assenso tacito
della Corte britannica, non vogliono che i partiti antifascisti si riuniscano perché temono che l’incontro possa trasformarsi in un momento “Costituente” per la questione istituzionale. Che possa trattarsi cioè di una specie di referendum contro la monarchia sabauda.
Il Congresso avrebbe dovuto tenersi a Napoli, ma gli Alleati fanno sapere ai rappresentanti dei partiti che non è possibile perché
Napoli è troppo vicina al fronte e poi è in corso un’epidemia di tifo.
Non è vero niente, ma il consiglio, sotto forma di suggerimento, è
uno solo: meglio lasciar stare tutto.
Cifarelli e Bartolo non intendono però lasciarsi sfuggire questa
grossa occasione e allora decidono di scommettere su una possibile polemica giornalistica che sarebbe derivata dalla divulgazione
della notizia che il Congresso non si sarebbe tenuto. L’idea di fondo era questa: se i tedeschi non sono stupidi prenderanno a volo la
notizia per dire: “ecco, questi sono i liberatori, i paladini della democrazia!” E gli Alleati sicuramente, pensano ancora Bartolo e Cifarelli, non vorranno perdere la faccia.
La notizia del mancato Congresso viene stilata senza nessuna
enfasi e portata al Direttore Greenless al quale Bartolo e Cifarelli
spiegano le ragioni della vicenda. Greenless guarda i due e poi dice: “Va bene, potete trasmetterla”. Una breve pausa, quindi aggiunge: “E fate in fretta, anche perché oggi sono in ferie”.
La notizia viene letta alle 19.00 e alle 22.30, ora di trasmissione
del Notiziario di Radio Berlino, comincia l’attesa. A Radio Bari ci si
chiede: “Avranno abboccato all’amo i tedeschi?”. Il notiziario prosegue: notizie dal fronte russo, poi dal fronte interno, la guerra dei
sommergibili sui mari ed eccoci al fronte italiano. Notizie di scontri, ma nessuna che si riferisca al Congresso. Bartolo e Cifarelli
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vito antonio leuzzi
radio bari 1943-1944
Dopo l’8 settembre 1943 Radio Bari, che costituiva
una delle più importanti strutture dell’EIAR1, grazie all’intervento dei tecnici, venne sottratta ai tentativi di distruzione messi in atto dai reparti della Wermacht che
non riuscirono nel capoluogo pugliese a sabotare il
porto, il palazzo delle Poste ed altre infrastrutture militari e civili2. L’emittente barese iniziò immediatamente
a trasmettere le prime notizie relative all’armistizio, allo sbarco anglo-americano in Puglia ed alla lotta antitedesca anche per iniziativa di un gruppo di antifascisti,
che avevano aderito dalla fine degli anni Trenta al
gruppo liberal-socialista fondato a Bari da Tommaso
Fiore, tra i quali il giudice Michele Cifarelli, Giuseppe
Bartolo, Raffaele Cifarelli, Vittore Fiore, Antonio D’Ippolito, Michele D’Erasmo, Franco Cagnetta3.
Quaderno di COMUNICazione
Sin dagli anni della guerra gli antifascisti di Bari erano riusciti
ad organizzare una vera e propria struttura di controinformazione.
Così Mario Melino, uno dei giovani aderenti al movimento liberalsocialista, ricostruisce l’intensa attività antifascista: “A Michele Cifarelli il gruppo aveva affidato, oltre a settori di penetrazione politica anche il compito di riferire le trasmissioni di Radio Londra. Alle 17 ci davamo appuntamento in Prefettura e tutte le volte Michele ci sbalordiva per la completezza anche nei minimi dettagli delle
notizie che aveva ascoltato. Dopo il luglio 1941 e per circa un anno
quella piazza sembrava trasformarsi in un otto volante”4.
Il gruppo liberal-socialista, che confluì nel partito d’Azione,
svolse in ruolo decisivo per la libertà d’informazione, sottoposta
ad una rigida censura badogliana nella fase di transizione dal fascismo alla repubblica5.
Il tempestivo intervento degli anglo-americani impedì agli esponenti badogliani di continuare ad esercitare un controllo totale
della radio. Il PWB (Psycological Warfare Branch) fu sollecito ad
occupare prima di ogni altra struttura militare e civile, la sede barese dell’E.I.A.R. Infatti il primo ufficiale alleato a mettere piede a
Bari fu Ian Greenless che aveva ricevuto a Tunisi l’ordine di trasferirsi a Bari in concomitanza con l’annuncio dell’armistizio6.
Greenless che era stato traduttore di Croce per la casa editrice
Mc Millan, utilizzò nella gestione della radio le competenze degli intellettuali democratici. La sua opera venne sostenuta anche dal
maggiore Robertson, un altro ufficiale scozzese che agevolò il tentativo di mantenere una relativa autonomia della Radio dalle direttive
del governo inglese, schierato a difesa della monarchia e di Badoglio. A questo proposito sostiene lo storico Giorgio Spini (che alla fine
del settembre ‘43 come ufficiale dell’esercito italiano era stato distaccato dall’ufficio stampa del Comando supremo all’emittente barese): “Ma i miei due scozzesi, con la più britannica flemma di questo
mondo, fecero finta di non aver capito cosa volesse il loro governo e
trasformarono Radio Bari nella voce dell’Italia antifascista dei CLN”7.
Radio Bari, infatti, a differenza di Radio Palermo, Radio Sardegna e di Radio Napoli che dopo l’arrivo degli alleati vennero utilizzate come strutture strettamente legate alle esigenze militari soprattutto della V armata americana, sperimentò una gestione dei
diversi servizi informativi della radio aperta all’apporto degli intellettuali antifascisti e dei diversi rappresentanti politici del CLN.
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
di aviazione perché docente universitario, ammoniva, come ricorda
Antonio Rossano in Qui Radio Bari (Edizioni Dedalo) che “l’antifascismo ha da essere principio di autocritica e di impulso al rinnovamento perché è esso stesso un nuovo mondo di libertà responsabile, di amore, di pace”.
È stato anche scritto che forse Mussolini nella kafkiana solitudine di Salò ha ascoltato da Radio Bari commenti ed idee, esortazioni ed inviti perentori, incitamenti ed appelli. La coscienza intera
di un paese che si poneva nuovi traguardi di dignità di partecipazione, di solidarietà operante, di libertà.
Nell’aprile del ’44 da Napoli, dove risiedeva, Jan Greenless
scrisse a Michele Cifarelli. “Ricorderò sempre, diceva la lettera,
quei primi giorni dopo l’armistizio quando venni a Bari per far funzionare la stazione radio. Ero solo però ebbi la fortuna di incontrarmi con Lei. C’era molta confusione negli animi degli Italiani ed
era importante trasmettere notizie serie e commenti politici equilibrati. Fu la prima voce democratica trasmessa dal continente italiano da più di venti anni. Si iniziò la divulgazione della dottrina democratica sul suolo italiano”.
E sinceramente non fu cosa di poco conto. Anche per questo mi
sia permessa la soddisfatta consapevolezza di essere stato, come
giornalista, Direttore di Radio Bari.
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
calancia), Agostino degli Espinosa e Giorgio Spini che utilizzò lo
pseudonimo di Valdo Gigli. Quest’ultimo spiega nei suoi ricordi autobiografici che non usò il suo nome e cognome “per non procurare
guai alla famiglia”, rimasta a Firenze sotto l’occupazione nazista12.
L’attività di Radio Bari, inizialmente limitata a poche ore di trasmissione, con una prevalenza di notiziari e musica leggera, si sviluppò pienamente tra ottobre e novembre, disponendo di più di dieci edizioni di giornali radio e di programmi che ininterrottamente si
susseguivano dalle 5,55 alle 2,05. I notiziari più importanti erano
quelli delle 22.00 e delle 23.00, perché venivano captati da molte
stazioni straniere ed in particolare da Radio Berlino. Quest’ultima
attaccava quasi quotidianamente la più importante emittente dell’Italia libera, definendola “radio vergogna” e “radio sinagoga”13.
Accanto ai commenti politici, diverse rubriche “Le Donne a Casa”, “La Voce dei giovani”, “La voce dei lavoratori”, animarono Radio
Bari suscitando la forte ostilità degli ambienti monarchico-clericali.
Uno dei protagonisti di quell’esperienza, il giornalista abruzzese Libero Pierantozzi, che divenne in seguito caporedattore dell’“Unità” e
del settimanale “Rinascita”, così ricostruiva l’intensa attività svolta a
Bari: “La Voce dei giovani nasce in novembre (1943) e si fonda immediatamente sulla ancora scarsa documentazione reperibile della
lotta partigiana e sulla dura e aggressiva azione propagandistica anti-repubblicana. Ben presto la sua polemica si estenderà anche contro la innata boria sciovinistica dei circoli ufficiali monarchici… Più
tardi con l’aiuto di una intervista concessami da Togliatti a Napoli, in
via Medina, La Voce dei giovani rintuzzò l’ostinato j’accuse di Croce
sulle presunte responsabilità fasciste dei giovani”14.
A rendere popolare l’emittente tra i combattenti contro il nazifascismo nei Balcani e nell’Italia Centro Settentrionale la rubrica “Italia
Combatte”: Sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 18 Dicembre 1943,
il giornalista Picone Stella così presentava la nuova trasmissione:
“Un notiziario aggiornato e vivace, racconti di fatti personali vissuti
da scrittori e giornalisti che hanno passato le linee, impressioni di
cose vissute nei territori che subiscono l’odio antifascista, informazioni dal fronte della resistenza sull’attività dei patrioti, istruzioni per
quanti intendono cooperare alla cacciata delle truppe germaniche
dall’Italia, conversazioni, polemiche, battute umoristiche15.
Il momento più alto e significativo della breve ma intensa attività politico-culturale dell’emittente barese si registrò con il Con-
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
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“Ci riunimmo tutti –ricorda Greenless– mettendo insieme un
programma e decidemmo di cominciare subito le trasmissioni,
dapprima modeste, e fatte subito di notizie, poi di commenti politici, poi di programmi speciali (come per esempio quelli indirizzati ai
partigiani, come ‘l’Italia combatte’, o quelli per i lavoratori)”8.
Nella sua lunga testimonianza l’ufficiale inglese evidenzia il
ruolo in particolare del giudice Michele Cifarelli al quale fu affidato
“il commento politico dei fatti del giorno inquadrandoli in una cornice chiaramente antifascista e presentando la guerra in corso come una guerra per la libertà delle idee, e di conseguenza come
una guerra di liberazione dall’occupazione nazista”9.
Il primo dei commenti radiofonici, del giudice barese, trasmesso il 18 settembre ’43, “La morte del fascismo”, ebbe una forte eco
nell’opinione pubblica perché spiegava per la prima volta agli italiani non solo la funzione della “grande rivoluzione liberatrice in
atto”, ma individuava le questioni più importanti della difficile
transizione dal fascismo ad una società libera.
“Noi vogliamo –affermava Cifarelli– che sia dato il giusto posto alla nuova classe dirigente che nel paese si è formata e che comprende quanti uomini onesti che durante il fascismo hanno adorato la libertà in silenzio senza piegare; quanti per vent’anni hanno lottato
contro il fascismo nella cospirazione e negli esili o in qualsiasi altro
modo fosse ad essi consentito specie nel campo della cultura; quanti, specie tra i giovani, nonostante il fascismo, hanno acquisito nella
religione della libertà una preparazione morale ed intellettuale adeguata al cimento… Noi vogliamo che questa nuova classe dirigente
sia posta in grado di rompere coraggiosamente e sistematicamente
tutte le strutture fasciste della pubblica amministrazione, della finanza, dell’economia dell’organizzazione sociale, e di aprire per conseguenza le porte a quelle grandi correnti di opinioni, a quelle formazioni spirituali e di interessi che il popolo italiano saprà esprimere
non appena gli sarà consentito di fruire in pieno della libertà”10.
L’importanza del nuovo corso dell’emittente barese non sfuggì
ai commentatori politici di Radio Londra che dal settembre ’43 utilizzarono Radio Bari come fonte d’informazione per spiegare le vicende politico-militari nell’Italia libera11.
Al nuovo sistema d’informazione radiofonica dettero il loro apporto diversi giornalisti e intellettuali che erano riusciti a passare le linee tra cui Alba De Cespedes (Clorinda), Antonio Picone Stella (Fran-
31
gresso di Bari dei CLN del 28 e 29 gennaio 1944. Nelle settimane
che precedettero l’importante assise venne varata una nuova rubrica “La Voce dei partiti”. La nuova trasmissione, secondo Gianni
Isola: “fu il perno di tutta l’iniziativa politica, che ospitando alla tribuna tutte le voci dell’arco antifascista riusciva contemporaneamente a portare alla superficie tutta l’effervescenza di un paese
che per vent’anni si era apparentemente identificato nella univocità della dittatura”16.
La profonda eco suscitata dal Congresso nella realtà internazionale, definito dai maggiori organi d’informazione internazionale
ed in particolare da Radio Londra “il primo congresso democratico
del continente europeo”17 indusse il governo conservatore inglese
a rivedere l’assetto dell’emittente, assumendo la decisione di spostarne la redazione a Napoli.
Con il trasferimento nel capoluogo campano dei responsabili del
PWB, si chiudeva l’intensa fase politica dell’emittente barese. A Radio Napoli furono cancellate tutte le rubriche politiche e culturali
che avevano caratterizzato per circa sei mesi la felice stagione di
Radio Bari. “Fu la prima voce democratica –dirà Greenless nei suoi
ricordi– trasmessa dal continente italiano da più di venti anni”18.
Note
Quaderno di COMUNICazione
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
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Nella mia vita professionale, naturalmente, mi è
capitato di lavorare spesso per la radio ed anche per
la televisione, sempre nelle emittenti del pubblico
servizio, con un’esperienza breve ma significativa come direttore di un telegiornale, il TG2, dal 1986 al
1987. Ciò nondimeno, i miei ricordi più tenaci restano
legati al periodo che risale al 1944/45 e che mi vide esordire come giornalista, radiocronista e regista a Radio Napoli, la trasmittente che –dopo un’iniziale permanenza della redazione a Bari– ospitò un gruppo di
antonio ghirelli
radio napoli
La sede di Bari dell’E.I.A.R. (Ente italiano per le audizioni radiofoniche), costituitasi nel 1932, assunse immediatamente un importante ruolo nella politica
espansionistica e militaristica del regime nei Balcani ed in Medio-Oriente. Nel
1934 ebbero inizio le prime trasmissioni in lingua araba con l’entrata in funzione
di un trasmettitore ad onde medie della potenza di 20 Kw, collocato alla periferia
della città nella frazione di Ceglie. Esisteva anche un secondo trasmettitore della
potenza di 1 Kw presso la Fiera del Levante.
Nel corso del conflitto si determinò una completa militarizzazione di tutto il sistema radiofonico e dell’informazione che senza soluzione di continuità, all’indomani del 25 luglio, passò dal controllo fascista a quello monarchico-badogliano.
Cfr. F. Monteleone, Storia della RAI dagli Alleati alla DC, Laterza, Bari 1980; A.
Rossano, Qui Radio Bari 1943, De Donato, Bari 1993.
2
Cfr. V. A. Leuzzi, La Città in guerra, in Problemi di storia del Novecento tra ricerca e didattica. Bari e la Puglia negli anni della guerra, a cura di V. A. Leuzzi e M.
De Rose, Irrsae Puglia, Bari 1995.
3
Una ricostruzione delle origini del movimento liberal-socialista è contenuta in:
M. Dilio, Puglia antifascista, Adda Editrice, Bari 1977; Le lotte politico culturali a
Bari e in Puglia all’indomani della caduta del fascismo in Quella Bari del ’43, a cura
1
di M. Dilio, V. Fiore e V. A. Leuzzi, numero speciale della rivista “Ipotesi”, n.22, luglio-agosto 1993; saggio introduttivo alla riproduzione anastatica de “Il Nuovo Risorgimento”, a cura di G. De Luna, F. Fistetti e V. A. Leuzzi, Palomar, Bari 1996.
4
Cfr. lettera di Mario Melino a Vittore Fiore del 1 febbraio 1994 in “Carte Vittore Fiore” dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (IPSAIC).
5
Cfr. Prime Voci dell’Italia libera, a cura di V. A. Leuzzi, Edizioni dal Sud, Bari
1996.
6
Cfr. I. Greenless, Radio Bari 1943-1944, in Inghilterra e Italia nel 900 (Atti del
Convegno di Lucca), la Nuova Italia, Firenze 1973.
7
Cfr. G. Spini, La Strada della liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte dell’VIII Armata, a cura di V. Spini, Claudiana,Torino 2002, p.114.
8
Cfr. I. Greenless, Radio Bari 1943-1944, cit., p. 234.
9
Ibid., p. 235.
10
Copia del Documento è nella “Carte Cifarelli” Archivio IPSAIC.
11
Cfr. Radio Londra 1940-1945. Inventario delle trasmissioni in Italia, vol. II, a
cura di M. Piccialuoti Caprioli, Ministero per i beni culturali ed ambientali, Roma
1980.
12
Cfr. G. Spini, La Strada della liberazione cit., p. 115. Cfr. anche A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud, 8 settembre 1943 - 4 giugno 1944, Migliaresi Edizioni,
Roma 1946 (altre edizioni, a cura di F. Santarelli, Editori Riuniti, Roma 1973 ed a
cura di G. Russo, Mondadori, Milano 1993).
13
Cfr. Radio Londra 1940-1945 cit.
14
L. Pierantozzi, Radio Bari e Radio Napoli, settembre 1943-1944 in Mezzogiorno e fascismo, Atti del Convegno nazionale di studi promosso dalla regione
Campania, Salerno - Monte San Giacomo 11-14 dicembre 1975, a cura di P. La
Veglia, vol. 2, ESI, Napoli 1978, p.195.
15
Cfr. “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 18 dicembre 1943.
16
G. Isola, Cari amici vicini e lontani. Storia dell’ascolto radiofonico nel primo
decennio repubblicano, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 30.
17
Radio Londra 1940-1945, cit.
18
Lettera di I. Greenless a M. Cifarelli, Napoli, 2 aprile 1944, in Carte Cifarelli, cit.
33
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
solini come centrale di propaganda della politica estera fascista
nei paesi arabi, soprattutto in chiave anti-inglese e a questo fine
era stata dotata di attrezzature tecniche particolarmente efficienti,
tali da portare la voce dell’Italia nell’intero bacino del Mediterraneo. L’ironia della storia consisteva, in questo caso, nel fatto che di
quegli impianti mastodontici ora si stavano servendo le autorità
alleate e i democratici italiani per portare la voce della libertà fino
alle Alpi, precedendo l’immane sforzo bellico dei soldati e dei partigiani contro la Wermacht e le bande repubblicane di Salò.
Erano stati giornalisti e tecnici riuniti nel capoluogo pugliese, al
seguito di Vittorio Emanule III e di Badoglio, a costituire sotto la direzione di Picone Stella, la prima redazione del giornale-radio democratico, che si era poi trasferita a Napoli appena la nostra città
fu liberata nell’autunno 1943 dalla durissima occupazione tedesca.
Gli italiani lavoravano, naturalmente, nell’ambito di un servizio militare alleato che si chiamava Psychological Warfare Branch, cioè
Settore della guerra psicologica (i nazifascisti parlavano più apertamente di propaganda), e che in Italia era controllato da un gruppo di italo-americani, in gran parte ebrei livornesi e romani costretti ad espatriare oltre Oceano, dopo il 1938, per la stolta e infame discriminazione razziale a cui Mussolini si era deciso per compiacere Hitler. Quei ragazzi erano comandati da un biologo molto
intelligente e volitivo, Elvio H. Sadun, che con molti suoi compagni
negli Stati Uniti si era impegnato attivamente nella campagna antifascista al fianco di Gaetano Salvemini, nella “Mazzini Society”,
un’associazione a sfondo repubblicano e liberal-socialista.
Tra i principali collaboratori di Radio Napoli, all’inizio di quella indimenticabile esperienza, c’erano Mario Soldati e Leo Longanesi,
che erano fuggiti da Roma subito dopo l’8 settembre e davano vita ad
una trasmissione satirica raffinatissima ed esilarante, che il piccolo
Leo firmava con lo pseudonimo di “Stella Bianca”. Altri due intellettuali si assunsero la responsabilità nel settore spettacolo: Edoardo
Antonelli, figlio del grande commediografo Luigi e della scrittrice Lucilla, noto anch’egli sotto lo pseudonimo di Eduardo Anton come piacevolissimo scrittore di teatro; ed Ettore Giannini, regista scrittore,
musicista di straordinario talento e, tra l’altro, anticipatore di Orson
Welles con una famosa trasmissione radiofonica di gusto fantascientifico. Furono proprio Anton e Giannini (quest’ultimo, nostro concittadino, futuro autore del celeberrimo Carosello Napoletano, conosceva
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
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collaboratori italiani assunti dai dirigenti americani ed inglesi del
Psychological Warfare Branch per curare i programmi di informazione, commento e “fiction”, naturalmente in strettissimo rapporto
con la guerra in corso e con comprensibili intenti di propaganda
antinazista, antifascista e democratica.
Radio Napoli fu un laboratorio nel quale, sotto la direzione di intellettuali italo-americani in uniforme, sostennero le loro prime prove come giornalisti, scrittori, attori, annunciatori, registi, agitatori
politici e sindacali, alcuni giovani napoletani che uscivano in maggioranza dalle file del Gruppo Universitario Fascista e dalle sue istituzioni culturali, ma che avevano ripudiato da tempo l’ideologia totalitaria per volgersi ad orizzonti assai più vasti, dal liberalismo crociano al marxismo comunista.
Il valore di quel laboratorio fu esaltato dal clima di entusiasmo,
di sollievo e di ritorno alla vita che la liberazione di Napoli dall’occupazione nazista aveva creato, nonostante la tremenda crudità
della guerra perduta, dei bombardamenti aerei, delle distruzioni
materiali morali provocate dalla sconfitta. Soltanto qualche libro e
qualche film americano, francese o sovietico, filtrati tra le maglie
della censura littoria, ci avevano offerto fino a quel momento una
vaga idea degli sviluppi incalcolabili che la democrazia può offrire
al mestiere, o se si preferisce all’arte, della comunicazione. Con
Radio Napoli, quella vaga idea prendeva corpo. Come per miracolo, e sia pure con le remore imposte dalla politica alleata e dalla
permanenza dello stato di guerra, potevamo lanciarci sui grandi
sentieri della libertà di espressione, dar voce alle idee e ai sogni,
chiamare a raccolta intorno ai nostri microfoni le forze più genuine
della città: i giovani, le donne, i sindacalisti, gli uomini di cultura.
Ci era consentito non solo di lavorare ma di inventare, creare, imparare i fondamenti di una tecnica e di una professione, e tutto
questo non nell’atmosfera rarefatta del tempo di pace ma nel crogiolo ardente di una guerra che da anni ciascuno di noi viveva come una crociata ideologica, una terribile scelta epocale tra il male
e il bene, tra l’oppressione e la giustizia.
Quel gruppo di giovani napoletani poteva contare su un’udienza
molto alta che andava assai oltre la ristretta cerchia cittadina, per
una ragione piuttosto paradossale, una sorta di piccola ironia della
storia, e cioè per la potenza di emissione della stazione di Radio
Bari a cui eravamo collegati. Radio Bari era stata creata da Mus-
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Radio e storia
Durante la seconda guerra mondiale ci fu, da
una parte e dall’altra, un ricorso massiccio e spesso plateale all’uso propagandistico della radio.
False informazioni, disturbi di emissione, interferenze e perfino studiati mascheramenti diedero vita a una parallela “guerra delle onde”. Solo dopo
lo sbarco in Sicilia nel 1943 si cominciò ad affermare il ruolo della radio anche come mezzo di
informazione di massa. E proprio in Sicilia si sperimentò con Radio Palermo il primo modello radiofonico nell’Italia liberata.
Le trasmissioni cominciarono il 5 agosto 1943.
Ne dava notizia il giorno dopo il primo numero di
Sicilia Liberata, la testata del Pwb che aveva preso
il posto del Giornale di Sicilia e dell’Ora sospesi il
22 luglio dagli alleati appena entrati a Palermo:
“Siamo orgogliosi di poter annunciare che ieri sera
Radio Palermo ha ripreso le sue trasmissioni”. Non c’è bisogno di
dire che la continuità con la radio del regime era riferibile solo alla
natura del mezzo. Per il resto la ripresa delle trasmissioni segnalava un cambio del registro della comunicazione, del linguaggio e
in misura più prudente dello stile.
Il fatto più importante in quel momento era comunque un altro:
la ripresa di un ciclo regolare di trasmissioni che intanto faceva recuperare alla radio, oltre al ruolo sociale che aveva avuto a partire
dagli anni Trenta, la sua funzione essenziale di informazione. Dallo
sbarco era passato meno di un mese, e ancora l’operazione Husky
non era conclusa. I soldati dell’VIII armata inglese erano appena
entrati a Catania dopo una furiosa battaglia. L’area dello Stretto di
Messina era sottoposta a devastanti bombardamenti. La ritirata
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nazifascisti, e dalla Garfagnana dove operava l’Armata Monterosa,
comandata dal maresciallo Graziani. I nostri compagni di Radio
Napoli si andavano anch’essi disperdendo, ciascuno dietro la sua
ispirazione e il suo destino, ma per ciascuno di noi, Radio Napoli
è rimasta come una stella fissa, un punto di riferimento, una
fiamma di allegria e di giovinezza che ci ha accompagnato lungo
tutto il nostro cammino.
franco nicastro
radio palermo,
un avamposto di libertà
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naturalmente meglio di chiunque altro l’ambiente) a lanciare coraggiosamente la politica dei giovani, mentre Picone Stella e gli americani preferivano scegliere, per il giornale radio, professionisti locali
di buon calibro. Per le trasmissioni di spettacolo e varietà furono assunti, tra gli altri, Luigi Compagnone, Tommaso Giglio, Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Raffaele La Capria e tanti altri, insieme
con Arnoldo Foà, che non era napoletano ma aveva trovato scampo
tra noi dalla persecuzione antisemita.
La Sezione Prosa curava tutta una serie di trasmissioni diverse
che andavano dalla riduzione radiofonica di commedie di repertorio al varo di “originali” su grandi personaggi della storia, da rubriche di intrattenimento musicale a note o informazioni di cronaca cittadina e sindacale. Molti di noi, a turno, andavano “in onda”
–come imparammo a dire allora– per leggere commenti politici,
recensioni artistiche, annunci, perfino poesie ma soprattutto per
affiancare Foà e Aldo Giuffré nella conduzione delle due rubriche
più importanti di Radio Napoli: “Italia combatte” e “Spie al muro”.
Con Radio Napoli, dopo le poche settimane delle trasmissioni
da Bari, fu possibile ascoltare per la prima volta un’informazione
libera e proveniente non da emittenti straniere, come Radio Londra e la “Voce dell’America” ma da una stazione della zona liberata. “Italia combatte” era un notiziario di guerra partigiana, introdotto da una sorta di rullo di tamburi: “Non credete – non obbedite
– non combattete – per il TEDESCO!”. Ma la magia della radio
moltiplicava ancora di più il tremendo fascino dell’altra rubrica cui
ho fatto cenno: “Spie al muro”, nella quale si mettevano in guardia
contro i confidenti del nemico, i partigiani, gli antifascisti, gli ebrei,
i giovani in età di leva, minacciati nel Centro e nel Nord Italia dai
rastrellamenti, dalle delazioni, dalle deportazioni, dai massacri dei
nazisti e dei repubblicani. In “Italia combatte” si accavallavano i
“messaggi speciali”, cioè le istruzioni in codice ai patrioti e ai guastatori operanti alle spalle dell’esercito tedesco, in “Spie al muro”,
si inseguivano nomi, indirizzi, ammonimenti.
Quando anche Roma fu liberata e le armate incominciarono ad
avanzare verso la pianura padana, Tommaso Giglio ed io chiedemmo agli amici americani l’onore di continuare il nostro lavoro
in zona di operazioni, al seguito della Unità Mobile Radiofonica
della Quinta Armata che si stava installando ad Altopascio, in Toscana, a pochi chilometri da Firenze ancora occupata in parte dai
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Valori e ideali dei “liberatori”
Questa stretta connessione tra operazioni militari e propaganda
era parte integrante della complessiva strategia alleata che assegnava all’ “informazione psicologica” un compito essenziale: “Oc-
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correva tra l’altro far breccia negli spiriti, nei cuori e nella mentalità delle popolazioni siciliane e degli italiani più in generale, provocando nel loro conscio o inconscio tutto un complesso di sentimenti, di tendenze, di attitudini mentali per promuovere e stimolare il capovolgimento di tendenza a favore della causa delle democrazie”3. Non a caso questa forma di persuasione venne paragonata, in coerenza con i fini che si proponeva, a una quarta arma in
aggiunta alle tre della guerra moderna4.
Il senso di questa strategia, nella quale si riflettevano i valori americani messi in campo nella seconda guerra mondiale, si coglie
già nel messaggio del generale George S. Patton, comandante della VII Armata, pubblicato il 6 agosto da Sicilia Liberata: “Lo scopo
degli Stati Uniti, sotto la guida del nostro grande Presidente,
Franklin D. Roosevelt, non è quello di rendere schiavi ma di liberare quei popoli del mondo che hanno sofferto per venti anni sotto la
malefica influenza del fascismo e del nazismo”.
Guidati da questi ideali democratici, gli americani venivano
dunque da “liberatori”. Si trovavano davanti una Sicilia provata
dalla guerra: città devastate, commercio paralizzato, agricoltura e
industria pesantemente danneggiate, servizi pubblici inesistenti.
Dopo tre anni di conflitto le condizioni generali della Sicilia scontavano anche un ritardo strutturale. “Già nel 1939, infatti, la situazione economico-sociale dell’isola era fortemente inferiore alla
media del Paese […] e il reddito per abitante era di oltre il 35 per
cento inferiore a quello medio nazionale”5. Nel gennaio 1943 lo
scrittore inglese Fernando Tuhov aveva scritto per Sphere un articolo sulle condizioni arretrate della Sicilia che ne facevano un
“frutto maturo” da cogliere subito: “La Sicilia è stata talmente
trascurata dal governo fascista che i siciliani sarebbero lieti di aprire le braccia agli anglo-americani e fare entrare in casa loro le
truppe alleate”6.
Le calorose accoglienze riservate ai soldati alleati confermarono le intuizioni di Tuhov. I siciliani non acclamavano solo i “liberatori” ma intravedevano nel nuovo ordine una concreta possibilità di
sopravvivenza al disastro bellico del regime. Ma né gli inglesi né
gli americani erano pronti a gestire questi problemi a causa di una
preparazione inadeguata e di una programmazione affrettata. Nella fase iniziale, il governo militare alleato per la Sicilia si limitò
quindi a gestire il contingente talvolta con scelte discutibili come
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delle truppe italo-tedesche proseguiva con lentezza tra difficoltà di
comunicazione, resistenze furibonde e le prime stragi di civili.
Bisognerà aspettare altri 12 giorni perché l’ultimo soldato
dell’Asse abbandonasse la Sicilia ma già in quelle condizioni il
Pwb poteva a buon diritto dichiarare il proprio “orgoglio” per essere riuscito a riattivare il sistema dell’informazione con un quotidiano diffuso in 40 mila copie e una emittente in grado di raggiungere quei 400 mila siciliani che ascoltavano la radio almeno
una volta al giorno1.
In realtà il bacino di utenza di Radio Palermo superava i confini
della Sicilia. E anzi le sue trasmissioni erano rivolte prima di tutto
al pubblico continentale, dato che da Palermo la radio era in grado
di “coprire” una vasta area del Sud. La conseguenza pratica fu che
per seguire le operazioni militari almeno i siciliani non avevano più
bisogno di ascoltare di nascosto Radio Londra, come facevano ormai da tempo con un atto di sfida che era entrato nel costume
quotidiano di molti tra cui un giovanissimo Massimo Ganci che a
quegli anni dedicherà poi una parte dei suoi studi storici. “A tarda
sera, verso le ventidue, sin dal dicembre 1939, mi incollavo con
parenti ed amici all’apparecchio fine anni Venti (…) ed ascoltavamo
i bollettini del comando inglese e il commento salace ma composto del colonnello Harold Stevens, un vecchio conservatore britannico che chiudeva la trasmissione con un corretto ‘buona sera’. Da
quel momento la nostra fonte di informazione non fu più l’Eiar (…)
ma la Bbc”2.
La sede di Radio Palermo, in piazza Bellini, era la stessa dell’Eiar dove i soldati della VII Armata americana avevano ricostruito
gli impianti di trasmissione smantellati dai tedeschi prima della fuga. Le “prime trasmissioni non fasciste” (così Sicilia Liberata segnalava la novità) duravano all’inizio solo quattro ore, dalle 20 alle
24, quando Radio Palermo si presentava come la “Voce delle Nazioni Unite”. Ma presto scelse la sigla di “Avamposto dell’Italia liberata” più congeniale alla parte che le era assegnata, quasi a ricordare che occupava una postazione molto vicino alla linea di fuoco.
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Stille e le “lezioni di giornalismo”
Naturalmente il lavoro della radio non richiedeva solo l’opera di
annunciatori. Il notiziario, che presto andò in onda “ogni ora sull’ora”, era affidato a una redazione composta da giornalisti di varia estrazione. Nella selezione non si andò troppo per il sottile. Così
accanto a Marcello Sofia, figlio di Nino estromesso dal fascismo
dalla direzione del giornale L’Ora, si poteva trovare Giacomo Gagliano, amico di Luigi Pirandello, critico teatrale e letterario dello
stesso giornale ma con una diversa storia professionale e politica.
Gli altri erano giovani alle prime esperienze, come Salvatore Riotta
e Virgilio Giordano, oppure cronisti con un recente passato fascista
come Giuseppe Marino, già redattore del Giornale di Sicilia, che
nel fatidico 1938 si era impegnato nella entusiastica promozione
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delle leggi razziali presentandole come un “legittimo esercizio di
difesa” contro la “combutta giudaica annidatasi nella nostra Patria”8. E ancora: Giuseppe Pullara, che con lo pseudonimo di “calatinus” curava uno spazio di varietà, e più tardi Filippo Salerno il
“Bersagliere”, incaricato del commento quotidiano.
Il Pwb aveva affidato il coordinamento redazionale a un giovane
sergente ebreo dalle ascendenze russe, Mikhail Kamenetzki, che
in famiglia chiamavano Misha. Laureato in filosofia, amico di Giaime Pintor, era vissuto e aveva studiato in Italia prima di trasferirsi
negli Stati Uniti in seguito alle leggi razziali che lo avevano anche
indotto ad assumere lo pseudonimo di Ugo Stille quando imperversavano le prime persecuzioni antiebraiche. L’arruolamento nell’esercito americano lo aveva riportato in Italia. Si ritrovò così a 24
anni a dirigere Radio Palermo, prima tappa di una carriera giornalistica che si sarebbe conclusa mezzo secolo dopo con la direzione
del Corriere della Sera.
Nel breve tempo trascorso a Palermo, Ugo Stille introdusse
nella vita di redazione uno stile che non poteva non colpire i giovani giornalisti. “Racconta uno dei suoi redattori di allora: “Eravamo
ragazzi, cresciuti nel fascismo, e capimmo cosa fosse la democrazia vedendo il sergente Kamenetzki ricevere un colonnello con i
piedi sul tavolo”9. Ma Stille fu soprattutto l’interprete di una cultura professionale che cercava di spazzare via i retaggi della retorica
di regime introducendo regole di costruzione della realtà fino a
quel momento sconosciute. Ricorda Salvatore Riotta: “Ci diede alcune essenziali lezioni di giornalismo. Siamo alla radio, ci diceva,
e ci vuole un linguaggio semplice e chiaro. Il soggetto va ripetuto.
Bando alle enfatizzazioni. L’obiettività deve essere una preoccupazione costante. Un giorno mi chiamò per chiedermi di rifare il bollettino. Mi disse: ‘Non c’è alcuna notizia di sconfitta alleata. Se non
siamo obiettivi chi vuoi che ci creda?’. Fui costretto a trovare una
nave affondata dai tedeschi da qualche parte”10.
Il modello giornalistico di Radio Palermo, incentrato sulla credibilità del notiziario, non poteva tuttavia essere estraneo alle ragioni della propaganda. E non poteva essere totalmente affrancato
dal condizionamento del clima bellico. Rispetto a quello che accadeva nelle altre radio soggette a un controllo militare le notizie e la
costruzione di senso non avevano un taglio molto diverso. Anche
per Radio Palermo si può dunque parlare, com’è stato fatto per le
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Radio e storia
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accadde in molti casi con le nomine dei sindaci. Del resto la preoccupazione prevalente era in quel momento rivolta alla situazione
militare, alla ricerca di consenso e al controllo dell’ordine sociale.
Anche il ruolo di Radio Palermo era naturalmente orientato verso
una funzione di sostegno all’impegno bellico. Dai microfoni dell’emittente venivano diffusi soprattutto proclami, messaggi in codice,
appelli alla resistenza. L’informazione era assicurata dal notiziario
politico e militare di 15 minuti che andava in onda alle 20, alle
21,30 e alle 23,45.
Le notizie dai fronti di guerra giungevano a Palermo direttamente dal quartier generale di Algeri oppure erano riprese da altre trasmissioni radiofoniche. “Molte notizie venivano captate attraverso un sistema di ascolto con l’installazione di comuni apparecchi radioriceventi molto sensibili, per mezzo dei quali alcuni interpreti intercettavano da tutte le stazioni radio del mondo ed in
tutte le lingue le notizie che interessavano in quella giornata per
redigere i notiziari da mettere in onda”7. Il frenetico lavoro artigianale di quei giorni che animava l’“avamposto” palermitano riaffiora nella memoria di una delle “voci” di Radio Palermo, Salvatore
“Toti” Messina.
Come lui tanti altri giovani erano finiti negli studi di piazza Bellini dopo avere letto su Sicilia Liberata del 14 agosto l’avviso che Radio Palermo cercava annunciatori. Non c’era tempo da perdere: le
prime selezioni si sarebbero svolte il giorno dopo, in pieno ferragosto. Un nuovo avviso il 19 convocava per il 20 le “audizioni finali”.
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Intrattenimento senza propaganda
Questa considerazione non fu certamente estranea alla decisione di ampliare la programmazione iniziale di quattro ore, assorbita completamente dalle ritrasmissioni da Londra e da Algeri
e da musica leggera registrata, a nove ore e mezzo, dalle 16
all’1,30. Il palinsesto fu arricchito, l’informazione potenziata. In
una relazione del 30 settembre 1943 inviata al capitano Charles
Poor dell’Amgot, si descriveva sommariamente anche la struttura
del palinsesto di Radio Palermo: oltre a un giornale radio che offriva una panoramica mondiale, c’erano spazi dedicati ai commenti, agli approfondimenti, ai programmi musicali e a trasmissioni concepite “per tenere alto il morale” sia delle truppe sia
della popolazione.
Il palinsesto era diviso in due parti. Nella prima veniva trasmesso un programma di evidente impronta americana, Army Expeditionary Station, che comprendeva, tra le 16,30 e le 17, un British program for Troops. La seconda parte della programmazione (quella
che veniva ricondotta all’“Avamposto dell’Italia liberata”) era invece
in italiano. Conteneva ancora ritrasmissioni della Bbc, di Radio Algeri e della Voce dell’America. Ma proponeva anche una varietà di
notiziari, commenti e uno spazio di 15 minuti per “programmi speciali di tipo politico o psicologico”.
“Questo quarto d’ora […] è di aiuto per l’ascoltatore che viene
così informato che subito dopo le notizie delle otto e mezzo c’è un
programma interessante, diverso, ogni programma viene ripetuto
settimanalmente, la stessa sera”12.
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Il “Bersagliere” suona la carica
Furono proprio i programmi di conversazione ad avere, con
quelli di intrattenimento, un notevole successo d’ascolto e a rappresentare un originale modello radiofonico corrispondente peraltro, almeno nelle intenzioni, ad alcune “general recommendations” dell’Oss, i servizi segreti americani. La raccomandazione
più importante era riferita all’uso dell’ “entertainment” e di discussioni politiche e culturali “su una base di non-propaganda”. Come
dire che l’azione di aggregazione del consenso più efficace era
quella che puntava sull’intrattenimento leggero senza denunciare
la sua natura propagandistica. Si scopriva l’importanza dell’entertainment nei media che già aveva trovato riconoscimento in alcune
testate e in alcuni studi americani.
Non sempre la “raccomandazione” sarà comunque e fedelmente attuata nella programmazione della radio, e in particolare nei
commenti di Filippo Salerno, il “Bersagliere” che da Palermo suonava la carica facendo l’appassionato controcanto al “Commento ai
fatti del giorno” della radio fascista; nelle cronache di Lauto Alberti, pseudonimo di Giacomo Gagliano, che raccontava la guerra sul
fronte orientale, e in quelle di Virgilio Giordano che riferiva le notizie del fronte jugoslavo.
Di tutti questi programmi uno dei più seguiti era quello del “Bersagliere”, commentatore politico ufficiale della radio. Barese, laureato
in legge, ufficiale dei bersaglieri (di qui la scelta dello pseudonimo),
Salerno aveva difeso in Africa soldati e civili arabi ed ebrei davanti al
tribunale di guerra. E si era esposto al punto da essere a sua volta arrestato e processato davanti allo stesso tribunale. Gli alleati ne tennero conto quando si schierò dalla loro parte. Fu subito destinato a una
emittente clandestina di Capo Bon, che si presentava come una radio
fascista e prendeva addirittura il nome di Italo Balbo: uno dei tanti camuffamenti escogitati nella guerra di propaganda che contribuì ad alimentare la diffidenza nei confronti della radio. Il 10 luglio Salerno
sbarcò in Sicilia con il primo reparto radio mobile della VII Armata americana.
Ogni suo intervento a Radio Palermo, preceduto dai celebri squilli
che introducono l’inno del corpo dei bersaglieri, era rivolto a dare
una lettura degli avvenimenti del giorno. Nel commento del “Bersagliere”, che si presentava come una “rassegna di orientamento politico-militare nel mondo”, si può riconoscere quindi tutta la cifra co-
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Radio e storia
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altre emittenti, di “alterna attendibilità delle trasmissioni, dove il
confine tra verità e falsità interessate, tra amplificazioni propagandistiche e cronaca degli eventi, era quanto mai labile”11. Nella concezione di Stille, però, la contaminazione dei generi doveva evidentemente fermarsi o almeno attenuarsi davanti all’interesse dell’informazione e all’autorevolezza del mezzo. E non sempre questa
esigenza riuscì ad avere preminenza nella linea della radio. Ma il
suo modello, sperimentato in quei giorni in Sicilia, costituì un importante banco di prova per il nuovo sistema di informazione, non
solo radiofonica, che si stava mettendo a punto in quegli anni cruciali con un’attenzione straordinaria rivolta ai criteri giornalistici e
professionali.
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L’annuncio dell’armistizio
Quel giorno Salerno era attendato con le truppe americane tra
Punta Raisi e Capaci, vicino Palermo. Aspettava di registrare un
messaggio di “particolare importanza”. Ma ne ignorava il contenuto.
Alle 16 un ufficiale della marina britannica, il comandante Martelli,
lo prelevò con una jeep e solo sulla strada che conduce dalla borgata di Tommaso Natale a Palermo seppe di che si trattava. Alle 17,45
il generale Dwight Eisenhower e il maresciallo Pietro Badoglio avrebbero dovuto annunciare simultaneamente l’armistizio: Eisenhower da Radio Algeri, Badoglio dalla radio italiana. Salerno avrebbe dovuto scrivere il commento per Radio Palermo. Fu portato
in una stanzetta degli studi di piazza Bellini, cominciò l’attesa per
l’annuncio che avrebbe cambiato il corso della guerra.
Ma all’ora convenuta si sentì solo la voce di Eisenhower: “Le
Forze Armate italiane si sono arrese incondizionatamente […].
L’armistizio è stato firmato da un mio rappresentante e da un rappresentante del maresciallo Badoglio e diviene effettivo in questo
istante”. Da Roma invece silenzio. La radio continuava a trasmettere solo musica. Martelli era infuriato, Salerno inquieto. Con
un’ora di ritardo, quando già i comandi alleati cominciavano a sospettare della lealtà degli italiani, finalmente alle 18,45 parlò Badoglio: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla Nazione, ha
chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo
delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata”.
Vent’anni dopo, rievocando quei momenti, Salerno racconterà:
“Prima ancora che Badoglio concludesse il suo intervento, uscii
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precipitosamente in cerca del comandante Martelli. Lo trovai emozionato che stava venendo verso la nostra stanzetta. Da un altro
apparecchio aveva già ascoltato la notizia […]. Insieme gettammo
in fretta, su pezzi di carta raccolti qua e là, le linee generali del
primo commento radiofonico di Bersagliere”14.
Qualche giorno dopo dalla calda voce meridionale di Salerno si
potevano sentire queste vibranti parole: “Anche i commenti delle
radio estere e le descrizioni particolareggiate della viva reazione italiana contro l’esercito tedesco (barbaro e tiranno) ci mostrano
chiaramente la vera anima del nostro popolo; non quella che per
vent’anni era stata avvilita e falsata da un’ipocrita mistica e da
un’altrettanto ipocrita etica fascista, ma quella autentica, genuina,
semplice e sincera, fatta da industre operosità e di pace feconda,
ma nel tempo stesso di dedizione assoluta e di sublime eroismo,
quando sono in gioco sul tappeto della storia e nelle svolte del destino i reali interessi del Paese”15.
Nelle parole del “Bersagliere” si possono magari riconoscere i
residui di una cultura radiofonica che si era formata sul “Commento ai fatti del giorno” di Nino D’Aroma, Aldo Valori, Mario Appelius,
Giovanni Ansaldo. Ma forse la familiarità del tono, che poteva richiamare una sottile continuità stilistica con le cronache del regime
senza le cadute volgari, era indotta dalla necessità di competere almeno all’inizio sullo stesso terreno con la radio fascista. I commenti del “Bersagliere”, che nel tempo assunsero un taglio informativo
più articolato abbandonando l’iniziale tono propagandistico, suscitavano comunque discussioni e confronti soprattutto in Sicilia dove,
già prima dello sbarco, si potevano cogliere fermenti sotterranei di
agitazioni antifasciste non soltanto di segno separatista ma anche
in campo cattolico, comunista, socialista, liberale.
La “guerra psicologica” negli altri programmi
In una regione dove il ruolo sociale della chiesa era molto influente e il sentimento religioso molto profondo non poteva mancare nella programmazione di Radio Palermo una conversazione religiosa che andava in onda, naturalmente, la domenica. Nelle intenzioni degli americani il commento doveva trattare i temi religiosi con
un taglio che segnalasse anche in questo campo il cambiamento intrapreso nell’Italia liberata. E infatti, spiegava la relazione all’Amgot,
“il discorso cattolico stimola la virtù in termini religiosi di libertà, u-
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municativa della radio. E come comunicava Radio Palermo? Bisogna
dire che le innovazioni stilistiche e linguistiche introdotte da Ugo Stille nel notiziario giungevano molto attenuate nelle note di Filippo Salerno. Il “Bersagliere” indulgeva talvolta a toni enfatici e propagandistici, almeno nei commenti d’esordio come quello dell’8 settembre
che dava notizia dell’armistizio e delle reazioni in questi termini: “Il
popolo siciliano ha appreso la grande notizia, che si è propagata velocemente, con quella emozione solenne, viva e festante, che è propria delle grandi ore in cui si decidono i destini della propria pace,
delle proprie famiglie, del proprio avvenire”13.
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Il “Calabrone” che pungeva ronzando
Quando lo schema della programmazione fu definito in modo
stabile (Stille era già andato via), Radio Palermo assunse una fisionomia più precisa sia come strumento di propaganda sia come
mezzo di informazione che, “per tenere alto il morale”, dava spazio anche a speciali con cadenza settimanale e a programmi musicali. A Radio Palermo venivano sperimentate le stesse innovazioni
che –in un contesto culturale indubbiamente più vivace– in quei
giorni interessavano Radio Bari: i programmi “si arricchirono, aumentarono le ore di trasmissione, la tecnica si perfezionò, si introdussero numerosi brani di musica leggera e di jazz, comparve il
boogie-woogie”18.
Un programma che avrebbe sicuramente tenuto “alto il morale”
fu il Calabrone, anch’esso replicato da Radio Bari, uno spigliato e originale giornale radiofonico che andò in onda dalla fine di marzo
1944, quando gli Alleati non erano ancora giunti a Roma, ed era curato da un gruppo di universitari di Palermo. Il titolo era ripreso dall’omonima opera che veniva riproposta come sottofondo musicale
mentre un “giornalaio” banditore, “Toti” Messina, annunciava l’avvio
del programma ricordando che il Calabrone “ronza e punge una volta la settimana”.
Oggi si direbbe che era un programma di satira. In anticipo sui
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tempi, quella satira faceva anche informazione e vi si poteva riconoscere con qualche evidente caduta qualunquista (del resto in linea con i tempi) il fermento di una coscienza civile più aperta, il
gusto della critica spinta fino alla dissacrazione. Uno dei bersagli
che il Calabrone si divertiva a “pungere” era il re nanetto interpretato da Lina Acconci, esperta attrice di operetta e varietà, che dava
la sua voce al piccolo Vittorio Emanuele III. Tra gli autori spiccava
un giovane dotato di verve ironica, Eugenio Franzitta, che firmava i
testi come Filosì, lo pseudonimo con il quale per anni aveva firmato le sue pungenti “analisi” nelle pagine del Bertoldo.
Il carattere graffiante del programma cominciò a dare fastidio.
La versione pugliese suscitò nel dicembre 1945 anche un intervento censorio della Prefettura di Bari, secondo cui “è sommamente pregiudizievole, per il prestigio che deve mantenere il rappresentante del governo in provincia, ricalcare abusati motivi di
satira politica”19. La libertà era stata appena conquistata e già cominciavano a manifestarsi inquietudini restauratrici.
In Sicilia qualcuno avrebbe preferito ridurre l’audience del Calabrone: risultato che stava per essere raggiunto allorché la società generale elettrica siciliana annunciò, ufficialmente come forma di risparmio energetico, la sospensione dell’erogazione a Palermo nell’ora in cui il Calabrone cominciava a “ronzare”, cioè alle
21. Il contrattacco degli universitari fu immediato.
Franzitta lo ricorda così: “L’indomani tutta Palermo fu invasa da
piccoli manifesti per informare che, nonostante l’incredibile ed ingiustificato gesto della Sges, Calabrone sarebbe stato ascoltato da
tutti i palermitani ‘direttamente dai nostri altoparlanti collocati nel
balcone su piazza Bellini, su piazza Pretoria, nonché nel tratto di
via Maqueda davanti l’Università’. Sapevo che quella platea sarebbe stata illuminata a giorno. […] Alle 20,45 quando il brusio dei palermitani cominciava a somigliare ad un immenso nido di Calabroni, accesi i tre grossi riflettori, che illuminarono a giorno la grande
distesa di teste di palermitani (o comunque gli uomini, donne e
bambini, tenuti a cavalcioni sul collo da padri e madri). La maggior
parte dei palermitani non immaginava cosa poteva descrivere una
Palermo di notte, immersa nel buio totale. E non sentì (in quell’estate di fresco dopoguerra) che dal vastissimo brusio di migliaia di
spettatori, a sentire ormai la conosciutissima musica del Calabrone, si levò il rombo degli applausi di ventimila palermitani […], che
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
guaglianza, onestà ecc., e serve anche a mostrare il nostro desiderio di dare alla religione una voce libera”, contrariamente al ruolo di
fiancheggiamento che per essa il fascismo aveva concepito16.
Tra gli altri programmi vanno ancora segnalati What Allies Say
About Italy, che il martedì proponeva una rassegna di ciò che gli alleati pensavano e dicevano dell’Italia, e la Nuova Italia che andava
in onda il giovedì e presentava “ciò che l’Italia può sperare, quale
dovrebbe essere il suo ruolo”17. La trasmissione del giovedì, Al popolo del Nord, rientrava chiaramente nella “guerra psicologica”. Ogni settimana diramava un messaggio con il quale spronava alla
resistenza i lavoratori, le donne, i soldati dell’Italia continentale non
ancora liberata e non ancora libera. Per raggiungere la maggiore
efficacia comunicativa gli appelli erano rivolti nel “dialetto di ogni
regione o città”. Un programma di contenuto militare, Italia combatte, trasmesso anche da Radio Bari, segnalava infine ai gruppi
partigiani, in via di formazione, l’attività di spie e di infiltrati.
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La dottrina propagandistica e la “copertura” radiofonica
La radio aveva a quel punto consolidato la sua attività ed era una
creatura in grado di camminare con le proprie gambe. In queste
condizioni poté dunque affermarsi e crescere uno spirito antifascista più autentico di qualsiasi altra pressione psicologica. L’esperimento di Radio Palermo aveva fissato le direttrici di un modello di
informazione che sarebbe stato, con nuovi innesti e in realtà a volte
più complesse di quella siciliana, trasferito nelle stazioni Eiar di Bari, Napoli, Roma e delle zone via via raggiunte e liberate dall’offensiva alleata.
Il modello di Radio Palermo si rivelò uno strumento di indubbia
efficacia nell’attuazione dei princìpi di una dottrina propagandistica, messa a punto in vista dello sbarco in Sicilia, che mirava da un
lato a convincere il nemico della sua sicura disfatta e dall’altra ad
ottenere l’adesione delle popolazioni all’obiettivo di cooperare per
costruire un paese libero e una condizione di benessere. Libertà e
benessere erano tra loro correlati ma il fattore decisivo era la fame: per essa gli alleati si trovarono a gestire, come fu detto, il
“crollo morale di un popolo”. E se la prevalenza nella copertura
informativa era pur sempre della carta stampata, che raggiungeva
il 61 per cento dei siciliani, la radio ebbe in questa strategia una
parte significativa perché nel momento di massima diffusione e ascolto riusciva a raggiungere perfino il 23 per cento della popolazione. E quel che più conta, anche grazie alla radio, “i siciliani non
solo erano al corrente della propaganda americana ma in generale la accettavano”21. Pur senza il conforto di questi rilevamenti, di
dubbia scientificità, nella loro avanzata dopo lo sbarco gli americani, più degli inglesi, avevano già potuto toccare con mano un alto
grado di consenso sugli obiettivi alleati. Con la spinta di una condizione sociale miserabile la propaganda aveva raggiunto gli scopi
ma fu la radio a completare l’opera.
Quaderno di COMUNICazione
Note
1
Il dato sull’ascolto radiofonico emerge da un’inchiesta commissionata dal Pwb a
Stuart Dodd verso la fine del 1943. Cfr. R. W. Van de Velde, The Role of US Propaganda in Italy’s Return to Political Democracy, 1943-48, Ph. D. thesis, Princeton 1950.
2
M. Ganci, Quell’estate di guerra a Palermo, L’Ora, 23 agosto 1990.
3
L. Mercuri, La Sicilia e gli Alleati, Storia contemporanea n.4/1972, p. 926.
4
Cfr. L. Mercuri, La “quarta arma”, Mursia, Milano 1998.
5
S. Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967, p. 133.
6
Cfr. l’articolo “Sanguinoso oltraggio inglese a tutta la gente di Sicilia” in La
Gazzetta di Messina, 17 gennaio 1943.
7
Testimonianza di Salvatore Messina in AA.VV., I protagonisti , Palermo
1993, p. 267.
8
Cfr. M. Genco, Repulisti ebraico, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 2000, p. 104.
9
G. Riotta, Lezioni di democrazia, Corriere della Sera, 3 giugno 1995.
10
Testimonianza di Salvatore Riotta resa all’autore.
11
E. Menduni, Il mondo della radio. Dal transitor a Internet, Il Mulino, Bologna
2001, p. 105.
12
Activities of Radio Palermo, Radio Section Pwb. 15 Army Group, 30 settembre
1943 in A. Pizarroso Quintero, Stampa, radio e propaganda. Gli Alleati in Italia
1943-46, p. 120.
13
Dal commento dell’8 settembre 1943, ore 20.
14
F. Salerno, “Quell’8 settembre del ’43”, Giornale di Sicilia 8 settembre 1963.
15
Dal commento “Tramonta l’epoca della menzogna” dell’11 settembre 1943.
16
Activities of Radio Palermo, Radio Section Pwb. 15 Army Group, 30 settembre 1943 in A. Pizarroso Quintero, op.cit., p. 120.
17
Ibidem.
18
F. Monteleone, Storia della Rai dagli Alleati alla Dc 1944-1954, Laterza, RomaBari 1979, p.30.
19
L’episodio è riportato in F. Monteleone, cit., p. 68.
20
E. Franzitta, Un Calabrone sul Ficodindia, inedito.
21
R. W. Van de Valde, cit., p.162
Radioricevitore
RADIOMARELLI
mod. Vertumno II, 1934
Radio e storia
Radio e storia
si misero ad imitare con la bocca quel ronzio di un ignaro insetto
che aveva punto (e punito) tanti intrallazzisti commercianti e politici (e religiosi)”20.
La puntata pubblica aveva ormai decretato il successo del Calabrone al punto che il programma ebbe da quel momento due appendici: una ancora radiofonica (con il Calabroncino, dieci minuti
di informazione e satira supplementari) e una stampata.
Quaderno di COMUNICazione
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antonio santoni rugiu
da radio sardegna al radiodramma
Radio e storia
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Quaderno di COMUNICazione
perato e oggi del tutto dimenticato. Eppure il miracolo di quella radio a galena mostrò subito una capacità imprevista di coinvolgimento e di suscitazione intellettuale ed emotiva. La galena è un
minerale i cui cristalli plumbeo-sulfurei consentivano la ricezione
del segnale captato dalle onde hertziane (nell’euforia dei primi
tempi dette “gli eterei sentieri”) e per loro particolare proprietà
magnetica di autoalimentazione fornivano un ascolto pure in zone
(non poche nell’Italia rurale degli anni ’20) ancora sprovviste di elettricità. Prima di raggiungere l’ascolto attraverso apposite cuffie,
occorreva appoggiare la punta sottile, quasi un ago, di un filo di
ferro avvolto a spirale su uno dei tanti minuti cristalli superficiali
della galena, detto “baffo di gatto” per la sua forma sottile e la sua
grande sensitività (e forse perché il gatto fin da tempi remoti è stato usato come metafora di magìa). Che cos’erano infatti se non
magìa una voce o una melodia ascoltate da tanto lontano? Inoltre
per tutti, contadini e cittadini, la bravura a trovare, magari al primo
colpo, il cristallo giusto, per ulteriore fattore di coinvolgimento, fino a sentirsi co-protagonista di quella magica comunicazione e identificarsi in certa misura con il medium (e quindi precorrendo
McLuhan di qualche decennio, anche con il messaggio).
Stabilire quel contatto però, semplicissimo a dirsi, di fatto non era
per niente facile. A volte il baffo di gatto doveva saltellare dieci-venti
volte in vari punti della galena. Prova e riprova finché si perdeva la
pazienza o si trovava il cristallo giusto. E magari, una volta stabilito il
contatto, i rumoracci restavano sempre in agguato: bastava che il segnale si allontanasse per un effetto fading delle onde medie (le onde
lunghe e le corte erano ancor meno propiziatrici di felici ascolti) e ecco che ricomparivano più laceranti di prima fischi, scariche, gracchiamenti, stridori e roba del genere. Tuttavia, malgrado questi non
lievi contrattempi operativi, il successo della radio fu grandioso. Quel
poco che bene o male si riusciva a sentire, appariva tanto mirabolante (omne ignotum pro magnifico tenetur aveva detto Vico) da far perdonare gli svariati inconvenienti tecnici. Appunto un fatto magico,
quasi un miracolo. E per spiegarcelo meglio ricordiamo che la maggior parte della popolazione, specie quella rurale allora in Italia
maggioritaria, non aveva mai ascoltato prima direttamente musica e
canto in un teatro o in una sala di concerto e forse nemmeno in una
chiesa, se non canti e suoni di chitarra o di organetto durante le feste
sull’aia delle grandi occasioni. Inoltre, a causa dell’analfabetismo an-
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
La rivoluzione del “baffo di gatto”
Dicendo “radio” oggi noi rievochiamo solo una piccolissima parte, ormai sbiadita dal tempo, del significato, per alcuni aspetti letteralmente rivoluzionario,
che la rapidissima diffusione della radiofonia ha avuto
nella seconda metà degli anni ’20 quale primo potente mezzo di comunicazione di massa. Parlare di tale
primato e di rivoluzione oggi può apparire esagerato,
ma basta riflettere un attimo sull’impatto che il nuovo
mezzo ebbe per chi, senza muoversi da un paese della Carnia o del Gennargentu, poté allora percepire incredibilmente segnali sonori di avvenimenti che nello
stesso istante (oggi diremmo “in tempo reale”) si stavano svolgendo a parecchie centinaia di chilometri di
distanza, non importa se la radiocronaca di una partita della nostra nazionale di calcio in campo a Budapest o a Lisbona, il collegamento con l’esecuzione di
un’opera lirica alla Scala di Milano o al S.Carlo di Napoli oppure la voce del Duce che stava pronunciando
uno dei suoi “storici” discorsi dal balcone romano di
palazzo Venezia, e tutto il resto. Nessun’altra applicazione tecnologica dei cento anni precedenti, durante i
quali pure si erano realizzate cose stupefacenti nel
campo della comunicazione a distanza aveva inciso
tanto radicalmente, oltretutto, sul mutamento della percezione umana del senso di lontananza e di presenza, costituente importante della griglia psicologica fondamentale della vita di relazione e
quindi della visione del mondo in senso proprio e in senso figurato. Quelle innovazioni ottocentesche, per quanto grandiose, avevano comportato sì forti accelerazioni, certamente clamorose e incisive nei rapporti pubblici e privati (pensiamo ai primi cavi telegrafici transoceanici gettati fra Europa e USA ancora prima della fine
del XIX sec.) ma nessuna di esse, per quanto stupefacente, era
stata in grado di azzerare l’intervallo di tempo fra emissione e ricezione (salvo in ultimo il telefono, però trasmittente della voce di
un singolo parlante unicamente a un singolo ascoltatore e perciò
non catalogabile quale mezzo di comunicazione di massa).
Tuttavia il primo radioascolto era parecchio difficoltoso: avveniva per mezzo di un primitivo apparecchio a galena, poi presto su-
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La tipicità del prodotto radiofonico
L’effetto così accattivante di apparire rivolta direttamente a ogni
singolo utente, valeva anche per le conversazioni su temi vari e
svolte con un linguaggio che, per quanto cercasse di essere divulgativo, non era certo alla portata di tutti. Eppure risultò che molti
dicevano di non capire quasi nulla di quei discorsi ma di averli ascoltati lo stesso con piacere perché nessuno prima era arrivato fin
dentro la propria casa a tentare di spiegare certe cose. Si trattava
quindi di una sorta di bene accolta educazione popolare e insieme
di un dovere-piacere di ospitalità verso una visita inattesa e gratificante. Mi pare che proprio questo –rapportato alla realtà sociologica degli anni ’20 o ’30 in Italia- vada sottolineato: la capacità di entrare direttamente nel privato, di cogliere il radioascoltatore nell’intimità familiare, caratterizzava l’emissione radiofonica in modo
molto netto rispetto allo spettatore che sedeva nella platea di un
cinema, di un teatro o di una sala di musica.
Ogni medaglia ha il suo rovescio: per quanto coinvolgente e accattivante, il radioascolto aveva il tallone d’Achille di poter essere
cambiato con altro o spento a piacere del singolo. Un autore radiofonico doveva sempre ricordarsi di questa particolarità che comportava prima di tutto la capacità di fissare l’attenzione del radioa-
Quaderno di COMUNICazione
scoltatore: se era difficile che uno spettatore, pagato il biglietto,
abbandonasse la sala perché insoddisfatto dello spettacolo, era
molto facile invece che un radioascoltatore girasse la manopola
per cambiare stazione o spegnere del tutto l’apparecchio o di allontanarsi senza bisogno di chiedere scusa ad altri spettatori. Non era
vissuto insomma quale ascolto passivo, come qualcuno dirà invece
quando le galene vennero sostituite dagli altoparlanti accesi o
spenti dal semplice scatto di una manopola. Questo senso di magìa
e di miracolo, non sfuggì naturalmente alla Chiesa. Con la tradizionale sua fine sensibilità ai processi formativi e alle modalità delle
loro procedure, il magistero cattolico intuì la grande potenzialità
del nuovo mezzo verso la massa. Il suo primo atteggiamento fu di
reticenza, se non di condanna. Dal pulpito i fedeli erano posti dai
pastori di anime, specie nelle zone rurali, sull’avviso che Satana
poteva nascondersi in quelle voci e in quei suoni per corrompere i
costumi (vedi le canzoni d’amore troppo passionali o scene di commedie piccanti o frivole) e per montare la testa suggestionando i
poveri e ignoranti villici.
Dopo aver sottolineato le percezioni soggettive del radioascoltatore, qualche considerazione oggettiva sul nuovo mezzo. La radio, per esempio, dava evidenza espressiva rendendo il suono (voce e rumori) attore, così come il cinema aveva reso attrice l’immagine di un oggetto, anche indipendentemente dal contenuto dell’uno e dell’altro. Al primo piano cinematografico e al dettaglio di
un’immagine corrispondeva nella radio il primo piano fonico di
una nota, di un sussurro o di un grido, ossia il tono e il timbro del
suono attraverso il microfono. La radio non era quindi solo il mezzo che consentiva di comunicare notizie o di irradiare musica o recite di una commedia dal palcoscenico fino a luoghi remoti, si esprimeva anche con un proprio linguaggio. In altre parole la musica e le composizioni di qualunque genere per la radio, se volevano
sfruttare veramente la specificità del mezzo, dovevano essere già
pensate per essa e in vista di essa dovevano essere articolate o
sceneggiate fino nei particolari, poi con la stessa cura eseguite.
Nasceva insomma un’estetica della radiofonia. A Roma nel
1938, in un seminario di Rudolf Arnheim. Io ero una matricola universitaria di Filosofia e Arnheim era già un noto psicologo della
Gestalt, in rapporto con i francofortesi: Walter Benjamin si rifà già
a lui nei suoi primi scritti (1932) circa alcune posizioni sulla rap-
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Radio e storia
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cora sensibile in campagna e anche di un atteggiamento di auto-isolamento talvolta vissuto come un’orgogliosa protezione della propria
identità contadina contro la moderna corruzione dei costumi, non aveva mai letto non solo un libro ma neppure un giornale. Ascoltare
una voce o una musica che sembrava parlasse personalmente a ciascun ascoltatore (ecco l’arma segreta psicologica della grande capacità di penetrazione della radio) non solo attenuava molto quell’isolamento, ma accreditava ancor più il senso magico del mezzo. Inoltre
ridava psicologicamente dignità alla manualità dell’ascolto, per così
dire: anche il contadino che dopo molti tentativi riusciva a captare
dalla “scatola parlante” Amami Alfredo! o La calunnia è un venticello
eseguite da illustri cantanti e non più canticchiate dalla suocera che
in gioventù era stata a servizio da certi signori in città, a questa imprevista soddisfazione aggiungeva l’orgoglio di essersi procurato l’ascolto grazie alla propria bravura manuale nel maneggiare il baffo di
gatto. Insomma, si sentiva procacciatore attivo di quel suo arricchimento culturale.
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Prima e seconda generazione della radio
Al momento in cui Benjamin aveva avviato quel discorso, alla radio di prima generazione mancava ancora la riproducibilità indefinitamente ripetibile, come invece il film possedeva fin dalla nascita.
Il prodotto cinematografico infatti si elaborava, si montava e infine
si impressionava su pellicola proprio in vista di una sua riproduzione, mentre l’emissione radiofonica, senza altra mediazione, non
appena giunta alle orecchie dell’ascoltatore si annullava nell’etere.
Era naturalmente già possibile incidere suoni e parole radiofoniche
su disco per conservarle, ma implicava un processo laborioso e costoso, da riservarsi perciò alle grandi occasioni, per esempio ai di-
Quaderno di COMUNICazione
scorsi di Mussolini. Solo nel dopoguerra comincerà a diffondersi la
registrazione su filo e subito dopo su nastro Ampex che renderà
meno laborioso e più preciso il montaggio, in forme analoghe a
quanto era usuale con la pellicola cinematografica. Fino ad allora
la radio poteva contare solo su una suggestione immediata, forte
finché si vuole ma altrettanto volatile. In questo la radio non si differenziava ancora dal teatro (sebbene la regìa di un’opera eseguita
sulla scena si differenziasse parecchio da quella adottata per la
stessa davanti al microfono): una volta calato il sipario quella data
esecuzione non era più riproducibile. Volendo, si poteva metterla in
scena di nuovo, eseguita daccapo dagli stessi o da altri, ma di certo
poco o molto differente dalla precedente. Era insomma ex novo un
altro spettacolo, il che imponeva un costo maggiore sia in termini
finanziari sia in termini di prevedibilità dell’esito. Così per la radio
che, anzi, ancora più del teatro rimarrà affidata all’attimo fuggente,
almeno fino alla prassi più tardi invalsa di salvare tutto su nastro.
Anche fra cinema e teatro esistevano nette differenze: il primo era
per molte cose teatro che però con le modalità della sceneggiatura
e del montaggio (gioco dei piani, ritmo, flash back, inquadratura,
effetti visivi e sonori, ecc.) indirizzava la percezione dello spettatore
come guida condizionante del messaggio e della trama di connessioni interiori successive. Aspetto che era –si è accennato– in comune con il cinema. Inoltre, l’assenza della fisicità del palcoscenico, dell’orchestra e della platea, del vincolo del hic et nunc (dicevano i francofortesi), conferivano al testo composto direttamente per
la radio cadenze simili alla sceneggiatura cinematografica, somiglianza che si accentuerà molto con la possibilità di manipolare,
giocando sul ritmo, sulle voci e sui fondi sonori, i nastri registrati in
funzione dell’effetto desiderato, come fossero pellicole cinematografiche. Con la registrazione su nastro nascerà poi la radio di seconda generazione.
Arnheim poneva in luce un altro aspetto della radiofonia: per
questa sua attitudine a raggiungere tanta diffusione e al tempo
stesso a stabilire un contatto diretto e personale con ciascuno, la
radio si prestava benissimo ad agire, con una parte di primo piano,
nella nuova dimensione di massa che aveva caratterizzato gli anni
’30, sorta come strumento di reazione alla grande depressione conseguente alla grave crisi 1929 dalla quale gli USA erano usciti, trascinando a poco a poco gli altri, grazie alle indicazioni keynesiane. In
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
presentazione pittorica. Arnheim era scappato in Italia a causa
della campagna razziale che nella Germania hitleriana aveva subito toccato livelli drammatici e presto, quando Mussolini vi si allineerà, dovrà fare altrettanto dall’Italia.
Ovviamente, come gestaltista, Arnheim era soprattutto interessato alle strutture visive. A Roma si dedicava a una certa analisi
del cinema, moderna arte visiva per eccellenza. Ma per contrasto
e quasi per un’inversione dei ruoli, aveva voluto interessarsi anche
della non-visività, diciamo, che era la radio. Le elaborazioni di quel
seminario saranno poi in buona parte pubblicate in un volume edito da Hoepli nel 1939, La radio cerca la sua forma. Se l’autore
dell’Angelus novus si era rifatto ad Arnheim, questi a sua volta si
rifaceva a Benjamin secondo cui le grandi modificazioni dei modelli di vita e di modelli culturali vissuti dall’umanità nella storia,
comportano presto o tardi altrettante modificazioni nei modi e nei
generi della loro percezione sensoriale. Ossia che la resa di una
comunicazione di qualsiasi tipo, tanto più se di massa, non va ricavata da una valutazione della qualità del suo contenuto ma si misura da ciò che effettivamente di essa viene percepito, rilevando
anche le modificazioni sensoriali di cui sopra. Così come l’effetto
di un farmaco si giudica correttamente non solo analizzando il
composto ma registrando le reazioni da esso prodotte progressivamente sull’organismo. Noi dell’ultima generazione ci chiedevamo come mai Benjamin nel suo discorso sulla riproducibilità dell’opera d’arte avesse incluso le opere d’arte tradizionalmente intese più il cinema, ma non avesse detto nulla della radio, che pure a
noi pareva il linguaggio più nuovo e stimolante.
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L’esperienza di Radio Sardegna
Un embrione di emittente radiofonica era già nato nell’isola dopo l’armistizio del settembre 1943 che aveva visto i tedeschi imbarcarsi in fretta, diretti in continente per non restare intrappolati,
e gli alleati sbarcare indisturbati, grazie a un autocarro-radio ex
militare che circolava diffondendo un notiziario e nei lunghi intervalli mandando in onda l’unico e ormai gracidante disco a 78 giri in
dotazione che era La Cavalcata delle Valchirie. La potenza diffusiva di quell’apparato di fortuna era assai debole e all’atto pratico
pochi ebbero la fortuna di ascoltarlo. Ma presto intervenne lo Psycological Warfare Branch, ossia il servizio stampa e propaganda
del governo militare alleato, quella soluzione molto zingaresca ebbe termine e la prima emittente stabile di Radio Sardegna piantò
le antenne nella parte alta di Cagliari, precisamente nelle grotte di
Is Mirrionis (nella zona dove ora sorgono molti edifici universitari).
Venne dotata di attrezzature un po’ meno improbabili delle precedenti, il consunto disco wagneriano trovò la pace eterna in qualche
discarica e la nuova emittenza si estese fino al punto di comprendere, oltre a qualche essenziale notiziario che informava delle importanti novità della vita quotidiana (la distribuzione delle patate
con i tagliandi della tessera annonaria, l’acqua nelle case erogata
solo dalle 3 alle 5 del mattino, e così via), trasmetteva anche qualche disco di canzoni americane (fu un piacere riascoltarle dopo
anni di embargo decretato dal fascismo), qualche conversazione di
varia umanità, qualche disco d’opera (un po’ meno gracchiante
Quaderno di COMUNICazione
delle Valchirie) gentilmente offerto da privati appassionati di lirica
e perfino qualche atto unico recitato dalla locale compagnia filodrammatica dopolavoristica.
Ma quella gestione spontaneistica durò poco. In seguito ad accordi stipulati fra il Military Allied Gouvernement e il governo italiano del Comitato di Liberazione Nazionale, il P.W.B., pur sempre
controllandole dall’alto, passò le varie stazioni locali sorte nel sud
e nelle isole dopo la cessazione dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (E.I.A.R.) fascista, al nuovo ente che ne prendeva l’eredità, la Radio Audizioni Italia (R.A.I.). Sembrò sulle prime che si
concedessero larghi margini di autonomia da parte dei controllori
alleati e dei nuovi gestori della R.A.I. che inviarono a dirigere la
nuova stazione di Cagliari un giovane fiorentino, Amerigo Gomez,
segnalatosi per avere avuto il coraggio di registrare su filo alcuni
momenti della resistenza e dei combattimenti per la conquista alleata di Firenze nell’agosto 1944. Gomez era un giovane di idee e
di gran voglia del nuovo. Radunò intorno a sé altri giovani, fra cui
il sottoscritto che sottotenentino era stato inviato nella terra d’origine insieme a tutti gli ufficiali di origine sarda e poi congedato,
tirava a campare in Sardegna come supplente di francese in un
ginnasio per sfollati. La produzione della neonata Radio Sardegna
si arricchì nei limiti concessi dalla nostra buona volontà (tanta) e
dall’esiguità dei mezzi (altrettanta). Ognuno di noi faceva di tutto o
almeno ci provava: redattore, speaker, elettricista, dattilografo,
sceneggiatore, “sonorizzatore” ovvero addetto agli effetti fonici, e
via dicendo. Solo in quello che allora si chiamava “teatro radiofonico”, la compagnia dei filodrammatici locali non ammetteva invasioni di campo. Personalmente mi dispiaceva perché proprio
quello era il mio primo interesse. Riuscimmo comunque a trasmettere radiosceneggiati da Gogol a Dos Passos, Steinbeck, ‘O
Henry (autori anglosassoni ben poco conosciuti da noi) e altri,
nonché conversazioni varie sul cinema (importanti perché, come
le canzoni, i film americani e inglesi negli ultimi anni erano stati
vietati in Italia e quindi c’era molto da dire sul non visto), sul teatro, sulla letteratura, sullo sport. Bisogna pensare poi alla motivazione politica che nei primi tempi della riconquistata libertà
spingeva fortemente noi giovanotti del tutto inesperti di quanti e
quali limiti anche in un regime democratico si potessero porre
per condizionare pesantemente la libertà di opinione, di parola e
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
attesa della televisione, ancora a livello sperimentale, la radio funzionava come vettore ideale della pubblicità commerciale per tenere
alto il livello dei consumi a difesa della produzione e quindi dei salari e della propaganda per suscitare e mantenere il grado di consenso necessario alla classe politica. Ma la radio ebbe anche un uso
politico, molto evidente soprattutto nell’Italia di Mussolini e poi nel
Terzo Reich di Hitler. L’altoparlante innalzato nella piazza del piccolo
paese della Calabria o del Polesine per riportare la viva voce del Duce che annunciava dal “fatale” balcone di piazza Venezia che l’Italia
fascista era ormai un impero o che quattro anni dopo entrava in
guerra contro le potenze “demo-pluto-masso-giudaiche” per poi,
vincitrice insieme all’alleato germanico, dominare il mondo, ebbe
un ruolo di primo piano per la propaganda fascista.
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
mo, con qualche esagerazione, i nostri contatti con Radio Andorra
e il nostro progetto di una radio sarda indipendente. Il giorno dopo,
mentre in una trattoria cagliaritana sedevamo di fronte a una frittura di pesce innaffiata da un biondo Nuragus, si avvicinò uno della Military Police fiancheggiato da un carabiniere: il comandante
locale del P.W.B. voleva parlarci subito. Nemmeno il tempo di finire la squisita frittura che il maggiore italo-americano, mi pare si
chiamasse Cuccillo o simile, voleva sapere di più del nostro progetto radioautonomistico in termini di fatti e persone coinvolte.
Sulle prime molto arcigno, andava sciogliendosi man mano che si
rendeva conto che noi non eravamo agenti di Hitler né (come probabilmente aveva sospettato visto il nostro colloquio in treno con
Berlinguer e Laconi) di Stalin e che il nostro disegno era non molto di più che un sogno di giovanotti cui l’irrompere della libertà in
democrazia aveva un po’ dato alla testa. Comunque, forse per avere riscontri alla nostra versione di discolpa o comunque per non
farla troppo facile, ci trattenne la notte in una cella improvvisata,
attigua ai gabinetti di una caserma della disciolta Milizia fascista,
con il solo conforto di due brandine da campo e di un buon numero
di scarafaggi paffuti cui il lungo periodo bellico sembrava non avere inferto alcuna privazione. Se noi due alla prova dei fatti eravamo
innocui cani sciolti, ben altri personaggi potevano manovrarci in
quella direzione. Soltanto ventiquattrore dopo tornammo a riveder
le stelle. Il breve soggiorno coatto era stato sufficiente a farci capire che gli alleati, prima ancora della R.A.I., non avrebbero consentito una radio autonoma per timore che finisse in mano ai socialcomunisti. Il bello fu che lo stesso Laconi qualche tempo dopo ci
disse che nemmeno i dirigenti del PCI vedevano di buon occhio il
nostro progetto. Comunisti e socialisti erano (anche se per poco)
al governo con democristiani e liberali e non volevano certo creare
difficoltà alla propria attuale posizione per una questione tutto
sommato secondaria come l’autonomia di Radio Sardegna. Le cose restarono come erano.
Poco tempo dopo, liberata Roma, rientrai in continente. Non potendo dedicarmi alla mia vera passione, il teatro, perché nelle ristrettezze post-belliche di teatro fatto da giovani ce n’era ben poco,
continuai con la radio. L’aria della radio di via Asiago a Roma non
era così aperta all’apporto dilettantistico come l’esperienza cagliaritana. Gli organici dell’E.I.A.R. erano passati in massa alla R.A.I. e
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di stampa (quindi anche di radio), di cui ci eravamo fatti un’idea
sicuramente troppo ampia. Sperimentammo presto quanto ci fossimo illusi. A noi, da poco calati in un mondo di libertà dopo oltre
venti anni di dittatura, sembrava tutto di ovvia consequenzialità:
finalmente abolita ogni censura preventiva, doveva essere concesso a tutti di scrivere un libro, di fondare un giornale, di fare un
film, di far funzionare un’emittente radiofonica senza vincolo alcuno. L’idea di monopolio nei mezzi di comunicazione era per noi
associata al fascismo: caduto il fascismo doveva sparire ogni monopolio, in primis quello radiofonico.
Gli ascolti della poco potente Radio Sardegna si estendevano
insperatamente. Numerosi ascoltatori scrivevano anche dalle Baleari e dalla costa catalana che seguivano i nostri programmi.
C’era già un progetto di coinvolgere un giornalista di Alghero (dove si parlava ancora catalano) per un programma in quella lingua.
C’era grande abbondanza di progetti. Non altrettanta però di attrezzature: dei due microfoni teoricamente disponibili (ancora primordiali: una lunga asta con una scatola nera in cima) uno era affetto da un filo ballerino che lo metteva fuori uso sul più bello. Ma
ci voleva altro per smorzare i nostri entusiasmi. Eravamo arrivati
all’idea di consorziarci per programmi in comune con l’emittente
della repubblica indipendente di Andorra. In Sardegna i sogni sardisti, ossia d’indipendenza o almeno di forte autonomia dell’isola
(poi in piccola parte soddisfatti dalla concessione, come alla Sicilia, di uno statuto regionale speciale), soffocati dal fascismo con
l’esilio di Emilio Lussu e lo scioglimento del Partito sardo d’azione, erano risorti con il ritorno della democrazia. L’autonomia piena di Radio Sardegna in buona misura si poneva nella scia di quel
sogno, favorito dal fatto che la R.A.I. aveva transitoriamente assunto come eredità E.I.A.R. il controllo di tutte le radio passate,
presenti e future solo per un limitato solo numero di anni, finché
durava la guerra, dopo di che si sperava che ognuna potesse andarsene per conto proprio. Invece alla scadenza –come chiunque
meno dissennato di noi avrebbe previsto– quella convenzione le fu
confermata senza colpo ferire.
Trionfo e tramonto della radio
Successe una volta che viaggiando in treno da Sassari a Cagliari, io e un altro redattore, incontrammo Enrico Berlinguer e il giovane segretario regionale del PCI, Laconi. E che a loro esponessi-
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
Quaderno di COMUNICazione
1. Alcune premesse metodologiche
Nel presentare i primi risultati di una ricerca
ancora in corso, mi propongo di esaminare le modalità e i contenuti privilegiati dagli industriali italiani per orientare l’opinione pubblica attraverso i
media, e in particolare la radio, durante gli anni
Cinquanta. Si tratta di un periodo in cui la questione del Mezzogiorno diventa per l’imprenditoria
privata terreno di verifica e di scontro politico sia
all’esterno (con i partiti di governo) che all’interno
(con la componente meridionale) e, al tempo
stesso, costituisce un’importante occasione economica, un mercato interessante per l’espansione
della domanda indotta dalla spesa pubblica nelle
regioni meridionali.
La scelta di questa prospettiva d’analisi nasce da
alcuni interrogativi emersi da una ricerca più ampia
condotta sulle politiche pubbliche per il Mezzogiorno
nel secondo dopoguerra e sull’attività di pressione, di
influenza e di condizionamento svolta dalla Confindustria sul Governo, sui partiti e sugli organi politicoistituzionali per condizionarne l’elaborazione e gli esiti1.
Cercherò qui di dare una prima risposta ai seguenti quesiti: che
ruolo attribuiscono gli industriali italiani ai mezzi di comunicazione
di massa e, in particolare, alla radio? Come li utilizzano in concomitanza di importanti snodi politici ed economici, come nel caso
dello sviluppo del Mezzogiorno?
Una sollecitazione ad indagare in questa direzione è venuta, oltre che dalla documentazione archivistica e a stampa reperita
presso l’Archivio della Confindustria, dagli studi sulla storia dei
media, che negli ultimi decenni si sono arricchiti di numerosi contributi sia sugli aspetti aziendali e sui gruppi dirigenti, sia sul ruolo
politico culturale, con particolare attenzione ai rapporti con la
Chiesa, i partiti di Governo, la modernizzazione della società italiana e solo di recente sul ruolo del potere economico e dell’imprenditoria privata2.
In particolare, nei suoi recenti lavori Ortoleva ha tracciato interessanti bilanci storiografici sulla storia dei media in una visione comparata e internazionale e ha indicato alcune piste d’indagine e pro-
anna lucia denitto
nelle strategie confindustriali
degli anni cinquanta
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con il ritorno dei reduci dai vari fronti si erano infoltiti. C’era però la
possibilità di produrre radiodrammi, nuova forma alternativa al teatro radiofonico cioè alla semplice riproduzione di opere recitate sul
palcoscenico. Se i buongustai dell’ascolto lamentavano che la ritrasmissione radiofonica dal vivo della lirica o dei concerti alterava parecchio la sonorità autentica e quindi l’espressione originaria di
quelle opere, a maggior ragione era da lamentarsi l’imperfezione e
lo snaturamento delle riproduzioni dal vivo di esecuzioni teatrali di
prosa. Ciò si era già capito da tempo fuori d’Italia, soprattutto in
Gran Bretagna e negli USA. Si prese così contatto con la produzione
di alcuni di questi autori, fra cui primeggiavano allora Noel Coward
e Tyron Guthrie, soprattutto quest’ultimo con il suo Annunci matrimoniali. Prendemmo a scrivere noi stessi radiodrammi. Fondammo
il primo (e unico) Sindacato degli autori radiodrammatici e ci impegnammo per ottenere che la R.A.I. pagasse la trasmissione dei radiodrammi con compensi più decenti. La cosa non era semplice,
perché il diritto di autore radiofonico non era ancora previsto. Alla fine ci fu riconosciuto perché la gente allora, in assenza della tv, era
intorno alla radio quanto oggi si fa fatica a credere. Anche ora capita
ogni tanto che qualcuno mi chieda se io sono lo stesso che in epoca
protostorica scriveva radiodrammi di successo (bontà loro). Ma due
avvenimenti segnarono presto la fine dell’epoca d’oro: l’uso sempre
più generalizzato della registrazione su nastro e quindi la facile riproducibilità di ogni programma per un numero infinito di volte, il
che ovviamente riduceva drasticamente il fabbisogno di programmi
originali di prima esecuzione. Il secondo fu un vero colpo di grazia:
la tv che già nei primi anni ’50 aveva saccheggiato le schiere dei radioascoltatori e poi con le prime Lascia e raddoppia di Mike Buongiorno la fece improvvisamente da padrona. Per un certo tempo i
meno giovani ricorderanno che i cinema, se volevano riempire la sala, prima di iniziare le proiezioni serali dovevano munirsi di un certo
numero di apparecchi tv in modo che gli spettatori, prima del film, si
godessero i quiz di Mike. Via via che la gente si dotava di un apparecchio tv a casa i cinema uscirono da questa sudditanza e ripresero, se non tutta, buona parte della loro prospera autonomia. La radio invece ha patito più a lungo e più in profondità. I radiodrammi,
come ogni altra espressione del linguaggio specificatamente radiofonico, già alle soglie degli anni ’60 non interessavano più. Ma
siamo già a un periodo che travalica la mia esperienza diretta.
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2. La Confindustria e la formazione dell’opinione pubblica:
obiettivi, destinatari, strumenti e tecniche
Durante la Ricostruzione e con maggiore sistematicità tra il
1948 e il 1950 il management della Confindustria svolge una lucida e sofisticata analisi degli obiettivi, dei destinatari e delle tecniche da mettere in atto per “orientare” l’opinione pubblica. È il periodo in cui, sotto la presidenza di Angelo Costa (1945-1955), l’Associazione degli industriali italiani è impegnata su più fronti:
rafforzare “l’immagine di una borghesia industriale coesa e solidale”, a fronte di un forte contrasto d’interesse presente tra industriali del nord e quelli del sud, tra grande e piccola industria;
smorzare e controllare la forte conflittualità sociale e sindacale esistente nelle fabbriche e nel paese, dopo la fine dei governi di unità antifascista e la rottura sindacale del 1948, successiva al falli-
Quaderno di COMUNICazione
to attentato a Togliatti; consolidare l’intensa collaborazione in atto
con i governi centristi di De Gasperi e la grande capacità di orientare e influenzare le politiche industriali del paese5.
Si rende perciò necessaria un’efficace azione collettiva degli industriali italiani, che deve agire su tre livelli, quelli “dell’informazione, dell’orientamento e della persuasione” e deve mirare ad un
duplice obiettivo: quello prettamente economico e quello più propriamente politico.
Come si legge in un documento confederale del 1951, tale azione non può limitarsi “ad una semplice difesa di interessi materiali”, ma deve “ampliarsi ed estendersi” alla difesa di “tutto il sistema economico e sociale in cui l’industria è sorta e vive”. Essa deve
avere caratteristiche specifiche, come “una sufficiente elasticità
ed un’ampiezza tale” da poter agire nei confronti di tutte “le varie
stratificazioni dell’opinione pubblica”6.
È particolarmente interessante l’analisi dei soggetti sociali che
la Confindustria intende intercettare e nei confronti dei quali calibra tecniche e strumenti comunicativi. Al centro vi sono i rapporti
con i lavoratori, che richiedono uno studio e una strategia specifica. È necessario, infatti, adattare il messaggio di informazione e di
persuasione a seconda se ci si rivolge al lavoratore singolo o al lavoratore come elemento di una massa più complessa; a questa
duplice azione verso il singolo lavoratore e verso la massa il management ritiene che la Confederazione debba rivolgere uno
“sforzo costante” in modo da superare gli stereotipi correnti di
un’insanabile conflittualità politica economica e sociale oltre che
“umana” usando un linguaggio semplice e “intelligibile” che agisca su “ragione e sentimento”.
Questo sforzo, che è in sostanza un atto di fede verso il lavoratore ed una esaltazione della sua individualità e del suo valore umano,
viene soprattutto compiuto cercando di ricordare al lavoratore le
sue capacità ragionatrici, i suoi sentimenti, le sue capacità professionali, le sue propensioni verso il bello che si manifestano nell’arte,
in qualsiasi delle sue innumerevoli manifestazioni o espressioni.
Esaltare nel lavoratore le sue qualità umane e condurre il lavoratore ad uno sforzo di ragionamento e di sentimento superando
quella sensazione tanto diffusa tra i lavoratori di uno strano complesso di inferiorità, significa già aver compiuto una profonda azione di orientamento e di educazione, che è preliminare quasi ad una
azione di persuasione7.
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
spettive di ricerca, che mirano a superare una storiografia essenzialmente “politica”, secondo la quale i grandi mezzi di comunicazione di
massa costituiscono strumenti di organizzazione e governo della società da parte del potere, e a favorire studi e ricerche sulla storia e
l’evoluzione del pubblico, sulla programmazione e gli stili organizzativi e aziendali nel caso dei mezzi radiotelevisivi, in altre parole, su
una “storia sociale” dei media3.
Ai fini della mia analisi farò riferimento al saggio del 1997 apparso nel volume collettaneo sulla Storia del capitalismo italiano
dal dopoguerra a oggi, a cura di Fabrizio Barca, in cui Ortoleva analizza la “molteplicità di funzioni” svolte dai mezzi di comunicazione di massa (editoria giornalistica e libraria, produzione discografica e cinematografica, radio, televisione, spettacolo dal vivo)
all’interno del sistema capitalistico e ne individua almeno tre: 1) i
media come imprese, piccole e grandi e dunque con prevalenza
della logica economica; 2) la funzione politica dei media nell’orientare l’opinione pubblica; 3) i media come “strumento imprescindibile di circolazione delle informazioni necessarie a orientare i consumatori”, in altri termini come “tessuto connettivo del sistema”4.
All’interno di una tematica indubbiamente molto ampia e articolata, mi soffermerò essenzialmente su tre questioni: la Confindustria e la formazione dell’opinione pubblica; le rubriche radiofoniche confindustriali dal 1948 al 1959; gli industriali, lo sviluppo
del Mezzogiorno e la radio.
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Verso gli intellettuali, l’altro destinatario privilegiato per orientare l’opinione pubblica, bisogna far leva “sull’elemento del ragionamento”, anche se i contenuti mirano a raggiungere il medesimo
obiettivo: la difesa di tutto “un sistema economico, un sistema sociale, un sistema di vita”, fondato sull’iniziativa privata, il risparmio, la responsabilità dell’individuo di fronte a se stesso e alla
propria famiglia. In altri termini vanno difesi e diffusi i valori della
società capitalistica, fondati sull’economia di mercato e sul benessere individuale, in cui i diritti sociali vanno lasciati alla libera contrattazione tra datori di lavoro e lavoratori e in cui lo Stato si deve
limitare ad un’azione di “assistenza” e non di “sicurezza sociale”,
come ripetutamente il management confindustriale sostiene. A tal
proposito è esplicito e ripetuto il riferimento alla necessità che la
Confederazione si attivi per contrastare l’orientamento sempre più
diffuso nell’opinione pubblica, e soprattutto nei ceti intellettuali, di
sostegno al Welfare State e al ruolo di guida e di regolatore dello
Stato nei meccanismi economici, amministrativi, sociali.
Si legge: “Le tesi che tendono ad affidare allo Stato compiti di
«sicurezza sociale» e non di assistenza”, rafforzano la sensazione,
soprattutto nei giovani, che “verso lo Stato debba necessariamente
convergere ogni aspetto della vita economica”. Ed ancora:
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Gli strumenti messi in atto sono molteplici e vanno dal controllo
della stampa quotidiana e periodica, mediante propri organi, alla
diffusione capillare di informazioni relative all’industria e ai singoli
imprenditori su tutti i giornali, con particolare attenzione alla
stampa estera; all’utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione
di massa, come la radio –su cui mi soffermerò in seguito–, il cinema, la televisione, la pubblicità.
Quaderno di COMUNICazione
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
Il rimontare la corrente, il ricordare il valore della personalità
umana e, quindi, il libero esplicarsi di ogni iniziativa, il riportare
l’individuo di fronte alla responsabilità di provvedere a sé e alla
propria famiglia e alla responsabilità del proprio avvenire, non è facile, non soltanto per il contrasto di ideologie politiche, non soltanto
per quei sentimenti o quell’invidia fra classe e classe che si fanno
tanto più acuti quanto più il tenore di vita tende ad abbassarsi. Eppure questa è e deve essere la sostanza dell’azione di contatto e di
orientamento della categorie industriali con quelle classi sulle quali occorre operare soltanto sulla base del ragionamento8.
Non è questa la sede per analizzare le attività promosse in relazione ai diversi media utilizzati; basti però ricordare alcuni settori che
vengono seguiti e potenziati in modo particolare, come quello della
cosiddetta “stampa aziendale” considerata da Confindustria particolarmente efficace sia sul piano strettamente produttivo sia su quello
dell’orientamento dell’opinione pubblica e delle “relazioni umane”
all’interno delle imprese. A metà degli anni ’50 la stampa aziendale
rappresenta un gruppo editoriale di oltre 60 unità tra grandi, medie e
piccole aziende, con una tiratura che raggiunge quasi le 600.000 copie e con una presenza su tutto il territorio nazionale; tra queste le
più diffuse sono “Noi dell’Ilva”, “Nostra Radio”, “Notiziario Edison”.
Il “padre spirituale”, il “propulsore” e l’“animatore” della stampa aziendale –come si legge nei rapporti confederali– è Attilio Pacces, amministratore delegato della Sip e vice presidente della RAI
nel 1954.
Per quanto riguarda il cinema, la Confindustria sostiene in via
prioritaria la realizzazione di “corto-metraggi” per documentare “lo
sforzo industriale” operato in quegli anni a vantaggio della vita del
paese e il coordinamento di tutte le attività avviate nel campo delle
programmazioni di interesse tecnico e didattico. Primi risultati di tale
impegno sono i rapporti intrapresi in questo campo con i paesi esteri,
la partecipazione della Confindustria alla Mostra del documentario
tecnico scientifico di Venezia del 1951 e alla Mostra del film pubblicitario nel corso della Fiera internazionale di Milano dello stesso anno.
Un altro terreno praticato è quello della raccolta sistematica dei
cartelli pubblicitari che interessano l’industria e lo studio di iniziative di coordinamento e di potenziamento della pubblicità industriale
intrapresa dalle singole aziende e dalle singole categorie9.
3. Le rubriche radiofoniche
All’interno della strategia complessiva di formazione dell’opinione pubblica, un’attenzione particolare viene rivolta alla radio, dove
la voce degli industriali è presente in vario modo nei palinsesti, come nel giornale radio, nelle trasmissioni culturali, nei dibattiti sull’attualità e, soprattutto con proprie trasmissioni. Sia Angelo Costa
che Alighiero De Micheli, i due presidenti confindustriali che guidano rispettivamente l’Associazione degli industriali dal 1945 al 1955
e dal 1955 al 1961 utilizzano ampiamente i comunicati alla radio
non solo per informazioni strettamente economiche ma anche per
discorsi augurali in occasione di particolari avvenimenti o festività,
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
premiato, e di Luca Di Schiena; le grandi inchieste, come quella avviata nel 1954 da Guido Piovene con “Il viaggio in Italia” per delineare “un ritratto vivo e organico” –come si legge negli Annuari
Rai– delle cento città italiane.
Nei palinsesti radiofonici le trasmissioni economiche sindacali
e sociali rappresentano nel 1954 il 2,4% dell’intera programmazione delle tre reti (con circa il 2,3% sul programma nazionale, il 4,7
sul Terzo e percentuali insignificanti –al di sotto dell’1%– sul Secondo) a fronte del 27% della musica leggera, che tocca le punte di
oltre il 34% sul secondo Programma.
Se si guarda agli ascolti e nello specifico all’ora in cui viene
messa in onda la rubrica confindustriale, si possono trarre alcune
indicazioni sul numero potenziale dei radioascoltatori e quindi sul
livello di circolazione delle informazioni trasmesse. Secondo alcuni
dati rilevati dal Servizio Opinioni della RAI nel dicembre 1956,
quando già da due anni la televisione ha fatto il suo ingresso trionfante nelle famiglie italiane, le punte di ascolto radiofonico si verificavano alle ore 13 ed alle ore 20 (le trasmissioni di cui ci occupiamo
andavano in onda il sabato alle ore 19,45); furono rilevati rispettivamente 12 milioni di adulti in ascolto alle 13 e oltre 11 milioni alle
ore 2013. Si tratta di dati puramente indicativi, che in ogni caso rivelano la vastità del pubblico radiofonico.
Sia nella rubrica settimanale “Economia italiana d’oggi” sia in “Prodotti e produttori italiani” si alternano i massimi esponenti del mondo
imprenditoriale italiano nelle sue diverse articolazioni settoriali e territoriali e del gruppo di comando confindustriale, i quali sotto forma di
conversazioni –un genere particolarmente diffuso nella radio di questi
anni– illustrano di volta in volta temi e problemi di carattere sindacale,
in relazione alla più scottante attualità, di carattere politico economico
attinenti sia a questioni generali che a singoli settori industriali. Il ciclo
annuale delle conversazioni è aperto in genere dal Presidente confederale e prosegue poi per le varie categorie industriali. Procedendo ad
un’analisi dettagliata dei temi e delle questioni dibattute è possibile
cogliere alcune continuità e discontinuità nell’arco del decennio esaminato, che rispecchiano in larga parte i mutati equilibri politici nazionali e internazionali e i caratteri delle due presidenze confederali, che
si susseguono, Costa prima e De Micheli poi14.
Il primo è più attento a mantenere l’azione di influenza e di
pressione dell’Associazione degli industriali sui pubblici poteri in
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
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in cui i temi sviluppati riguardano il valore della famiglia, la funzione morale del lavoro individuale, il risparmio, (temi più accentuati
in Costa) le responsabilità collettive degli industriali, la loro funzione di classe dirigente, chiamati non solo ad essere i “tecnici della
produzione”, ma “aperti alle esigenze complessive della vita nazionale” (su cui insiste maggiormente De Micheli)10.
In questa sede mi soffermerò essenzialmente su due trasmissioni che dal 1948 al 1958 vengono ininterrottamente messe in onda sul programma nazionale in collaborazione con la Confindustria; si tratta di due rubriche radiofoniche settimanali trasmesse
il sabato sera, alle ore 19,45, precedute nel palinsesto della serata
dalle estrazioni del lotto e dall’Orchestra della canzone diretta da
Angelini e con i cantanti di grido come Carla Boni, Gino Latilla, il
Duo Fasano e seguite alle 20 dalla musica leggera, il piatto forte
delle trasmissioni radiofoniche degli anni cinquanta, e negli intervalli, dai cosiddetti “comunicati commerciali”11.
Dal 3 gennaio 1948 al 1 ottobre 1953 va in onda “Economia italiana d’oggi” alla quale subentra con una nuova denominazione la rubrica “Prodotti e produttori italiani”, trasmessa fino al gennaio 1959.
Rispetto ai generi dei programmi, le rubriche confindustriali
sono inserite nelle trasmissioni giornalistiche del programma nazionale, e più precisamente nelle cosiddette “rubriche economiche, sociali e sindacali”, che danno voce a varie categorie sociali,
come “La voce dei lavoratori”, rubrica bisettimanale dedicata ai
problemi del lavoro e delle classi operaie, con una media di 102
trasmissioni annue; “Vita nei campi”, dedicata ai problemi dell’agricoltura e delle classi rurali, settimanale con una media di 52
trasmissioni annue; “Lavoro italiano nel mondo”, rivolto agli emigranti, bisettimanale con 101 trasmissioni; i bollettini d’informazione economica come la trasmissione quotidiana “Listini della
Borsa Valori di Milano”, (229 trasmissioni) e la rubrica settimanale
curata da F. Di Fenizio “Congiunture e prospettive economiche”12.
Complessivamente le trasmissioni giornalistiche del programma nazionale, oltre alle rubriche su citate, comprendono le edizioni
ordinarie del Giornale Radio, le conversazioni e rassegne politiche,
le discussioni di attualità, all’interno delle quali la rubrica “Il Convegno dei Cinque” è quella di maggior successo, diretta a turno, tra
gli altri, da Silvio D’Amico, Igino Giordani, Francesco Canelutti; i documentari, tra i quali si segnalano quelli di Sergio Zavoli, più volte
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chimica, dei laterizi, della carta), ma anche a questioni, che seppur
presentate con toni apparentemente asettici, mirano a contrastare
la strategia politica fanfaniana di cui si è già detto: si dà spazio e legittimità alle esigenze della piccola e media impresa, che viene
sempre più risucchiata nell’orbita della Dc, la quale lavora per un
suo distacco dalla Confindustria, accusata di tutelare esclusivamente gli interessi delle grandi famiglie del capitalismo italiano; si
confrontano le esperienze internazionali ispirate al liberismo; si discute sulla funzione sociale ed economica dell’economia di mercato; si esprimono forti preoccupazioni per l’intervento pubblico in economia. Su questi temi si sofferma nel 1954 Alighiero De Micheli,
presidente dell’Assolombarda e futuro presidente confederale, il
quale in una trasmissione sul tema Iniziativa privata e compiti dello
Stato, sviluppa i temi cari all’imprenditoria italiana della tendenza
ad “un’invadenza pesante dello Stato” nell’attività economica “non
sempre necessaria né utile”, che provoca crescente imposizione fiscale, aumento degli investimenti pubblici su quelli privati, e rafforza il pericolo dell’«avanzata dello statalismo»16.
Temi e questioni che ritornano –anche se con toni sfumati– negli anni successivi, quando De Micheli alla guida della Confederazione porta avanti il suo programma di organizzare un blocco conservatore e antigovernativo nelle elezioni amministrative del 1956
e nelle politiche del 1958, che si rivelerà fallimentare17.
4. Gli industriali, lo sviluppo del Mezzogiorno e la radio
All’interno dell’attività complessiva delle trasmissioni mandate
in onda negli anni Cinquanta, alle questioni del Mezzogiorno d’Italia e del suo sviluppo viene dedicato uno spazio progressivamente
crescente, in relazione anche al rinnovato interesse dei vertici
confederali alle politiche pubbliche per l’industrializzazione delle
regioni meridionali. Piuttosto limitato durante la trasmissione di
“Economia Italiana d’oggi”, l’interesse per l’economia meridionale
e per le sue prospettive di sviluppo, diventa centrale tra il 1953 e il
1956 in concomitanza anche di alcune novità legislative, come il
varo degli istituti speciali per il credito industriale nel 1953, la legge quadro del 1957, che introduce novità sostanziali nella durata,
dimensione e qualità dell’intervento statale nel Sud, ed avvia la
politica dei poli di sviluppo industriale.
I temi maggiormente dibattuti riguardano, da un lato, l’analisi
Quaderno di COMUNICazione
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quella che possiamo definire “un’arena invisibile”, tessendo un fitto sistema di relazioni con De Gasperi e la Dc, destinato ad entrare
in crisi tra il 1952-54, di fronte alla sfida vincente lanciata dalla Dc
di Fanfani di potenziare l’intervento pubblico in economia e di
rafforzare la propria autonomia dal potere delle élites economiche
e del capitale privato. Il secondo, in risposta a tale sfida, è fautore
e protagonista dell’intervento diretto della Confindustria nella sfera politica e nelle competizioni elettorali. Non a caso è nel corso
del 53-54 che la rubrica cambia denominazione, dando maggiore
centralità alle esperienze produttive di maggior successo, alle
questioni commerciali di carattere internazionale, alla difesa insistente dell’impresa privata.
Esaminando le trasmissioni andate in onda tra il 1948 e il 1953
si possono notare alcune differenze. In quelle del ’48 prevalgono
non a caso le questioni del lavoro (contratto dei metalmeccanici,
blocco dei licenziamenti e ripercussioni sul Mezzogiorno) e della
conflittualità sociale e i toni sono piuttosto duri e polemici, anche
se il management confindustriale precisa che le trasmissioni radiofoniche della rubrica “Economia italiana d’oggi” hanno consentito agli industriali di “precisare” la loro posizione, che “molto
spesso è stata alterata dalla propaganda svolta, anche a mezzo
della radio, dai rappresentanti delle organizzazioni operaie”15. Successivamente, quando il grado di influenza e di condizionamento
della Confederazione sulla direzione delle politiche industriali e
del lavoro è molto alto, le conversazioni radiofoniche mirano a trasmettere l’immagine rassicurante e operosa degli industriali,
protèsi verso gli interessi generali del paese e non legati alla difesa aziendalistica di interessi settoriali o di gruppi monopolistici.
Sono gli anni in cui vengono dedicate alcune trasmissioni al contributo rilevante dato dagli industriali alla Ricostruzione del paese
e al ruolo di classe dirigente svolto dall’industria italiana nei primi
cinquant’anni del secolo per lo sviluppo complessivo del paese. Da
qui le conversazioni sulla storia dell’industria italiana e di alcuni
capitani d’industria, con l’obiettivo di un’autorappresentazione che
legittimi e rafforzi nell’opinione pubblica la funzione a favore dell’intera collettività svolta dalla borghesia industriale italiana.
Con l’avvio, alla fine del 1953, della rubrica “Prodotti e produttori italiani” le questioni dibattute diventano per così dire più direttamente legate ai settori produttivi emergenti (industria editoriale,
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Quaderno di COMUNICazione
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fino all’espulsione del siciliano La Cavera, nelle trasmissioni radiofoniche lo spazio dedicato al Mezzogiorno va sempre più riducendosi, fino quasi a scomparire19.
I conflitti in atto tra Confindustria e Governo sulle politiche pubbliche per il Mezzogiorno e tra le diverse componenti del mondo
imprenditoriale italiano non emergono mai in modo esplicito dalle
conversazioni radiofoniche, ma è facile coglierli nella scelta dei temi da approfondire e dei rappresentanti imprenditoriali chiamati al
microfono. I messaggi radiofonici attenuano e sfumano, fino quasi
a scomparire, i toni della polemica e dello scontro in atto sia all’interno del mondo imprenditoriale (tra industriali del Nord e industriali del Sud) sia tra Confederazione e DC sulle modalità e finalità
dell’industrializzazione del Mezzogiorno, anche perché l’obiettivo
da essi perseguito è –come si è detto– quello di orientare e persuadere l’opinione pubblica e in specie i lavoratori e gli intellettuali e di
rappresentare una borghesia industriale coesa e impegnata nel bene pubblico. Diversi sono, invece, i toni, gli argomenti, i linguaggi
messi in campo dagli industriali nelle sedi decisionali (Parlamento,
Governo, commissioni parlamentari, comitati ministeriali, segreterie di partito, organi direttivi confindustriali), in cui si elaborano e si
attuano le politiche pubbliche per il Mezzogiorno, come ho avuto
modo di documentare in altre ricerche20.
Al di là dei risultati conseguiti nel pubblico dei radioascoltatori
italiani così eterogeneo per fasce sociali, per età e collocazione
territoriale, è utile evidenziare come per gli industriali italiani nella metà degli anni Cinquanta il binomio radio/Mezzogiorno acquista una sua centralità per vari motivi.
In primo luogo per orientare l’opinione pubblica in uno snodo
politico dei più difficili, quando sull’intervento dello stato nell’industrializzazione del Mezzogiorno la Confindustria misura la sua debolezza politica nei confronti della sinistra democristiana, “meno
liberale e più sociale”, ed anche la frammentazione sul piano della
rappresentanza degli interessi industriali.
In secondo luogo per le opportunità che l’incremento dell’utenza
radiofonica prima e radiotelevisiva poi (soprattutto dal 1957 per il
Sud) apre allo sviluppo dell’industria elettrotecnica, in particolare
per l’accresciuta domanda di apparecchi radiofonici e poi televisivi,
opportunamente sostenuta e guidata dagli amministratori della RAI.
Presente già nella Relazione del Presidente al Consiglio d’Am-
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Radio e storia
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della realtà economico-sociale del Sud, nelle sue diverse articolazioni regionali (come si evince dalle conversazioni specifiche sulla
Puglia, la Sardegna, la Sicilia); dall’altro la discussione sulle prospettive di sviluppo del Sud grazie agli incentivi pubblici e sull’interesse della grande industria settentrionale, verso alcuni dei settori
ritenuti trainanti, come ad esempio l’industria petrolifera in Sicilia,
dove la cosiddetta “febbre del petrolio” richiama la Montecatini,
l’Edison, l’Eni e il cartello americano della Gulf Oil, quella metallifera in Sardegna, l’industria tessile, in specie quella laniera.
Si avvicendano nelle conversazioni settimanali dedicate al Mezzogiorno gli esponenti più rappresentativi della componente meridionale presente nei vertici confindustriali, che sono fautori convinti dell’industrializzazione del Sud e rivendicano una maggiore
attenzione agli interessi delle regioni meridionali nell’azione politica della Confindustria.
Basti citare le conversazioni di Giuseppe Cenzato, il più grande
manager dell’industria meridionale, vicepresidente della Confindustria dal 1953 al 1956, figura chiave dell’imprenditoria meridionale, impegnato fin dagli anni Trenta a perseguire su piani diversi
(dall’attività manageriale, come responsabile della Società Meridionale di Elettricità, all’organizzazione culturale, alla rappresentanza degli interessi) la formazione di una classe dirigente meridionale, qualificata professionalmente e politicamente capace di
guidare in modo autonomo lo sviluppo del Sud; di Domenico La
Cavera, ingegnere palermitano, dal 1951 al 1958 membro della
Giunta Esecutiva confederale, l’organo politico più importante, agguerrito portavoce in Confindustria della complessa realtà regionale siciliana; Leopoldo de Lieto, potente costruttore napoletano,
presidente della locale Unione degli industriali, dirigente confindustriale dal 1951 al 1954, impegnato a diffondere dai microfoni
della radio i problemi e le prospettive dell’industrializzazione del
Mezzogiorno; Isidoro Pirelli, presidente dell’Unione degli Industriali della provincia di Bari, presente in Confindustria dal 1946 al
1956, interprete dell’esigenza di una forte linea unitaria tra industriali del Nord e industriali del Sud per favorire lo sviluppo del
Sud e sottrarlo “all’iniziativa dei politici”18. Non è certo un caso che
tra il 1956 e il 1958, quando all’interno dei vertici confindustriali la
componente meridionale più convinta della via industriale per lo
sviluppo autonomo del Sud viene progressivamente emarginata,
71
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
sviluppo del Mezzogiorno e delle isole, organizzato a Palermo nell’ottobre del 1955, dove si riunisce il mondo economico italiano alla presenza delle massime autorità politiche italiane e dei rappresentanti dell’economia europea, siano chiamati tra gli altri a svolgere delle relazioni il presidente della RAI Antonio Carrelli e il presidente dell’ANIE (Associazione Nazionale Industrie Elettrotecniche) Piero Anfossi rispettivamente su I compiti della radiotelevisione: i programmi e su I compiti della radiotelevisione: gli apparecchi riceventi, a conferma dell’interesse notevole dell’imprenditoria ai mezzi di comunicazione di massa in rapporto sia alla produzione culturale che alla produzione dei mezzi tecnici.
Il presidente della Rai si limita ad un intervento piuttosto modesto, in cui si sofferma sulle scelte e i criteri che devono guidare la
programmazione radiofonica e più ancora quella televisiva, per la
quale si richiede “grandissima responsabilità” per evitare eccessiva drammatizzazione, arbitrarietà, faziosità, data la grande “potenza rappresentativa e comunicativa dell’immagine”24.
Molto più articolata e mirata ad obiettivi di politica economica è
la relazione di Anfossi, il quale dopo aver richiamato il ruolo sociale
della radio, considerato “strumento di progresso civile che ha rotto
il silenzio di ogni solitudine” si sofferma ad esaltare la politica di
forte impegno sociale, che –a suo dire– l’industria nazionale costruttrice di apparecchi radio e televisivi sta portando avanti nel
paese e particolarmente nelle regioni meridionali, immettendo sul
mercato apparecchi a basso costo, acquistabili anche a rate da parte delle popolazioni meridionali.
Dopo aver tracciato un puntuale andamento dell’utenza radiofonica nelle regioni meridionali e aver rilevato il notevole incremento
ed anche le capacità di espansione del mercato degli apparecchi
radiofonici, Anfossi dichiara l’interesse pieno dell’industria del settore a collaborare con lo Stato per aumentare “le occasioni” di lavoro e facilitare l’impianto di “nuove e libere” imprese. A tal fine
non esita ad avanzare le consuete richieste di sgravi fiscali, tributari, di incentivi creditizi, in altri termini di un intervento dello Stato a
sostegno dell’impresa privata, nell’ottica prevalente negli industriali italiani di uno Stato sovventore e non regolatore. Sostenere la diffusione della radio e della tv nel Mezzogiorno –dichiara infine il
presidente dell’ANIE– significa in definitiva favorire la penetrazione
di “uno dei più potenti strumenti di civiltà, che possano essere ri-
Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
72
ministrazione del 1950, l’impegno a migliorare e potenziare la rete
radiofonica nelle regioni meridionali e a sviluppare quella televisiva, ancora limitata solo ad alcune regioni del Nord e del Centro,
viene ribadito in quella del 1954, al fine di assicurare “la piena parità” alle popolazioni meridionali21.
All’inizio degli anni Cinquanta la RAI sviluppa un’intensa campagna per reclutare nuovi abbonati, promuovendo una serie di attività promozionali (concorsi a premi) e favorendo l’immissione sul
mercato di apparecchi a basso costo, accessibili a settori di pubblico a basso reddito. A tal fine la RAI, d’intesa con i Ministeri delle
Poste e delle Finanze, conduce in porto un accordo con l’ANIE (Associazione Nazionale delle Industrie Elettrotecniche) per promuovere la costruzione di un apparecchio economico. Nascono così gli
apparecchi «serie ANIE», alla cui costruzione partecipano le principali industrie nazionali e sono presentati per la prima volta alla
Mostra della radio nel settembre 195122.
Tale iniziativa riscuote particolare successo anche nelle regioni
meridionali, dove tra il 1953 e il 1954 si registra un numero di nuovi abbonati più alto rispetto al Nord e al Centro. Nel 1953 l’aumento dei nuovi abbonati è superiore al 20% ed in qualche caso, come
a Nuoro, Foggia, Teramo, superiore al 25%. Il numero complessivo, però, degli abbonati alla radio nel Sud è ancora molto basso:
nel 1953 raggiunge appena il 15% mentre al Nord è del 58%, al
Centro del 20%, nelle isole del 7%.
Nel 1958 gli abbonati nelle regioni meridionali diventano il 16,3%,
al Nord scendono al 56%, al Centro sono il 19,5%, nelle isole 8,2% e
registrano il più alto incremento rispetto alle altre zone del paese
(8,2% rispetto al 6% del Nord).
A livello nazionale il dato complessivo segna una crescita notevolissima degli abbonati alla radio: nel 1946 gli abbonati erano circa 1.850.000, diventarono 2.204.580 nel 1948 per poi raddoppiare
in appena sei anni, alla fine del 1954 superavano i cinque milioni
(5.250.000), nel 1958 erano diventati oltre sette milioni (7.138.000),
di cui 1.165.556 al Sud.
Naturalmente il «bacino d’utenza» dei radioascoltatori era
molto più alto: nel 1954, ad esempio, contava 18 milioni di persone; si calcolava in media una radio ogni due famiglie23.
Non è certo un caso, dunque, che in un importante convegno
internazionale dedicato al tema Stato ed iniziativa privata per lo
73
volti a sviluppare gli intelletti, a plasmare le coscienze, a mantenere ed accrescere la cultura e la coesione sociale”25.
Quando il convegno di Palermo, dove si gioca una partita durissima tra la Dc e i centri principali del capitalismo italiano per la direzione dello sviluppo industriale del Mezzogiorno, si avvia alle ultime
battute, nella mozione finale in cui si tenta un’ultima mediazione, si
rivolge un invito esplicito alla stampa nazionale e ai mezzi di comunicazione di massa per un’informazione corretta del problema dello
sviluppo industriale delle regioni meridionali, considerato il ruolo
determinante da loro svolto nella formazione dell’opinione pubblica.
Come abbiamo avuto modo di sottolineare in precedenza, alla
classe imprenditoriale italiana, che controlla finanziariamente la
maggior parte della stampa quotidiana e periodica, non sfugge l’importanza della funzione politica e di quella economica che i mezzi di
comunicazione di massa possono svolgere nel Mezzogiorno. In un
momento in cui, nella metà degli anni ’50, la questione meridionale
diventa il terreno privilegiato dei nuovi equilibri politici tra il capitalismo privato e la Democrazia Cristiana e costituisce il banco di prova
per sventare “il pericolo rosso” nel Mezzogiorno, la borghesia industriale italiana chiede l’appoggio incondizionato dei media.
74
1
A. L. Denitto, Confindustria e Mezzogiorno (1950-1958). Dibattiti e strategie
sull’intervento straordinario, Galatina (Le) 2001.
2
Tra i numerosi contributi si segnalano La radio: storia di sessant’anni:
1924-1984, Torino 1984; N. Tranfaglia e G. De Luna, Radio e potere in Italia dalle
origini agli anni Sessanta, in “Problemi dell’informazione”, 1986, XI, 1, pp.47-60;
F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Società, politica,
strategie, programmi. 1922-1992, Venezia 1992; la discussione a più voci Sulla
storia e la storiografia dei media, in “Problemi dell’informazione”, 1992, 2; F. Di
Spirito, P. Ortoleva, C. Ottaviano (a cura di), Lo strabismo telematico. Contraddizioni e tendenze della società dell’informazione, Torino 1996; P. Ortoleva, I media. Comunicazione e potere, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’ Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, Torino 1997
pp. 865-84; A.Varni (a cura di), Storia della comunicazione in Italia: dalle Gazzette a Internet, Bologna 2002; V. Castronovo – N. Tranfaglia (a cura di), La stampa
italiana nell’età della TV, vol. VII, Roma-Bari 2002. Utili indicazioni metodologiche sull’uso dei media come fonti storiche in P. Ortoleva, Cinema e storia. Scene
dal passato, Torino 1991; Id., La rete e la catena. Mestiere di storico al tempo di
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Quaderno di COMUNICazione
Radio e storia
Radio e storia
Note
Internet, in “Memoria e ricerca”, 1999, n.s., VII, 3, pp. 34 sgg; G. De Luna, La
passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Milano 2001.
3
Si vedano per tutti P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento
sociale nel mondo contemporaneo, Milano 1997 (in particolare il cap. VI) ed anche Id., Linguaggi culturali via etere, in S. Soldani e G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, II, Una società di massa, Bologna 1993, pp.441-488. In questa prospettiva si collocano gli studi di A. L. Natale, Gli anni della radio (1924-1954). Contributo ad una storia sociale dei media in
Italia, Napoli 1990; G. Isola, Abbassa la tua radio,per favore. Storia dell’ascolto
radiofonico nell’Italia fascista, Firenze 1990; Id., Cari amici vicini e lontani. Storia
dell’ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano. 1944-1954, Firenze
1995. Dello stesso Ortoleva cfr. La radio e il suo pubblico: verso una storia degli
ascoltatori, in La radio: storia di sessant’anni, cit., pp.54-59.
4
P. Ortoleva, Il capitalismo italiano e i mezzi di comunicazione di massa, in F.
Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma
1997, pp.237-264.
5
M. Legnani, L’Italia dal fascismo alla repubblica. Sistema di potere e alleanze sociali, Roma 2000, pp. 174-235; V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino 1995; M. Abrate, La politica economica e sindacale della Confindustria (1943-1955), in S. Zaninelli (a cura di), Il Sindacato
nuovo. Politica e organizzazione del movimento sindacale in Italia negli anni
1943-1955, Milano 1981, pp. 519-547.
6
Stampa e propaganda, in Confederazione Generale dell’Industria Italiana
(d’ora in poi Cgii), Annuario 1951, Roma 1952, pp. 317-324.
7
Ivi, pp. 317 sgg.
8
Ivi, p. 320.
9
Per notizie dettagliate sulle diverse iniziative promosse in questo campo si
vedano gli Annuari della Confindustria per il periodo considerato.
10
Per le dichiarazioni del presidente A. Costa si vedano i tre volumi dei suoi
Scritti e discorsi, Milano 1980; per il presidente De Micheli cfr. la trascrizione dei
suoi interventi radiofonici nei “Notiziari Confederali”.
11
La ricerca è stata condotta sulle annate del “Radiocorriere” e sul catalogo
multimediale delle Teche della Biblioteca Centrale della Rai.
12
Nota introduttiva sui programmi del triennio 1953-1955, in Rai, Annuario
1954, 1955, 1956, Roma 1957, pp. IX-XXXI. I dati sopra riportati si riferiscono al
1953. Ivi, p. 87.
13
Rai, Annuario 1957, Roma 1958, pp. 318-319.
14
Per un’analisi dettagliata dei temi affrontati si è proceduto ad uno spoglio
sistematico del “Notiziario Confederale”, pubblicazione periodica della Confederazione Generale dell’Industria Italiana, in cui erano riportati integralmente i testi delle due rubriche radiofoniche settimanali. Ringrazio, a tal proposito, il dott.
Oreste Bazzichi, responsabile dell’Archivio Storico della Confindustria, per la
preziosa collaborazione.
15
Cgii, Annuario 1949, Roma 1950, p. 332. A titolo d’esempio, nel solo mese di
gennaio del 1948 si alternano ai microfoni della radio E. Battagion e I. Petrelli, D.
De Micheli e N. Resta, A. De Micheli e O. Sinigaglia, T. Prudenza e L. Caetani per
75
Linguaggi & società
Radio e storia
parlare rispettivamente del nuovo contratto nazionale della Fiom (10 gennaio);
dello sblocco dei licenziamenti e delle sue ripercussioni in Italia e nel Mezzogiorno (17 gennaio); dei costi nella produzione industriale (24 gennaio); della piccola
industria (31 gennaio). Cfr. il resoconto mensile in Cgii, Notiziario Confederale, cit.
16
Trasmissione del 22 maggio 1954, in “Notiziario Confederale”, cit., pp. 984-985.
17
A. L. Denitto, op. cit., pp. 204-210.
18
Cfr. a titolo esemplificativo nei “Notiziari Confederali” le trasmissioni del 14
novembre 1953 (Leopoldo De Lieto), del 3 aprile 1954 (Giuseppe Cenato), dell’8
maggio ’54 (Domenico La Cavera), del 5 giugno ’54 (Isidoro Pirelli), 22 gennaio
1955 (Cenzato), 12 marzo ’55 (Arrigo Chiavegatti), 4 giugno ’55 (La Cavera), 13 agosto ’55 (Enrico Musio), 17 settembre ’55 (Pirelli).
19
È quanto si evince dallo spoglio dei “Notiziari Confederali” di quegli anni.
20
A.L.Denitto, op. cit.
21
Il presidente della Rai sostiene che tale esigenza “è stata sentita come primo inderogabile impegno a cui la Rai non poteva sottrarsi, non solo per il fatto che
anche su questo piano occorre assicurare la piena parità alle popolazioni di quelle
zone che stanno affrontando uno sforzo così intenso per il loro elevamento economico e sociale, ma anche per l’opportunità di una sempre maggiore presenza,
nelle nostre programmazioni, della cultura e delle umane esperienze delle genti
meridionali”. Relazione del Consiglio d’Amministrazione 1954, Rai, Annuario 1954,
1955, 1956, cit., p. 327.
22
Rai, Annuario 1952, Torino 1953 ed anche F. Monteleone, op. cit., pp. 266 sgg.
23
I dati riportati sugli abbonamenti e sugli ascoltatori sono tratti dagli Annuari
della Rai. Cfr. anche S. Golzio, Lo sviluppo della utenza radiofonica in Italia, in
“Radiocorriere”, 4-10 luglio 1954.
24
A. Carrelli, I compiti della radiotelevisione: i programmi, relazione al Convegno del Cepes del 13-15 ottobre 1955, in Archivio Storico della Confederazione
Generale dell’Industria Italiana, Fondo Mezzogiorno, serie Convegni sullo sviluppo, col. 31.7/1, pp. 1-4.
25
P. Anfossi, I compiti della radiotelevisione:gli apparecchi riceventi, Ivi, pp. 1-13.
76
Quaderno di COMUNICazione
77
alberto a. sobrero
la radio modello di lingua?
che cosa ne pensano i giovani, all’inizio del 2000
Illustro in questa sede i risultati del Seminario
di Linguistica italiana, che nei mesi di aprile e
maggio ha avuto per protagonisti gli studenti del
primo anno di Scienze della Comunicazione. Il Seminario non era obbligatorio ma le adesioni sono
state numerose e, soprattutto, la partecipazione è
stata –da parte di quasi tutti– attenta e intelligente: a dimostrazione del fatto che le attività didatticamente più efficaci sono proprio quelle in cui la
didattica e la ricerca (anche se non a livello di ricerca avanzata) si fondono e reciprocamente si
motivano e si rinforzano. Grazie, ragazzi.
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
Sergio Raffaelli, in questo stesso volume, delinea magistralmente la funzione normativa della
radio, dalle origini al primo dopoguerra: ci mostra
come il regime fascista –ma anche, di conseguenza, il pubblico– fin dagli inizi, cioè dagli anni Trenta, vedesse nella radio lo strumento di diffusione
del modello di lingua, soprattutto di pronuncia,
che doveva essere seguito in tutta Italia; e come
questo stretto collegamento fra radio e norma linguistica sia continuato ben oltre la fine della seconda guerra mondiale. Possiamo dire che fino al
1976 la maggior parte del parlato radiotelevisivo
era costituita dalla lettura di un testo scritto, fatta
da un annunciatore di professione, che leggeva
con una pronuncia molto controllata, di base fiorentina ma priva di caratterizzazioni fiorentine troppo marcate.
L’accuratezza e l’impegno furono tanti che “secondo alcuni interpreti di questi fenomeni la radio ha offerto per molto tempo una
sorta di modello implicito verso il quale l’italiano parlato si è orientato nel suo configurarsi come norma diffusa”1. Dunque un
modello seguito, sentito come tale. La riforma del 1976 introdusse cambiamenti radicali: all’unico e ben controllato speaker si
sostituì una miriade di giornalisti che prima scrivevano e poi leg-
79
80
M cl.soc. medio-alta
F cl.soc. medio-alta
M cl.soc. medio-bassa
F cl.soc. medio-bassa
Quaderno di COMUNICazione
10-15 anni
1
1
1
1
16-20 anni
1
1
1
1
21-30 anni
1
1
1
1
Il questionario comprendeva tre serie di cinque domande ciascuna:
A) domande 1-5:
1. In generale, preferisci la radio o la TV?
2. Perché?
3. Che tipo di trasmissione preferisci?
4. Ieri hai ascoltato la radio?
5. (se sì) Quali trasmissioni, e per quanto tempo?
Tendono a rilevare la preferenza dichiarata per la radio rispetto alla
TV, e le preferenze di genere. Le domande 4 e 5 sono di controllo.
B) domande 6-10:
6. Preferisci i canali della RAI o le radio locali?
7. Perché?
8. Tra le radio locali, quale ascolti di solito?
9. Come mai?
10.Secondo te c’è differenza tra i canali della RAI e le radio locali,
per quanto riguarda il modo di parlare (italiano, dialetto, in modo naturale o ricercato ecc.)?
Mettono a fuoco temi via via più specifici, iniziando dalla scelta fra
canali nazionali (RAI) e radio locali, proseguendo con le radio locali
e con i criteri di selezione fra di esse, per finire con una domanda
di ‘sensibilità metalinguistica’ che fa da ponte fra questa serie e
quella successiva.
C) Domande 11-15:
11. Hai mai notato qualche errore grossolano di lingua italiana,
per radio?
12. (se sì) Ad esempio?
13.Secondo te la radio è un mezzo utile per migliorare la capacità
di esprimersi?
14.Pensi che giornalisti e conduttori, alla radio, debbano parlare:
q in modo naturale, come parlano a casa
q in modo naturale, ma stando attenti a evitare errori e parole dialettali
q in modo accurato
q in modo molto accurato, con dizione perfetta e in ottimo i-
Quaderno di COMUNICazione
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gevano il testo, ciascuno con la sua caratteristica –in primo luogo fonetica e intonazionale, ma a volte anche sintattica e lessicale– regionalmente determinata. Questa tendenza si accentuò con
la diffusione delle radio e TV commerciali –o, come si chiamavano allora, ‘private’– che segnò il graduale ma definitivo prevalere
nel testo radiotelevisivo del parlato-parlato –con tutta la gamma
delle sue varietà– sullo scritto.
Dall’abbandono dell’ideologia che vedeva nella radio un –anzi
il– modello linguistico per tutti gli italiani è passato un quarto di
secolo. Ascoltando il ‘libero’, variegato, imprevedibile mondo linguistico che si affaccia sul palcoscenico della radio vien da pensare che di quel carattere costitutivo dell’emittenza radiofonica si
sia persa ogni traccia. È senz’altro così per quanto riguarda la
maggior parte della produzione linguistica delle varie emittenti,
locali e nazionali; ma è così anche per gli utenti? Da questo dubbio è nata l’idea di un’indagine sulla presenza (o assenza) di una
percezione normativistica del parlato radiofonico attuale. Poiché
ci interessava rilevare, più che lo stato delle cose (e l’eventuale
presenza di residui di antiche mentalità), una linea di tendenza
proiettata verso il futuro, abbiamo selezionato, fra il pubblico dei
radioascoltatori, i più giovani, così che dai risultati dell’inchiesta
si possa leggere, in controluce, ‘in che direzione stiamo andando’. Sullo sfondo, naturalmente, ci sono le domande più ovvie,
trattandosi di radio e del terzo millennio: l’interesse per la radio
è ancora vivo, oggi, nei giovani? E se sì, per quali trasmissioni? Il
futuro è delle emittenti RAI o di quelle locali? O potranno coesistere ancora a lungo?
Le inchieste sono state svolte a Lecce e provincia, in 38 località:
uno o due blocchi di 12 interviste in ogni paese (qualcuna in più nei
centri più grandi, 8 a Lecce), per un totale di 52 blocchi e di 624 interviste. All’interno di ogni blocco il campione –casuale, ma non in
senso statistico– era suddiviso per età, sesso, classe sociale secondo il seguente schema:
81
82
Queste domande sono incentrate sulla sensibilità metalinguistica dei nostri giovani, e in particolare sul tema che qui ci interessa: i nostri giovani attribuiscono ancora alla radio –e se sì, in che
senso e entro quali limiti– la funzione di ‘regolatore’ o addirittura
di modello di lingua?
Il primo gruppo di domande offre alcune risposte interessanti: il
62% preferisce la TV, il 5% è indifferente, ma alla radio vanno le preferenze dichiarate del 33% degli intervistati, percentuale tutt’altro
che trascurabile (un giovane su tre). La distribuzione delle preferenze è uguale nei due strati sociali individuati e nelle tre classi di età,
varia invece per quanto riguarda il genere: la radio è preferita più
dalle ragazze (42%) che dai ragazzi (24%): simmetricamente, i maschi preferiscono nettamente la TV (71%, contro il 52% delle femmine). Perché un terzo dei giovani sceglie la radio? Essenzialmente per
due motivi: perché trasmette più musica (42% dei radioascoltatori dichiarati) e perché si può ascoltare più comodamente, anche quando
ci si muove o si gioca e si studia (30%). Fra le altre motivazioni –presenti in percentuali decisamente inferiori– ‘è meno impegnativa’ ‘è
più divertente’, ‘è più interessante’ ‘fa offerte più variate’. Appare
meno sicura la motivazione di coloro che preferiscono la TV: l’argomento principe ‘perché offre immagini’ è utilizzato solo dal 37% di
loro. Gli altri distribuiscono le loro risposte in varie motivazioni, spesso di scarso vigore argomentativo: ‘fa offerte più variate’ (11%) ‘mi
piace di più’ (8%), ‘è meno faticosa’ (8%) ‘non è noiosa’ (5%) ‘è più interessante’ (4%) ecc. Ascoltare la radio appare come una scelta, vedere la TV sembra piuttosto una pigra consuetudine.
La domanda n. 3 ‘Che tipo di trasmissioni preferisci?’ vuole cogliere le preferenze di ‘genere’, indipendentemente dal mezzo –radio o TV–. In testa troviamo la musica (27%), seguita da ‘talk show’
(23%), film e telefilm (19%), notiziari e attualità (12%), sport (10%),
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genere ‘talk show’ ha un notevole contenuto musicale, si può dire
che la metà dei ragazzi intervistati sia alla radio che alla TV chiede
soprattutto musica e spettacolo. Questa percentuale è probabilmente sottodimensionata: si consideri infatti che una parte delle
altre risposte –soprattutto quelle relative a film, notiziari, documentari– può essere stata condizionata dal desiderio di offrire all’intervistatore un’immagine di sé ‘colta’ e impegnata3.
Il secondo gruppo di domande dà un quadro delle valutazioni e
delle preferenze dei giovani per quanto riguarda le trasmissioni della
RAI e delle radio commerciali. Il 59% delle preferenze va alle radio
locali, il 29% ai canali RAI: solo il 12% non ha preferenze per l’una o
per l’altra. La distribuzione è identica, fra ragazzi più e meno giovani,
maschi e femmine, variamente posizionati sulla scala sociale. Vari
sono i motivi per cui si preferiscono le emittenti locali. A parte le risposte evasive (non c’è un perché), le motivazioni generiche o tautologiche (perché sono più interessanti, perché mi piacciono, perché la
RAI mi sta antipatica), i motivi statisticamente prevalenti4 sono tre:
1. TIPO DI PROGRAMMI: trasmettono più musica / trasmettono musica migliore. Una motivazione complementare: non ci sono dibattiti, notiziari ecc., che non mi piacciono, mi annoiano (ma anche: si
sente più parlato, o addirittura sono più istruttive)
2. ARGOMENTI: si parla di cose che conosco, cose che stanno intorno a me; programmano anche musica locale, in dialetto ecc.;
3. STILE: sono più divertenti, allegre; sono più spontanee; sono
più naturali; i programmi sono meno vecchiotti e meno impostati;
sono più alla mano.
Fra gli altri motivi (meno frequenti):
4. AMBITO: c’è gente che conosco
5. LINGUAGGIO: il linguaggio è più semplice (una variante rivelatrice: la RAI ha un linguaggio troppo complesso e lento)
6. TARGET: sono più dirette ai giovani
7. ACCESSIBILITÀ / CONSUETUDINE: sono le uniche che conosco; si ascoltano meglio; non ho mai ascoltato programmi RAI
8. P U B B L I C I TÀ : c’è meno pubblicità (ma anche c’è molta
pubblicità)
9. AUTONOMIA: sono meno pilotate.
Il quadro che si delinea è molto chiaro. Chi sceglie le emittenti
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taliano
15. Secondo te, nelle trasmissioni delle radio locali, l’uso del
dialetto:
q rende più naturale il parlato
q va bene, ma solo in certe circostanze
q deve essere comunque evitato
q altro
83
locali lo fa perché le percepisce, in una parola, come più amichevoli: per l’adeguatezza alle richieste del pubblico giovanile, per il
tipo di programmi prevalenti, per lo stile e il linguaggio più semplici e diretti.
Simmetricamente, chi sceglie le trasmissioni RAI lo fa perché
percepisce le sue trasmissioni come qualitativamente migliori (anche se più fredde). La motivazione di gran lunga prevalente (quasi
la metà delle risposte favorevoli alla RAI) è infatti:
1. PROFESSIONALITÀ: la RAI ha giornalisti e conduttori più professionali; più specializzati; offre più qualità nei servizi; è più matura;
è più tecnica; i programmi sono più istruttivi e aggiornati; hanno
più esperienza; c’è più competenza; i programmi sono migliori; è
più seria; sono più acculturati (sic!); ci sono cose più serie e interessanti; ci sono trasmissioni meno stupide.
Altre motivazioni –molto meno ricorrenti– fanno corona a questa:
2. RICCHEZZA E QUALITÀ DELL’OFFERTA: la RAI ha un palinsesto più
ricco;
3. AMPIEZZA DELL’INFORMAZIONE: informa di più su fatti nazionali e internazionali;
4. QUALITÀ DELLA MUSICA: ha musica migliore / più attuale;
5. STILE: RAI e TV sono rilassanti; la RAI è più giovanile;
6. NOTORIETÀ: i personaggi RAI sono più famosi;
7. LINGUAGGIO: la dizione dei conduttori delle radio locali è fastidiosa;
8. ACCESSIBILITÀ: si vede meglio;
9. PUBBLICITÀ: c’è meno pubblicità.
84
Questa percezione così netta dei due ‘stili’ si manifesta anche, e
altrettanto nettamente, a livello metalinguistico. Alla domanda “Secondo te c’è differenza tra i canali della RAI e le radio locali, per
quanto riguarda il modo di parlare (italiano, dialetto, in modo natu-
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Emittenti pubbliche e private sono dunque ben caratterizzate e
ben differenziate, agli occhi dei nostri ragazzi. Alcuni dei quali –il
5% circa– danno anche risposte particolarmente equilibrate ed
informate, come: entrambe possono fare trasmissioni interessanti; dipende dai programmi; la RAI per i notiziari e le emittenti locali
per la musica; la RAI informa di più in ambito nazionale, le radio
commerciali di più in ambito locale.
rale o ricercato ecc.)?” risponde affermativamente il 72% degli intervistati, con una certa differenziazione per classe sociale e per
sesso: dichiara di riconoscere differenze nel modo di parlare l’83%
delle ragazze di classe sociale medio-alta, e solo il 61% dei ragazzi
di classe sociale medio-bassa. Difficile dire se si tratta di differente
sensibilità metalinguistica (magari correlata al sesso), dell’attribuzione residuale di una funzione normativa alla radio (favorita da un
livello più alto di scolarità) o semplicemente dell’esibizione di
un’immagine di sé coerente con le attese attribuite all’intervistatore.
La domanda successiva consente di dire qualcosa di più su questa sensibilità metalinguistica. Il 54% dei ragazzi intervistati dichiara di avere notato ‘qualche errore grossolano di lingua italiana, per radio’: si tratta per lo più di maschi (58%, contro il 51%
delle femmine) di età compresa fra 16 e 20 anni. Ma alla domanda
di controllo (“Ad esempio?”) risponde solo il 47% di coloro che
hanno risposto positivamente alla domanda precedente –e si tratta ancora, in prevalenza, di maschi–. Il dato generale, relativo alla
sensibilità dichiarata, va dunque ridimensionato (si collocherà fra
il 30 e il 40%); rimane l’ipotesi di una relazione significativa fra
sensibilità metalinguistica e sesso.
È interessante osservare quali sono, e con che frequenza ricorrono, gli ‘errori grossolani’ di lingua rilevati. A parte le risposte generiche (‘errori di grammatica’ ‘errori di sintassi’’) troviamo che:
1. quasi la metà degli errori (il 45% del totale) riguarda i verbi:
al primo posto l’uso dell’indicativo in luogo del congiuntivo in dipendenza da verbi di opinione e di volontà (tipo penso che tu hai
ragione:quasi la metà dei casi), seguito dall’uso del condizionale al
posto del congiuntivo nella frase ipotetica (tipo se staresti zitto sarei contento);
2. di seguito (20% del totale) si classificano gli errori relativi al
dialetto: battute in dialetto, dizione fortemente regionale (accento
meridionale; l’accento del posto; inflessioni regionali) o meglio
salentina (con i gruppi di consonanti marcati), uso di parole dialettali italianizzate e di regionalismi (te lo imparo io), uso misto di italiano e dialetto.
Seguono, con poche ma significative occorrenze:
3. la pronuncia errata delle parole straniere
4. l’uso di parolacce
5. ma però
85
86
produzioni linguistiche naturali o più o meno accurate, ma sempre
in buon italiano, senza inserti dialettali. I maschi della classe sociale medio-alta sono significativamente più ‘normativi’ delle femmine di classe sociale medio-bassa: si aspetta un parlato ‘naturale’ solo l’11% dei primi, ma il 33% delle seconde.
Infine, alla domanda n.15, che riguardava la presenza e la funzione del dialetto nelle trasmissioni delle radio locali, si sono ottenute queste risposte:
10% rende più naturale il parlato
61% va bene, ma solo in certe circostanze
29% deve essere comunque evitato.
Si conferma in pieno l’atteggiamento contrario a un uso diffuso
del dialetto nelle emittenti commerciali: sostiene questa posizione
addirittura il 90% degli intervistati, un terzo dei quali ha una posizione intransigente (“deve essere comunque evitato”).
Abbiamo infine scorporato dal campione l’insieme dei sensibili e
normativi, cioè di coloro che, oltre a mostrare capacità di osservazione e riflessione metalinguistica, notando differenze linguistiche fra
RAI e emittenti commerciali (domanda 10) e rilevando errori di lingua
(domande 11 e 12), hanno chiaramente attribuito alla radio una funzione di educatore (domanda 13) e di normatore linguistico (risposte
b-c-d alla domanda 14 e risposte b-c alla domanda 15). Si tratta del
13% degli intervistati: un gruppo costituito da maschi e femmine nella stessa percentuale, ma diversificato socialmente: si tratta per il
59% di giovani di classe medio-alta e per il 41 di classe medio-bassa.
La variabile più significativa è però la ripartizione per classi di età:
a. in modo naturale, come parlano a casa
b. in modo naturale, ma stando attenti a evitare errori e parole dialettali
c. in modo accurato
d. in modo molto accurato, con dizione perfetta e in ottimo italiano
Linguaggi & società
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6. a me mi
7. gli per le
8. il superlativo ultimissimo
9. fatismi (‘praticamente’).
Osservando sia la tipologia che le occorrenze relative dei fenomeni rilevati, appare evidente l’azione del modello scolastico: usi
come quello dell’indicativo pro congiuntivo, di ma però, a me mi,
gli per le sono esempi classici di ‘facili prede’ della matita blu, in
una scuola che recrimina su usi ormai considerati, se non corretti,
accettabili (si noti che quelle elencate sono tutte forme del cosiddetto neo-standard) e magari transige su errori comunicativi, semantici, testuali ben più gravi.
Alla domanda esplicita “Secondo te la radio è un mezzo utile
per migliorare la capacità di esprimersi?” risponde positivamente
ben l’80% del campione: ancora una volta, la distribuzione per
sesso, età e classe sociale è identica e dunque queste variabili sono ininfluenti. È molto probabile che questa percentuale sia da
considerare ‘gonfiata’, in quanto la domanda è formulata in modo
tale che può indurre nell’interrogato la certezza che da lui si attenda una risposta positiva.
Le due successive sono le domande centrali dell’indagine. Vediamo le risposte:
Si conferma la grande attenzione (quanto meno dichiarata) per
la correttezza linguistica: sommando b+c+d si può dire che l’86%
degli intervistati si aspetta da giornalisti e conduttori radiofonici
Quaderno di COMUNICazione
Quaderno di COMUNICazione
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Quaderno di COMUNICazione
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Note
1
R. Simone, Radio giornalismo: le modalità di costruzione linguistica del
messaggio, in “Italiano e oltre” 4 (1990), p. 193.
2
Il totale è superiore a 100 perché qualcuno, benché le istruzioni richiedessero una sola opzione, ha indicato più di un genere.
3
Questi dati non sono dissimili da quelli riscontrati in altre inchieste realizzate da vari Istituti di ricerca nell’ultimo decennio, con scopi diversi. Si vedano, per
tutti, Mass media, letture e linguaggio. Indagine multiscopo sulle famiglie, ISTAT
1995 (su un campione nazionale di circa 21.000 famiglie per un totale di circa
60.000 individui) e I giovani e la lettura. Indagine “Grinzaneletture ‘95”, Mondadori, Milano 1995, cap. 2 (indagine Censis, con un campione nazionale di 2380 giovani, alunni di scuole medie superiori).
4
Insieme coprono il 60% circa delle risposte.
5
Se non indirettamente, attraverso il diverso livello di scolarizzazione: ma il
punto andrebbe approfondito.
Linguaggi & società
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Semplificando, si può dire che via via che passano dalla scuola
media alle superiori e all’Università i ragazzi diventano via via più
attenti all’aspetto linguistico delle trasmissioni radiofoniche, considerano sempre più la radio un modello di lingua e perciò richiedono ai giornalisti e conduttori una lingua accurata, una dizione
perfetta, l’assenza di ogni inflessione o intrusione dialettale.
Per completare il quadro generale, appare significativa anche
un’altra considerazione. Parallelamente ai sensibili e normativi
siamo andati alla ricerca del gruppo –opposto– degli insensibili e
tolleranti: abbiamo cercato coloro che alle stesse domande ora elencate rispondessero negativamente (domande 10, 11 e 13) o con
opinioni aperte all’uso del dialetto e di varietà colloquiali o regionali dell’italiano (risposta a alle domande 14 e 15). Ebbene: non
abbiamo trovato nessuno che rispondesse a tutte queste caratteristiche. Dunque: il gruppo di coloro che mostrano una certa attenzione per il problema e sostengono posizioni ‘puristiche’ è relativamente piccolo, ma non c’è nessuno dei nostri intervistati che,
essendo indifferente al tema di cui si tratta, sia coerentemente attestato su posizioni ‘tolleranti’ e filo-dialettali.
Le conclusioni sembrano chiare. La passione della radio è tutt’altro che sopita: i ragazzi la preferiscono alla TV soprattutto perché
consente un ascolto migliore della musica, che a loro interessa più di
ogni altro programma, e che la radio offre in abbondanza. Sanno fare
una diagnosi perfetta delle differenze fra tipologia e qualità delle trasmissioni in radio e in TV, e scelgono a ragion veduta tra emittenti
RAI e commerciali: sono consapevolmente poco interessati alla ‘qualità’ dei programmi, di cui pure accreditano più la prima che le seconde; sono però più attenti di quanto si immagini alla qualità della
lingua (forse influenzati in questo dagli stereotipi scolastici). In questo campo non sono affatto tolleranti, anzi in buona parte ostentano
atteggiamenti decisamente puristici: non gradiscono l’uso del dialetto e di varietà colloquiali di italiano, ritenendo tuttora doveroso, da
parte della radiofonia sia pubblica che privata, un comportamento
linguisticamente ineccepibile (o quanto meno corretto). La differenza
di classe sociale non ha mai nessuna incidenza5 nell’atteggiamento
verso la radio; le differenza di età e di sesso incidono in qualche misura, nel senso che col passar degli anni matura un atteggiamento
sempre più intransigente nei confronti delle ‘licenze’ di lingua, e nel
senso che i maschi più delle femmine tendono tuttora ad attribuire
alla radio una funzione normativa.
Radioricevitore
FADA L.P., mod. 361
Mobile a consolle, 1934
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sergio raffaelli
la pronuncia alla radio
nel periodo fascista
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Quaderno di COMUNICazione
tecedente alle due iniziative annunciate, sappiamo assai poco. La
storiografia risulta avara d’informazioni ad esempio sulle qualità
fonogeniche (come si diceva allora) tanto dei professionisti quanto
dei profani al microfono, che furono subito numerosi: ben oltre 50,
nel 1928, e fra essi Sibilla Aleramo, F. T. Marinetti, Arnaldo Mussolini, Luigi Pirandello. Per incoraggiare ricerche capillari, assai promettenti e a volte curiose, ricordo qui almeno l’impacciato avvio
della carriera oratoria alla radio di Benito Mussolini, il quale in
una solenne allocuzione europea alla Scala di Milano, il 15 novembre 1925, “di tutto si curava fuorché di mantenere lo stesso tono di
voce e la stessa distanza dai microfoni” (così secondo la rivista amatoriale “La Radio per tutti”). Dobbiamo perciò ritenere preziosa
la notizia che verso il 1933 il giornalista Andrea Rapisarda, vincitore di concorso come radiocronista, non fu assunto dall’Eiar a causa del suo accento siciliano. E attende un’apposita ricerca l’istituzione presso l’Eiar nel dicembre 1936 –sotto la spinta di situazioni
nuove, quali il passaggio nel 1935 all’emissione di programmi irradiati da Roma sull’intero territorio nazionale, l’aumento delle trasmissioni parlate (che nel 1936 superarono definitivamente quelle
musicali), l’esempio di settori affini (nascita dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica nel 1935 e del Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1936)– di un Centro di Preparazione Radiofonica
per tecnici e artisti (rimasto attivo fino al 1943), i cui corsi annuali
prevedevano fra l’altro lezioni di “dizione e di fonetica italiana”.
I tempi diventarono maturi, dopo il 1935, per progetti più impegnativi, a beneficio non soltanto dei professionisti della radio, ma
anche degli ascoltatori. Mi riferisco al corso radiofonico La lingua
d’Italia, trasmesso nel corso del 1938, e al manuale Prontuario di
pronunzia e di ortografia di Giulio Bertoni e Francesco Ugolini, uscito nel 1939.
Essi possono apparire, oggi, di poco conto e quasi oziosi. Però
acquistano spiccato valore politico e culturale qualora siano considerati nel contesto sociale e ideologico del momento. Si ricordi infatti che il regime tentò allora di riparare al fallito tentativo di costruire il nuovo “italiano di Mussolini”, moltiplicando le disposizioni ed applicandole con metodi coercitivi. In ambito linguistico in
particolare continuò la lotta contro l’uso pubblico dei dialetti e dei
forestierismi, sostituì lo ‘snobistico’ lei con il voi (14 e 15 febbraio,
14 aprile 1938) e intensificò la cura per la corretta lingua nazionale
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
Verso il 1938
Fu la radio a mettere in evidenza che gli italiani
pronunciavano in modi differenti la lingua nazionale. Il fenomeno, certo, era noto da secoli e aveva
suscitato qualche preoccupato intervento soprattutto dopo l’unificazione nazionale; però era passato da semplice tema di studio per linguisti a problema anche professionale degli addetti alla comunicazione sociale soltanto dopo l’avvento della trasmissione attraverso l’etere di parole simultaneamente rivolte a un uditorio sparso e variegato.
Ora mi propongo di contribuire alla conoscenza
storica della pronuncia radiofonica in Italia, soffermandomi sulla cruciale fase del periodo fascista e
in particolare su due importanti iniziative miranti a
disciplinarla, che furono attuate, dietro impulso del
Ministero dell’Educazione Nazionale, dall’Eiar e dall’Accademia d’Italia nel biennio 1938-39. Prima di entrare in argomento ritengo
opportuno segnalare che la cura della dizione alla radio e l’adozione di una pronuncia unitaria furono attuate nel più ampio contesto
dell’elaborazione di un parlato che fosse da una parte consono alle
esigenze del nuovo mezzo di comunicazione e dall’altra conforme
agli orientamenti della politica linguistica del regime fascista. Sul
contesto storico-linguistico del primo ventennio della radiofonia in
Italia mi limito a ricordare che fu precoce e continuo lo sforzo di adattare la lingua nazionale (carente, per note cause storiche, di risorse colloquiali) alle capacità ricettive e alle attese del composito
pubblico degli ascoltatori, puntando soprattutto sulla linearità sintattica e sull’evidenza lessicale: basti ricordare, per rimanere ai
primordi, l’utilizzazione a Radio Genova, verso il 1930, d’una raccolta d’istruzioni per annunciatori e conferenzieri, dal titolo Del modo
di parlare alla radio; o poco dopo le indicazioni del ‘manifesto’ La
Radio come forza creativa di Enzo Ferrieri, pubblicato sul “Convegno” del 1931; e ancora, per limitarci a episodi ideologicamente
connotati, la sostituzione del lei con il voi, imposti dal censore teatrale Leopoldo Zurlo a testi anche illustri da eseguirsi alla radio:
così Il Copernico di Giacomo Leopardi (gennaio 1940) e Come tu mi
vuoi di Luigi Pirandello (gennaio 1941).
Sul problema della pronuncia radiofonica nel quindicennio an-
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Parola nostra
Passo ora alla presentazione del corso radiofonico La lingua
d’Italia, iniziando dai promotori. Il primo posto spetta al ministro
dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, che fu l’ideatore e il
sostenitore dell’operazione (egli infatti, stando a numerosi documenti in massima parte tuttora inediti, era molto vigile alle scelte
di politica linguistica del regime; e quando il buon senso richiedeva, dissentiva: così, per esempio, si pronunciò contro il bando dei
costrutti ‘cerimoniosi’ tipo Sua Maestà nel 1939, e soprattutto contro i criteri non scientifici adottati per italianizzare i forestierismi
nel 1941-43). L’Accademia d’Italia (istituzione culturale fiancheggiatrice del regime, che raccoglieva dal 1929 alcuni dei maggiori
scienziati e umanisti dell’Italia del tempo) svolse un essenziale
compito di preparazione dei testi per il corso, attraverso gli acca-
Quaderno di COMUNICazione
demici Alfredo Panzini e Giulio Bertoni (che fu coadiuvato dal discepolo Francesco Ugolini). Il suo non era un ruolo improvvisato.
La sua attenzione verso la radiofonia, in verità, era stata sempre
occasionale e debole: ad esempio nel gennaio 1930 decise d’inserire propri rappresentanti nei “comitati di vigilanza” delle manifestazioni radiofoniche (e anche cinematografiche, musicali e teatrali); nel giugno del 1935 poi affidò ad Angiolo Silvio Novaro l’incarico
di stendere “proposte sul tema radio” da consegnarsi a Mussolini:
il documento (“una cicalata”, civettò lui; davvero modesto, a parer
mio), diceva fra l’altro: “Bisognerebbe anche badare alla pronunzia”. Va aggiunto inoltre che l’Accademia dedicò per anni energie e
risorse alla lingua italiana, soprattutto per realizzare impegnative
imprese lessicografiche, guidate da Bertoni: il Dizionario di marina
medievale e moderno, deliberato nel 1932 e posto in vendita all’inizio del 1938; il Vocabolario della lingua italiana in cinque volumi,
iniziato nel 1935 e concluso nel 1941 (ma pubblicato in parte: A-C);
un inedito Dizionario di aeronautica , pronto per la stampa nel
1941; un Vocabolario etimologico italiano, avviato nel 1938 e mai
continuato. Quanto infine al ruolo svolto dall’Eiar, sono costretto
ad affidarmi, per mancanza di fonti dirette, alle testimonianze fornite dal “Radiocorriere” e alle notizie della stampa dell’epoca.
La gestazione della trasmissione radiofonica del 1938, finora del
tutto sconosciuta, è ricostruibile attraverso documenti reperiti da
poco. Il 7 ottobre 1937 Bottai propose all’Accademia d’Italia l’istituzione di un Centro per la lingua italiana e ne indicò i compiti: “che
dia pareri, indichi errori e storture, corregga pronuncie sbagliate”;
inoltre suggerì di affidarlo all’accademico Bertoni e di dargli sede
presso l’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Roma. L’Accademia si mostrò tiepida: dapprima dilazionò la decisione (lettera
del vicepresidente Carlo Formichi a Bottai, 14 ottobre); poi dichiarò
di avere “accolto in linea di massima la proposta” (Formichi a Bottai, 2 dicembre); inoltre promise di mettersi all’opera (“nella settimana entrante procederà a preparare uno schema che serva di base all’Ufficio di questo consiglio, che potrebbe essere informativo,
ortografico, pratico”: lettera del cancelliere Arturo Marpicati a Bottai, 11 dicembre). Bottai allora, il 13: “Caro Formichi, ricevo la comunicazione ufficiale circa l’istituzione di un Centro per la lingua italiana. Debbo dirti, ch’essa mi appare redatta in tono troppo dubitativo, tale che traspare chiara la volontà di non farne nulla. Ora, io
Quaderno di COMUNICazione
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(ad esempio, aumentarono le ‘veline’ ai giornali di soggetto linguistico). Infine passò alle disposizioni legislative: un decreto del 28
giugno 1937 proibì di etichettare imballaggi di prodotti italiani con
espressioni straniere; il decreto 5 dicembre 1938 vietò le denominazioni in lingua straniera dei locali di pubblico spettacolo; il decreto 9 luglio 1939 proibì di attribuire nome straniero a neonati italiani; infine la legge 23 dicembre 1940 vietò l’uso pubblico dei forestierismi. In tale contesto la normalizzazione fonetica dell’italiano
parlato in pubblico assunse un evidente valore anche ideologico, in
quanto assecondava la politica linguistica autarchica, antiborghese, antisnobistica in atto; e oggi appare anche specchio del modellamento culturale e persino comportamentale degli italiani: da oltre un decennio inquadrati nei riti di piazza, essi dovettero diventare allora uniformi anche nella dizione. Insomma, la ritualità investì
anche la comunicazione radiofonica: sorvolando sulle ‘voci littorie’
degli annunciatori nelle trasmissioni e nei cinegiornali “Luce”, ricordo solo che per disposizione del Ministero della Cultura Popolare dal 1942 la lettura del Bollettino del Comando Supremo in apertura del giornale radio delle 13 doveva essere ascoltata, nei
luoghi pubblici, in piedi, come mostra per esempio anche il film
Bengàsi di Augusto Genina, 1942 (ma Gaetano Polverelli, neoministro della Cultura Popolare, non accolse la richiesta, proveniente
dal direttorio del Partito Nazionale Fascista e datata 25 giugno
1943, d’introdurre quella lettura con “tre squilli di riposo”).
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Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
go (tipo traffici ma chirurghi), e sul plurale dei composti (tipo
biancospini, altopiani, ma mezzetinte, piazzeforti); appaiono comunque soddisfatte anche le richieste spicciole: si suggerisce ad
esempio di preferire avemmo a ebbimo, il soprano, un’ora e mezzo; oppure è spiegato come la scelta fra sono potuto e ho pututo
dipenda dal verbo all’infinito.
Hanno il netto sopravvento invece i dubbi di pronuncia (e di
scrittura) che si direbbero tormento comune a quasi tutti gli ascoltatori d’ogni parte d’Italia; la trasmissione perciò appare soprattutto un corso di “galateo” fonetico (e grafico). Le risposte comunque, sempre corredate da semplici ma persuasive spiegazioni,
presentano un interesse tuttora vivo. Qualche menzione. La tendenza a ritrarre l’accento sulla terz’ultima sillaba è popolare e riguarda le parole dotte e difficili: si pronunci rubrìca, blasfèmo, sicomòro, alcalìno, emisfèro, zaffìro, duodèno, mollìca, balaùstra.
Correttezza etimologica esige invece dàrsena, pànfilo, cìnema
(non cinèma né tanto meno “l’orribile francesismo” cinemà ),
circùito, càtodo, elèttrodo. Per rispetto all’uso ormai radicato si
conservi càlibro e rècluta, prestiti in origine piani. La forza dell’uso
legittima voci come regìme (francesizzante) o cattivèria. Ancora: il
“favore popolare” e il maggiore riscontro con altri toponimi antichi
consigliano di adottare Cecoslovàcchia anziché Cecoslovacchìa;
invece pàlpebra è da preferirsi a palpèbra, perché la voce sdrucciola prevale nel ceto colto di Firenze e Roma. Tra le forme verbali
all’indicativo presente, elabòro e intìmo vanno adottate per ragioni
etimologiche, mentre invece si accolgano sepàro e implìco in virtù
della maggiore popolarità.
I chiarimenti relativi al vocalismo tonico sono per così dire all’ordine del giorno: si consiglia, alla luce della grammatica storica,
il fiorentino colónna, e il romano léttera; si raccomanda ai settentrionali bène, biciclétta, tré. E la regola del dittongo mobile (tipo
vuole ma vogliamo) è spiegata con efficace chiarezza. Sono meno
frequenti le menzioni sul vocalismo atono, come ad esempio la
spiegazione del carattere squisitamente toscano di birreria, libreria; e si raccomanda di mantenere come “reliquie” talune forme
dialettali, quale il toponimo romano Via della Dataria. Le forme soprattutto e soqquadro offrono l’occasione per spiegare il raddoppiamento fonosintattico.
Quanto alla grafia, soltanto qualcuna delle numerose soluzio-
Quaderno di COMUNICazione
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desidero sapere se l’Accademia intende o non dare attuazione all’iniziativa, che mi riserverei, in caso, di attribuire a altri enti”. Formichi si affrettò quel giorno medesimo ad assicurare Bottai, scrivendo che già Panzini e Bertoni erano stati incaricati “di preparare uno
schema di lavori per detto Centro” di consulenza linguistica (che, a
parte l’attività radiofonica, sarebbe rimasto quasi inattivo, fino alla
primavera del 1943, quando si sarebbe rianimato, sotto la guida di
Alfredo Schiaffini, per occuparsi della toponomastica nazionale e di
quella dei territori percorsi dai fronti di guerra).
All’inizio del 1938 si aggiunse l’Eiar come terzo interessato, tramite il suo direttore generale Raoul Chiodelli. Il 10 gennaio 1938
l’Accademia propose infatti a Chiodelli, Bottai e Alessandro Pavolini, ministro della Cultura Popolare, un articolato piano per un corso radiofonico di lingua italiana a puntate.
Il corso, intitolato La lingua d’Italia, cominciò il 10 marzo 1938
con una convenzionale prolusione del vicepresidente dell’Accademia, Carlo Formichi (bando ai forestierismi, ai dialetti, alle pronunce
anomale). Esso si svolse poi in due fasi. Fino al 31 marzo Bertoni e
Alfredo Panzini si alternarono al microfono per sei puntate, il giovedì e la domenica sera, con lezioni sulla storia linguistica dell’italiano, sulla pronuncia, sui dialetti. La seconda fase, iniziata il 7 aprile e proseguita ogni giovedì (ma con qualche salto) per 17 puntate,
consistette nella lettura, fatta da un annunciatore, di risposte a quesiti posti dagli ascoltatori (le centinaia e centinaia di lettere, smistate dall’Eiar all’Accademia e poi forse a Francesco Ugolini, probabile
estensore dei testi, risultano finora irreperibili).
Questa seconda fase della trasmissione appare –stando alla
trascrizione fornita nel “Radiocorriere”, dal n. 23 del 5 giugno al
n. 44 del 30 ottobre 1938– una sorta di guida via etere alla grammatica italiana, che pur assecondando le richieste del momento,
riesce a occuparsi, in misura peraltro assai difforme, di tutti i
principali settori della lingua. Il lessico vi appare alquanto sacrificato: trovano spazio infatti soltanto alcune parole in quel periodo
di gran voga o discusse, come autarchia, eia, razza; sono condannate inoltre le parole straniere non adattate, tipo garage, ma non
quelle radicate nell’uso, come bar e blu (senz’accento!); e naturalmente è bandito il pronome di riverenza lei. Le questioni di
morfologia e di sintassi ottengono uno spazio un po’ maggiore:
prevalgono le questioni generali, come sull’esito plurale di -co e -
95
96
Il prontuario di pronunzia
Naturale frutto del corso radiofonico del 1938 fu il ben noto e
fortunato Prontuario di pronunzia e di ortografia, come del resto
si può desumere a prima vista dalla sua paternità (la coppia Bertoni e Ugolini), dalla proprietà editoriale (Eiar), dalla sezione iniziale (un compendio delle risposte fornite nelle 17 puntate radiofoniche); nuovo appare soltanto il copioso prontuario alfabetico di corretta pronuncia. Il libro, commissionato dall’Eiar, fu allestito in breve da Ugolini (il suo maestro Bertoni era oberato dagli
impegni lessicografici), presso l’Istituto di Filologia Romanza: già
il 2 giugno 1939 Bertoni poté chiedere a Mussolini, invano, un’udienza per offrigli la prima copia dell’imminente opera (che trattava “problemi di lingua e di pronunzia oggi particolarmente sentiti dal pubblico”); si rassegnò a scrivergli subito una lettera (3
giugno 1939), per segnalargli fra l’altro che essa era il “primo
tentativo di disciplinamento nazionale di difficili e delicati problemi, i cui riflessi nell’insegnamento italiano all’estero” erano
“gravi”; e infine a inviargliela tramite la Segreteria Particolare, il
successivo 4 luglio (ribadendogli, nel biglietto d’accompagnamento, che rispondeva “a un bisogno vivamente sentito dal pubblico e dagli studiosi”).
Nella “Introduzione” del Prontuario gli autori illustrano il noto
principio dell’asse Roma-Firenze, secondo il quale chi parla alla
radio o comunque in pubblico è tenuto a seguire, nei pochi casi di
discordanza fonetica tra Firenze e Roma, la “pronunzia colta”
della Capitale. E a giustificazione della priorità accordata a Roma
adducono ragioni sia sociali e politiche (la città è in espansione,
è capitale dell’Italia imperiale) sia linguistiche (Firenze si “ritro-
Quaderno di COMUNICazione
va” quasi sempre nella varietà romana). Ho ricostruito altrove la
celere “conversione” di Bertoni (modenese e vecchio “fiorentinista”) a quest’orientamento, indottovi dal romano Ugolini. Stando
a testimonianze fornite da articoli, lezioni e interviste, che qui
segnalo appena, l’8 marzo 1938 egli risultava ancora situato sul
versante fiorentino; il 31 marzo, invece, già spostato sul crinale
tra Firenze e Roma: segnalava infatti la presenza, nella Capitale,
di “alcune pronuncie non propriamente romanesche ma romane”
che rappresentavano “un contemperamento fra l’uso fiorentino e
quello della restante parte d’Italia”; comunque nei casi di divergenza andava seguita la forma sorretta dalla grammatica storica; egli infine, nel testo introduttivo del Prontuario, “L’asse linguistico Roma-Firenze” (apparso anche nel numero inaugurale
di “Lingua nostra”, finito di stampare il 2 marzo 1939), dichiarava
assieme a Ugolini che una “sistemazione fondata sulla grammatica storica” era “di difficile e quasi impossibile attuazione” e che
perciò era preferibile semplificare: che Firenze si facesse da parte ogni qual volta non si accordasse con Roma. In effetti il repertorio lessicale fornito dal Prontuario privilegia l’orientamento romano, segnalando, in posizione subordinata, l’eventuale variante
fiorentina.
Reazioni
Questa scelta fonetica dei due filologi assunse il valore di legge,
come del resto accadeva all’epoca per ogni altra indicazione linguistica “di regime”. A essa si adeguarono la radio e, con fatica, il teatro e il cinema, in quanto gli attori di professione erano di formazione tradizionalmente rispettosa della pronuncia fiorentina. Gli addetti ai lavori manifestarono consensi per lo più tiepidi, si direbbe di
opportunità e contro voglia (tipo la recensione di Silvio d’Amico al
Prontuario, su “Scenario” del 1939). Da parte dei cultori della lingua, silenzio pressoché totale. L’innovazione comunque fu notata
dal grande pubblico. E stimolò anzi l’estro creativo di qualcuno: così per esempio quello d’un commediografo, Alfredo Vanni, che in un
brillante “atto radiofonico”, Mi cadrete tra le braccia!… (approvato
dalla censura teatrale il 24 gennaio 1940), inserì un innocuo dileggio del rigorismo fonetico imperante sui palcoscenici; ecco infatti
l’arguto battibecco fra una Lei e un Lui (il quale ha promesso di
scriverle “una dichiarazione in piena regola”):
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
Linguaggi & società
ni. L’etimologia e la tradizione letteraria consigliano il mantenimento della -i- in sogniamo, scienza, coscienza. Sul trattamento
della desinenza - io al plurale: la - i- tonica rimane e si avrà
pendìo/pendii; se invece è atona, amore di semplicità vuole un’unica vocale (studio/studi); tuttavia le eccezioni sono ammesse,
onde evitare confusioni (palio/palii, tempio/tempii, a causa di palo/pali, tempo/tempi). Quanto in particolare al verbo avere, è raccomandato l’uso dell’h (ho, ha, hanno), e perciò sconsigliato il ricorso sostitutivo all’accento (notoriamente praticato per esempio
dal ministro Bottai).
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(sostenuta) Dichiarazione… platonica?
LUI No. Una domanda formale di matrimonio. Una léttera coi fiocchi.
LEI (sorridendo) Grazie. Però… lèttera.
LUI Léttera.
LEI Lèttera.
LUI Be’, léttera o lèttera, sarà un’epistola ardente di passione. E
voi che cosa risponderete?
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Finora sono riuscito a reperire ben poche voci subito dissenzienti. Menziono appena Vasco Restori, un bastian contrario mantovano,
che dopo avere scritto fra l’altro un libello contro la scelta bertoniana ( Appunti al “Prontuario di pronunzia e di ortografia” edito
dall’E.I.A.R., 1939), perdette il posto d’insegnante. E sorvolo sull’autorevole giornalista Michele Campana, conterraneo di Mussolini e
notevole cultore della lingua, che nel 1938 poté tacciare impunemente di meschinità le discussioni linguistiche alla radio. Merita invece risalto l’accademico d’Italia e glottologo Clemente Merlo, che
condusse una tenace e isolata campagna pubblica contro la supremazia accordata alla soluzione fonetica “romana”, contribuendo al
dissolvimento, nel 1941, del vecchio sodalizio scientifico con Bertoni. In una lezione tenuta il 18 marzo 1940 a Lucca (apparsa poi, col
titolo Volgare romanesco e volgare toscano, nel volume datato 1939
dell’“Italia dialettale”) egli denunciò, con argomenti storico-linguistici, l’inconsistente fondamento “politico” della teoria di Bertoni e
Ugolini. E il 17 maggio 1943, in piena guerra, egli ripropose quel
medesimo tema all’adunanza dell’Accademia fiorentina “La Colombaria”, e ottenne dai presenti l’adesione unanime al voto “che nelle
radio-comunicazioni” fosse “preferita la pronunzia toscana cólta, la
sola italiana di fatto e di diritto”. La notizia di quel voto arrivò poi,
tramite il Ministero dell’Educazione Nazionale, all’Accademia d’Italia, che con nota del 10 luglio 1943 (il giorno dello sbarco in Sicilia!)
assicurò al Ministero che avrebbe esaminata la questione all’apertura del “prossimo anno accademico”, cioè in autunno.
Negli anni di guerra la norma di Bertoni e Ugolini fu in pieno
vigore, per lo meno alla radio, stando anche alla testimonianza di
un sensibile osservatore quale Giorgio Pasquali, che verso il
1941 trovava la pronuncia radiofonica “piuttosto romana”; e si
chiedeva: “Che ci si avvicini allo spostamento del centro linguistico da Firenze a Roma?”.
Quaderno di COMUNICazione
Epurazione
Ben presto la soluzione “romana” perdette il sostegno ideologico e politico, in seguito alla caduta del regime fascista, il 25 luglio
1943. Essa diventò immediato e facile bersaglio, soprattutto giornalistico, della rivalsa contro l’oppressione fascista, fatta anche di
autoritarismo linguistico. La stampa fiorentina in particolare intervenne più volte nella fase transitoria dei “45 giorni” del governo di
Pietro Badoglio, richiedendo che fosse cancellata l’onta della passata retrocessione linguistica di Firenze, mediante l’immediata
sconfessione della priorità fonetica di Roma. Però il recupero effettivo di Firenze iniziò soltanto nel 1945, come testimonia fra l’altro un noto intervento “fiorentinista” di Bruno Migliorini, Pronunzia
fiorentina o pronunzia romana? (un libretto in forma di dialogo, finito di stampare il 30 luglio 1945).
Non sono in grado di valutare la vitalità delle varianti fonetiche
romane nella radio e più in generale nella comunicazione pubblica
dopo il 1945, per carenza di studi adeguati: resta infatti tuttora isolato, e comprensibilmente datato, lo studio sul parlato radiofonico
dell’immediato dopoguerra, offerto da Ornella Fracastoro Martini,
La lingua e la radio, del 1951. Indicazioni di superficie –come la sostanziale continuità fra Eiar e Rai (per lo più stessi dirigenti, stessi
giornalisti, stessi tecnici)– inducono a ritenere che fino verso gli anni Settanta il modello fonetico “romano” abbia in qualche misura
retto, anche grazie al sostegno del vecchio Prontuario d’epoca fascista: esso, infatti, per iniziativa della Rai tornò a circolare in una riedizione del 1949, a cura di Francesco Ugolini e quindi inalterata; e
non trovò autorevole opposizione fino al 1969, quando uscì presso la
Rai il Dizionario di ortografia e di pronunzia di Piero Fiorelli, Bruno
Migliorini e Carlo Tagliavini, che assegna la precedenza a Firenze.
Nota
Le notizie fornite in questo contributo sul ruolo di istituzioni e personalità pubbliche provengono per lo più dall’Archivio Centrale dello Stato, “Segreteria Particolare del Duce. Corrispondenza Ordinaria”, fasc. 515666.1; inoltre, dall’Archivio dell’Accademia d’Italia (presso l’Accademia Nazionale dei Lincei), tit. IV, b. 16, fasc.
47; ivi, tit. XII, b. 1, fasc. 6 e b. 2, fasc. 9. Per altre informazioni su fonti archivistiche
e bibliografiche, nonché per ulteriori notizie storiche, si veda: S. Raffaelli, La norma
linguistica alla radio nel periodo fascista, in Gli italiani trasmessi. La radio, Accademia della Crusca, Firenze 1997, pp. 31-67, a cui tacitamente spesso si rinvia.
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
Linguaggi & società
LEI
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momenti di un (contrastato) rapporto
antonio lucio giannone
radio e letteratura:
Linguaggi & società
1. Il Manifesto della Radio di Enzo Ferrieri e l’Inchiesta del “Convegno”.
Una conferma di questo atteggiamento si può avere
già in quello che deve essere considerato, in senso assoluto, il primo
momento di riflessione sul nuovo mezzo di comunicazione da parte
della cultura italiana, l’Inchiesta sulla Radio, bandita dalla rivista “Il
Convegno” nel 1931. Non è un caso che proprio nel fervido ambiente
della rivista milanese, fondata da Enzo Ferrieri nel 1920, si sia manifestato per la prima volta uno specifico interesse per la radio, ad appena sette anni dall’inizio della radiodiffusione in Italia ad opera dell’URI (Unione Radiofonica Italiana). “Il Convegno” infatti, che era affiancato dall’omonimo Circolo di cultura, dove si svolgevano spettacoli teatrali, conferenze, concerti, e da una Biblioteca, si distingueva
tra le riviste di quel tempo, oltre che per l’apertura europea, per l’attenzione prestata a ogni forma di arte e di spettacolo, dalla letteratura al teatro, dalla musica al cinema, anche d’avanguardia2.
Tutto nacque, dunque, da un lungo e articolato saggio del direttore della rivista, il quale diverrà anche un apprezzato regista radiofonico, dal titolo La radio come forza creativa 3. Nel suo scritto,
la cui prima parte è costituita da un vero e proprio Manifesto della
Quaderno di COMUNICazione
Radio, Ferrieri affrontava i vari aspetti di questo nuovo medium,
che da semplice mezzo divulgativo doveva diventare, a suo avviso,
una “forza creativa” di nuove forme giornalistiche, drammatiche,
musicali e letterarie. Alla base del saggio c’era la convinzione infatti che se si volevano sfruttare fino in fondo tutte le potenzialità
della radio si dovesse usare un linguaggio specifico nei vari campi
espressivi. Fino ad allora invece la radio, secondo l’autore, si era
limitata a trasmettere testi e musiche composti per altre occasioni
(il palcoscenico o le sale da concerto), mentre era necessario
creare opere concepite appositamente per questo nuovo mezzo, le
quali dovevano avere perciò caratteri ed esigenze speciali.
Lo scritto di Ferrieri è ricco di osservazioni su tanti aspetti della
radio, come la voce, la materia delle trasmissioni, lo stile radiofonico, il carattere tipicamente giornalistico del mezzo radiofonico,
la musica per radio, ecc. Per quanto riguarda l’aspetto più specificamente letterario, Ferrieri si sofferma in particolare sul teatro
per radio, che deve fondarsi “sulla sintesi piuttosto che sull’analisi, sul dinamico piuttosto che sullo statico”4 e ancora “sulla complicità del silenzio”, come elemento di grandiosa e paurosa suggestione e sul “senza limiti dello scenario”, oltre che sulla “individualità delle voci”. “Nella individualità delle voci, –scrive ancora
Ferrieri– nel loro avvicinarsi e intrecciarsi, nei loro cori, nelle loro
pause, starà molta della forza originale del nuovo radiodramma”5.
La commedia per radio, a suo giudizio, non dovrà limitarsi al genere drammatico, ma anche comica, grottesca e dovrà avere un
carattere popolare. Il contributo creativo dei singoli attori infine
“dovrà comporsi con un altro elemento specifico: la necessità di
una sorveglianza assoluta da parte del direttore o ‘régisseur’”6.
Questo saggio di Ferrieri diede vita, come s’è detto, a un’Inchiesta sulla Radio7, alla quale parteciparono ben trentaquattro fra
scrittori, critici, commediografi, giornalisti, musicisti, più o meno
noti. Non potendo dar conto in questa sede di tutte le posizioni emerse, esaminiamo brevemente quelle dei letterati presenti, che
possiamo suddividere in quattro categorie: coloro che sono nettamente contrari alla radio, gli scettici, i favorevoli con riserva e gli
entusiasti in senso assoluto. Decisamente ostili alla radio sono, ad
esempio, Alberto Carocci e Guido Piovene, i quali non nascondono
la loro idiosincrasia per questo nuovo mezzo. Piuttosto scettico e
distaccato si dimostra pure Emilio Cecchi, il quale ritiene di non
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
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Il rapporto tra radio e letteratura in Italia non è
stato sempre felice, idilliaco, come forse si potrebbe
immaginare. Anche per la radio infatti vale quello
che è stato notato per gli altri media, nei confronti
dei quali gli scrittori italiani hanno manifestato, soprattutto all’inizio, una certa diffidenza, se non un aperto disprezzo. “Quale che sia il medium in questione –ha scritto Gianni Canova– (prima la radio, poi il
cinema e la televisione), l’atteggiamento non cambia:
lo scrittore italiano vede in esso un potenziale concorrente o addirittura un pericoloso nemico, destinato a insidiare e a involgarire –più ancora che i media
precedenti– il primato della letteratura nei processi
di produzione delle forme estetiche e dell’immaginario collettivo. Ne deriva un più o meno esplicito ‘rifiuto a collaborare’, fondato su motivazioni che oscillano di volta in volta fra l’esorcismo astioso e la difesa
corporativa della propria supposta superiorità”1.
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Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
ragione, che al di là dei pareri espressi nelle varie risposte pervenute,
“è certo che la radio ha acquistato in Italia soltanto ora il suo diritto di
cittadinanza nell’interesse degli scrittori e degli artisti. Oggi –continuava– è possibile di chiedere a un autore una commedia nuova da
trasmettere per radio (e anche di ottenerla!)”15. E in effetti si può dire
che il merito principale di Ferrieri è stato soprattutto quello di essere
riuscito a imporre all’attenzione della cultura militante questo nuovo
mezzo di espressione “nella sua totale e globale presenza indicandone prerogativi e limiti, forza di penetrazione e dimensione”16.
2. La Radio e i futuristi
La riflessione sulla radio continuò in quegli anni proprio negli
ambienti dell’avanguardia e ad essa diede un contributo importante il futurismo, che aveva dimostrato interesse, fin dagli inizi, verso
ogni linguaggio dello spettacolo e della comunicazione di massa e
verso ogni espressione artistica nuova, che si rivolgesse direttamente al pubblico: dal teatro al cinema, dalla fotografia alla pubblicità. Per di più, nella radio i futuristi vedevano lo sbocco naturale delle loro ricerche espressive in campo letterario, teatrale e
musicale, dal paroliberismo all’onomatopea, dal teatro sintetico
all’“arte dei rumori”. Il 22 settembre 1933, sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino, venne dunque pubblicato un manifesto specificamente dedicato a questo nuovo medium, La Radia, termine con cui
i futuristi designavano tutte le manifestazioni della radio.
In questo scritto, firmato dallo stesso F. T. Marinetti e da Pino
Masnata, erano riprese e ribadite alcune idee già esposte dal primo
nella sua risposta all’Inchiesta di Ferrieri. Anche qui, infatti, è detto
che la radio deve avere una sua specificità, non deve essere cioè
teatro, cinema o libro, e deve essere libera da ogni punto di contatto
con la tradizione letteraria e artistica. Così pure si ribadiva che le
parole in libertà dovevano essere lo strumento espressivo del “radiasta”, che però poteva ricorrere anche allo stile parolibero, già diffuso “nei romanzi avanguardisti e nei giornali”. In più, nel manifesto,
c’è un approfondimento teorico, dovuto forse a Masnata, delle prerogative di questo nuovo mezzo che abolisce lo spazio, il tempo, l’unità d’azione, il personaggio teatrale, il pubblico. Le manifestazioni
della radio dovevano tendere verso “un’Arte nuova”, “essenziale”,
“senza tempo né spazio senza ieri e senza domani”, “umana universale e cosmica”, in grado di captare, amplificare e trasfigurare le
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
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poter rispondere a questo referendum, avendo “poca o punto pratica della ‘radio’”8.
Fiduciosi nelle possibilità artistiche della radio, sia pure con
qualche riserva, sono altri scrittori come Lucio d’Ambra, Carlo Linati e Nino Savarese. Anche un grande critico teatrale, come Silvio
D’Amico, nutriva qualche dubbio sul teatro radiofonico, che definiva
un teatro sui generis, in quanto con esso si ritorna “all’esclusività
della parola”9, a una forma di “oratorio”, ossia al dramma recitato,
non rappresentato. Da questo punto di vista “può anche segnare la
ripresa, e la novissima trasformazione, di un’arte antichissima”, in
quanto ci riporta “tout court alle origini della tragedia primitiva, la
greca”10. Così pure il commediografo Gino Rocca sosteneva che non
si poteva parlare di teatro per la radio, mancando l’elemento “spettacolo” e l’elemento “pubblico”11.
Obiezioni più o meno analoghe rivolge a Ferrieri una personalità
di primo piano dell’avanguardia artistica, Anton Giulio Bragaglia, il
quale fa notare che il teatro radiofonico perde “mezza rappresentazione”, quella visiva. Esso diventa perciò puro “teatro di poesia”, per
cui è più appropriato il termine “auditocolo”. Ma, a suo giudizio, “il
vero teatro resta quello teatrale”, perché “il teatro è un’altra cosa”12.
Il maggiore consenso, anzi un’entusiastica adesione, alle proposte di Ferrieri venne da quegli scrittori più aperti alla modernità, come Massimo Bontempelli e F. T. Marinetti. Bontempelli approva “in pieno” il saggio di Ferrieri sulla radio “enorme trasformatrice di civiltà”13 e promette di tentare qualche saggio di dramma radiofonico. Il fondatore del futurismo, in un breve ma incisivo
intervento, sostiene che la radio deve rompere con la tradizione
letteraria e artistica e ispirarsi alla creazione futurista. Il teatro radiofonico perciò “deve forzatamente essere un teatro futurista,
cioè sintetico, veloce, simultaneo, a sorpresa, senza nessuna introspezione, lungaggine, né analisi di psicologia”14. Ovviamente
questo tipo di teatro deve servirsi delle parole in libertà, che sono
“il suo linguaggio congenito”. Esse infatti sono le più adeguate a esprimere ciò che non si vede, contenendo “tutta un’orchestra di
rumori e di accordi rumoristici (realistici o astratti)”. Al massimo
l’autore di teatro radiofonico potrà esprimersi nello stile parolibero
“tipicamente veloce, scattante, sinteticissimo e simultaneo”, che
costituisce una variante più attenuata del paroliberismo.
Tirando le fila dell’Inchiesta, Ferrieri poteva concludere, a giusta
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Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
questioni relative alla radiofonia, da quelle strettamente estetiche
a quelle tecniche (scrive ad esempio articoli sull’acustica o su alcune invenzioni), dalla programmazione alla produzione di apparecchi radio, alla stampa specializzata, in una considerazione globale, a tutto campo, di questo medium.
Nei suoi interventi, in particolare, si batte a favore dell’ “Arte fonica”, che è una “nuova arte” e ha “sue esigenze, sue caratteristiche, suoi canoni, sue non comuni possibilità”24. Nelle opere trasmesse alla radio nota, invece, lacune tecniche oppure “l’insufficienza di cultura e di studio, la mancanza di preparazione e di passione per l’arte radiofonica”25. In una breve nota afferma che “con
solo dialogo non si può fare una commedia fonica […] bisogna curare i rumori, l’ambiente, la vita insomma di tutto l’intreccio”26,
perché “qualunque cosa si trasmetta essa deve avere qualità essenzialmente foniche”27. La radiofonia insomma, per Ginna, costituisce un’arte a sé e “non deve e non può riprodurre un’opera fatta
per il palcoscenico”28. Auspica perciò la nascita del “radiodramma”, a suo avviso non ancora sviluppato e sfruttato, in cui il problema artistico non deve essere disgiunto da quello tecnico.
Anche sull’organo ufficiale del movimento, “Futurismo”, diretto a
Roma da Mino Somenzi, nel 1932-33 era presente una rubrica, intitolata Cinema Teatro Radio, nella quale si arriva ad affermare che l’apparecchio radio “con l’aeroplano, potrebbe condividersi il diritto di
costituire l’emblema del nostro secolo”29. Lo stesso Somenzi interviene direttamente su questo argomento un paio di volte. Nella prima si lamenta del poco spazio dato dai dirigenti dell’EIAR al futurismo nei programmi “ultra passatisti” della radio, dove predominano
“‘sinfonici’ sonniferi, commedie da ricreatori giovanili clericali, commenti letterati interessati e novelle relative, lugubri necrologi a ripetizione (siamo arrivati al 149.), piagnistei storico-nostalgici […] e via
di seguito”. Ma il pubblico intelligente, stanco di questo repertorio “si
è tuffato con la nuova sensibilità nello sconfinato e sublime oceano
della radio con una prepotente sete di nuovo”30. Nel secondo articolo,
al grido di Futuristizziamo la radiofonia, si augura invece una netta
inversione di rotta, in modo da svecchiare i programmi dell’EIAR31.
3. Scrittori al microfono
Al di fuori del futurismo, in questi anni, è soprattutto Massimo
Bontempelli che, dopo aver approvato in pieno il saggio di Ferrieri,
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
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“vibrazioni emesse da esseri viventi” e “dalla materia”, di offrire la
“sintesi di infinite azioni simultanee”, di restituire la “vita caratteristica di ogni rumore” e le “lotte di rumori e di lontananze diverse”17.
I due firmatari del manifesto diedero anche un contributo creativo
in questo campo, componendo entrambi delle “sintesi radiofoniche”.
Quelle di Marinetti sono brevi sequenze, dove suoni, rumori, note
musicali si alternano ai silenzi e alle pause, che hanno spesso un valore determinante, in anticipo quasi su certa musica sperimentale18.
Ad esempio, nella sintesi intitolata I silenzi parlano fra di loro, alcuni
secondi di “silenzio puro” si interpongono, di volta in volta, a suoni di
flauto, di pianoforte, di tromba, al pianto di un bambino, al rombo di
un motore, ecc.19. Più ampia è la “trisintesi radiofonica” Violetta e gli
aeroplani 20, dove suoni, rumori, il canto del mare, quello degli uccelli, i rombi degli aeroplani costituiscono lo sfondo sonoro della vicenda. Questo lavoro venne mandato in onda dall’EIAR nel settembre del
1932 e ritrasmesso il 19 gennaio dell’anno seguente.
Le sintesi radiofoniche di Pino Masnata, anch’esse brevissime,
sono popolate invece di voci umane che danno vita a dialoghi un
po’ surreali e non privi d’ironia, alternandosi a rumori, che si creano, s’intrecciano, svaniscono e si trasformano21. Anche di Masnata,
il 20 dicembre 1931, venne mandata in onda una “radio-opera
sinfonica”, Tum tum ninna nanna, con musiche di Carmine Guarino, in cui il protagonista è il cuore di una donna, Wanda, con i suoi
battiti e il suo ritmo, che generano per l’appunto una sorta di danza e di ninna nanna22.
Ma direttamente ispirate alla radio e anzi composte, almeno in
parte, espressamente per questo nuovo mezzo sono le Liriche radiofoniche di Fortunato Depero23, dove ha grande rilievo l’aspetto
fonico dei testi, che sviluppa precedenti ricerche dell’autore sull’onomatopea e sull’“onomalingua”. In due composizioni, in particolare, La voce dell’antenna e La febbre del telegrafo, Depero fa ricorso anche a modi di comunicazione desunti dalla radiotelegrafia,
per raggiungere quelle caratteristiche di brevità, sinteticità, simultaneità esposte nella premessa del libro.
La radio inoltre è al centro dell’interesse anche di altri futuristi,
come Arnaldo Ginna, che le dedica una nutrita serie di interventi,
dal 1930 al 1932, sul settimanale romano “Oggi e domani”, su cui
cura pure una rubrica, forse la prima in assoluto in Italia, di critica
radiofonica, e poi sull’ “Impero”. In questi articoli affronta varie
105
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
musicisti importanti, da Berio a Nono, da Bussotti a Maderna.
Ma dal secondo dopoguerra aumenta anche il numero di letterati che collaborano in vari modi alla radio, curando rassegne o
rubriche, componendo testi originali o riduzioni e adattamenti di
opere preesistenti, presentando o traducendo testi altrui. Ciò è dovuto anche al maggiore spazio che viene ora riservato alla cultura
dai dirigenti della RAI. In questo periodo nascono infatti alcune rubriche culturali, come “L’Approdo”, “Il contemporaneo”, “Il teatro
dell’usignolo”; al 1949 risale la prima edizione del Premio Italia, a
cui, nelle varie edizioni, partecipano scrittori e musicisti di fama
mondiale; il 1° ottobre 1950 viene creato infine il Terzo programma
con finalità specificamente culturali.
Tra gli scrittori che collaborano alla RAI, il più famoso è senza
dubbio Carlo Emilio Gadda, che prende servizio il 1° ottobre del
1950 come praticante giornalista ai servizi culturali del Giornale
radio, di cui era redattore-capo Giovan Battista Angioletti. Dal 1°
giugno 1952 diventa redattore ordinario e passa al Terzo programma, dove rimane fino al 31 marzo 1955, allorché lascia volutamente la RAI, anche se continua a collaborare come esterno35. Il catalogo dei lavori gaddiani, in questi cinque anni, è assai vario e comprende: serate a soggetto, come quella su Cristoforo Colombo;
conversazioni; recensioni parlate; interventi in dibattiti; interviste;
traduzioni e rifacimenti, come quello intitolato Hàry Jànos36, che
lui definì in una lettera “un radiodramma per modo di dire”37. Cura
inoltre il ciclo I Luigi di Francia e dirige le rubriche “L’osservatore
dello Spettacolo” e “L’osservatore delle Lettere e delle Arti”.
Ma il risultato più noto di questa collaborazione è costituito da
uno scritto, apparso nel 1953, le Norme per la redazione di un testo
radiofonico38, in cui Gadda affrontava il problema del linguaggio radiofonico, indicando alcune regole improntate all’estrema semplicità e chiarezza nella sintassi e nel lessico (periodi brevi, uso della
paratassi, eliminazione di parentesi, incisi, allitterazioni involontarie, parole desuete, forme poco usate, ecc.). In esso insomma lo
scrittore italiano, che è quasi il simbolo, l’esempio più alto del pastiche, del plurilinguismo novecentesco, consigliava di usare un linguaggio e uno stile del tutto antitetici a quelli da lui adottati nelle
sue opere. Forse soltanto allora i letterati italiani incominciavano a
capire le specifiche necessità del mezzo radiofonico e poteva finalmente nascere una maggiore intesa tra radio e letteratura.
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
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si occupa a più riprese, anche se in maniera un po’ contraddittoria
in verità, della radio. In un articolo del 193432 confessa di avere una
“vaga fiducia” nel “radiodramma”, invitando al tempo stesso i “radioautori” a non perdere tempo in tentativi inutili e a tener conto di
alcune peculiarità di questo mezzo. Qualche anno dopo invece, intervenendo in un dibattito sul “radioteatro”, sviluppatosi sulle pagine del “Radiocorriere”, a cui aveva incominciato a collaborare fin
dal primo numero, esprime forti dubbi sulla possibilità di creare
un vero e proprio genere radiofonico, per la mancanza dell’elemento visivo e del pubblico, che sono invece tipici del teatro33.
Nonostante le perplessità di Bontempelli però, il radiodramma,
vale a dire il genere creativo per eccellenza della radio, si era sviluppato già dalla fine degli anni Venti. Il primo tentativo risale al 18 gennaio 1927, allorché l’URI mandò in onda il giallo Venerdì 13 di Gigi Michelotti, ma il primo esempio di radiodramma è considerato L’anello
di Teodosio, con cui il drammaturgo Luigi Chiarelli, iniziatore del cosiddetto “teatro del grottesco”, vinse il concorso bandito nel 1929, dopo che nel 1927 la prima edizione era andata deserta. Ma questa radiocommedia, in trenta “fonoquadri”, è stata giudicata un’opera piuttosto “modesta” e superficiale da un esperto come Franco Malatini,
che ha ricostruito la storia di cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia34. L’esempio di Chiarelli comunque, negli anni Trenta, venne seguito da altri commediografi, come Gino Rocca, Alessandro De Stefani e
Ettore Giannini, e da scrittori come Lucio d’Ambra e Carlo Linati, che
avevano partecipato all’Inchiesta promossa dal “Convegno”.
Ma è soprattutto dal secondo dopoguerra e dagli anni Cinquanta
che la produzione di radiodrammi si intensifica dal lato quantitativo
e migliora sotto il profilo qualitativo. Accanto a un gruppo di autori
che si dedicano quasi esclusivamente alla creazione di opere radiofoniche, scrivono per la radio infatti scrittori e commediografi di
prestigio. Tra questi ricordiamo Diego Fabbri, Vasco Pratolini, Alberto Savinio, Giovan Battista Angioletti, Riccardo Bacchelli, Nicola
Lisi, Dino Buzzati, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone. Questa
tendenza prosegue negli anni Sessanta e Settanta, allorché compongono opere per la radio, fra gli altri, Primo Levi, Arpino, Rea,
Bigiaretti, Dessì, Fruttero e Lucentini, Cassieri, Palumbo. Anche
scrittori della neoavanguardia o comunque vicini ad essa, come
Sanguineti, Balestrini, Pagliarani, Malerba, Manganelli, Volponi, Ottieri si cimentano in questo campo, spesso con la collaborazione di
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Note
Linguaggi & società
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Quaderno di COMUNICazione
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G. Canova, Gli usi multimediali della letteratura, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 4,
Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 711.
Sul rapporto radio-letteratura cfr. anche A. Abruzzese e F. Pinto, La radiotelevisione, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Produzione e consumo, Einaudi, Torino 1983, pp. 837-870.
2
Su questa rivista cfr. AA.VV., Il “Convegno” di Enzo Ferrieri e la cultura europea dal 1920 al 1940. Manoscritti, Immagini e Documenti, Pavia 1991.
3
In “Il Convegno”, a. XII, n. 6, 25 giugno 1931, pp. 297-320.
4
Ivi, p. 306.
5
Ivi, p. 307.
6
Ivi, p. 309.
7
In “Il Convegno”, a. XII, n. 7-8, 25 agosto 1931, pp. 361-437.
8
Ivi, p. 385.
9
Ivi, p. 400.
10
Ivi, p. 401.
11
Ivi, p. 424.
12
Ivi, p. 373.
13
Ivi, p. 368.
14
Questa come le altre citazioni di Marinetti sono a p. 416.
15
Ivi, p. 367.
16
F. Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia 1929-1979, ERI, Torino 1981, p. 27.
17
F. T. Marinetti-P. Masnata, La Radia, in “Gazzetta del Popolo”, 22 settembre 1933; poi, col titolo Manifesto della radio, in “Futurismo”, a. II, n. 55, 1 ottobre 1933.
18
Le “sintesi radiofoniche” del fondatore del futurismo sono comprese in F. T.
Marinetti, Teatro, a cura di G. Calendoli, Vito Bianco editore, Roma 1960, vol. I,
pp. 221-225.
19
Ivi, p. 224.
20
Ivi, pp. 228-261.
21
Alcune “sintesi radiofoniche” di P. Masnata si possono leggere in “Autori e
Scrittori”, Mensile del Sindacato nazionale, a. VI, fasc. 8, agosto 1941, pp. 8-10.
22
Ora in “Carte segrete”, a. VIII, aprile-giugno 1974, n. 25, pp. 122-124, in appendice a M. Verdone, Radia fonica visionica, pp. 105-112.
23
F. Depero, Liriche radiofoniche, Morreale, Milano 1934; di questo volume esiste una ristampa anastatica (Firenze, S. P. E. S., 1987), con una postfazione di
L. Caruso, appendice documentaria ed interventi critici di A. L. Giannone e C.
Wagstaff.
24
A. Ginna, L’arte della radiofonia, in “L’Impero d’Italia”, 23 gennaio 1932.
25
A. Ginna, Considerazioni polemiche sul radiodramma, in “Oggi e domani”, 9
giugno 1930.
26
A. Ginna, Radio ascolto - 1 R. O., in “Oggi e domani”, 9 dicembre 1931.
1
A. Ginna, Questioni radiofoniche. “Stampa radiofonica italiana”, in “Oggi e
domani”, 6 gennaio 1932.
28
A. Ginna, Problemi d’attualità. Teatro e radiofonia, in “Oggi e domani”, 24
dicembre 1931.
29
Cinema Teatro Radio, Radiopiccinerie, in “Futurismo”, a. I, n. 14, 11 dicembre 1932.
30
M. Somenzi, Spettacoli radiofonici futuristi, in “Futurismo”, n. 1, 1° gennaio
1933.
31
Cfr. M. Somenzi, Futuristizziamo la radiofonia, in “Futurismo”, n. 18, 8 gennaio 1933.
32
M. Bontempelli, L’ultimo venuto (avvertimenti ai radioautori), in L’avventura
novecentista, a cura e con introduzione di R. Jacobbi, Vallecchi, Firenze 1974,
pp.291-294.
33
M. Bontempelli, Radioteatro? No! non ci credo, in “Radiocorriere”, a. I, n. 5,
2-8 dicembre 1945.
34
Cfr. F. Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico…, cit., p. 21.
35
Sulla collaborazione di Gadda alla radio cfr. G. Cattaneo, Il gran lombardo,
Einaudi, Torino 1991; Gadda al microfono. L’ingegnere e la Rai 1950-1955, a cura
di G. Ungarelli, Nuova ERI, Torino 1993.
36
Ora in C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vella, D. Isella, P. Italia, G. Pinotti, Garzanti, Milano 1993, pp. 1037-1091.
37
Ivi, p. 1437.
38
Ora in C. E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, a cura di L. Orlando,
C. Martignoni, D. Isella, Garzanti, Milano 1999, pp. 1081-1091.
27
Radioricevitore
RADIOMARELLI
mod. Faltusa, 1936
Quaderno di COMUNICazione
109
mario proto
lettura, ascolto, visione:
radio e media system
Linguaggi & società
110
Quaderno di COMUNICazione
nalisi storica sulla radio era risultato prevalente; e quello continua, si infittisce, si perfeziona sul piano storiografico (con riferimento al periodo tra fascismo e secondo dopoguerra). Sotto il profilo teorico la riflessione sulla radio appare grosso modo omogenea all’interno di varie scuole sociologiche, da quella olandese (Mc
Quail e Van Dick) a quella americana (De Fleur), a quella londinese
(Sylverstone). L’esito complessivo dell’operazione teorica si è concretizzato nella delineazione di una tipologia sequenziale (giornali,
radio, televisione), in cui la continuità appare il connotato di una
modellistica artefatta.
In realtà si tratta di una sequenzialità controversa, in cui il passaggio attraverso i vari gradi della comunicazione risente di dislivelli
e di contraddizioni. È diffuso tra gli studiosi un termine con il quale
si intende cogliere il processo di assorbimento destrutturante che il
medium venuto dopo opera nei confronti di quello precedente: il fenomeno è quello della “cannibalizzazione”. Ciò appare particolarmente visibile nella prospettiva della definizione dei mass-media,
mediante le categorie di: lettura, ascolto, visione. Si pensi al fenomeno della lettura. Siamo proprio sicuri che il rapporto con il quotidiano sia da ascrivere ad una tendenza sistematica a leggere le pagine stampate? È il caso di domandarsi se il rapporto non debba essere inteso nel senso che, di fronte al quotidiano, molto spesso si
colloca il non lettore; che pur l’acquista, o considera l’acquisto un rituale quotidiano degno della massima attenzione. Già alla fine degli
anni ’70 il linguista De Mauro proponeva una tipologia dei lettori di
quotidiano, riferendosi al carattere sistematico o saltuario di quel
rapporto, quando non si ponesse l’obbligo scientifico di studiare la
figura del non lettore. La lettura, naturalmente, è collegata con la
capacità della scrittura. La difficoltà di leggere è niente altro che il
pendant della difficoltà di scrivere. Il modo come si trasmette, nei
sistemi scolastici più evoluti, la pratica della scrittura, fa capire il
perché di quella esperienza negativa. La scrittura non la si insegna
secondo criteri di creatività, ma la si affida all’acquisizione di una
tecnica nella quale confluiscono rituali, formalismi e normative rigide. La scrittura molto spesso ha allontanato, perché alla sua base si
sono cristallizzati fenomeni di “socializzazione autoritaria” (H. M.
Enzensberger). Il giornale esprime un scrittura giornalistica nella
quale la transizione costante da un livello espressivo ad un altro è
l’elemento suo più peculiare, perché, in termini linguistici, si ha
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
La radio, medium di antica data e di suggestiva
tradizione, non ha rappresentato per molti anni un
elemento forte di richiamo legislativo, soprattutto
in presenza di una concorrenza nuova, quale quella della televisione generalista. Il fenomeno si
spiega facilmente con l’accrescersi della rilevanza
politica del mezzo televisivo, in presenza di cambiamenti strutturali sul terreno più recente delle
competizioni elettorali. Molto spesso gli addetti al
settore radiofonico non sono risultati espressione
di scelta oculata e significativa, ma si è preferito
puntare su personale genericamente qualificato e
burocraticamente affidabile. Le trasmissioni radiofoniche, per lo meno nello scenario italiano dei
media, non hanno raggiunto livelli alti di ascolto e
di interesse da parte del pubblico. La televisione è
apparsa il mezzo più appetibile sul terreno dell’informazione e su quello della spettacolarizzazione delle vicende
politiche. La radio è vissuta come in una sorta di limbo e, per questo, non ha sollecitato investimenti pubblicitari degni di attenzione.
La ripresa di interesse per questo medium appare, perciò, del tutto esterno al sistema. Il fenomeno, infatti, è dovuto all’accrescersi
di indici di ascolto da parte di radio ascoltatori giovani e attenti sul
piano, soprattutto, dell’informazione politica e della cronaca ragionata. La congiuntura favorevole allo sviluppo della radio, pubblica
e privata, sul terreno dell’ascolto, coincide con la guerra del Golfo.
La cosa può essere spiegata anche in termini di critica e perplessità nei confronti di una informazione televisiva che, proprio sul
fronte della guerra, tradiva l’incapacità di essere esplicita ed esauriente, preferendo la sistematica subordinazione ai comunicati trasmessi dalla televisione planetaria CNN. L’incremento dell’ascolto
radiofonico è stato un fenomeno territorialmente omogeneo; ha
interessato sia il nord che il sud, le emittenti nazionali e quelle locali. I radio ascoltatori sono aumentati a dismisura in Italia, passando da venticinque a trentacinque milioni, con una diffusione di
più di mille emittenti radiofoniche (un vero e proprio primato in
Europa). Di riflesso il lavoro critico sulla radio si è venuto sviluppando e perfezionando, allargandosi a questioni di carattere teorico in senso mass-mediologico. È noto, infatti, che il registro di a-
111
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
gevano l’Europa di quegli anni, attraverso la diffusione della radio
come strumento di sollecitazione ad ascoltare e a seguire i consigli di una pubblicità consumistica, che appariva sulla scena nelle
forme di un vero e proprio uragano. La radio, diceva Brecht, parla
in realtà a tutti, ma ha ben poco da dire. La radio è strumento a
una sola dimensione, mentre dovrebbe averne due (distribuzione e
comunicazione). Il problema consiste nella necessità politica di
superare la scissione tra consumatore e produttore, per una riappropriazione pubblica della radio come strumento comunicativo
che ne agevoli l’uso democratico.
Con Walter Benjamin la riflessione sulla radio assume le caratteristiche di un’analisi più specifica sulla dimensione critica e creativa della radiofonia. Il grande critico tedesco, come si sa, era stato
in Unione Sovietica ed aveva potuto vedere ed ascoltare da vicino le
esperienze più avanzate dei media posti in essere dall’esperienza
rivoluzionaria dell’ottobre. Si pensi al significato politico e culturale
del radio dramma di W. Maiakowski, che può essere considerato
l’archetipo, in Europa, della più importante scuola radiofonica nella
quale convergevano letteratura, teatro e recitazione. Era forte la
consapevolezza che ormai la radio optasse per una pratica dell’oralità quale presupposto per la creazione di una forma rinnovata di
popolarità, oscillante tra parola e suono. Anche in Benjamin appariva forte la convinzione che si dovesse operare una appropriazione
critica della radio nei momenti di maggiore crisi sociale.
3) I francofortesi (Adorno e Horkheimer) hanno elaborato, a
partire dagli anni ’30, ma portando avanti la loro esperienza intellettuale nei decenni successivi, una visione sostanzialmente pessimistica del ruolo sociale dei mass-media tipica, per lo meno nella
fase iniziale, di quella cultura del marxismo borghese che ha condizionato tanta parte della sinistra storica occidentale. Adorno, in
particolare, ha assorbito l’esperienza americana e ha posto le basi
per una rilettura dei nuovi fenomeni dell’industria culturale, raffreddando l’entusiasmo per la visione illuministica del progresso e
contestando l’efficacia culturale dei nuovi media. Il suo discorso si
allargherà alla musica, alla radio, al cinema, ai periodici, in una
varietà di temi con cui si intendeva illustrare le abilità strategiche
della società borghese sul terreno delle politiche della comunicazione nell’Occidente più avanzato. Il pessimismo interpretativo dei
francofortesi può essere considerato un elemento capace di in-
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
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nient’altro che una riformulazione dal primo al secondo discorso,
dalla fonte all’esito narrativo. Il linguaggio giornalistico, abbondantemente analizzato dagli esperti, si presenta come un mix di sottocodici: politico, burocratico, tecnico-scientifico, economico-finanziario (M. Dardano). La difficoltà del rapporto con il quotidiano, sul terreno della comprensione autentica dei vari sotto-codici, provoca forme di fuga del lettore verso cronache di costume, di nera e di sport.
Ciò può far capire come l’uso cosiddetto pubblico dell’informazione
giornalistica abbia sostanzialmente un carattere elitario e circoscritto esclusivamente a quanti sanno fare uso critico della lettura
dei sotto-codici. Dalla lettura all’ascolto radiofonico il passaggio non
è né lineare, né graduale. Siamo in presenza di una sequenzialità interrotta, che vede la radio emergere nel gusto dell’opinione pubblica
per motivi sostanzialmente opposti a quelli del lettore di giornali. La
radio interrompe il circuito mass-mediologico ed apre alle seduzioni
della oralità secondaria. Per chiarire le caratteristiche dello specifico radiofonico si può fare riferimento all’insieme rilevante di teorie
della radio che si sono sviluppate nell’area tedesca tra il 1927 e il
1933. Si possono segnalare tre indirizzi:
1) L’autore di riferimento è R. Arnheim, analista originale del
fenomeno radiofonico interpretato sul terreno dell’ascolto e del
suo significato psicologico e cognitivo. Secondo Arnheim la radio
mobilita, per la prima volta nella storia dei media, la capacità dell’orecchio a percepire ciò che accade o si muove nel mondo, provocando reazioni emotive legate con l’immaginario. Si sviluppa nel
radio-ascoltatore l’interesse percettivo dei suoni, da quello musicale a quello naturale, secondo principi di successione e simultaneità. La radio legittima un superamento ed un elogio della cecità
e rende possibile la liberazione dal corpo. Ma l’elemento che sovrasta su tutti è la capacità di parlare senza distinzione di ceti e di
classe. Arnheim è stato un autore molto noto negli anni ’30. Si ricordi che il suo libro sulla radio e l’arte dell’ascolto è stato tradotto anche in Italia durante il fascismo, nel momento in cui si ponevano le basi della scuola radiofonica del regime, fenomeno collegato anche con la politica fascista nei confronti del cinema e della
cultura popolare (istituzione del minculpop).
2) Con B. Brecht e W. Benjamin si entra nella fase più complessa della cultura tedesca sulla radio e sui media. Brecht prende in
considerazione gli stimoli e le spinte che dagli Stati Uniti coinvol-
113
Quaderno di COMUNICazione
Linguaggi & società
ca latina, radio a transistor a una sola frequenza. Ma il controllo
non riesce totalmente. In molte vicende della lotta anticoloniale,
soprattutto in Africa, la radio a transistor appare come l’unico
mezzo di comunicazione politica. Si pensi al caso della rivoluzione
verde nella Libia di Gheddafi. La radio oggi rinasce soprattutto nel
mondo giovanile, da cui parte una istanza di verità reale o scomoda, purché espressiva di vicende contraddittorie del mondo contemporaneo; nel quale il controllo politico sembra aver preferito il
mezzo televisivo, per agevolare una assuefazione con le immagini,
compromettendo o condizionando una informazione più anticonformista e critica che nelle democrazie post-parlamentari appare sempre più una risorsa difficile e rara.
Linguaggi & società
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fluenzare una parte cospicua della cultura mass-mediologica della sinistra europea degli anni del secondo dopoguerra. Può essere
un esempio il caso del ’68 parigino. I giovani contestatori occupano
il teatro dell’Opera e lasciano libera la sede della radio; si preferisce scrivere sui muri (l’immaginazione al potere), e non ci si adopera ad usare i nuovi mezzi più veloci per la riproduzione dei testi
scritti. Nello stesso periodo si sviluppa una teoria critica della televisione, che sembra tutta concentrata sul tema della visione e
dell’immagine, mettendo da parte molte questioni collegate con la
lettura e l’ascolto. Ma la prima visione mass-mediologica scarica
sulla televisione un concetto pessimistico che nasceva dalla utilizzazione di una teoria della radio elaborata negli anni dei dispotismi politici, come strumento di propaganda di massa. Ciò provoca
nella mass-mediologia un primo grave ritardo teorico, che impedisce di cogliere, nella sua specificità, le novità e i limiti del mezzo
televisivo. Ma è solo con gli anni di maggiore fervore politico e culturale che la radio risale la china delle incomprensioni e degli abbandoni, collocandosi ad un punto nuovo di rilevanza e di centralità
per un pubblico di giovani interessati alla creatività espressiva. Si
pensi alla rilevanza di una esperienza radiofonica come quella di
Radio Alice a Bologna, nel 1977, che con l’avallo anche di un intellettuale come Umberto Eco, potè fruire di un rilancio cospicuo in
tutta Italia, anche nel Mezzogiorno. La radio usciva dal limbo della
stagnazione politica e si ravvivava, grazie anche a un fermento di iniziative che sono da collegare con la riforma del sistema radiotelevisivo approvato in Italia a partire dal 1975. È da lì che parte
una spinta alla proliferazione creativa di nuove emittenti radiofoniche, dalle quali si trasmette non solo musica ma anche interviste a
personaggi scomodi o anticonformisti, mentre il linguaggio rifiuta
le tecniche della trasmissione paludata, per aprirsi alla libertà e
soggettività della comunicazione. Sul piano internazionale, nel secondo dopoguerra, soprattutto nei paesi come allora si diceva del
Terzo mondo, la radio assiste a un rilancio imprevedibile e si collega con i nuovi movimenti di liberazione. Ma non dappertutto la situazione sfugge al controllo di chi ha interesse a non favorire la
diffusione di un mezzo di comunicazione capace di informare e di
coinvolgere. Nel secondo dopoguerra, infatti, l’amministrazione americana favorisce una incontrollabile diffusione del mezzo radiofonico, distribuendo gratis, nei paesi sottosviluppati dell’Ameri-
Radiofonografo MARELLI
mod. Calipso II
Mobile a consolle, 1934
Quaderno di COMUNICazione
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daniele pitteri
vocazioni culturali,
vocazioni di consumo
Inizio proponendo una serie di affermazioni, abbastanza concatenate fra loro. Affermazioni che, dette
come ora le dirò, possono apparire anche un po’ azzardate. Servono però, perché introducono subito e
senza esitazioni il tema che voglio affrontare –il ruolo
che le radio, in particolare quelle locali, giocano nella
vita delle culture giovanili metropolitane– e in qualche modo ne costituiscono anche la spiegazione.
116
Bene. Proverò adesso a dare un senso a queste quattro affermazioni. Proverò a darlo non tanto attraverso un discorso ben costruito, ma raccogliendo prove, inanellando uno dietro l’altro indizi.
Ecco il primo indizio.
Quaderno di COMUNICazione
Che tipo di linguaggio è la radio?
È un linguaggio che si attua nel tempo. Per questo motivo è dotata della caratteristica di essere attuale, intendendo questo vocabolo
sia nel suo significato italiano, che nell’accezione dell’inglese actual,
ovvero ciò che è effettivo, ciò che è in atto. La radio è sempre attuale, non solo perché avviene qui e ora, ma anche e soprattutto perché
ottiene i suoi effetti nel momento stesso in cui trasmette.
La radio è, dunque, un linguaggio che tende a privilegiare le
modalità di ascolto.
Questa caratteristica di attualità evidenzia altri tre aspetti rilevanti del linguaggio radiofonico.
È un linguaggio diegetico, un linguaggio che nel raccontare o
nel dire fa leva su pochi essenziali elementi, tutti altamente significativi, lasciando all’ascoltatore la responsabilità di costruirsi
un’immagine mentale di ciò che è detto, di ciò che è raccontato.
È un linguaggio a bassa disposizione metalinguistica. Questo lo
obbliga ad una modalità di comunicazione che si sviluppa su un
solo livello –il piano della relazione diretta fra chi trasmette e chi
ascolta– e che per tale motivo necessita di una coerenza continua,
di una forte identità punto per punto.
È un linguaggio del fare: la radio, ad esempio, fa musica in un
momento preciso rispetto a chi ascolta. Per chi ascolta, quel momento preciso può essere un momento mobile, un momento di rilassamento, un momento di attività, un momento di studio.
E qui sorge una nuova questione.
Quello della radio è un linguaggio che –oltre che nel tempo– ac-
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La prima affermazione è questa:
la radio, soprattutto nella sua dimensione locale,
è il primo mezzo –ma forse sarebbe meglio dire:
strumento di comunicazione– che ha iniziato a fornire risposte e soluzioni concrete a quell’abbassamento delle capacità comunicative degli individui tipico delle società contemporanee e frutto dell’enorme e indistinto flusso di informazioni –per lo più di natura visuale–
cui le persone sono quotidianamente sottoposte.
La seconda affermazione è più breve:
le radio locali rappresentano uno snodo di straordinaria importanza nel segnare il passaggio dai media generalisti ai personal
media.
La terza affermazione dice:
grazie a queste caratteristiche –o se volete: grazie a questi postulati– la principale funzione assolta dalle radio locali consiste
nel rafforzare e nel rivitalizzare le culture locali, quindi anche a
dare voce a minoranze culturali, sociali, etniche.
L’ultima affermazione, infine:
la trasformazione delle radio locali in syndication è avvenuta attraverso la trasmissione di alcuni caratteri ereditari –il rivolgersi a
pubblici particolari– e attraverso l’introduzione di alcuni caratteri
innovativi –la trasfigurazione delle minoranze in target–, spostando così il baricentro identitario delle radio da un ambito socioculturale ad un ambito socioeconomico.
Prima ancora di essere mezzo, la radio è un linguaggio. Una testimonianza evidente di ciò è data dagli svariati supporti fisici di
cui nel tempo essa si è dotata: l’apparecchio fisso del soggiorno di
casa, l’apparecchio portatile a transistor, l’autoradio, la radio sul
web, la radio sui canali satellitari. Ciascuno di questi “hardware”
ha determinato modalità di ascolto differenti, le quali hanno attualizzato il significato dell’esperienza della fruizione radiofonica.
Proprio per questa ragione, esse rappresentano delle occasioni di
consumo che dimostrano che la radio è vissuta dall’utente prima
come un sistema di comunicazione e poi come un oggetto.
117
118
Declinate in linguaggio radiofonico –un linguaggio di flussi ininterrotti– queste peculiarità dell’oralità si traducono in una necessità di forte pertinenza –qualunque cosa trasmessa deve avere
senso e importanza, altrimenti costituisce solo un elemento di disturbo– e in una necessità di contatto continuo –il silenzio è bandito. Soprattutto si traducono in una centralità della materialità della
voce, della grana, quindi, più che delle parole. La voce è in qualche
modo una parte del corpo, è un qualcosa che emana da esso e che,
quindi, rafforza la soggettività del discorso, rafforza l’assunzione di
responsabilità insita nell’enunciazione. Un aspetto, questo, che in
modo molto singolare evidenzia l’esistenza di una fisicità del linguaggio radiofonico anche sul versante dell’enunciazione.
Quaderno di COMUNICazione
Quello della radio, allora, è un linguaggio del corpo per il corpo.
Il secondo indizio non è proprio un vero indizio, semmai si tratta
di assonanze.
Julian Jaynes è uno psicologo alquanto bizzarro. Anche nel suo
ambiente è ritenuto un tipo dalle teorie un po’ azzardate. Talvolta
addirittura si oppone ad ipotesi scientifiche molto ben strutturate,
dimostrate, accettate. Alcuni anni fa, Jaynes ha pubblicato un libro
dal titolo Il crollo della mente bicamerale. Si tratta di un esempio
abbastanza estremo del suo azzardo scientifico, dotato però di una
straordinaria capacità di fascinazione.
Lasciamoci dunque affascinare.
Nelle pagine del suo saggio, Jaynes ci dice che la coscienza così
come noi la conosciamo –una coscienza oggettivante, che vede il
mondo da lontano– è un fatto recente, qualcosa, per intenderci, che
è giunta a maturazione circa 3.000 anni fa, epoca in cui il genere umano aveva già prodotto alcune civiltà per certi aspetti molto raffinate. Prima di quell’epoca, la nostra coscienza funzionava in un modo differente, perché la separazione fra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro del cervello era molto più netta di quanto non sia oggi.
Anche allora la parte sinistra era quella deputata alla razionalità.
Nella parte destra, invece, risiedevano gli dei. Dice proprio così, Jaynes. E poi ci spiega che quegli dei avevano la forma della coscienza
collettiva, la quale –però– invece di tradursi in noi sotto forma di coscienza autoriflettente, si traduceva in voci. Eh sì, perché gli antichi
sentivano le voci. Anche noi lo sappiamo. Tutti conosciamo molte
antiche leggende o le opere di Omero o le tragedie di Sofocle o le
commedie di Aristofane dove molti personaggi sentivano voci.
Ebbene, quelle voci che gli antichi sentivano, secondo Jaynes in
realtà provenivano dal loro cervello. Erano prodotte da una parte del
loro cervello che era usata in maniera molto più vicina alla sintonia
collettiva del gruppo piuttosto che all’interiorità individuale. Quella
parte di cervello che lasciava libere quelle voci di parlare era una
sorta di grande magazzino della memoria sensitiva ed evocativa. E
proprio per questo motivo era inconsapevole. Cosicché, i doveri,
l’organizzazione sociale, la divisione dei compiti fra i singoli e tutte
le altre norme che regolavano i gruppi, era ordinato da queste voci.
Ora, al di là del suo reale fondamento scientifico –la maggior parte degli storici della mente umana sostengono che in antichità i due
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cade anche nello spazio, almeno nello spazio prossemico di chi ascolta. Tutte le onde sonore, percorrendo l’atmosfera provocano dei
piccoli spostamenti d’aria. Masse più o meno grandi di aria sospinta
che impattano contro i corpi solidi. Quindi anche contro il corpo umano, che tuttavia è un corpo solido concavo. Da questo punto di vista, l’esperienza di ascolto non è più soltanto uditiva è anche tattile,
profondamente fisica, perché le onde sonore sotto forma di piccole
masse d’aria impattano con la nostra pelle –una membrana che vibra e che trasmette le sensazioni tattili dall’esterno all’interno del
corpo– e perché, grazie ai vuoti presenti nel nostro organismo, penetrano in noi, amplificandosi, usandoci come cassa di risonanza.
Quello della radio, dunque, è anche un linguaggio del corpo.
Naturalmente la caratteristica più rilevante del linguaggio radiofonico è costituita dalla sua natura orale. Una caratteristica
certo centrale, che, però, nell’economia del nostro discorso, sposta il baricentro dal piano dell’ascolto al piano dell’enunciazione.
Ogni atto orale è un’assunzione di responsabilità. Non essendo
esso un deposito di sapere, ma un qualcosa che invece attraversa il
tempo in maniera molto veloce e fugace, implica una serie di accorgimenti, anche perché la durata del grado di attenzione e la capacità
di memorizzazione di chi ascolta sono molto limitate. Prima di ogni
altra cosa, dunque, l’atto orale richiede una capacità di comunicare
per pacchetti significativi brevi. Poi, un uso modulare di elementi espressivi che a scansioni più o meno regolari devono essere reiterati
proprio per ravvivare la debolezza mnemonica dell’ascoltatore. Infine, un tono di voce caldo e persuasivo, soggettivo e di forte impatto.
119
emisferi agissero in modo non separato, ma unitario– c’è da dire che
l’idea di queste voci allucinatorie che legano l’individuo al resto della
comunità è davvero molto interessante. Voci interiori che assolvono
alla funzione di fine regolazione nei confronti della collettività e senza le quali, addirittura, ci si sente perduti, ci si sente male.
Voci evocative che forniscono identità e coscienza collettiva a chi
le ascolta.
In un suo recente volume –Previsioni e presentimenti– Francesco Morace –parlando delle dinamiche che regolano in questo
scorcio di secolo il rapporto fra merci e consumatori, ma sarebbe
meglio dire: individui– rileva che le scelte di consumo sono sempre meno guidate da un approccio razionale e sempre più, invece,
sono il frutto di pulsioni profonde. Come se –dice Morace– ci fosse
una rivalutazione dell’emisfero destro del cervello. E poiché le
scelte di consumo –quindi il rapporto con le merci– sono sempre
più connesse all’essere e all’agire dell’individuo nella società, si
può per estensione dedurre che quello attuale è un mondo regolato da impulsi emotivi.
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È una frase molto bella, che mi è parso interessante riproporre
qui perché trovo che assieme all’affascinante teoria di Jaynes e
assieme alle considerazioni di Morace abbia molto a che vedere
con la radio, con il suo linguaggio e con le funzioni cui la radio assolve. In qualche modo, per le caratteristiche del suo linguaggio
–attuale, che agisce nel tempo e nello spazio, diegetico, espressione del fare, vibrafono del corpo, che privilegia l’ascolto e contemporaneamente pone forte enfasi all’enunciazione– la radio parla
alla parte destra del nostro cervello. Serve cioè a riempire il magazzino inconsapevole, che abbiamo nella parte destra del cervel-
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Il terzo indizio è più che altro una constatazione.
La tecnologia del suono è quella che maggiormente si avvicina
all’esperienza della percezione uditiva in natura, capace com’è di
comprendere tutto lo spazio che ci circonda e di rimandarci l’incertezza della fonte sonora. Proprio come in un campo di grano:
dov’è quella cicala che sento cantare?
Sfumature. Stiamo imparando sempre più velocemente a percepire col nostro udito raffinate sfumature. Una sorta di involontario training auditivo.
Ancora un indizio:
la radio è democratica. Lo è per almeno due motivi: innanzitutto perché è stato il primo media a dimostrare la possibilità di rottura dell’oligopolio di detenzione del sistema mediale; le stazioni
pirata prima, le stazioni “libere” poi hanno ampiamente dimostrato che essa è un media accessibile a tutti, dunque gestibile dal
basso. In secondo luogo, ha un linguaggio che ponendo particolare
enfasi alla dimensione dell’ascolto, richiede e stimola un feedback, dunque una relazione a doppia via con chi fruisce. E non è un
caso che tale dinamica dialogica sia stata inaugurata proprio dalle
radio indipendenti e che su di essa si sia tratteggiata una delle peculiarità principali di quelle stazioni.
L’ultimo indizio.
La radio è l’unico mezzo in cui il conflitto fra globale e locale va
in scena palesemente. Lo spazio etere di ogni città è percorso da
centinaia di frequenze, ciascuna delle quali occupata da una stazione radiofonica, alcune solo ed esclusivamente locali, altre nazionali. Se provassimo a visualizzarlo quello spazio, certamente ricorreremmo a quella scena di Gosthbuster in cui un coacervo di forze e
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Il disertore è il titolo di uno straordinario racconto di Jean Giono. Ad un certo punto della storia –raccontando di questo uomo
misterioso, dalla barba folta e dalle mani bianche che dipingono
ex-voto, quadretti che gli abitanti del piccolo villaggio fra le montagne ove egli si è stabilito trovano estremamente affascinanti, pur
senza comprenderne il perché– Giono scrive: “le leggende nascono sulla base di fatti reali osservati o sentiti, interpretati da immaginazioni poco abituate a sentirli e a osservarli”.
lo, di memoria sensitiva ed evocativa. È una sorta di mediatore fra
la coscienza di sé e la coscienza collettiva. E, riferendosi all’emisfero delle emozioni, in qualche modo aiuta le pulsioni profonde ad
emergere, a generare leggende, a stimolare immaginazioni poco
abituate a sentire e ad osservare fatti reali –ricordate la scarsa capacità comunicativa affermata all’inizio?– anche grazie ad un coinvolgimento tattile, grazie a un’esperienza interamente fisica.
Insinua in noi le voci che generano la coscienza collettiva.
121
di tensioni si concentra sopra New York per poi essere attirato e
scaricato a terra da un grattacielo, sorta di grande antenna ricevente. Ebbene, l’unica differenza fra le stazioni locali e le stazioni
nazionali che occupano l’etere di ogni città sta nel fatto che solo le
prime vengono catturate dal grattacielo/antenna e scaricate a terra. Sta, dunque, nel radicamento che esse hanno con il territorio.
Le altre no, non lo hanno questo radicamento. Continuano ad agitarsi nell’aria. In alto, sopra.
È l’unica differenza, sì, ma è una differenza sostanziale, che regola le modalità espressive e le forme organizzative sia delle radio
locali che dei network, generando le tipologie di relazione con i
pubblici cui le une e gli altri si rivolgono.
122
È un legame che data quasi trent’anni, dall’epoca delle prime
radio private, dal momento in cui milioni di ragazzi italiani iniziarono a trovare in quelle piccole e talvolta scalcinate emittenti una risposta ai propri desideri. Desiderio di musica, in primo luogo, di ascolto di note che fuggissero la stantia tradizione melodica nostrana, delle parole un po’ esistenzialiste dei cantautori così vicine ai
tormenti adolescenziali, dei suoni ruvidi delle band pop e progressive rock. Desiderio di politica, di fatti reali, di informazione non filtrata, di ragionamenti liberi e talvolta tortuosi, ma comunque diversi, caldi, arrabbiati, lontani dall’asetticità degli speaker della radio
di stato e più in generale dell’informazione tradizionale. Desiderio
di infrangere tabù, di parlare di sesso e di amore, di confessare le
proprie tribolazioni, di discutere apertamente di argomenti banditi
dalle aule di scuola e dai puliti tinelli familiari. Ma desiderio, anche,
di sentirsi più dentro la comunità locale, di vivere la quotidianità
momento per momento, di sapere del proprio vicino o di quella
parte di umanità presente comunque dentro la città, eppure lontana, separata da steccati sociali, da convenzioni, da pregiudizi.
E le radio che a quell’epoca nascono dal nulla come funghi dopo il temporale –sono quasi mille nel 1977 e oltre 2.600 alla fine
Quaderno di COMUNICazione
La radio diventa la voce della collettività, la voce del territorio. In
particolare è la voce di parti omogenee di collettività, di aree culturalmente definite del territorio, soprattutto di quello metropolitano.
Ma che tipo di territorio è quello in cui le radio private locali sono profondamente radicate?
È il luogo dove insistono comunità di natura e cultura diversa,
negli anni Settanta tutte di natura autoctona, oggi alcune autoctone, altre di origine esterna. È il luogo del crossover, della convivenza possibile, e il luogo dove esplodono tutti i conflitti. È il luogo
dove la necessità di socialità passa sì dallo scambio fra le varie comunità, ma passa anche dalla chiusura cieca e sorda all’interno
della propria comunità.
Il territorio di ogni città, dunque, è il luogo dell’interagire dialettico di identità diverse. Per questo è luogo di incontro, per questo è
luogo di scontro.
Le radio locali danno voce in vario modo alle diverse culture e
alle diverse identità. Ciascuna di esse si rivolge ad una comunità
differente, intendendo per comunità anche quelli che poco alla
volta iniziano a definirsi come target, gruppi omogenei di persone in base ai consumi, che sul territorio cittadino, però, incarnano un’identità, ovvero una modalità di occupare, vivere e fruire il
territorio.
Dando voce alle varie comunità che insistono su un territorio e
che ne esprimono la vocazione, le radio locali agiscono sia da mediatrici dell’incontro, ma anche da estremizzatrici dello scontro.
Favoriscono il meticciato fra le identità culturali delle varie comu-
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Giunti a questo punto, penso sia opportuno, però, fare una piccola pausa, riporre per un momento tutti gli indizi raccolti e soffermarsi sull’aspetto che più interessa in questo contesto, la relazione che i giovani hanno con la radio.
del decennio– si conformano secondo una duplice tendenza, che
spesso converge nelle stessa emittente: da un lato un forte spirito
localistico, dall’altro un carattere antagonista. Entrambe gli aspetti fanno sì che le radio private –o libere, come si diceva allora– siano percepite come un agente di innovazione e di progresso, come
un fattore di unificazione e di riconoscimento, un qualcosa di duttile, di immediato e versatile, capace di cogliere, di documentare e
di rappresentare il mutamento, si tratti di semplici trasformazioni
musicali o di più complesse evoluzioni sociali.
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nità o esasperano la cecità e la sordità della chiusura di ciascuna
di essa all’interno del proprio specifico.
Una cosa è certa, però. Qualunque cosa le radio locali facciano
in tal senso, non lo fanno mai staticamente. Perché la radio locale
parla di una quotidianità prossima all’ascoltatore –è lì, dietro quella porta– senza mai descriverla. Perché la radio locale, grazie alla
contiguità fisica, esaspera la relazione di contatto con l’ascoltatore, amplificandone l’importanza e, comunque, assumendosi la responsabilità dell’enunciazione. Perché, proprio per tutto ciò, la radio locale non riflette ciò che è, ma fa esattamente quello che sto
facendo io in questo momento: produce indizi su ciò che è, lasciando all’ascoltatore l’onere di interpretarli.
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Il secondo esempio: le radio locali napoletane che hanno giocato invece un ruolo molto importante nell’affermazione della musica neomelodica, trasformandola da patrimonio esclusivo di una
delle comunità autoctone a patrimonio collettivo di tutte le comunità autoctone. In qualche modo si è verificato un processo inverso
a quello appena descritto. Un allargamento in luogo di un restringimento. Una contaminazione dal basso, in luogo di una quarantena volontaria. Ciò è stato possibile in virtù di uno strano fenomeno
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I giovani sono il sostegno di questi apparati. Sono il pubblico
preminente, seppur col tempo non più quello esclusivo. Ma rappresentano, comunque, l’organismo vitalizzante delle radio, lo humus
dal quale esse traggono la propria fertilità e sul quale esse riescono a fermentare, a crescere, ad evolversi. Infine a mutare.
Quando le radio locali, infatti, iniziano a organizzarsi in syndication, si assiste ad una lenta metamorfosi che ne trasforma alcune
–quelle che appunto si riuniscono in network– e che ne radicalizza
altre, tutte quelle che restano ancorate –sia quelle “storiche”, che
quelle che comunque continuano a nascere– ad una dimensione locale. In entrambe i casi si tratta di scelte vocazionali che danno
luoogo a due modelli diversi. Quello dei syndication è un modello
che tende a proporre delle modalità di palinsesto e di relazione con
il pubblico in qualche modo totalizzanti. Assolutamente non generalista, ma tuttavia certamente funzionale ad una cultura uniformante che, pur traendo origine da varie culture locali anche molto
distanti fra loro, è proposta in modo molto forte, quasi monolitico.
Insomma, i network propongono un modello e dei contenuti che
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Mi vengono in mente alcuni esempi. Ne scelgo due.
Penso alle stazioni radio di Brooklyn o a quelle del cosiddetto
ghetto nero di Los Angeles, le quali, esaltando il principio di identità, hanno contribuito in modo determinante alla nascita e all’affermazione della cultura hip-hop e di alcune sue apparenti degenerazioni, come ad esempio il gangsta-rap. Apparenti, perché proprio quest’ultimo in realtà è esemplificativo di una modalità di risoluzione dei conflitti di identità all’interno delle comunità autoctone di un territorio. Esso è completamente fondato sull’esaltazione fondamentalista dell’identità nera, afroamericana. In esso, non
va in scena il conflitto neri/bianchi. In esso i bianchi, così come
tutte le altre etnie che popolano il territorio di quelle megalopoli,
semplicemente non esistono. Esistono solo ed esclusivamente i
neri, i loro conflitti, le loro diversità interne.
È il grado estremo della localizzazione: il massimo della frammentazione corrisponde alla massima rivendicazione dell’identità.
di emigrazione semantica di cui è stato protagonista Nino D’Angelo, da anni eroe canoro delle comunità popolari del territorio. Grazie ad alcune infiltrazioni esterne, provocate da altre comunità –mi
riferisco alle attenzioni di intellettuali come Goffredo Fofi e Mario
Martone–, dalla comunità originaria D’Angelo, pur mantenendone
inalterati tutti i tratti identitari, si è improvvisamente trovato nel
territorio culturale di un’altra comunità. Si è trattato di un vero e
proprio spostamento di un tratto distintivo di un campo semantico
in un altro campo semantico. Ciò ha generato una sorta di “meticciato significativo”: le radio locali non rivolte alla comunità originaria cui si riferiva D’Angelo, hanno iniziato ad attingere al patrimonio culturale di quelle comunità, non spogliandole, ma semplicemente trasferendone alcuni tratti e favorendo in tal modo la nascita di una comunità allargata e trasversale, fondata proprio sul
riconoscimento comune di quei tratti distintivi. D’Angelo ha fatto
da testa di ariete. Dopo di lui sono venuti tutti gli altri, tutti cantanti destinati, senza quel trasferimento semantico, ad un’onesta carriera fatta di matrimoni, battesimi e feste di piazza. Travasati in altre comunità sono diventati “i neomelodici”.
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Le radio locali, al contrario, propongono un modello esattamente opposto. Anche se attingono certamente all’esperienza dei
network e quindi manifestano una certa tendenza a riproporne
morfologicamente i palinsesti e ad avvicinarsi alla loro sofisticazione tecnologica –dialogano comunque con un pubblico oramai abituato a determinati standard qualitativi–, sul versante dei contenuti tendono a lavorare sull’esaltazione del principio di identità
culturale, patrimonio della comunità metropolitana alla quale si
rivolgono. Sottolineano dunque per differenza la diversità con le
altre comunità. E talvolta lo fanno proprio allontanandosi il più
possibile dai modelli proposti dai network, fondando dunque la
propria capacità di relazione con il pubblico su un certo grado di
grossolanità o su elementi grezzi, sia dal punto di vista espressivo
che dal punto di vista tecnologico.
Le radio locali estremizzano gli aspetti identitari delle comu-
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nità, talvolta anche tendendo a folclorizzarli, ma sempre riuscendo
a non tradirne i cromosomi.
È ora di fare un passo indietro. Di tornare a quelle affermazioni
iniziali. Ricordate? Le radio rispondono all’afasia comunicativa attuale; quelle locali sono uno snodo del passaggio fra i media generalisti e i personal media e rivitalizzano le culture locali; i syndication spostano le affinità identitarie dal piano della cultura a
quello del mercato.
Alcuni degli indizi raccolti fin qui e delle riflessioni successive
qualche spiegazione a queste affermazioni già la hanno data. Altri
indizi, invece, possono ancora risultare inammissibili ai fini di una
vera indagine, perché certamente non hanno e non riescono ad avere quelle certificazioni di autenticità e di verificabilità che l’istruzione
di un’ipotesi probante dal punto di vista scientifico richiede. Tuttavia
li abbiamo chiamati assonanze quegli indizi, un qualcosa che ha che
vedere col clima, coll’atmosfera dell’indagine, con quell’insieme di
percezioni impalpabili che –nella migliore tradizione poliziesca, reale o romanzata– costituiscono la base, l’essenza della sensibilità
dell’investigatore. E così se pure Jaynes o Giono forniscono appena
sensazioni leggere e non certo elementi probatori, mi pare che l’insieme degli indizi raccolti ricomponga un mosaico, un quadro unico
abbastanza complesso, tale comunque da non far più apparire quelle affermazioni iniziali come enunciazioni di puro principio.
Nelle radio locali le caratteristiche proprie del linguaggio radiofonico, la democraticità propria del mezzo e il rapporto identitario fra enunciante e ricevente si moltiplicano in maniera esponenziale. Il radicamento sul territorio fa sì che quell’afasia comunicativa, frutto dell’esposizione ai flussi informativi dei media, si
abbassi sensibilmente, o quantomeno cambi di registro, grazie all’intrinseca necessità e alla palese richiesta di dialogo e di interattività con l’utenza.
È la stessa cifra che fa identificare le radio locali con un personal
media, piuttosto che con un media generalista. Esse sono la quotidianità. Anzi, sono l’attualità della quotidianità. Soprattutto è come
se riuscissero davvero ad essere voci, perché in qualche modo nella
loro relazione con gli ascoltatori sono carnalmente evocative. Pensate alle radio di Brooklyn o a quelle di Napoli: si tratta di una fisi-
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pur rivolgendosi ad un pubblico tutto sommato omogeneo –ovvero
ad una comunità allargata di tipo transterritoriale– deve comunque
tenere nel debito conto che le centinaia di migliaia di persone che
compongono quel pubblico, assieme ad una lunga serie di elementi
che le accomunano, hanno anche una lunga serie di elementi che
le differenziano. Debbono quindi lavorare sull’esaltazione dei tratti
comuni, perché se prevalessero le differenze il pubblico rischierebbe di sbriciolarsi, di disperdersi. I modelli di palinsesto e i contenuti
di queste radio, dunque, non tendono a lavorare sulle sfumature
culturali patrimonio di ciascuno dei piccoli gruppi che compongono
la totalità pubblico. E, laddove in qualche modo riescono a farlo,
tendono comunque a declinare ciascuna di quelle culture in modo
diluito per far sì che siano comprensibili a tutti, anche agli altri piccoli gruppi cui quelle microculture non appartengono.
I network indeboliscono le identità, perché pur muovendo da
esse non ne cesellano le peculiarità, ne smussano invece gli spigoli, ricostruiscono in un’unica filiera pulsioni emotive e culturali
contigue ma diverse, trasformandole in stimoli che preludono alla
costruzione subcosciente di una serie concatenata di azioni di consumo sostenute da un impianto dai tratti forti, ma poco definiti,
che affonda le proprie radici nell’immaginario collettivo generato
non da un territorio ma dalla totalità dei media.
I syndication trasformano le comunità in nicchie di mercato.
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cità emotiva, un qualcosa che va ben oltre l’impatto delle onde sonore sul nostro corpo, che va ben oltre la sottoposizione a frequenze
simili, ma non esattamente uguali, a quelle cui siamo normalmente
abituati. La nostra pelle non impatta solo con onde sonore, ma con
colori, con odori, con sapori, con atmosfere, con corpi, con spazi.
Con la vocazione di un territorio, con l’identità di una comunità, con i
suoi flussi di coscienza. Nello spazio locale, le radio elidono la distanza fra mezzo e utenza. La ricollocano su un piano di relazione
interpersonale. Roba palpabile, roba che rafforza e ravviva le culture
espresse dal territorio. Ne moltiplica la necessità di coesione, avvenga essa in senso meticcio o in senso di rivendicazione identitaria.
Radio in rete
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Quanto le radio locali agiscono secondo una linea di sviluppo
verticale, tanto i syndication si muovono lungo una linea orizzontale. Essi mantengono una serie di caratteri che fanno parte del proprio Dna, della propria origine localistica e antagonistica –e proprio
per questo trovano consenso presso il pubblico giovanile–, ma li rivitalizzano nello spazio indefinito e ampio del mercato e col tempo
tendono a tematizzarsi, ad accogliere dunque pubblico, piuttosto
che a raccoglierlo, definendolo quindi secondo “identità di ritorno”
e non secondo tratti identitari peculiari, genetici, per così dire.
Ciò non significa che tali radio e i loro pubblici non abbiano un
carattere. Significa piuttosto che mentre fra le radio locali e i propri pubblici c’è un’omogenea convergenza caratteriale, fra
network e pubblici di riferimento tale convergenza non si verifica,
perché a fronte del carattere determinato dalla trasversalità –che
può appunto definirsi anche come tematicità– tipico dell’emittente,
esiste un carattere fittizio o quantomeno parziale del suo pubblico,
la cui omegeneità è costituita solo dal riconoscere nel carattere
del network una parte, non necessariamente la più rilevante, del
proprio panel identitario.
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Tuttavia, le leggende servono ancora. Soprattutto ora, allorquando le scelte individuali, sia sul versante dell’esercizio del diritto di cittadinanza che sul versante delle azioni di consumo, paiono essere guidate da impulsi emotivi più che da scelte pienamente
razionali. Cosicché, seppur con le differenze evidenziate, radio locali e syndication sono entrambe in grado di offrire risposte ai desideri. Quei desideri, proprio, che i giovani vogliono esauditi.
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gianluca nicoletti
radionet
Spesso si parla di radio del passato come di una civiltà scomparsa. La definiamo usando termini come
recupero della sua memoria o restauro degli archivi
sonori, tutto questo come se la radio non stesse più vivendo nell’attualità.
Premetto che non voglio lasciarmi andare alla facile retorica e affermare che la radio è viva, è bellissima
e va meglio che la Tv. Questo è ciò che solitamente si
dice per mettere a tacere la propria coscienza mediatica, un po’ come firmare una sottoscrizione che condanna il maltrattamento degli animali… non ci si può
tirare certo indietro. Quindi nessuno si esimerà mai di
lanciare un peana nostalgico verso i bei tempi della radio perduta,
quando tutto era così pieno di atmosfera e il rapporto era così caldo. Certo niente a che fare con la detestabile Tv che è luogo/nonluogo del banale e superficiale. Eppure la nostra contemporaneità
è raccontata dalla Tv e non dalla radio. È la televisione la vera interfaccia del nostro mondo, il resto non conta o può essere valutato solo in rapporto all’immaginario televisivo. Della radio infatti si
dice sempre che è migliore della televisione, è più intelligente della televisione, è più “culturale” della televisione, può essere seguita anche facendo altro, al contrario della televisione. Insomma la
radio esiste ancora, ma unicamente a rappresentare una sorta di
“parte luminosa della forza” per essere contrapposta a quella oscura, ma così seducente, che è rappresentata dalla televisione.
Forse è proprio l’umanità che segue una deriva molto particolare. Il bisogno di essere rappresentati da parte degli utenti ha portato l’industria televisiva all’iperrealismo dell’assurdo. Il caso umano abnorme come paradigma della normalità nel tempo del
palinsesto. Nessuno certo ambisce ad essere collocato in una cornice così rarefatta e raffinata come la radio, che richiede comunque una capacità di allucinare in visioni ciò che si ascolta. Troppo
difficile in assoluto, fare radio e apprezzare chi fa radio appartiene
a un esprit troppo raro per avere un mercato e il mercato oggi
condiziona ogni estetica.
Tale apocalittica visione mi riempie non di tristezza ma di gioia:
Radio in rete
Quaderno di COMUNICazione
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Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
web e interazioni più dirette e viscerali con i propri pubblici. La radio che fino a ieri accompagnava la mattina di artigiani e casalinghe oggi è pure il sottofondo di chi lavora con un computer collegato in rete e dunque arriva negli avamposti più stimolanti di chi pensa la modernità.
Pensavamo che questo avrebbe aperto degli orizzonti nuovi: al
tempo scrivemmo e manifestammo l’entusiasmo per il fatto che la
radio non era morta, anzi, mentre tutti la davano per cadavere, la
radio si prestava benissimo a sperimentare una metodologia di comunicazione in un campo che non sapevamo ancora bene cosa fosse. Riuscimmo ad evocare da un Pc qualcosa che non fosse solo
una schermata da leggere e da scrivere. Ci sembrava che avessimo
scoperto una chiave fantastica. Ricordo una delle prime operazioni
che riuscì veramente a creare un rapporto forte, immediato e scatenante una serie di reazioni nel pubblico tradizionale del nostro
programma mattutino: in un sito di archeologia avevamo trovato
una registrazione proveniente dagli archivi della BBC, si trattava
del suono delle trombe d’argento ritrovate nella tomba del faraone
Tutankhamon. Fu uno dei risultati più sorprendenti dell’interazione
tra radio e rete, il rapido nascere di un mito metropolitano legato al
suono di trombe pescato in real audio nella rete e trasmesso per
alcuni giorni alla radio come contrappunto ironico alle critiche sul
quotidiano televisivo.
La tromba conica d’argento che accompagnava Tutankhamon in
battaglia e nelle parate militari fu ritrovata dall’archeologo inglese
Howard Carter nel 1922. Ora è conservata nel museo egizio del
Cairo. Solo una volta fece riudire all’uomo moderno la sua voce,
nel 1939 di fronte ai microfoni della BBC. Solo una volta, poi si è
rotta per sempre, non prima di aver fatto bloccare per alcune ore
gli impianti dell’emittente inglese. Da allora si pensò bene di far
sparire la bobina della registrazione che nessuno, tra l’altro, avrebbe potuto ripetere. Tutto tranquillo fino a che con l’avvento di
Internet un certo signor Hans van den Berg pensa bene di mettere
in rete il suono delle trombe in un sito dove ne racconta la singolare storia con foto e documenti vari.
Dopo un mese di strombazzamenti vari ho dovuto smettere perché la leggenda era andata oltre i limiti: centinaia di messaggi mi
avvertivano del potere del suono di bloccare i computer che lo riproducevano. Al suono delle trombe i computer casalinghi si pian-
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Radio in rete
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so bene che c’è ancora chi ha il desiderio e la capacità di esprimersi attraverso canali che non vivano unicamente per riprodurre
l’apparenza, ma abbiano il gusto di un’elaborazione del reale o la
sua traduzione in un pensiero; questi, anche se semplicemente
parla, fa radio indipendentemente dal fatto che la sua emissione
sonora sia collocata in un sistema di organizzazione o in un’industria di comunicazione.
In questo momento faccio radio semplicemente perché sto parlando a un pubblico per raffigurazioni, perché il pensiero fuoriesce
spontaneo attingendo a qualcosa che è dentro di me. Non ho bisogno di immaginare, di pensare, non ho bisogno di pianificare e
preoccuparmi del gradimento di chi mi ascolta cercando di massimalizzare ciò che accomuna i miei interlocutori nel modo di pensare, nello stile di vita, nei gusti e via dicendo: quindi sono alla radio.
Non sono circoscritto da un oggetto/contenitore, e questo significa volatilità. Facendo radio si ha la consapevolezza che si agisce
in un medium che è un vuoto a perdere, che non ha necessità di sedimentarsi, di creare una memoria, di lasciare qualcosa ai posteri.
Anche a me affascina il fatto che la radio del passato venga rievocata con apparati digitali sofisticatissimi che però si devono interfacciare magari con dei vecchi giradischi o con quegli antichi registratori a filo perché le voci, che sono vestigia del passato, sono rimaste immagazzinate, imprigionate in supporti che oggi non hanno
alcun apparato funzionante per farli girare. Perché nuovamente vibrino della sonorità che racchiudono al loro interno occorre un’operazione esoterica, spiritistica. Ricreare la condizione, l’ambiente
di un tempo perduto perché la voce ridoni l’attualità.
Occorrerà forse accordarsi sul fatto che la radio di cui si parla è
una pura convenzione. Solo perché si lega il termine a un oggetto
non è assolutamente detto che esista ancora una corrispondenza
tra quell’involucro e ciò che lo anima. Per prima, tra gli altri media,
la radio si è staccata dall’involucro che la definiva e si sta trasformando in comunicazione pura, senza supporti. La radio si ascolterà
sempre di più senza aver bisogno di possedere un apparecchio radiofonico, la new radio muta oltre ai linguaggi le modalità di fruizione, di trasmissione, di rilevamento dei dati di ascolto. L’Internet ha
forse salvato la radio dall’estinzione, ma ha estinto ogni iconografia
radiofonica. Mai come oggi la radio è pura sonorità, ma allo stesso
tempo possibilità affascinante di trasformare suoni e voci in grafica
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Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
simo), ci trovavamo dinnanzi a qualcosa di clandestino, in un contesto Rai dove il computer era visto unicamente come l’evoluzione
della macchina per scrivere. Nel cominciare clandestinamente a
forzare queste prime macchine, obsolete ancor prima di essere
acquistate, ci sentivamo dei pionieri soltanto perché il programma
che producevamo per l’etere poteva anche essere riascoltato attraverso il Pc.
Oggi le radio si espandono in rete. Difficile dare cifre esatte sul
numero delle web radio considerata la facilità con cui queste aprono e chiudono un ciclo di trasmissioni. Una fonte attendibile come
il M.I.T. ne calcola approssimativamente 27.000 alla fine dell’ottobre 2001.
Solitamente il carattere di massima economicità nella realizzazione di una web radio può permettere a chi la pensa e la realizza di
fornire una programmazione altamente specializzata per un pubblico di nicchia. La web radio americana Live365.com rappresenta l’estremizzazione di tale concetto, fornendo a chiunque la possibilità di
trasmettere con una propria stazione individuale anche se paradossalmente il titolare della radio ne è anche l’unico utente.
Con il web si amplifica al massimo la vocazione della radio in
quanto strumento di dissidenza e di controinformazione, concetto
caro per chi ama pensare a questo medium come ordigno finalizzato a destrutturare, svelare, minare alla base. Siamo di fronte a
una versione meno pericolosa da realizzare rispetto alla performance romantica delle radio pirata: trasmissioni come atti eroici e
rivoluzionari, continua fuga dai gendarmi e ricerca di derive verso
momentanei ormeggi nell’etere, solo il tempo di dire: “ci siamo” e
poi fuggire per non essere individuati.
Questo medium povero, ma altamente specializzato, spezza decisamente ogni legame che una radio ha con il proprio territorio;
la vocazione di una radio che galleggia nel web è di proiettare verso l’umanità connessa qualsiasi particolarismo, costituire un nesso labile per nuove tribù dissidenti già in sinuosa ibridazione con
Internet. La tecnologia streaming permette alle sonorità della radio di espandersi tra i meandri del web in espressività che vanno
oltre il semplice ascolto. Filmati, testi e immagini dal vivo di concerti ed eventi musicali, oltre a un’ elevatissima partecipazione del
pubblico, in modalità più coinvolgenti della semplice telefonata,
attraverso tutti gli strumenti di una community web.
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Radio in rete
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tavano o, peggio ancora, auto-cancellavano l’hard disk, poi interi
centri di calcolo di biblioteche e università si bloccavano per ore
perché qualche studente vi aveva immesso il file wave delle trombe. Si sono aperte dotte dissertazioni nei miei forum sulla vulnerabilità o meno dei vari sistemi operativi al suono virale. Qualcuno ha
poi cominciato a usare la registrazione come deterrente sonoro da
inviare via telefono a persone antipatiche, interi uffici si sono mobilitati in mail bomb con la concorrenza sempre a suon di trombe.
Quando mi sono accorto che la cosa stava superando i limiti dello
scherzo e cominciavano ad arrivare messaggi che incolpavano lo
strombazzamento di incidenti automobilistici, malattie improvvise,
sfortune professionali, ho pensato bene in accordo con la redazione di bandire per sempre le trombe dal programma. Tale semplice
operazione di travaso è talmente banale che oggi non meriterebbe
particolare attenzione, eppure consente di ascoltare alla radio un
reperto sonoro archeologico che la rete ha permesso di conservare, mantenere e trasferire al presente. Oggi web e radio sono talmente integrati che è comune il fenomeno di emittenti che nascono e si sviluppano unicamente nella rete internet e non abbiano
altra possibilità di fruizione oltre allo streaming audio. Anche se è
comune il tendere a generalizzare il concetto di web radio allargando tale definizione a qualsiasi stazione radiofonica che, oltre a
trasmettere i suoi programmi via etere, riproduca l’intero palinsesto o parte di questo anche come supporto multimediale alla propria area di comunicazione web. Trovo non esatta tale generalizzazione in quanto questo servizio viene oramai fornito dalla stragrande maggioranza delle radio pubbliche o commerciali e quindi
non rappresenta una modalità di comunicazione originale, ma
piuttosto la declinazione di un medium su diverse piattaforme di
distribuzione.
Web radio sono, secondo me, esclusivamente le radio che trasmettono solo per il web un programma in streaming. Anche se
non è possibile attribuire una data precisa alla nascita della prima
web radio, si può facilmente collocare l’inizio del fenomeno con la
possibilità di poter usufruire della prima release del software
RealAudio realizzata da Rob Glaser nell’aprile del 1995. Quando fu
commercializzato e distribuito per la prima volta il player che permetteva di ascoltare una trasmissione di musica e parole attraverso un PC (soli sette anni fa, anche se sembra un passato lontanis-
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Radio in rete
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Da sinistra: Radioricevitore CGE, mod. Radiobalilla, 1937; Radioricevitore PHONOLA, mod. Radioroma, 1939; Radioricevitore PHILIPS, mod. Radiorurale, 1936
Non capita spesso di guardare al mondo radiofonico come luogo dove nascono e si consolidano professionalità specifiche. Parlando di radio e lavoro esprimiamo infatti un concetto che ha molte sfaccettature,
e che cambia a seconda dei periodi e delle diverse
realtà di riferimento. Certo, la radio pubblica in Italia
come negli altri Paesi europei realizza sin da subito
una struttura complessa, facendo nascere al suo interno una serie di competenze specifiche e di grande
valore; e non avrebbe potuto essere diversamente,
considerando le basi ideologiche e le finalità del servizio pubblico in Europa, volto a fornire all’ascoltatore
cittadino un servizio sociale che lo facesse crescere
culturalmente; inoltre, considerato che la finalità non
era il guadagno, non esisteva alcun limite strutturale rappresentato dalle risorse economiche scarse. Impegno e investimenti determinano una ricchezza di generi ed una ricchezza nei palinsesti, e
la conseguente crescita di nuove figure professionali; la radio attira uomini del mondo della cultura, delle scienze, dello spettacolo
che si cimentano con il nuovo mezzo cercando di adattare e modificare le proprie competenze, di sfruttare al meglio le proprie conoscenze; sono le professionalità cresciute nel mondo radiofonico
la prima linfa per la neonata televisione. La struttura organizzativa
è complessa, le risorse numerose, le funzioni ben distinte, il lavoro
parcellizzato; si crea una macchina produttiva che distingue responsabilità ed aree di competenza.
Le modalità di sviluppo della radio privata creano altre condizioni per lo sviluppo delle professionalità radiofoniche: nel periodo
pionieristico della radiofonia, il periodo artigianale, quello in cui
quasi chiunque con investimenti bassissimi poteva divenire un editore radiofonico, l’approccio al mezzo era legato all’impegno politico o ideologico (radio comunitarie, legate a gruppi o movimenti) o
alla passione musicale. Chi si trova a lavorare nelle neonate radio
lo fa senza preparazione specifica e senza percorsi professionali di
riferimento; non esistono modelli organizzativi che non siano
quello della RAI, troppo costoso e inadatto al nuovo modo di fare
radio, o quelli delle radio private americane, calate in una realtà
totalmente diversa. Al momento della nascita delle radio private
non esistono competenze di settore, se non quelle acquisite dai
alessandra scaglioni
lavorare alla radio
Il fascino sottilmente paradossale della tecnologia a basso livello nella web radio raggiunge il suo grado zero. Questa non ha i
riferimenti simbolico-liturgici che segnano l’evoluzione di ogni altro medium, non può essere ad esempio simboleggiata dal microfono d’antan che richiama per antonomasia l’idea della radio
tradizionale, ne tanto meno possiede un suo oggetto hardware che
ne delimiti il messaggio in una struttura solida come alcune radiosimbolo di particolari controculture legate a generi musicali.
Contenuto e contenitore combaciano ed hanno lo stesso livello
di immaterialità. La web radio è il player attraverso il quale si può
ascoltare, è il suo suono, è la comunità nomade che si raccoglie
attorno alla sua voce. Da un altro punto di vista la web radio anima
uno strumento di lavoro come il computer e ne svela un uso improprio, ne estrae l’essenza sconosciuta, fa palpitare plastica e silicio e crea un sottofondo fascinoso al ticchettio dei tasti di chi lavora. La web radio si ascolta quasi unicamente seduti davanti a
una tastiera, in questo rinnega uno degli specifici più declamati
della vecchia radio che poteva essere ascoltata ovunque e facendo
qualunque altra cosa. Nasce per fornire un tappeto sonoro all’uomo collegato a una macchina, o se vogliamo è la voce della macchina che vuol sedurre l’uomo perché resti più tempo possibile ad
accarezzarla. Oggi la radio non esiste più. È un file digitalizzato, è
un suono e ha sostituito quella che era la macchina, il mezzo che è
scomparso e rimane il suo fantasma parlante.
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Radio in rete
all’estero (per esempio in Francia o negli Stati Uniti, dove c’è chi
realizza soltanto interviste o chi si limita a rivedere e condurre prodotti preparati da altri). L’impegno, nelle realtà italiane, riguarda
solitamente almeno una fase significativa del processo di produzione in un determinato settore: realizzare un giornale radio vuol dire
scrivere i testi e realizzare e montare un’intervista; chi conduce un
programma lavora alla sua preparazione ecc… Si è passati in sostanza da un’assegnazione confusa delle mansioni ad una specializzazione di settore attenta alla continuità del risultato; è però bene ricordare che si tratta di un processo tutt’ora in corso, in atto all’interno delle radio nazionali e delle locali più forti, ma dal quale
sono rimaste fuori, del tutto o in parte, piccole radio locali sopravvissute alla razionalizzazione del settore.
In generale, non è possibile però identificare un modello organizzativo comune all’interno delle emittenti, in modo da definire
quali sono e che mansioni svolgono le diverse figure professionali
della radiofonia. Ciascuna radio presenta un modello organizzativo
diverso, dove alcune funzioni sono valorizzate ed altri minimizzate.
Inoltre, le attribuzioni di compiti e responsabilità può essere differente a seconda delle stazioni prese in esame anche in presenza
delle stesse figure professionali.
L’unico processo di teorizzazione possibile è quindi quello che identifica una serie di aree funzionali all’interno delle quali operano le differenti professionalità; tra le aree funzionali possiamo identificare quelle del management e della direzione, della programmazione musicale, della produzione dei programmi parlati,
della conduzione, l’area tecnica di alta e quella di bassa frequenza,
quella che si occupa della raccolta e della programmazione pubblicitaria ed il settore dei servizi, che comprende le mansioni di
segreteria ed il rapporto con gli ascoltatori; a queste si aggiunge
oggi anche l’area legata all’informatica. Nella realtà specifica di
ciascuna emittente non sempre sono presenti tutte le funzioni sopra accennate; a seconda del suo formato, ciascuna stazione sceglie le aree utili, ne definisce la rilevanza e i rapporti. Pensiamo ad
esempio a radio musicali dove è totalmente assente l’area della
conduzione, radio di parola che non hanno programmazione musicale, radio rivolte ad un pubblico giovane che decidono di eliminare il settore di redazione.
Questa linea di tendenza si è tanto più rafforzata quanto più le
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
138
pochi che avevano lavorato all’estero. Chi si avvicina alle nuove radio proveniva da mondi contigui come la musica, l’informazione, lo
spettacolo, oppure è totalmente privo di esperienza; in ogni caso il
mestiere resta tutto da inventare. Il personale è scarso, a volte non
retribuito, spesso senza contratto; i confini tra compiti di genere
diverso in molti casi sono sfumati o inesistenti.
La valenza positiva di questa realtà vitale ma fragile e destrutturata è stata la sua agilità, e quindi la sua capacità di sopravvivere in una situazione di risorse economiche scarse e di regolamentazione assente e di adattarsi progressivamente alle nuove esigenze del mercato. Inoltre era assolutamente in linea con il clima
di trasgressione che ha accompagnato i primi anni della radiofonia privata. Per chi lavora all’interno di queste strutture vale, a
seconda delle necessità, la definizione di “tutti fanno tutto”: direzione artistica, programmazione musicale e fasce di conduzione o
contratti pubblicitari possono essere gestiti insieme, chi conduce
un programma in onda al mattino può occuparsi al pomeriggio
della programmazione pubblicitaria o della creazione degli spot e
via di seguito.
È noto qual è il processo che determina la crescita ed il
rafforzamento del settore radiofonico, il circolo virtuoso che passa attraverso il miglioramento del prodotto, la certificazione e la
crescita degli ascolti, l’aumento delle risorse pubblicitarie, un
migliore assetto normativo ed una razionalizzazione del settore.
Con il consolidamento delle radio nazionali e di alcune forti emittenti locali (Radio Norba, tanto per fare un esempio, o Radio Babboleo in Liguria) si determina anche la spinta ad una migliore organizzazione del lavoro e ad un impegno più strutturato; questo
processo porta innanzitutto ad una selezione che tende a minimizzare l’apporto di chi vive il lavoro radiofonico come un’attività
secondaria e poco importante; in secondo luogo determina una
più specifica definizione dei ruoli all’interno della struttura produttiva, con la crescita di competenze specifiche e la distinzione
dei settori professionali. Si supera, in sostanza l’indeterminatezza che aveva permeato un certo periodo della radiofonia privata,
e viene progressivamente riconosciuto il valore distinto delle singole competenze.
La ristrutturazione non è però arrivata ad una parcellizzazione
del lavoro troppo spinta, come è invece avvenuto in alcune realtà
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Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
tori e fornitori di servizi (ad esempio personale che si occupa della
manutenzione degli impianti, ecc…). Da questi dati risulta che ruotano intorno al mondo delle radio circa 10 mila persone, e di queste un po’ meno della metà con un impegno stabile.
Si evince uno degli elementi di criticità del lavoro nelle emittenti
radiofoniche: il numero significativo di collaboratori rappresenta in
alcuni casi una ricchezza (i collaboratori sul territorio che contribuiscono all’informazione nelle grandi radio nazionali, ad esempio),
nella maggior parte delle situazioni è invece il sintomo del disordine
contrattuale che persiste ancora in parte del settore.
Per quanto riguarda invece la questione della formazione e dell’accesso, il percorso all’interno delle radio sta diventando più impegnativo e più selettivo: le emittenti richiedono maggiori capacità
professionali, ed anche maggiore preparazione. Diminuisce contestualmente il numero delle piccole radio locali che per un lungo
periodo hanno costituito il canale principale di accesso, con una
formazione realizzata attraverso l’esperienza operativa, mentre
percorsi formativi per creare competenze specifiche nel settore
della radiofonia si stanno sviluppando in questi anni; alcune Università sono particolarmente attive nel realizzare corsi, studi e ricerche sul mondo della radio, e ad affidare alcuni spazi di formazione a professionisti della radiofonia in modo da creare un ponte
tra radio ed Università; anche se questo è un canale di accesso alla professione della radio ancora poco diffuso, si tratta comunque
di un segnale di crescita del settore di assoluto rilievo. Anche in
questo caso si tratta semplicemente di una linea di tendenza, e
non certo di una realtà consolidata: il percorso più spesso intrapreso passa ancora per la formazione sul campo. I tempi di crescita sono divenuti più lunghi e decisamente più selettivi, anche perché la prima ondata dei professionisti della radiofonia, quelli nati
con le radio private, ha occupato i ruoli più importanti ed ha davanti ancora un lungo periodo di vita lavorativa.
Infine l’apporto di novità tecnologiche, in particolare la digitalizzazione. Utilizzo di PC, regie automatiche, sistemi per la gestione
della scaletta musicale (come Selector), programmi per la gestione integrata di testi ed audio hanno modificato in due direzioni il
modo di lavorare all’interno della radio: da una parte sono cambiate le competenze richieste, considerando che oggi tutte le figure professionali che lavorano in un’emittente devono avere compe-
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
140
radio italiane hanno seguito un processo di specializzazione dei
formati, costruendo offerte mirate per pubblici differenti. Contestualmente sono aumentati nei palinsesti delle radio private gli
spazi dedicati alla parola, a quel ”parlato di contenuto” che si voleva per un lungo periodo appannaggio unico della radio pubblica.
Con la nascita di programmi e spazi di informazione anche nelle
radio commerciali (nella maggior parte delle radio comunitarie la
funzione informativa è sempre stata elemento fondante) sono aumentati gli spazi e le attività di redazione e di conduzione, legate a
giornali radio o programmi. C’è una grande varietà di compiti, oggi, all’interno delle radio private, compiti che spaziano dalla musica all’informatica, che richiedono competenze tecniche o manageriali, che impegnano giornalisti e uomini di marketing.
Anche la radio pubblica si è mossa in un percorso di differenziazione dei canali, alla ricerca di offerte appetibili per pubblici
differenti. Così si è aperta la strada per professionalità tradizionalmente legate alla radio privata, come la conduzione di programmi giovanili. Così alcuni personaggi nati nel modo delle private sono stati ingaggiati dalla radio pubblica, mentre ci sono esempi anche del percorso inverso: professionisti, soprattutto legati al mondo dell’informazione, che dalla Rai passano a collaborare o a lavorare per radio private (pensiamo ad esempio a Demetrio Volcic direttore del circuito CNR o Giancarlo Santalmassi a
Radio 24). Questo scambio di professionalità, che avviene anche
al livello delle redazioni dei programmi, è sicuramente un segno
di maturità per il settore della radiofonia. Anche l’età anagrafica
di chi lavora nella radio pubblica e nella radio privata è cambiata.
Nella RAI c’è la ricerca di un maggior apporto dei giovani in ruoli
significativi, come quello della conduzione; nelle radio private arrivano anche voci mature.
Ma se le radio nazionali e la maggior parte delle grandi radio
regionali o pluriregionali hanno raggiunto un assetto stabile, tra le
piccole radio restano realtà difficili, che vengono gestite con poco
personale, e situazioni professionali fragili.
Una stima forfettaria fornitaci dalle associazioni di categoria
parla di 3.200 dipendenti e 5-6mila collaboratori nella circa 1.300
radio locali italiane, tra le quali si trovano grandi realtà così come
emittenti piccole e piccolissime, mentre le 13 principali radio nazionali raccolgono circa 1.500 persone, tra dipendenti, collabora-
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Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
salmente riconosciuta nel settore radiofonico, e l’affermarsi di imprese radiofoniche solide ed importanti sia nella realtà nazionale
che in quella locale.
La radio non si fa più, ormai da tempo, solo per passione, impegno sociale o divertimento; fare la radio è un lavoro, ma l’impegno
e la passione per il mezzo restano una componente irrinunciabile
per acquisire una buona professionalità: è un lavoro più difficile di
quanto chi è all’esterno possa immaginare, il mezzo resta comunque povero dal punto di vista delle risorse economiche, se confrontato con la televisione o anche con realtà radiofoniche di altri
Paesi, e inoltre non fornisce le gratificazioni legate all’apparire così connaturate in una civiltà dell’immagine.
Radiofonografo DUCATI, mod. RR 3404, mobile a consolle, 1940
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
142
tenze informatiche da buone a ottime (pensiamo solo ai tecnici di
regia, ai giornalisti, al lavoro di gestione della scaletta pubblicitaria); dall’altra, il supporto di nuovi strumenti tecnologici ha modificato le condizioni di lavoro, semplificando le operazioni ed allo
stesso tempo rendendo più sofisticati i processi. Pensiamo, per fare un esempio, al lavoro all’interno degli studi, dove il tecnico di
regia non deve più gestire una serie di supporti tecnologici differenti ma una macchina sofisticata dalle molte funzioni, oppure ai
procedimenti di editing e di montaggio, realizzati ormai completamente, quasi ovunque, su PC, che ha limitato il rischio di errore ed
ha aperto la strada a infinite possibilità per migliorare, modificare,
tagliare e riassemblare con estrema facilità e in tempi brevi qualunque suono o registrazione.
La digitalizzazione ha influito sul lavoro all’interno delle emittenti anche permettendo un diverso assetto organizzativo, grazie
al supporto delle macchine che svolgono del tutto o in parte ruoli
prima eminentemente manuali (ad esempio la regia automatica);
il rapporto tra tecnologie ed organizzazione del lavoro, e quindi figure professionali, è infatti molto stretto; un maggiore ricorso all’automazione dei processi prevede un diverso utilizzo del personale disponibile. Molte radio locali di dimensioni piccole o medie
hanno attuato una razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro
grazie ad investimenti non particolarmente onerosi in tecnologie.
Assieme a tutti gli elementi che abbiamo delineato c’è un processo in atto che è conseguenza delle trasformazioni avvenute ed
in atto nel mondo radiofonico. Riguarda la percezione del lavoro
alla radio. Per motivi diversi, (la preminenza della televisione per
la radio pubblica, il lungo periodo pionieristico per la radio privata)
il valore e soprattutto la specificità delle professioni relative al
mondo della radio difficilmente sono state riconosciute, sia all’esterno, come percezione sociale delle figure professionali della radio, sia, in molti casi, all’interno del settore stesso. Oggi le professioni radiofoniche hanno assunto una dignità diversa. A questo ha
contribuito il rafforzamento generale del settore che si è tradotto,
come abbiamo detto, in un miglioramento dei palinsesti, ma anche
in un approccio al mercato in grado di lavorare anche sull’immagine della stazione con una maggiore attenzione al marketing editoriale ed alla promozione; ha contribuito anche la presenza ormai
significativa di grandi gruppi editoriali con una credibilità univer-
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enrico menduni
la terza generazione
Radio in rete
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Quaderno di COMUNICazione
sturbate e ha ragione, perché è uno spettacolo a cui si accede a pagamento. Si ottiene così il diritto di non essere disturbato in quello
che si è scelto attraverso un preciso atto di acquisto.
La televisione, per esempio che si afferma negli Stati Uniti negli
anni quaranta, in Europa nel decennio successivo, è fin dall’inizio
un ingombrante apparecchio per la fruizione audiovisiva domestica,
non facilmente riducibile: se trasformate un grande televisore a 28
pollici in uno schermo a 8 pollici avete una drastica perdita del piacere della visione. Per queste caratteristiche che sono sociali, prima che tecniche, il televisore viene piazzato nel salotto di casa, sostituisce subito la radio nel suo ruolo di nuovo focolare e diventa un
luogo della conversazione familiare, non appena viene superata
una prima fase di ascolto collettivo (in un bar o a casa dei vicini) per
necessità, cioè perché non si ha ancora il televisore, per motivi essenzialmente economici. Questa funzione, una volta fissata all’interno delle abitazioni, rimane costante. Si moltiplicheranno pure i
televisori in giro per la casa (in cucina, nella camera dei bambini
etc.), però siamo sempre in posizione seduta davanti a una macchina che ci fornisce automaticamente uno spettacolo audiovisivo.
Rispetto a questo paradigma di alcuni media (si cerca una funzione sociale, poi appena la si è trovata ci si fissa in essa), il percorso della radio è molto diverso, è pieno di colpi di scena. All’inizio,
intanto, c’è una fase in cui la radio non è intrattenimento ma è comunicazione, comunicazione radiotelegrafica. Marconi non ha inventato la radio come la intendiamo noi; ha concepito un apparato
di trasmissione, essenzialmente per le navi, che permettesse di
superare il vincolo del filo, del cavo: la “telegrafia senza fili”. Il telegrafo aveva modificato il mondo ottocentesco, l’aveva piegato alle
coordinate della ragione e delle carte geografiche, però ogni nave
che andava oltre l’orizzonte rimaneva un oggetto irraggiungibile,
poteva affondare senza che nessuno mai riuscisse a ricostruire
proprio nemmeno dove e quando si era persa. Di qui il grande successo dell’invenzione di Marconi nei primi vent’anni del Novecento.
Dopo la prima guerra mondiale c’era una vasta disponibilità di
apparati radiofonici a basso prezzo che erano stati prodotti al servizio degli eserciti in lotta, e molte persone che sotto le armi avevano
imparato a comunicare con la radio. Qui nasce una crescente fascia
di uso amatoriale della radio (vorrei ricordare che esistono i “radioamatori” ma non i “teleamatori”), un bricolage di iniziative comu-
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
Questi cento e più anni, da quando la radio è nata,
sono la storia di un mezzo estremamente mobile; e
non solo perché, nel corso della sua evoluzione tecnologica, ad un certo punto comincia a miniaturizzarsi, a
divenire portatile, a comparire sul cruscotto delle nostre automobili e dunque a muoversi insieme ai suoi
ascoltatori, ma soprattutto è mobile nel corso del Novecento quanto a funzioni e usi sociali.
In realtà spesso i media, quando appaiono sulla scena, non hanno ancora una funzione sociale precisa; per
un po’ si fanno attorno ad essi vari esperimenti d’uso
(alcuni graditi ai potenziali clienti, altri presto abbandonati), poi alla fine i mezzi di successo trovano una collocazione stabile e lì rimangono. Altri vengono abbandonati o rimangono curiosità antiquariali. Quando è nato il
cinema, intorno al 1895, si discettava se dovesse essere uno spettacolo da proiettarsi in uno spazio pubblico, su grande schermo, oppure un piccolo spettacolo in un chiosco, che un singolo spettatore
vedeva grazie ad una moneta infilata in una macchina a gettone.
Non si sapeva se sarebbe stato qualcosa di itinerante, un’attenzione
mostrata nei baracconi e nelle fiere, oppure un teatro automatizzato
in luoghi fissi. È affascinante questa storia degli inizi del cinematografo, che però dopo il 1910 aveva già avuto il suo esito, dando luogo
a forme e funzioni del cinema sociali non diversissime da quelle di
adesso, ossia un sistema di luoghi fissi riforniti periodicamente di
pellicole, che poi in Europa e nelle due Americhe degli anni Venti
sono diventati grandi sale cinematografiche, costruite come grandi
teatri. Ancora oggi in ogni città, quando non sono stati scioccamente
distrutte, ci sono un paio di grandi e maestose sale di questo tipo,
nelle quali si è svolta, ormai per un’ottantina d’anni, l’attività cinematografica. Certo, esse hanno visto la successiva introduzione di
molti perfezionamenti tecnici, tra cui i principali sono il sonoro e poi
il colore. Tuttavia ancora oggi, come nel 1920, andiamo al cinema
sostanzialmente nello stesso modo: possibilmente in compagnia
(cioè in una forma spiccatamente sociale), in una occasione di festa,
andiamo alla cassa, se c’è un po’ di fila aspettiamo, compriamo il
biglietto, ci sediamo, poi finalmente si spegne la luce e assistiamo
alla proiezione del film. Non dobbiamo fare nessun rumore, perché
subito dalle altre file c’è qualcuno che si volta seccato perché lo di-
145
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
in Italia, essa fu fortemente sostenuta dagli apparati più populisti
della Democrazia Cristiana (i fanfaniani con Bernabei) in funzione
modernizzante, sotto la particolare chiave della fidelizzazione dei
ceti popolari al nuovo stato. All’interno della Rai, ciò significò concentrare sulla televisione tutti gli intellettuali moderni e i giovani,
confinando alla radio la cultura più tradizionale: i torinesi, il partito
d’azione, molte brave persone e molti pensosi intellettuali cattolici
che furono messi in una specie di riserva indiana, mentre la televisione bruciava le tappe di una socializzazione di massa.
La televisione, quindi, complessivamente ha in Italia e in tutto il
mondo un effetto di sostituzione totale rispetto alla funzione familiare della radio. La radio, come una moglie abbandonata, si deve
“rifare una vita”, e ci riesce con una certa brillantezza. Grazie anche a innovazioni che la rendono portatile ed estremamente economica, in America diventa un mezzo giovanile, che si allea con la
musica prima con l’avvento del rock e poi con la musica leggera
degli anni Sessanta e Settanta. Senza questo passaggio non si capisce lo spostamento della radio verso i giovani. La radio diventa
un medium personale, non familiare, il primo di essi, mentre la tv
non è ancora mai riuscita a compiere questo salto.
La radio diventa qualcosa che sta in tasca, che pesa poco, che si
porta con sé. La Sony chiese ai progettisti che il suo primo modello
di largo smercio in America, la T 55, potesse stare nel taschino della
camicia, come un pacchetto di sigarette. Siamo quindi in presenza di
un marketing molto sapiente. La radio così si trasforma, abbandona
funzioni precedenti per diventare un’altra cosa, prima di tutto in America dove diventa il rock medium cioè il medium del rock.
In Italia e in Europa questa trasformazione è più lenta perché in
Europa c’è il servizio pubblico, più legato ad una funzione mainstream, di collegamento con i valori centrali della società anche
per via della propria filiazione politica. Il servizio pubblico che interpretò meglio questi cambiamenti non fu la Rai ma fu la BBC, la
quale consegnò con coraggio BBC 1 (come dire Rai Radio 2) alla
musica giovanile. Come? Arruolando i protagonisti delle radio pirata, illegali, che diffondevano la musica al largo delle coste britanniche: i famosi disc jockey, professione di cui prima nessuno
alla BBC conosceva l’esistenza ma che era ben nota nelle discoteche. Arruolando in massa gli animatori della radiofonia pirata e facendo di BBC 1 il centro di irradiazione del pop inglese dei Beatles
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
146
nicative di piccoli gruppi o di individui che ritroveremo più volte nella
storia della radio, e corrisponde ad una bassa soglia di accesso a
una tecnologia complessivamente facile e poco costosa. Qualcosa di
simile, nelle proporzioni infinitamente minori del tempo, al “popolo
di Internet” nella seconda metà degli anni Novanta. Da questo uso
amatoriale, che si compiace di mandare in onda concerti, discorsi,
comizi, canzoni, nasce il broadcasting, cioè la trasmissione (non più
radiotelegrafica) di un contenuto audio da parte di un apparecchio
assai potente a una molteplicità di apparati semplificati (solo riceventi) sotto l’unica condizione che essi si trovino nell’area di ricezione della trasmissione. Questo broadcasting, commerciale negli Stati
Uniti, pubblico in Europa, modificherà presto le funzioni domestiche
perché, entrando nelle case e collocandosi nella vita familiare quotidiana, diventerà il primo strumento di intrattenimento domestico
continuamente rifornito dall’esterno, la prima corposa alternativa
alle forme di intrattenimento che richiedono di uscire.
Questi sono i cosiddetti “radio days”, quella radio degli anni
Trenta e Quaranta a cui si riferiscono complessivamente i lavori
della giornata di ieri, e che sostanzialmente vede una fruizione
della radio con caratteristiche analoghe a quelle con cui oggi vediamo la televisione, ossia una fruizione familiare oppure un ascolto collettivo per necessità, perché non si ha l’apparecchio radio o perché c’è un regime autoritario che impone un rito collettivo
di fruizione politica dei mezzi di comunicazione.
Un ricordo glorioso, ma una radio che non esiste più. Infatti
questo tipo di radio (di uso sociale del mezzo radio) sarà totalmente travolto dalla televisione, che la sostituirà integralmente in tutto
il mondo, in un processo che in Italia si colloca fra la seconda
metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Le statistiche Doxa
dell’epoca sul passaggio dalla radio alla televisione (naturalmente
la Rai era il committente) sono addirittura brutali, quanto ad effetto di sostituzione della tv nelle funzioni che prima aveva avuto, in
famiglia, la radio. La televisione si mostrava come un apparato
della modernità e del benessere rispetto ad una certa vecchiezza
della radio su cui l’uso della radio in tempo di guerra (i bombardamenti, i bollettini di guerra, Radio Londra) aveva lasciato un ricordo indelebile e complessivamente penoso.
Dunque la televisione è connessa all’avvento della modernità e
ad un certo edonismo di massa che a essa è collegato. Per questo,
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Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
perché tutti appartengono alla stessa nicchia culturale e la comunicazione è sorretta da una simpateticità dell’enunciazione. Il telefono
permette in radio una bidirezionalità straordinaria, che supera l’unidirezionalità della comunicazione di massa e semplifica molto la
produzione perché permette di fare cronaca, di fare giornalismo, di
fare testimonianza, di aggiornare le notizie, di comunicare con la radio anche muniti semplicemente di un telefono. Quando poi questo
telefono diventa un cellulare, e prima ancora dell’arrivo di Internet,
noi abbiamo la possibilità di fare la radiocronaca di un evento pubblico, anche complesso e cruento come i fatti di Genova, semplicemente parlando dentro un cellulare, senza gli ingombri tecnici delle
telecamere. Senza le tecniche intrusive della televisione, senza la
pericolosità televisiva, senza la capacità della televisione di modificare radicalmente gli eventi a cui prende parte. Internet potenzierà
al massimo facoltà già presenti nell’imprinting della radio, e in particolare permetterà alla trasmissione radiofonica di superare lo
spazio, essendo ricevibile in streaming in tutto il mondo in tempo
reale, ben al di fuori dell’area di ricezione di una emittente.
In questa terza generazione radiofonica, multimediale, alleata
di Internet, ibridata con i media personali, c’è un prepotente ritorno dell’oralità. Studiosi come Walter Ong hanno parlato di una prima oralità, che poi viene cancellata dall’avvento della scrittura,
dalla mente che sopravanza la memoria, dalla razionalità del leggere e dell’organizzare la sintassi contro la paratassi. Ci rendiamo
conto che la radio rappresenta una terza oralità, dove la parola
non è più l’emanazione di uno scritto ma è qualcosa di più: è un testo nuovamente orale. In qualche modo riprende quelle tecniche
formulaiche proprie delle società primitive. Se ricordate Lupo solitario, il famoso disc jockey e intrattenitore radiofonico di American
Graffiti (che interpreta se stesso), vi renderete conto che egli parla
come lo stregone di una tribù primitiva. Dunque la radio è molto
interessante dal punto di vista linguistico perché è un consistente
esempio (forse il corpus più ampio, oggi) di oralità senza scrittura.
Una terza oralità, vicina alla musica, ma senza scrittura, a cui
sembra devoluta una funzione empatica nella razionalità che è il
pensiero unico della modernità. Le radio sono degli intarsi dell’emozione dentro la razionalità contemporanea.
Radio in rete
148
e dei Rolling Stones. Probabilmente la “copertura” radiofonica è
stato un elemento essenziale nella diffusione mondiale del pop inglese. La Rai invece, si è limitata a trasmissioni per i giovani,
spesso ben fatte, ma c’era l’idea del flusso che è prepotente nella
radio musicale. Per avere questo passaggio in Italia dobbiamo aspettare Radio Montecarlo e poi la radiofonia privata.
La radio dunque cambia totalmente veste e ruolo sociale e viene anche liberata dalle responsabilità di dover rappresentare l’ufficialità, che passano integralmente alla tv. Svincolata dal peso di
dover essere la memoria del suo tempo, diventa un mezzo molto
più agile, interstiziale, molto più discusso e discutibile. Questa è
sicuramente la seconda generazione della radio: come vedete non
ho considerato la radiotelegrafia, altrimenti le generazioni sarebbero addirittura quattro.
In questa seconda generazione la radio è mezzo non domestico
ma personale, che nel suo comparto commerciale è soprattutto
mezzo della musica, mentre è esclusivamente radio parlata nelle
radio politiche e nelle radio comunitarie. E questa è la radio degli
anni Settanta, Ottanta e di parte dei Novanta.
Questa seconda generazione però ormai è totalmente sostituita. La radio non solo adesso la tieni in tasca, la radio la puoi cucire
nel bavero della giacca, la radio può non esserci, la puoi far diventare un simulacro, una icona sulla schermata di un computer, qui
c’è un suo deperimento fisico ma una straordinaria vitalità, un
continuo ibridarsi, un continuo cambiare. Nel corpo di questa seconda generazione della radio sono avvenuti fenomeni che hanno
predisposto la radio all’incontro con i nuovi media, molto più della
sua ricca e statica sorella televisione.
La congiunzione della radio con il telefono è molto più felice di
quanto sia in tv perché è molto più paritaria (anche se non è ovviamente paritaria al 100%), e permette flussi di un intensità che può
essere molto forte. In questo suo scarico di responsabilità sociale,
in questo suo diventare giovanile, la radio diventa un medium di nicchia. La radio non è più un medium di massa. Il mezzo si scompone
in una elevata articolazione di radio piccole grandi e medie in cui
ciascun ascoltatore, senza zapping, fa le proprie scelte. Tra ascoltatori di una emittente siamo membri della stessa nicchia; tra i tifosi
di una determinata squadra che parlano in trasmissione con i capi
della loro tifoseria della loro squadra c’è uno scambio intensissimo,
Quaderno di COMUNICazione
149
150
2. I momenti esplosivi
Gli anni Settanta, in Italia come in buona parte d’Europa, si aprono seguendo due tendenze solo apparentemente antitetiche:
continuità e rottura col decennio precedente. Il tasso di scolarità
cresce in maniera impressionante ma contemporaneamente la
domanda di lavoro supera l’offerta, evidenziando le prime difficoltà
strutturali del mercato italiano. In questo periodo –come abbiamo
già notato altrove (Sorice, 2001)– si riallocano le spese per i consumi culturali in un quadro d’insieme sostanzialmente stabile: in
questa situazione è la musica a mostrare segnali di progresso, evidenziando anche un cambiamento nel suo stile di fruizione: alla
diminuzione dell’interesse (e delle spese) per il juke-box si accom-
Quaderno di COMUNICazione
pagna un incremento del mercato fonodiscografico. Come per la
televisione è la fruizione collettiva ridotta che viene abbandonata,
in favore di due stili che reciprocamente si rafforzano: a) l’ascolto
personale domestico e b) la partecipazione ai concerti di musica
pop (dai cantautori al rock e alle altre forme espressive), che si avviano a diventare gradualmente veri e propri eventi mediali.
Se la protagonista del decennio è ancora la televisione2 –che
passa da 9 milioni e mezzo di abbonati agli oltre 13 del 1980– il vero fatto nuovo è costituito dalla fine del monopolio radiotelevisivo.
Uno dei suoi portati (al tempo stesso causa ed effetto del mutato
clima sociale) è costituito dal mutamento nella percezione collettiva degli italiani: la radio gioca un nuovo ruolo e mostra tutte le sue
potenzialità. La radio, anzi le molte e diverse radio indipendenti
(che, significativamente, verranno subito definite “libere”, in contrapposizione alla radiofonia della Rai, percepita come troppo legata al potere politico e troppo ingessata nello stile e nella programmazione) troveranno un primo punto di forza proprio nel carattere trasgressivo e “locale”. La radio diventa così “local medium” ma è già pronta ad evolversi in glocal medium3.
La vecchia radio che resisteva con fatica, e apparentemente immutabile dai tempi dell’Eiar (anche se numerose erano state le innovazioni di linguaggio) attiva un processo che porterà in brevissimo
tempo alla destrutturazione del sistema radiotelevisivo nazionale4.
Le prime esperienze di radio libere nascono quasi clandestinamente e senza eccessivi clamori. I protagonisti non ricercano la
qualità tecnica, come era stato nel periodo pionieristico dell’Uri,
bensì la possibilità di aprire nuovi spazi di libertà d’espressione. E
così nel 1970 è Danilo Dolci a trasmettere dalla valle del Belice
con la sua Radio Sicilia Libera. Un esperimento dichiaratamente
illegale, voluto più per richiamare l’attenzione sul problema della
libertà dei media che non per avviare nuovi processi produttivi: Radio Sicilia Libera verrà spenta, rapidamente, per intervento delle
forze dell’ordine. Quello di Dolci, però, non è un fenomeno isolato:
in pochi anni, infatti, fioriscono le iniziative, contrastate dall’Escopost (l’organismo delle Ministero delle Poste per il controllo delle
trasmissioni via etere) ma spesso legittimate dai provvedimenti di
diversi pretori. È il caso di Radio Milano International che si vede
sequestrare gli impianti, poi restituiti grazie a un provvedimento
pretorile di Milano che, fra l’altro, ne legittima il diritto a trasmet-
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
Radio in rete
michele sorice
glocal medium
1. Introduzione
La radio deve gran parte del suo rinnovato successo ad alcune sue caratteristiche: facile trasportabilità,
facilità d’uso, ricchezza e poliedricità della programmazione. Inoltre essa assolve a diverse funzioni fra
cui –l’ha lucidamente messo in evidenza Enrico Menduni (2001)– una forte capacità connettiva e una spiccata funzionalità identitaria.
Se la radio sa essere al tempo stesso strumento di
connessione e luogo di riconoscimento delle identità
sociali, lo si deve al suo particolare ancoraggio con lo
spazio. La radio, infatti, è al tempo stesso idonea a superare ostacoli (persino, grazie alla tecnologia, quelli derivanti dalla natura
del territorio) ma anche a definire con precisione un territorio ibrido: il bacino d’utenza è, in effetti, spazio fisico e non-luogo identitario. In una radio ci si riconosce perché segna un territorio e definisce i contorni di identità plurali: contorni, è ovvio, sfumati, imprecisi, incerti ma non per questo meno evidenti.
Nel tempo della globalizzazione dei media, la radio si connota
decisamente come glocal medium, ammesso –lo avevamo già affermato circa un anno fa (Sorice, 2002)– che la nozione di “medium” possa ancora avere –e ne dubito– validità e statuto teorico.
Per parlare del carattere “glocal” della radio, comunque, è necessario segnalare alcuni momenti dello sviluppo storico della radiofonia “locale”; momenti che si connotano come tournant epocali o, se
si preferisce, svolgono una vera e propria funzione “esplosiva”1.
151
tere. Con Radio Milano International si è soliti –nella tradizione di
studi sull’industria culturale italiana– far iniziare la cosiddetta stagione dei “cento fiori”5: sono tante, infatti, le coloriture, non solo ideologiche ma anche relative alla programmazione e agli stili produttivi e trasmissivi, delle nuove radio libere.
Il successo, comunque, è determinato da almeno tre fattori che
marciano paralleli:
a) un forte consenso sociale che legittima un uso diverso del
medium radiofonico: personalista, interlocutivo, simulacrale, pur
all’interno di una modalità organizzativa ancora centrata sul
broadcasting;
b) una programmazione tendenzialmente di flusso che destruttura la tradizione del palinsesto, ottenendo un riconoscimento di
pubblico nella dimensione dell’incremento dell’accesso democratico alla vita sociale;
c) lo sviluppo degli investimenti pubblicitari in ambito locale che
consentono la nascita di un mercato –prima inesistente– accessibile anche ad operatori medio-piccoli6. È significativo che già nel
1977 gli investimenti pubblicitari locali rappresentino quasi un terzo del fatturato del settore radiofonico. In quell’anno le stazioni radiofoniche censite sono già quasi mille.
152
Capoluoghi
Altre località
Nord
216
255
%
45,86
54,14
Totale
471
100
Tab. 1
Centro
% Sud/Isole %
108
54,54
122
45,35
90
45,46
147
54,65
198
100
269
100
Distribuzione stazioni radiofoniche in Italia nel 1977
Fonte: S. Trasatti, Geografia delle radio locali
Quaderno di COMUNICazione
Italia
446
492
%
47,55
52,45
938
100
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
Radio in rete
Di queste, oltre il 28% sono localizzate nell’Italia meridionale e
insulare: minoranza, certo, ma dato significativo (più alto di quello
del Centro Italia dove pure si trova la realtà propulsiva di Roma).
La radio diventa subito un luogo privilegiato per lo sviluppo delle identità meridionali e per il bisogno di libertà e democrazia che attraversa le regioni troppo a lungo abbandonate del Sud del Paese.
Dalla tabella 1, insomma, è immediatamente evidenziabile una
delle tendenze peculiari dello sviluppo della radiofonia in Italia negli
anni Settanta: nascono e si sviluppano stazioni collocate anche in zone tradizionalmente escluse dalla diffusione di massa della comunicazione7. Non è casuale che un’altra tendenza fosse rappresentata
dall’evoluzione di stazioni radiofoniche dichiaratamente “antagoniste”: i movimenti di opposizione più marginali rispetto al potere politico trovano nella radio lo strumento tattico per accedere al sistema
dell’informazione, dal quale erano stati tradizionalmente esclusi.
Se per un lungo periodo convivono radio fortemente “politicizzate” ed emittenti che privilegiano l’offerta di musica8, sono però
queste ultime ad avere il sopravvento e innestare articolati processi di cambiamento nel mercato dei media. Il variegato mondo della
radiofonia libera –sia quello delle emittenti più “politiche” sia
quello delle stazioni con una più evidente vocazione commerciale–
rappresentano un importante elemento di unificazione e di riconoscimento di identità nazionale. Alla metà degli anni Settanta, infatti, il Paese è insanguinato dal terrorismo e sono proprio le radio libere a dare informazioni, ad attivare reti di conoscenza e sensibilizzazione, a definire processi di costruzione di identità, spesso
proprio a partire dal consumo musicale9.
Uno degli elementi centrali di questo periodo è costituito dalla
trasformazione dei palinsesti: quelli rigidi e strutturati –tipici delle
radio “statali”– diventano i clock fluidi e dinamici delle radio libere. La radio scopre il “flusso”, il broadcasting si evolve verso il
narrowcasting.
È significativo che la teoria della comunicazione fatichi non poco
a stare dietro alla radio. Le teorie della comunicazione, infatti, dalla
fine degli anni Cinquanta in poi sono tutte elaborate, studiate e applicate sulla televisione o, per quelle più recenti, sul computer (Sorice, 2000). La radio è sostanzialmente assente, al punto che anche
nella migliore manualistica si parla di sistema “radiotelevisivo”, come se radio e televisione fossero la stessa cosa. Ma, ovviamente,
non è così. Persino il broadcasting radiofonico è diverso da quello
televisivo, sorta di area ibrida fra la comunicazione uno-molti e
quella punto-punto della telefonia cellulare10. E d’altra parte la radio, almeno dall’invenzione del transistor, è diventata oggetto nomade (Flichy, 1994), che segue il suo fruitore quasi diventandone
una protesi sensoriale11, un “medium” realmente glocal.
153
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
4. Da local a glocal
Con le radio libere degli anni Settanta e poi con il vasto movimento che porta –con lunghe e profonde trasformazioni– al panorama radiofonico di questi ultimi anni, giunge a compimento l’intuizione di Arnheim del 1933: “l’ascoltatore può attraversare lo
spazio anche da solo invece di farsi guidare dalle direttive di un artista. Egli può, con il suo apparecchio, passare in fretta da una stazione all’altra, può abbandonarsi completamente all’ebbrezza della vastità e molteplicità della vita terrena oppure può trarre dai
numerosi programmi del momento ciò che gli piace per costruirsi
con questi prodotti di tutto il mondo un suo montaggio soggettivo”.
Se è negli anni Settanta che nasce, è con la radiofonia degli anni
Novanta e di questo inizio di secolo che l’esperienza del montaggio
soggettivo diventa la modalità attraverso la quale la radio modifica
e trasforma i processi comunicativi. “La comunicazione per flusso
avviata dalla radio trasforma i processi di massificazione e di socializzazione in senso orizzontale e quotidiano: offre ai suoi fruitori
non più degli ideali lontani o dei criteri astratti, ma veri e propri
modelli di cultura” (Abruzzese, 2001). Come dire, parafrasando Alberto Abruzzese, che la radio di flusso definisce modelli di azione
e di comportamento e gioca un ruolo non secondario nella costruzione delle identità collettive.
La radio, possiamo ancora affermare, si pone come elemento
attivatore di nuove soggettività, spesso in funzione di bisogni sociali inespressi e di spinte antagoniste. In questo quadro, la radio
–diventando, come aveva intuito Flichy, oggetto nomade– attiva un
processo di ipertrofia dei non-luoghi. In altri termini, la radio diventa “oggetto culturale” al tempo stesso locale e globale –glocal
appunto– ponendosi contemporaneamente dentro e fuori le cornici
di rappresentazione mediatica della società. La nuova radio glocal
spezza le cornici, mescola il dentro e il fuori della realtà sociale e
mediatica.
Casi estremamente interessanti di radio intese come glocal
media sono quelli delle cosiddette radio di movimento. Da Radio
Alice a Radio Gap di tempo ne è passato, e con esso sono cambiati
i linguaggi, le competenze, le strutture produttive, persino le strategie di fidelizzazione del pubblico. Rimane tuttavia invariata la dimensione al tempo stesso globale e locale del fenomeno. È evidente, infatti, che le radio vicine al movimento “new global”15 si
Quaderno di COMUNICazione
Radio in rete
154
3. La radio al margine della cultura
Per tutto il periodo che va dal 1970 all’inizio degli anni Ottanta, il consenso sociale alla radiofonia “libera” cresce in maniera
decisa. Non si tratta di un consenso che investe solo le stazioni
“alternative” con una forte e marcata connotazione politica ma
anche –e soprattutto– quelle che stavano procedendo, anche a
loro insaputa, allo “svecchiamento” del mercato fonografico nazionale. Il successo di alcuni generi di nicchia fu di grande portata, un fenomeno solo apparentemente paradossale rispetto alla difficoltà del mercato fonodiscografico interno. In realtà si
spiega molto facilmente ricorrendo –come abbiamo già avuto
modo di fare (Sorice, 2002b)– al concetto di “margine” dell’industria culturale12. I fenomeni “local” e il successo di generi musicali e di programmazione “di nicchia” si spiegano all’interno di
un tessuto connettivo profondo nel quale i contenuti originariamente esterni ai circuiti tradizionali di successo vengono assorbiti per prossimità dalla produzione culturale, poiché essi appartengono comunque a identità culturali e di consumo molto
vicine ai fruitori potenziali previsti e promossi dalla stessa industria culturale.
L’applicazione del modello del diamante culturale di Wendy Griswold (1997) –meglio ancora nella variante che ne ha recentemente proposto Fausto Colombo (2001)– è molto efficace per comprendere il successo e i meccanismi processuali della radiofonia italiana –soprattutto quella “libera”– dagli anni Settanta a oggi. E, più
generalmente, per individuare le linee di sviluppo del medium radiofonico all’interno dell’industria culturale italiana13.
La radio si situa nell’industria culturale nazionale fra assorbimento e interdizione, sospesa fra spinte omologatrici e improvvisi
impeti rivoluzionari. Un caso evidente di “assorbimento” è rappresentato proprio dalle radio libere e locali: di origine esterna al sistema ma con un alto grado di compatibilità col sistema stesso (si
pensi alle convergenze e alle sovrapposizioni con alcuni segmenti
dell’industria fonografica da un lato e di quella dell’informazione
dall’altro), esse si posero –e ancora spesso si pongono– come coagenti di cambiamento del/nel gusto musicale14. Nonché mezzi
tecnologici “dalla parte del pubblico”, svolgendo un ruolo di vera e
propria rappresentanza sociale, spesso di tipo identitario, come rilevato anche di recente nel caso delle emittenti “di movimento”.
155
connotano forse più di altre come espressioni “glocali”, capaci di
definire forme ibride di identità, fondate al tempo stesso su fenomeni di identificazione e di individuazione16.
La radio, come in parte aveva fatto la tv pedagogica dell’era Bernabei (ma in una prospettiva completamente diversa) definisce nuove modalità di connessione identitaria: da un lato le dinamiche di identificazione che consentono la crescita del senso di appartenenza
dei pubblici, dall’altro i fenomeni di individuazione che permettono
lo sviluppo di un consumo sempre più personalista. Dentro questo
doppio movimento, che conduce anche istanze marginali al centro
della produzione culturale, si sviluppa e si articola la presenza della
radio oggi: sempre meno “medium” e sempre più “glocal”.
Note
Radio in rete
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Quaderno di COMUNICazione
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Radio in rete
La nozione di “processi esplosivi” è stata concettualizzata più volte da Lotman (1993; 1994) che, analizzando modelli di cultura, identificava la radice delle
situazioni prevedibili nei processi ciclici e graduali mentre “la novità è il risultato
di situazioni imprevedibili per principio (…) Il momento dell’esplosione interrompe la catena delle cause e degli effetti e proietta in superficie uno spazio di eventi
parimenti probabili di cui è impossibile per principio dire quale si realizzerà”
(Lotman, 1994, p.35). Un’applicazione dei concetti lotmaniani di “esplosione” e
“implosione” nell’analisi della produzione culturale in Sorice 1998b.
2
Trasformazioni nella programmazione, cambiamento negli stili di conduzione delle trasmissioni d’intrattenimento, liberalizzazione dei costumi costituiscono gli aspetti più innovativi del periodo.
3
Ho già avuto modo di notare l’inadeguatezza concettuale del termine “medium”,
che qui, comunque, viene usato con particolare riferimento “ampio” a un periodo
storico e a funzioni specifiche della radio. A proposito del concetto di “medium” mi si
permetta di citare quanto già affermato in un convegno a Siena, nel 2001: “ Come per
qualunque apparato produttivo e linguaggio dell’industria culturale, la radio non può
essere studiata al di fuori di una rete di connessioni strettissime che costituiscono e
definiscono l’immaginario collettivo. La radio non è semplicemente un medium (la
stessa nozione di “medium” non è sufficiente all’analisi dei “fatti mediali”). Il medium, inoltre, non può essere considerato un oggetto teorico, pena la stessa legittimità scientifica della “mediologia” (che, dunque, non è la scienza dei media ma quella che studia i processi mediali, le dinamiche produttive e le modalità di fruizione dei
prodotti culturali). La radio non è semplicemente un linguaggio, non è solo un apparato produttivo e non è nemmeno l’insieme delle teorie che la rappresentano; la radio, come d’altra parte la televisione, il cinema, il fumetto, l’esperienza letteraria, il
1
teatro, i videogiochi, è essenzialmente un processo. Si tratta, naturalmente, di un
processo articolato, complesso e multidimensionale che coinvolge attività creative,
routines produttive, meccanismi di standardizzazione, apparati tecnici, innovazioni
tecnologiche, modalità organizzative dell’offerta, stili e comportamenti di fruizione.
La radio, in sostanza, è prima di tutto un “fatto sociale”: e se il termine “medium” ne
spiegava benissimo l’essenza fino alle importanti elaborazioni di McLuhan, oggi esso
appare inadeguato, riduttivo e teoricamente discutibile”.
4
Molte delle elaborazioni di questa parte sono già state condotte in Sorice 2001.
5
In realtà già erano sorte altre iniziative: Radio Sicilia Libera aveva iniziato a
trasmettere nel 1970 e poi subito spenta; nel novembre 1974 era nata Radio Bologna e nel gennaio 1975 Radio Parma (quindi due mesi prima di Radio Milano International). Secondo Aldo Grasso (2000) l’alternatività al sistema pubblico inizia
realmente con la nascita di Canale 96, iniziativa politicamente orientata promossa dalla Cooperativa Culturale Sempione di Milano. Bisogna, peraltro, segnalare
il valore simbolico che assunse a Bologna Radio Alice, guida e punto di coordinamento per le rivolte studentesche del 1976, e poi il consorzio che raggruppava le
emittenti con un impegno politico di tipo “democratico” (Fred, Federazione Radio
Emittenti Democratiche) che, schiacciato dal successo delle stazioni commerciali
e “musicali”, si dissolse in breve tempo.
6
Si noti che un processo simile si era avviato negli anni Venti negli Usa, quando la libertà d’antenna precedente al Radio Act del febbraio 1927 determinò dapprima lo sviluppo di mercati locali e successivamente la nascita di network che
adottavano forme di programmazione “a finestra” (che quindi garantivano la conservazione di tali mercati locali).
7
I costi di impianto e gestione della radio sono, come è noto, più contenuti di
quelli di altri media. C’è da notare tuttavia che molte emittenti meridionali stentano a consolidarsi e presentano spesso vite medie estremamente brevi.
8
Accanto, ovviamente, a emittenti di impostazione prevalentemente “culturale” che, però, non riuscirono mai realmente a imporsi.
9
Per l’importante discussione sul ruolo del clock e delle radio “pirata” inglesi sul cambiamento europeo della radiofonia si rimanda a Menduni 2001 e a
Sorice 2001.
10
Non è casuale che nell’immaginario tecnologico di inizio Novecento la radio
venga tematizzata come uno strumento per la comunicazione punto-punto: nelle
riviste dell’epoca, infatti, la rappresentazione avveniristica del nuovo mezzo è
quella di un ingombrante ma funzionale “telefono” che avrebbe dovuto permettere di parlarsi a distanza senza dover sopportare la tirannia del filo (Cfr. Jeanneney, 1996).
11
Con la radio degli anni Settanta l’elaborazione concettuale di McLuhan torna paradossalmente attuale.
12
“Per “margine” dell’industria culturale intendiamo dunque una zona che
non è di per sé né interna né esterna, ma che costituisce una riserva di possibile
avanzata o arretramento” (Colombo, 2001, p.20).
13
Per un’analisi più approfondita di tale questione ci permettiamo di rimandare a Sorice 2002, oltre che al già citato saggio di Fausto Colombo.
14
“Esemplare è il caso del cambio del gusto musicale che non fu affatto trai-
157
nato dalla grande discografia, ma semmai –viceversa– trascinò con sé e guidò i
mutamenti della canzone italiana” (Colombo, 2001, p.33).
15
Per una prima ricognizione a più voci sulle diverse questioni intorno ai movimenti new global, cfr. Di Sisto - Zoratti 2002.
16
Con il concetto di identificazione si intende l’assunzione di caratteri socialmente
riconosciuti che fa dell’individuo un appartenente al sociale mentre con il termine individuazione si intende la differenza da altri che fa dell’individuo un “unicum”.
Interventi
Riferimenti bibliografici
A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, Meltemi, Roma 2001.
R. Arnheim, 1936, La radio, l’arte dell’ascolto, Editori Riuniti, Roma 1987.
F. Colombo, L. Farinotti, F. Pasquali, I margini della cultura. Media e innovazione, Franco Angeli, Milano 2001.
M. Di Sisto - A. Zoratti, Europa in movimento, Fratelli Frilli Editori, Genova 2002.
P. Flichy, Storia della comunicazione moderna, Baskerville, Bologna
1994.
A. Grasso, Radio e televisione. Teorie, analisi, storie, esercizi, Vita & Pensiero, Milano 2000.
J. N. Jeanneney, Storia dei media, Editori Riuniti, Roma 1996.
J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione, Feltrinelli, Milano 1993.
J. M. Lotman, Cercare la strada, Marsilio, Venezia 1994.
E. Menduni, Il mondo della radio, Il Mulino, Bologna 2001.
E. Menduni, (a cura di), La radio, Baskerville, Bologna 2002.
M. Sorice, L’esplosione dei paradigmi. Modelli comunicativi e dinamiche
di consumo nel nuovo scenario mediale, in Morcellini - Sorice, Futuri immaginari, Logica University Press, Roma 1998.
M. Sorice, Le comunicazioni di massa. Storia, teorie, tecniche, Editori
Riuniti, Roma 2000.
M. Sorice, Radio Days in the ‘70s, in Gli anni delle cose, numero monografico di “Comunicazioni Sociali”, n. 1, a. XXIII n.s., Vita & Pensiero - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2001.
M. Sorice, La radio nell’industria culturale italiana, in Menduni 2002.
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Quaderno di COMUNICazione
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antonio bottiglieri
radio & regioni
Avevo telefonato al mio amico Alberto Abruzzese
per definire un appuntamento necessario ad un progetto pensato sul futuro della radio: un progetto pensato soprattutto per favorire e consolidare il rapporto
tra la radio e le nuove generazioni. Nel mio progetto
c’è un riferimento preciso alla possibile collaborazione tra la radio, le radio e soprattutto la RAI con i vari
corsi di laurea in Scienze della Comunicazione.
Potrei dire che Abruzzese mi ha dato appuntamento qui a Lecce, all’Università di Lecce, nel senso, cioè,
che proprio da quella telefonata ha avuto evidentemente origine l’invito a me ed alla divisione radiofonia
della RAI a partecipare a questo seminario.
Voglio dire, dopo avere fin qui seguito i lavori del Seminario, che
effettivamente non c’era posto migliore per riflettere sul futuro
della radio. Il mio contributo ai vostri lavori, a questo punto, penso
dunque che possa essere proprio una sintesi rapidissima di quanto
avrei detto al Prof. Alberto Abruzzese per illustrargli la proposta.
Prima però non voglio sfuggire alla “domanda-protesta” del Prof.
Semeraro.
A proposito del recente cambio di direttore –e ad avviso dello
stesso professore Semeraro– anche di palinsesto di RADIO TRE,
mi viene rivolta una domanda che correttamente può essere solo
indirizzata al Direttore Generale ed al Consiglio di Amministrazione della RAI.
I dirigenti della Divisione Radiofonia, infatti, rappresentano, almeno nell’organizzazione dell’ Azienda che fu avviata dalla direzione
Celli, un tentativo di separare segmenti della RAI per meglio fissare
le autonomie strategiche e, quindi, di bilancio.
Ma le divisioni ovviamente non incidono sulle scelte editoriali dei
direttori di rete. Né tanto meno sulle nomine dei Direttori stessi.
Per queste ragioni non posso certamente rispondere sulla nomina
del nuovo Direttore di RadioTre.
Oltre tutto sincera e convinta è la mia stima per il valore professionale sia di Roberta Carlotto che di Sergio Valzania.
Forse –ma non sono io a doverne parlare– ci sarebbe da dire
Interventi
Quaderno di COMUNICazione
161
Quaderno di COMUNICazione
Interventi
Antonio Ghirelli su Radio Napoli, pensavo alla difficoltà di ritrovare
non soltanto le registrazioni del passato più lontano, ma anche di
quello più recente, perché tutta la programmazione regionale è
stata condannata ed è stata in buona parte distrutta.
Una delle leggi di pubblica sicurezza impone a chiunque, anche
ad una parrocchia sperduta di un paese lontano che stampa un giornaletto periodico, di consegnarne tre copie in Questura. Una delle tre
copie arriva alla Biblioteca nazionale di Firenze, per cui è forse sempre possibile rintracciare qualcosa realizzata con la carta stampata.
Curiosamente della radio, da quando esiste, non c’è stato un
archivio ed è davvero difficilissimo recuperare la sua storia. Eppure c’è un patrimonio di voci e di musiche che, ritrovate, rappresenterebbero sicuramente materiale prezioso. Oltre tutto le tecnologie oggi consentono di utilizzare al meglio anche registrazioni
malridotte. È un lavoro non solo di archivio, ma anche di organizzazione delle nuove produzioni.
Devo dire che la divisione Radiofonia della RAI sta facendo in
questa direzione alcune cose importanti. Mi piace citare tra tutte
“l’archivio sonoro della canzone napoletana”. Lo faccio non perché
è stata una mia idea, ma perché il lavoro di Paquito del Bosco (curatore e direttore artistico dell’archivio) ha già raggiunto risultati
importanti: 10.000 titoli catalogati. 10.000 brani restaurati ed ascoltabili presso il Centro RAI di Napoli, dove tecnici e consulenti hanno
ritrovato non solo la radio di ieri, ma il piacere di fare radio oggi.
È uno sforzo della Divisione Radiofonia della RAI. È un lavoro
del centro RAI di Napoli. È un impegno della Regione Campania,
della Provincia e del Comune di Napoli. C’è, infatti, in corso di approvazione, una convenzione tra la RAI e questi Enti.
Sarà possibile a tutti (curiosi, appassionati, studiosi) digitare
qualsiasi titolo ed ascoltare non solo interpreti noti, ma anche cantanti e gruppi italiani e stranieri di cui non si conosce e non si sospetta l’esecuzione di brani napoletani.
Insomma tutto quello che c’è, che c’era –e non si conosceva o
che era in condizioni di inascoltabilità– e che ci sarà della canzone
napoletana, sarà nell’Archivio che si sta realizzando a Napoli.
Devo dire che proprio il percorso appena avviato dell’archivio
sonoro della Canzone Napoletana, rivela la difficoltà nel reperimento del materiale sonoro e anche di quello cartaceo di supporto
al lavoro della radio.
Quaderno di COMUNICazione
Interventi
162
qualcosa sul ritorno ad un unico direttore di due reti radiofoniche,
che finalmente erano state separate. Il discorso sarebbe lungo
perché sarebbe necessario considerare le specificità di ogni rete.
In altre parole sarebbe importante anche fissare obiettivi e target
diversi per ogni rete.
In questo senso mi pare interessante quello che ha detto proprio Sergio Valzania, confermato direttore di RADIO DUE e neo direttore di RADIO TRE, in una recentissima intervista al quotidiano
“La Stampa”.
Valzania si chiede se fra quelle trasmissioni, recentemente cancellate dal palinsesto di RADIO TRE non ci fossero molte rimaste da
troppo tempo nello stesso palinsesto, tanto da essere definite “collaudate”, ma più probabilmente invecchiate insieme con il pubblico.
In altre parole Valzania mi è sembrato preoccupato di avere sempre
lo stesso pubblico, e soprattutto un pubblico sempre più anziano,
mentre lui vuole trovare nuovo pubblico per la radio. Ed ha ragione.
Questo è un problema serio, perché da quelle disordinate rilevazioni di ascolto della radio (anche la rilevazione è uno dei temi di cui
ci si dovrebbe preoccupare per smontare finalmente il sistema “audiradio”, che è un sistema primordiale), emerge il dato di un pubblico
RAI che rispetto a quello di altre radio è il “meno giovane”.
La questione dell’AUDIRADIO, come accennavo, è un altro paragrafo dello stesso capitolo dedicato al “futuro della radio”.
Non appare certamente interessante invocare per la radio il sistema AUDITEL, ma è certamente da rivedere l’attuale sistema di rilevazione degli ascolti radiofonici. Ed è soprattutto necessario ritrovare
e valorizzare appieno la specificità del mezzo, utilizzando per questo
anche le nuove tecnologie digitali. La radio richiede adesso non solo
impegno e passione, ma anche nuove competenze e specializzazioni.
Qui a Lecce siete riusciti brillantemente anche a collegare le
prospettive della RADIO alla sua storia, soprattutto la storia del
suo importante e forte rapporto con le popolazioni meridionali e
con le più decisive vicende della storia del nostro mezzogiorno. La
Storia della radio, la storia di Radio Palermo, di Radio Bari, la storia di Radio Napoli è stata, anche in questa occasione, ricostruita
attraverso importanti testimonianze. E tuttavia mancano ancora
pezzi significativi. Non tutto, come si sa, è stato rintracciato.
Ascoltando il racconto della storia di Radio Bari, di Radio Palermo, della Radio in Sardegna e le cose che ha ricordato la lettera di
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Quaderno di COMUNICazione
Interventi
non sia purtroppo difficile scoprire che nelle aziende audiovisive ci
sono persone che non hanno ancora “scoperto” il mezzo che utilizzano. Ve ne accorgete, per esempio, quando vedete telegiornali
realizzati con abuso di “immagini” di repertorio e di telefonate (coperte magari da fotografie) che determinano insopportabili “voci
fuori campo”. Faccio questo esempio, ma ne potrei fare altri. Anche la regia televisiva spesso è guidata e distratta dalle parole del
conduttore e non dalla giusta sequenza delle immagini.
Insomma c’è il rischio evidente che si faccia radio con la televisione e che non si faccia bene la radio, che resta un mezzo importante e –come si evince anche dalle interessanti rilevazioni della
indagine che il vostro corso di laurea ha effettuato a campione ed
ha presentato in questo seminario– di grande interesse ed utilizzabilità per un pubblico dinamico, come quello giovanile.
Ma anche il pubblico ovviamente, deve essere aiutato a crescere, e non soltanto numericamente.
Ritorna qui –e chiudo– il progetto, del quale stiamo parlando con
il Prof. Abruzzese: il collegamento da definire in termini di stabile e
proficua collaborazione tra le sedi regionali della RAI ed i corsi di
Laurea in Scienze della Comunicazione delle varie Università, pubbliche e private. Mi risulta che ormai i corsi superano in Italia il numero di 40 e sono, dunque, presenti in tutte le nostre regioni.
Se la RAI dovrà trovare la strada del federalismo, in corrispondenza delle scelte politiche ed istituzionali del nostro Paese, dovrà
saperlo fare, dovrà farlo correttamente, proficuamente e non solo
–ancora una volta– (come successe con l’avvento delle regioni e,
quindi, con la nascita delle sedi regionali), limitandosi quasi come
ad una ubbidienza formale alle scelte della politica assolutamente
slegata da un progetto produttivo.
Bisogna, invece, subito avviare un’analisi attenta e predisporre
le basi di questo progetto tra RAI ed Università. Credo che iniziare
dalla radio sia più semplice e più giusto.
Questo era, infatti, il discorso avviato con Abruzzese. L’ho fatto
qui con lui e con voi.
Continuiamolo insieme.
Interventi
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A volte capita di trovare materiali Rai fuori dalla Rai, che qualcuno ha fortunatamente custodito altrove. Molto spesso a conservare materiale importante sono stati i tecnici. Questa considerazione invita a fare attenzione al ruolo dei tecnici, che rappresentavano insieme con tutto l’apparato tecnico della Rai, uno dei punti
di forza e di competenza alta dell’azienda. Abbiamo in pochi anni
fatto di tutto per distruggere questo patrimonio di competenza, di
intelligenza, di esperienza. Dalla storia di Radio Bari, per esempio,
emerge –come abbiamo ascoltato– che furono i tecnici Rai a difendere gli apparecchi per registrazione dalla distruzione dei tedeschi, addirittura nascondendoli.
C’è bisogno a mio avviso di recuperare questo amore, questa
competenza e questa presenza. Complessivamente c’è bisogno di
recuperare una preparazione, una formazione, direi un’alta formazione del come fare comunicazione, del come fare radio.
È un discorso che ovviamente riguarda e mette a centro il ruolo dei corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. E non solo,
ma anche i corsi DAMS, ed altre Facoltà universitarie, e corsi di
alta formazione.
Vorrei dire che abbiamo assistito in questi ultimi anni al nascere ed al moltiplicarsi di scuole, corsi, iniziative accademiche e non,
centri pubblici e privati di qualità ed eccellenza. Ma non mi pare
che si possa dire molto sul rapporto tra tutto questo e le Aziende
che fanno comunicazione, in particolare la RAI, cresciuta ovviamente nella sua storia con professionalità fortunatamente e a volte fortunosamente acquisite sul campo.
Faccio spesso un esempio che anche qui voglio ripetere. Chi
nasce in una città di mare viene portato fin da piccolo alla spiaggia. Per questo, tutti (o quasi) gli abitanti delle città di mare ritengono di saper nuotare. Ma nessuno di loro ha ovviamente mai frequentato una scuola di nuoto. Potrebbe così scoprirsi che molti invece che nuotare sanno a stento galleggiare. I campioni di nuoto,
quando manca la scuola, sono pochi. Potrebbe essere successo
così per le figure professionali e manageriali necessarie anche alla RAI e alle altre aziende radio televisive.
Ma adesso c’è necessità –come dicevo– di competenze e specializzazioni, per utilizzare al meglio le tecnologie, per rinnovare i
contenuti.
In questo senso si rende necessario un ricambio. Penso che
Quaderno di COMUNICazione
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stefano cristante
radio & università
Vorrei sviluppare alcune semplici osservazioni dall’interno di questo convegno e delle sue tematiche.
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2. Esistono ancora oggi spazi in cui la radio ha una sua egemonia broadcasting –l’accompagnamento notturno di certe professioni
addette alla sorveglianza– oppure addirittura un’esclusiva informativo-intrattenitiva –come in automobile.
Ma sono spazi periferici. Oggi la radio non gioca più la propria
battaglia sulla indispensabilità funzionale della (propria) informazione. Gli spazi che si prende –specie RadioTre, e soprattutto nella
gestione Carlotto– sono spazi di approfondimento, di intensificazione colta, di raffinatezza conversativa.
Oltre, naturalmente, al fondamentale recupero della funzione di
scatola sonora, di music box, colonna sonora di parti non secondarie della giornata.
Quaderno di COMUNICazione
4. È anche per questo –credo– che aumenta il numero delle emittenti che cercano un proprio spazio sul web. Ascoltare la radio
in questo modo non è evidentemente come sintonizzarsi su una
radio tradizionale (intanto occorre collegarsi, cioè pagare il dazio
ai provider di telefonia fissa), ma i mezzi necessari alla produzione
radiofonica ritornano essenziali, “poveri” come nelle prime radio
libere di trent’anni fa. La direzione è chiara: fare radio è considerato ancora –almeno da alcuni– una scelta di libertà. Una libertà
che consente anche operazioni di collegamento solidale tra esperimenti simili, come è successo a Radio Gap, circuito creato in occasione delle giornate anti-g8 a Genova 2001.
Pur con il giusto plauso a talune di queste iniziative il nodo della radiofonia via etere resta da affrontare: un’imprenditoria meno
disattenta alle risorse glocal dovrebbe pensare alla convenienza
dello strumento radiofonico in quanto tale. Gli ascoltatori ci sono,
e quando ci sono gli ascoltatori c’è anche la pubblicità. Ma in trop-
Quaderno di COMUNICazione
Interventi
Interventi
1. La prima è sul ruolo della radio come mezzo informativo broadcasting “puro”. Nel 1938, come è arcinoto,
il giovanissimo Orson Welles mandò in onda attraverso
il network CBS una puntata eccezionale del suo Mercury Theatre: la trasposizione radiofonica della Guerra
dei mondi del suo quasi omonimo H.G. Wells. I marziani
arrivavano sulla Terra: era una fiction, tra l’altro annunciata ripetutamente prima della messa in onda e anche
durante la trasmissione. Ma le tecniche utilizzate da Orson Welles furono tanto efficaci da risultare verosimili.
Ne seguì la prima ondata di panico massmediatico storicamente conosciuto e, anche se una successiva indagine psico-sociologica dello
studioso Hadley Cantril ne ridimensionò la portata, negli Stati Uniti si
verificarono fughe scomposte dalle città, centralini intasati da cittadini terrorizzati, tentativi di suicidio e altre piccole catastrofi.
Dal punto di vista della potenza del mezzo informativo, oggi la
radio è distantissima dal medium che diffuse la Guerra dei mondi.
Se qualcuno di noi avesse captato alla radio il drammatico resoconto degli attentati alle Twin Towers del settembre 2001, quasi
certamente avrebbe fatto un gesto che all’epoca di Welles non era
concepibile. Avrebbe immediatamente acceso il televisore.
Lì è la cornice del nostro odierno verosimile.
Lì è la potenza broadcasting per eccellenza.
3. L’organizzazione del flusso musicale radiofonico potrebbe
anche non sembrare troppo modificata nel corso del tempo al
semplice ascoltatore (in prevalenza giovane). Negli anni è cambiata la musica –certamente– ma non gli stili di conduzione, ammiccanti e “dedicati”.
Ma se guardiamo alla produzione dei programmi è cambiato in
realtà molto. Oggi le radio private sono molto distanti dai laboratori
di effervescenza e di creatività inaugurati alla metà degli anni settanta. Per molte stagioni le radio sono state la voce di un movimento culturale che ha praticato uno svecchiamento dei contenuti ingessati delle radio di stato e una formidabile base d’appoggio per la
formazione di giornalisti e dj capaci di far crescere un’audience non
prevista dallo sviluppo dei media tradizionali (giornali in testa).
Oggi in massima parte non è più così: il peso delle case discografiche è aumentato moltissimo, le scelte autonome dei dj si riducono a pochi brani nelle scalette già prenotate dalle major, la conduzione si avvale di software preformattati che assegnano tempi rigidissimi al parlato, il lavoro giornalistico, specie quello di inchiesta, è tutto affidato alle poche radio d’informazione e comunitarie
superstiti. Le altre emittenti si somigliano troppo tra loro: i loro
giornali radio sembrano bignami dei gr di stato oppure parodie di
un giornalismo di cronaca nera sprofondato nella realtà locale.
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5. La radio non può competere con la tv sul piano informativo.
La radio non è più il centro mediatico della sperimentazione giovanile, che si sta spostando casomai sul web. Tuttavia, ai fini universitari, specie a quelli di scienze della comunicazione, la radio potrebbe rivelarsi utile ad almeno tre livelli.
Primo: a livello di servizio. Informazioni generali sull’università,
sulle facoltà, sui corsi di laurea, sui diritti, sulle iniziative, e così
via. E anche ore di lezione via etere, discussioni sulla preparazione
degli esami, interviste ai docenti, inchieste, approfondimenti
scientifici.
Secondo: a livello formativo. Ideare, progettare e condurre programmi come formazione di primaria importanza per uno studente di scienze della comunicazione. Imparare un linguaggio mediatico e imparare a servirsene. Saper fare una scaletta e testarne la
validità nella verifica operativa. Saper intervistare. Saper parlare
di un certo argomento nei minuti preventivati. Saper organizzare
un servizio e un’inchiesta. In uno slogan: saper comunicare.
Terzo: a livello imprenditoriale. L’università, specie quando ha
un impatto sul territorio così importante come nel caso di Lecce,
deve pensare di dotarsi di un mezzo di comunicazione veloce e agile, fuori dalla semplice promozione pubblicitaria e dalle vie burocratiche all’accesso. L’università deve farsi imprenditore collettivo,
capace di raccogliere le energie finanziarie per stare su un mercato stretto, ma in grado anche di allargarsi disinvoltamente di fronte alla bontà di certe intuizioni.
Nel rapporto fra Radio e Web si tende a vedere il Web come sostitutivo del supporto cartaceo nella pubblicizzazione del palinsesto/programmazione e come aggiuntivo nel contatto col pubblico (i
canali IRC/Chat si aggiungono e/o si sostituiscono al telefono, come le eMail si aggiungono agli SMS della telefonia cellulare). Ma
una Web Radio è prima Web, poi Radio. E urge una ridefinizione
tecno/logica dei termini.
Per Web Radio si intende la trasmissione in diretta di un programma di tipo radiofonico via Internet. In “diretta” perché la trasmissione in differita, per la tecnologia internettiana, non è altro
che un file audio scaricabile da un sito web, al pari di un testo e di
un’immagine o di un filmato. Nel caso di una Radio che, a seguito
dello sviluppo della tecnologia di audio streaming via cavo/internet, trasmette principalmente via etere e diffonde i programmi anche via Web, non si può parlare di Web Radio ma solo di un’estensione del broadcasting.
In ordine di importanza sociale e tecnologica, credo che sia corretto stilare una sorta di classifica di “autenticità”:
- Web Radio: le stazioni che nascono per trasmettere sul Web e
che nel Web trovano la loro primaria ragione d’essere;
- WebNetwork: le Radio via etere a carattere locale che utilizzano Internet come sostitutivo dei ponti radio fra emittenti, per uscire dai propri ambiti locali (RadioGAP);
- Radio’n Web: le Radio via etere che utilizzano il Web come frequenza aggiuntiva.
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Volendo trovare paragoni/precedenti storici, la nascita delle
Web Radio è molto simile, nei suoi tratti sociali e politici, alla na-
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Ogni volta che ci si confronta con un mezzo di comunicazione “nuovo”, si tende a vedere contrapposizioni
con i media esistenti e/o estensione degli stessi attraverso l’inglobamento del nuovo media. Con Internet,
che rappresenta una piccola rivoluzione dei media e del
concetto di “multimedia”, questa contrapposizione/estensione si è manifestata prepotentemente e ha determinato una quasi riduzione delle potenzialità del Web.
enrico fedi
web & radio
po pochi pensano alla radio come media di orientamento locale
ma non provinciale; così proliferano gruppi e gruppetti che clonano una radiofonia allegrotta e battutista, infarcitata di musica esclusivamente di mercato e in collegamento diretto con un unico
centro strategico: la discoteca. Troppo poco per creare nuove tendenze nei consumi, abbastanza per piccoli profitti che si moltiplicano grazie alla proprietà unica di più emittenti, che si diversificano solo a scopo di lucro e non di progetto editoriale.
Meno pluralismo, insomma, anche nei consumi giovanili.
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Altro elemento importante è il rapporto fra informazione (ufficiale), contro informazione e informazione indipendente. Anche qui
la terminologia è importante:
- informazione: è tutto ciò che offre elementi conoscitivi e di riflessione. L’informazione “ufficiale” è rappresentata dai media gestiti
da grandi gruppi e che necessitano di flussi finanziari consistenti;
- la controinformazione: è parte integrante dell’informazione alternativa e ha, come riferimento costante, l’informazione ufficiale,
di cui tende a correggere errori, incompletezze e/o mistificazioni;
- informazione alternativa: è il mondo (universo?) del flusso di
informazione e di informazioni autonomo dai media ufficiali con
una propria agenda tematica ed i propri canali (identici, paralleli
e/o alternativi a quelli dei media ufficiali).
Internet rappresenta, nella sua virtualità, un mondo “realmente” nuovo, attualmente utilizzato al minimo delle sue potenzialità
proprio perché si tende a ricondurlo agli schemi e ai format conosciuti. Uno degli errori più frequenti è proprio quello di voler osser-
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vare il cyber spazio frammentandone gli aspetti tecnologici (navigazione, eMail, IRC/Chat, scaricamento file, etc.) e di replica/estensione dei media conosciuti (informazione testuale, Radio, TV). E un
breve volo pindarico puramente tecnologico è indispensabile.
Lo sviluppo dell’informatica si basa sullo studio del sistema
nervoso animale, e dei processi cognitivi e di creazione del pensiero degli esseri umani. Nell’iniziale impossibilità di ricreare la complessità del pensiero umano, i ricercatori si sono orientati verso
una semplificazione del processo dei dati attraverso la sequenza
lineare delle singole istruzioni.
Quando diamo l’ordine al nostro braccio di muoversi, in effetti
inviamo una mole impressionante di istruzioni senza rendercene
conto, e siamo ancora meno coscienti dell’ancor più impressionante mole di istruzioni inviate dal nostro sistema neurovegetativo
a tutto il nostro corpo, semplicemente per “tenerci in vita”.
Il lavoro fatto dai pionieri dell’informatica è stato quello di creare
sequenze (prima A, poi B, poi C, etc.) di istruzioni semplici per arrivare ad un insieme di attività complesse (o apparentemente tali).
Il nostro pensiero si muove su piani paralleli e contemporanei,
come se ogni nostro neurone fosse un microprocessore autonomo
ma collegato a molti altri, procedura recentemente denominata
“multi tasking” e riportata nei processori informatici prima virtualmente poi effettivo.
Prendendo in esame i microComputer o Personal, i processori di
classe x86 processavano i dati inizialmente in modo esclusivamente
lineare (8086 e 286), poi in multi tasking virtuale (386, 486) ovvero,
prendendo tre sequenze differenti e autonome (A1-A10, B1-B10,
C1-C10) li processavano in contemporanea ma rimescolando la sequenza (A1, A2, B1, A3, C1, B2, C2, A4 etc.). I processori più recenti,
supportati da adeguati sistemi operativi (inizialmente solo Unix, poi
anche DOS/Windows), riescono a processare effettivamente e realmente, in parallelo e in contemporanea, diverse linee di istruzioni.
Internet, che nasce sotto Unix (il primo sistema operativo in
multi tasking reale), risente fortemente di questo elemento tecno-
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scita delle prime radio libere nel 1975. Questi due momenti sono
accomunabili perché:
- entrambi potevano essere sviluppati a bassissimo costo (la
trasmissione via etere era comunque più costosa in proporzione
ma era accessibile largamente);
- i “nuovi operatori” erano dei non addetti ai lavori per cui comparivano all’orizzonte nuovi format, come sta accadendo oggi;
- la strutturazione interna si basa tendenzialmente sulle dinamiche sociali interne al gruppo (rapporti di amicizia, competenze
tecniche e contenutistiche, etc.) e non come replica delle strutture
esistenti;
- il piano politico trova spazi e margini ben diversi rispetto all’effettiva attività politica. I casi di Radio Alice ieri, e di RadioGAP (Radio Onda Rossa e altre) oggi non rappresentano la vera innovazione
politica perché la “rivoluzione” avvenne ed avviene con quanto detto sopra e con una serie di elementi meno eclatanti ma molto più
importanti, fra cui il semplice trasmettere musica che non trova
spazio nei palinsesti ufficiali, il doversi auto-organizzare, la compartecipazione diretta di tutte le persone coinvolte in tutti i processi
decisionali e programmatici, la costituzione naturale di una community di supporto, etc.
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Ancora sul piano tecnologico, Internet nasce dalle ceneri di ArpaNet (sistema di comunicazione e controllo a carattere militare)
ed è basato sulla “trasmissione a pacchetti”, ovvero sulla scomposizione dei dati in frammenti che vengono inviati da A a B utilizzando il percorso più libero e funzionale del reticolo di connessioni
(non necessariamente il più breve), bypassando automaticamente
interruzioni di segmenti e/o intasamenti.
Sul piano logico il meccanismo diventa ancora più interessante
e sorprendente. Come nel cervello, quando un impulso si ritrova a
passare frequentemente da A a D, inizialmente passa per B e C
ma, se si verica relativamente spesso, tende a creare una connessione sinaptica diretta A-D; nello stesso modo si sviluppano i rapporti sociali e culturali su Internet.
La casualità di contatti crea incontri di interesse comune e/o di
affinità progettuale, da cui si sviluppano contatti diretti e la cui
molteplicità crea nuovi gangli (da una community generalista si
sviluppano contatti diretti basati su affinità che si evolvono nella
creazione di nuove community specialistiche) che attraggono nuove sinapsi e si auto evolvono.
La costante interazione fra strumenti tecnologici e progettualità
socio-culturale rende Internet la prima replica virtuale del cervello umano e come tale deve essere considerata.
Il cyber spazio internettiano è dunque un magma in cui ogni singolo frammento è correlato a tutti gli altri ed è per questo che Internet deve essere vista e analizzata sempre nel suo insieme ed in
costante interazione “multiunivoca”. Partendo da questo presupposto, anche se entrare in questo ordine di idee è obiettivamente
complesso e difficile, diventa più chiaro il vedere i futuri sviluppi
dove tendono a coincidere i diversi elementi della catena dell’informazione (infrastruttura tecnologica, raccolta delle informazioni, elaborazione, produzione, trasmissione, fruizione) perdendo di sequenzialità e di importanza.
Carta stampata, Radio e TV si fondono su Internet, o meglio ritrovano la propria unità originaria e anche la sequenza tradizionale, vedo un servizio in TV o leggo un articolo ed assorbo informazione, tende a scomparire perché Internet è un tutto dinamico in
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cui ognuno deve cercare e trovare le informazioni e dove ognuno
diventa fonte e produttore di informazioni. Quasi una sorta di “primitivismo tenologico”, ovvero la tecnologia che evolvendosi ci riporta al “buon selvaggio”.
INDYMEDIA A LECCE… non si è quasi vista, almeno come “logo”, ma era presente… ha solo preferito lasciare spazio alle idee e
ai veri protagonisti del Sabato pomeriggio: il Gruppo P.A.Z.
Indymedia è l’esempio pratico più vicino agli scenari sopra descritti. È un insieme di individui non strutturato e non organizzato
(dunque senza vertici, portavoce, etc.) che fa politica attraverso
questa sua non strutturazione, e fa informazione senza necessità
di redazione.
Ogni partecipante porta con sé la propria storia personale e politica, e le tante anime presenti in Indymedia non entrano quasi mai
in conflitto reale perché Indymedia non è un “movimento politico” e
non prende posizioni politiche.
L’organo decisionale è una mailing list che funziona come
un’assemblea permanente e dove, per continuare con gli esempi
di tipo biologico, il mailServer che gestisce tecnologicamente la lista rappresenta una sorta di scatola cranica e i partecipanti rappresentano la materia grigia, scomponibile in tanti neuroni. Le
connessioni sinaptiche si creano in modo naturale in base alle affinità di interessi temporanee e/o permanenti (ma la permanenza
presuppone la continuità del flusso bi/multiunivoco di informazioni
e contatti).
Le decisioni seguono un metodo consensuale (si cerca di mediare fra le diverse istanze) senza votazioni e/o maggioranze/minoranze. Questo anche perché, non prendendo mai posizioni politiche e non schierandosi mai con entità politiche strutturate, non
ne ha bisogno.
In assenza di un “vertice” e di una “redazione” è impossibile stabilire un concetto di appartenenza e/o di militanza e si può parlare
unicamente di “partecipazione”. Ed è per questo che risulta impossibile “parlare a nome di” e/o “in rappresentanza di”, si può solo
parlare della propria individuale “esperienza di partecipazione”.
Un altro elemento, sempre affiorato più che affrontato, è stato
quello relativo alla verifica delle fonti e delle notizie. Premesso che
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logico e si presenta come un reale sistema neurale a connessione
sinaptica al pari del nostro cervello.
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Radioricevitore PHILIPS mod. 523, 1934
Certamente non è facile tirare le fila di giornate di
discussione così intense e al pari variegate. Proverò a
farlo, mettendo l’accento sui momenti per me più interessanti del discorso che qui è stato fatto, sempre e
comunque con lo slancio emotivo che il tema sembra
suscitare quasi automaticamente (e già questo è un
motivo centrale di riflessione, nel cuore della domanda sostanziale che ci dobbiamo porre sulla natura non
solo tecnica e sociale, ma simbolica e esperienziale
della radio). Cercherò soprattutto di toccare alcune
questioni generali che mi sembrano meritevoli di ripresa e approfondimento, nonostante la lunga serie di
appuntamenti seminariali e pubblicazioni –in ultimo il
poderoso lavoro di bilancio e rifondazione compiuto da
Enrico Menduni– di cui attualmente i linguaggi e gli
apparati radiofonici stanno godendo.
Una prima considerazione. Una serie di storici si sono susseguiti durante questi giorni. Essi appartengono
tuttavia a una categoria di storici che non lavora tanto
sulle fonti scritte, quanto piuttosto sulla propria esperienza di testimoni e protagonisti. Professionisti che già da tempo conoscevano bene la radio, perché vi hanno dedicato fasi centrali del proprio lavoro e
una forte vocazione. È stato dunque molto interessante ascoltare
dalla loro viva voce i fatti e non solo le opinioni di chi ha partecipato
alla vicende passate, spesso originarie, della radio, potremmo dire
alla sua storia corale, con la preziosità documentaria dei suoi infiniti
accadimenti. Con i suoi altrettanto preziosi localismi. Molti se non
tutti i giovani studenti qui raccolti nell’ascolto di queste autobiografie
professionali sino ad ora non conoscevano l’esperienza di radio locali
che hanno avuto un significato totalmente diverso (oppure assai meno di quanto si creda?) da quello che i tempi nostri attribuiscono alla
proliferazione in tutto il territorio nazionale di stazioni trasmittenti
private. Hanno potuto verificare, così, la natura di uno sviluppo tecnologico e di nuovi profili professionali, che hanno avuto la loro radice non nelle culture dei consumi, ma nella militanza ideale, politica e
sociale di chi, alla fine della Seconda Guerra mondiale, ha partecipato all’uso del linguaggio radiofonico immediatamente dopo la Liberazione. La distruzione bellica di gran parte del mondo civile (la Bomba, i lager del nazismo e dello stalinismo), dunque il panorama delle
alberto abruzzese
dalla parte dell’ascoltatore
l’open publishing, applicato da Indymedia e da altri, ha in sé un
meccanismo di autoverifica attraverso la possibilità di commentare le news e/o di pubblicare contro-news e/o correttivi, il problema
è realmente risolvibile solo attraverso un approccio critico permanente da parte di chi legge/vede un servizio giornalistico. Approccio critico che dovrebbe costituire una costante: ogni notizia dovrebbe essere vagliata attentamente, sempre, indipendentemente
dalla fonte e da chi la pubblica.
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Quaderno di COMUNICazione
Interventi
che questa definizione riguarda emittenti nazionali di regimi sociali particolarmente autoritari, ad esempio l’uso angoscioso e terroristico che della radio fu fatto da Hitler (e così genialmente ridicolizzato da Chaplin), ma anche organi di informazione di “società
chiuse” e persino le forme più evolute di radio democratiche, in
cui la ricchezza dei consumi coincide pur sempre con sofisticate
strategie di controllo e di consenso. L’Impero soffia la sua voce anche attraverso i microfoni della radio. E potrebbe tornare a farlo
nelle sue forme più tragiche, illiberali e delittuose. In questo momento sta sicuramente facendolo in più parti del mondo civile e incivile. Sicuramente nei luoghi del fondamentalismo religioso (e vedremo, tornando su questo, la ragione profonda di una parentela
diretta tra religione e radio –del resto assai bene intuita e praticata
dai militanti cattolici italiani, che alla radio, attribuirono la definizione esplicita, quanto impegnativa, di “microfono di Dio”).
Qui entriamo nella materia più problematica della nostra esperienza di contemporanei. Nel cuore delle democrazie occidentali e
in Italia. Tra le radio di cui abbiamo ascoltato la storia, ve ne sono
alcune che hanno avuto, come si è detto, un forte significato locale, una sentita capacità di interazione con il territorio in quanto comunità reale, fisicamente presente. Fu il momento di una esperienza che potremmo dire neo-risorgimentale. Ben presto tuttavia
la continuità dei grandi apparati nazionali ha necessariamente
preso il sopravvento e la radio ha svolto, prima della TV, il ruolo
che ai media pubblici, monopolio di Stato, è stato affidato dalle
strategie della riunificazione ideale della Repubblica Italiana, della
sua costruzione identitaria e culturale (solidarietà, alfabetizzazione, educazione civica, emancipazione, istruzione, socializzazione,
opinione pubblica, e anche esercizio della vita politica).
Oggi il quadro delle dinamiche di conflitto e integrazione tra culture locali e culture nazionali, tra media pubblici e media privati, tra
dimensione nazionale e dimensione internazionale, tra valori e strategie delle istituzioni dello Stato e dei Governi e valori e strategie del
mercato e dei prodotti di consumo, è assai più complesso. Assai più
potenti, ma anche difficili e contraddittori, sono i meccanismi di identificazione e partecipazione dei media generalisti, in cui a prevalere
non sono state le radici “interiori” del linguaggio radiofonico, ma la
portata “esteriore”, spettacolare dei linguaggi televisivi. Immagini e
non voci. Ce ne ha parlato, tra gli altri, Michele Sorice. E tutto questo
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sue rovine, aveva creato il clima adatto a riproporre non solo gli strumenti ma anche i valori dell’oralità. Un clima di rifondazione.
A parte il fascino di queste memorie e l’apporto storiografico che
esse ci donano, possiamo trovare in questo stesso quadro di considerazioni alcuni utili suggerimenti teorici e operativi, intorno a una
specifica vocazione della radio, quella di emergere in situazioni locali, di disastro, di catastrofe. Dunque, ci è possibile avanzare la tesi
di un legame costante, di una affinità elettiva, tra le parole dette e
non viste della radio e le fratture e ferite del mondo, i momenti tragici, terribili, ma anche cruciali, innovativi, segni evidenti e irreversibili di trasformazioni radicali della vita quotidiana, di mutamenti sociali e istituzionali, di nuove dimensioni locali e nazionali, di nuove
culture emergenti. Se così è, a questa tesi bisognerebbe rifarsi non
solo per il passato ma anche per il presente della radio. Cercare di
capire cosa significhi il fatto che essa abbia vissuto in questi ultimi
anni un “ritorno” d’attenzione particolarmente forte e ancora più
netta, più calda, si sia fatta la sua fortuna sul piano simbolico. E i
simboli, contrariamente a quanto in genere si crede, sono luoghi di
massima operatività, di potenti insorgenze umane, di azioni sociali.
Vuole dire –certo non mancano analisi sociologiche, politiche e culturali per sostenerlo– che in profondità, al di sotto del luccichio tecnologico dei new media, dei loro lampi e delle loro ombre, stiamo di
nuovo vivendo una congiunzione terribile ma produttiva tra parola e
grandi mutamenti della nostra identità collettiva e individuale? Credo che a farci rispondere affermativamente sia il permanente carattere di catastrofe che lo sviluppo del pianeta ha assunto.
Tuttavia dobbiamo frenare l’entusiasmo con cui siamo portati a
valorizzare la radio come l’unico mezzo di comunicazione di massa
da contrapporre ai valori e agli effetti più negativi dell’industria dei
consumi. Infatti, nel vasto panorama temporale e mondiale degli
usi storici e presenti della radio, bisogna includere non solo le sue
punte “eroiche” e le sue dinamiche di “movimento”. L’avvertenza
vale anche per l’Italia, si tratti dello spirito democratico, che –sin
dai primi mesi della Ricostruzione– andava contrapponendosi allo
spirito autoritario del fascismo, si tratti della effervescenza anti-istituzionale di emittenti come “Radio Alice”, postazione avanzata
di insubordinazione mediale durante gli anni Settanta. La radio
non è di per sé dalla parte del Bene. Nel quadro che intendiamo
farcene, bisogna includere anche le “radio di regime”, sapendo
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Quaderno di COMUNICazione
Interventi
perché scritto mettendo a confronto, intrecciando, due dimensioni
espressive: il cinema e la radio. Appunto le immagini e i suoni. Non
solo la parola –comunque così legata alla scrittura o quantomeno ai
valori gerarchici dei testi scritti– ma anche la musica e il rumore,
componenti semantiche della radio che, invece, di solito vengono
trascurate o enfatizzate, in positivo da parte delle culture dei consumi e, in negativo, da parte dei pregiudizi ideologici che dividono la
dimensione dell’intrattenimento dalla dimensione dei contenuti.
Il cinema, alla sua origine, è immagine senza parole, mentre la
specifica natura tecnica della radio è invece quella di essere parola
senza immagine. Le due sfere espressive non si incontrano nel cinema sonoro (immagine filmica arricchita di voci, compimento della riproducibilità tecnica del set). Ma si incontrano nella televisione. Essa
soltanto è l’effettiva unione di radio e cinema, della natura di flusso
della prima e della natura di immagine in movimento del secondo.
La televisione –con tutta la sua autorità di tecnologia estremamente
adatta a risolvere e superare i problemi di efficacia commerciale e
sociale del grande schermo (la sua dimensione di spettacolo pubblico, caratterizzato ancora dalla rigida appartenenza del suo consumo
alla dimensione fisica della sala e del territorio urbano) e della radio
(una forma di rappresentazione, locale e simultanea, del mondo reale, costretta tuttavia a rinunciare alla visibilità, all’emozione collettiva
dello spettacolo)– spazza via l’illusione che al linguaggio radiofonico
e al linguaggio del cinema muto potesse spettare la stessa stabilità e
cristallizzazione dei linguaggi della civiltà premoderna (architettura,
scrittura, pittura, scultura, musica, teatro, danza). La televisione superò brutalmente l’idea che, nella tarda modernità, nelle sue forme
di rappresentazione più forti e egemoni, potesse sussistere una parola senza immagine ed una immagine senza parola. È da quel momento che televisione e radio entrano in una contrapposizione emblematica. Per quanto le relazioni sociali espresse dalla radiofonia
siano state di fatto subordinate a quelle tele-visive, il “vuoto di immagine” su cui si fonda il linguaggio della radio ha sempre continuato a
esercitare una fortissima attrazione. A produrre significati inattesi.
Ma vediamo meglio. Arnheim attribuisce un particolare carico di
valori estetici al cinema muto e alla radio. La sua teoria affonda
dunque sino alle radici delle tradizioni estetiche della modernità.
Attentissimo studioso della pittura, da cui per più aspetti la fotografia non sembrava essersi discostata, tende a trattenere in un quadro
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Interventi
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ha a che vedere con la nuova dimensione che diciamo “glocal”. Parola “magica” questa, ma ricca di senso, efficace e arcana allo stesso
tempo, parola che con compiacimento, riscontro finalmente essere
usata senza pudore e inibizione. Per molti anni è stata una “brutta
parola”. In quanto neologismo, risuonava infatti cacofonica. Ma dietro
alla evidente forzatura espressiva dei neologismi vi è sempre la sostanza più profonda di un mutamento, l’apparire di un qualcosa che
“prima non c’era”. Ora, se si ha il coraggio di pronunciarla, vuole dire
che ci rendiamo conto della nuova qualità di cui vuole dare il senso.
Sentiamo la necessità di dire questo “paradosso”. E la radio appartiene proprio a questo paradosso: l’ormai inestricabile congiuntura
tra strategie della globalizzazione e tattiche del localismo.
Ma procediamo con ordine. Abbiamo ascoltato non solo le varie
chiavi interpretative della dimensione espressiva e sociale della
radio, ma anche le fonti, la letteratura scientifica su cui esse si
fondano. Da questo tipo di interventi sono nati suggerimenti interessanti, di ordine artistico, espressivo o politico-culturale, per
quanto, in certi casi almeno, piuttosto sbilanciati su testi che, magari contrariamente alla loro intenzione originaria (si pensi al filone marxista e a quello francofortese), hanno fatto da impedimento
ideologico ai fini di una oggettiva valutazione dei mezzi di comunicazione (e, quando non si riesce a vedere l’oggetto del discorso, si
perde anche la possibilità di vederne il soggetto).
In effetti, guardando alle origini dell’industria culturale novecentesca, abbiamo a disposizione un gran numero di testi, per non limitarci soltanto al volume di intuizioni fornito da McLuhan (raro che
noi si possa ancora oggi dire qualcosa che vada oltre questo straordinario “veggente”). Certo disponiamo assai più di libri e ricerche
sui linguaggi dell’immagine che su quelli della radio (si scrive assai
più su ciò che domina il mercato di quanto si scriva su ciò che gli resiste o se ne differenzia o lo anima). Anche per me si tratta di indicare un autore chiave, essenziale per la mia formazione, estremamente utile in merito alle cose per cui e su cui ho lavorato in tutti
questi anni, sin da quando il mio primo oggetto di studio è stato il cinema (l’immagine dunque e non la voce). Penso che un autore su
cui riflettere, tornare a riflettere, debba essere Arnheim. Credo, infatti, che egli possa tuttora darci preziose indicazioni su quanto di
problematico va emergendo da questa nostra giornata di studio. A
tal fine, bisogna risalire a un suo contributo molto interessante,
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Quaderno di COMUNICazione
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l’arte classica” e dunque mondanizzazione delle forme) e abbastanza analogo a quello del primo Lukacs. Infatti, in perfetta analogia con Arnheim, Lukacs –proprio ragionando sulla tecnica– aveva
visto nel cinema il rilancio delle estetiche romantiche del bizzarro e
del fantastico, quindi una radicale manipolazione e falsificazione
della realtà fisica. Sul piano dei linguaggi espressivi, qui arriviamo
sin dentro la crisi delle forme artistiche tradizionali del romanzo
(interiorità della voce) e del teatro (esteriorità della voce): rispetto a
queste grandi forme di rappresentazione del mondo, cinema muto
e radio si annunciavano adeguati a incarnare le grandi metamorfosi
interiori più ancora che esteriori della dimensione metropolitana.
Si legga, a questo proposito, il fondamentale saggio di Franco
Moretti sulle “opere mondo”, testi con codici di lettura alfabetica
che, pur essendo al culmine della civiltà letteraria, non reggono più
la polifonia dei territori metropolitani e, “scendendo” su questo piano, perdono terreno –perdono di pregnanza territoriale– rispetto ai
linguaggi audiovisivi (in particolare proprio quella scrittura di flusso,
quell’interiorità appunto radiofonica, che spiega, ad esempio, la
struttura testuale di un James Joyce). Opere che perdono di efficacia rispetto alla vocazione mondana dei media che avevano sviluppato l’esperienza metropolitana. Ma –si risalga alle analisi di Simmel sulla moda e alle elaborazioni individualiste e altoborghesi di
Broch sul fenomeno del kitsch (in cui erano compresi anche radio e
cinema)– si trattava di una mondanità che vive tuttavia il senso di
morte di una intera civiltà e l’attesa collettiva di una radicale trasmutazione dei valori. Le nuove tecnologie dello schermo e della radio risultavano dunque adatte a comunicare –mettere in comune–
l’esperienza vissuta assai più che le istituzioni del sapere e il quadro
millenario delle arti. È per questa via che, attingendo alla impostazione estetica del discorso di Arnheim sulla radio, tocchiamo la sostanza originaria del suo conflitto con la televisione (che tuttavia
proprio dalla radio è scaturita in quanto linguaggio “di flusso”).
Infatti Arnheim, ebbe modo di affrontare il senso delle sperimentazioni televisive già in atto negli anni Trenta, dunque in concomitanza
con l’applicazione cinematografica della colonna sonora (a sua volta
derivata dalla lunga storia della riproducibilità tecnica del suono e dal
ruolo che il fonografo aveva avuto nella strategie di consumo familiare
della musica e della parola, un settore fondamentale per tutto lo sviluppo dell’industria culturale di massa e per le relazioni di reciprocità
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interpretativo di natura artistica anche i linguaggi del primo novecento. Infatti, Arnheim sosteneva che la radio rientrava nel dominio
dell’arte, perché costretta a rappresentare il mondo creando immagini attraverso una materia invisibile o se volete uno spettatore cieco. Al contempo sosteneva che il cinema delle origini (cioè quello
senza colonna sonora) rientrava nel dominio dell’arte, perché costretto a rappresentare il mondo creando parole, senso, attraverso
una materia muta o se volete uno spettatore sordo. Radio e cinema
hanno dunque la specificità di una tecnica che non può riprodurre la
realtà così come essa è, ma solo rielaborarla, “fingerla”, tradurla in
altro (appunto come la pittura o la scultura o la musica).
Alcune premesse delle migliori teorie ma anche delle cadute ideologiche presenti nella letteratura sulla radio sono in relazione
alle varie modalità storiche e culturali con cui questa differenza tra
arte e realtà è stata via via elaborata da tradizioni che vanno dalle
prime regole neoaristoteliche sul verosimile alla nascita settecentesca del romanzo borghese (individuo versus storia e autorità), alle estetiche del primo romanticismo (spirito versus mondo; soggetto versus oggetto), del genere fantastico (immateriale versus materiale) e delle grandi narrazioni popolari di massa (soggetti collettivi
versus i rapporti sociali dei vecchi regimi), sino, da un lato, alle teorie del realismo borghese e poi marxista (linguaggi del rispecchiamento e disvelamento economico-politico della realtà) e dall’altro
lato alle avanguardie storiche (reale versus realtà, l’invisibile versus il visibile) e, per più aspetti, alle “teorie critiche” sulle forme di
rappresentazione della società capitalista (mondo autentico versus
mondo inautentico, cultura versus civilizzazione).
Seppure con qualche forzatura, fra tante tradizioni potremmo
individuare due aree culturali (e di ceto, sociali) che le attraversano: chi si orienta verso estetiche impegnate a esprimere la dimensione delle arti come modi di produzione e riproduzione della realtà
e chi, invece, si orienta verso la loro radicale alterità rispetto al
mondo reale. Questi ultimi a loro volta si dividono tra quanti interpretano tale alterità sul piano dei contenuti sociali (vi possiamo includere anche molte teorie e pratiche dell’informazione) e quanti,
al contrario, la interpretano sul piano delle forme espressive. Per
gli uni vale la comprensione di un testo, per gli altri la percezione.
Arnheim si colloca sul versante della percezione, ma anche su
un asse estetologico fortemente influenzato da Hegel (“morte del-
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Del resto, tornando a riflettere sui passaggi che hanno storicamente caratterizzato il rapporto tra radio e tradizione (cultura, impegno intellettuale e artistico, missione divulgativa), potremmo trattare, con strumentazioni più ricche e articolate, questioni che costituiscono gli elementi di crisi e insieme di sviluppo anche della radio di
oggi. Mi riferisco, ad esempio, al dibattito tra chi vorrebbe una radio
con più testi verbali e chi, invece, la vorrebbe interamente affidata a
testi e performance musicali. Un dibattito che non a caso passa anche tra vecchie generazioni (alfabetizzate, dedite a prodotti culturali
e di informazione) e nuove generazioni (immerse nella sfera audiovisiva, sempre più acustica, fluida e emotiva dei consumi). Dunque: più
parole o più suoni. Lo schematismo che emerge da queste contrapposte posizioni mette in luce soltanto la prevalente caduta di attenzione per la sperimentazione da parte di chi pensa e governa la qualità e progettualità degli apparati di produzione radiofonica (soprattutto quelli di grande dimensione –penso quindi alla RAI– in cui le risorse da destinare ad attività sperimentali dovrebbero essere assai
alte, mentre invece radio di dimensioni più ridotte, magari proprio a
causa degli scarsi mezzi di cui dispongono, tentano e a volte riescono
a conseguire qualche innovazione di processo e di prodotto).
Il conflitto tra contenuti e forme (che di questo si tratta) è la risorsa di base per la sperimentazione di nuovi linguaggi. Ma non
può certamente essere praticato ricorrendo a paradigmi oppositivi
(che sono causa, in tutta la loro staticità e ripetitività, di esiti negativi anche sullo stesso piano del profitto, della resa economica). Se
la differenza e la distanza tra tradizioni della parola e tradizioni
della musica vengono affrontate soltanto sul piano ideologico o su
quello del mero interesse di mercato (abbandonate quindi a una
altrettanto rigida segmentazione delle fasce di pubblico in target
tra loro incomunicabili), cade ogni possibilità di passare dalla tendenziale chiusura espressiva, tipica dei paradigmi culturali di natura oppositiva, alla maggiore apertura semantica che invece le
strategie di contaminazione e ibridazione, tipiche delle culture post-moderne, sono assai più in grado di garantire. Si tratta, allora,
di trasformare in musica i bisogni sociali che stanno minando le
strutture lessicali e sintattiche della parola e di trasformare in parola i bisogni sociali che stanno sempre più caricando di senso identitario e narrativo le strutture spazio-temporali della musica,
dei suoni e dei rumori. Credo che ricerca, sperimentazione e for-
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che essa ha determinato tra sfera pubblica e sfera privata, domestica). A giudizio di Arnheim, il linguaggio audiovisivo fuoriusciva dall’orizzonte delle arti perché la sua tecnica consentiva una immediata capacità di riproduzione della realtà. Tecniche della rappresentazione e
mondo finivano per coincidere. La specificità della televisione sarebbe
stata dunque quella di intervenire sulla società, ma non quella di lavorare sulle forme della sua trasfigurazione simbolica. Seppure segnata da una riserva estetica, appare qui la consapevolezza che le forme di comunicazione stavano mutando di statuto. Un passaggio che
avrebbe dovuto imporre agli studi sui media una particolare attenzione a valutare le ricadute di questo processo tanto sulla sfera artistica
(il restringersi della sua significatività sociale) quanto sulla comunicazione sociale (la sua progressiva estetizzazione).
Ma la questione, come cercherò di chiarire più avanti, è assai
più complessa. I grandi mutamenti della comunicazione non sono
mai una semplice trasformazione delle forme espressive, il solo
avvento di nuove tecnologie, ma anche e soprattutto la presa d’atto
di contenuti “diversi” e dunque dei bisogni identitari di soggetti
che emergono dal buio e dal silenzio in cui i sistemi sociali li hanno confinati e trattenuti proprio grazie alla qualità delle piattaforme comunicative di cui hanno saputo e voluto disporre. Proprio su
questo versante credo che si debba cercare di ripensare la radio.
Ma, prima, vorrei riprendere qualche altro spunto tematico da
utilizzare per il mio ragionamento. Proprio tenendo presente il
quadro teorico in cui, alla sua origine, la radio è stata inserita, ho
trovato molto interessanti i contributi che qui hanno sviluppato in
particolare un punto di vista storico-linguistico e storico-letterario.
Anzi, mi auguro che su questo piano si possa ritornare in futuro,
rileggendo criticamente i momenti in cui la radio ha pesato sulle
trasformazioni della lingua italiana (di volta in volta variando e miscelando la proprio vocazione generalista, mirata a creare una
coinè nazionale, e la propria vocazione localista, mirata invece a
creare il recupero o il rilancio di tradizioni dialettali e ancor più
una loro reinvenzione). In particolare i momenti in cui ha fatto emergere il proprio nesso costitutivo con la scrittura e con la lettura a viva voce (attingendo ai giornalisti della carta stampata e ai
letterati che, nella radio emittente pubblica, si concentrarono –per
autentica convinzione o per opportunità– nel ruolo di scrittori di
testi radiofonici e di ideatori di programmi culturali).
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sue frasi melodiche, dei suoi effetti di partitura, delle sue capacità
multisensoriali).
Ma in questo percorso sinestetico, a costituire un momento in
tutto centrale perché vero e proprio scatto generativo, sono state le
avanguardie storiche (si pensi alle eccitazioni sensoriali dell’espressionismo, del dadaismo e del surrealismo; alle sonorità ritmiche dell’astrattismo) e poi la sperimentazione delle neoavanguardie (si pensi alle performance scaturite dai nuovi materiali espressivi messi in opera da Cage creando eventi senza più confine tra
un’arte e l’altra, tra una forma di comunicazione e l’altra; si pensi
alle regie dei gruppi teatrali “romani”, in cui il ruolo della parola evaporava a vantaggio della musica, che finiva così per sostituirsi
persino alla testualità verbale, sino ad allora obbligata, del repertorio classico). Infine, tornando allo specifico linguaggio di cui stiamo
parlando, mi pare che qui sia stato ricordato anche Walter Benjamin, il suo fondamentale suggerimento di dare luogo a una specifica drammaturgia radiofonica (un genere –ricordiamo anche Bertold Brecht– in cui avanguardia e realismo si incontrano).
È proprio sul versante di tutte queste capacità sperimentali che
la radio ha dimostrato assai bene la propria capacità di iniziativa e
elaborazione. Come mezzo in sé e come invenzione di programmi,
formati in grado di lanciare prototipi per il futuro (si pensi anche
soltanto alla fortuna televisiva che avrà la “soap opera”, genere di
fiction seriale inventato dalla radio; in Italia si pensi all’apprendistato radiofonico di un Alberto Sordi e di molti altri attori che saranno la marca di qualità del cinema italiano, ma si pensi anche alle invenzioni “demenziali” di Boncompagni e Arbore, che proprio usando il linguaggio radiofonico per fare ironia sulle culture della
TV, per dissacrarle, hanno dato luogo a prodotti neotelevisivi altamente innovativi, a mio giudizio vertici sino ad oggi insuperati nel
campo dei programmi d’intrattenimento). A suo tempo, dunque, la
ricerca radiofonica è stata spesso assai più vivace di quella televisiva (escludendo da questo confronto ciò che i programmisti televisivi
sono andati creando sul piano dei prodotti di consumo massivo).
Per quanto riguarda la sperimentazione italiana, si ha la possibilità di verificare alcune punte di investimento culturale che la radio
della RAI ha saputo raggiungere e che ora, come s’è già detto, ha
abbandonato, venendo meno al suo ruolo pilota. Proprio quando se
ne avrebbe più bisogno. Il caso da ricordare –ancora oggi in grado di
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Interventi
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mazione –se mai verranno riattivate– dovrebbero muoversi proprio
in questa direzione.
Si pensi, in tal senso, a ciò che sta accadendo nel cinema ad alto livello spettacolare, il cinema degli effetti speciali, del sublime
tecnologico: forti traumi percettivi, realizzabili solo attraverso la
costruzione di dimensioni del visibile sempre più notturne e di ambienti acustici sempre più in primo piano, “punti di immersione” in
cui gettare lo spettatore. Fu il primo romanticismo a porsi l’obiettivo di dare alla parola le stesse proprietà formali della musica, la
stessa libertà assoluta dal significato, dal contenuto apparente
della vita civile, ovvero dalle norme della razionalità sociale, delle
sue grammatiche e sintassi, delle sue figure e narrazioni.
Fu dunque l’ambito della poesia e della letteratura fantastica a
innestare processi innovativi che hanno avuto a che vedere tanto
con le punte autoriali più alte della cultura d’élite, quanto con la
progressiva crescita della società dello spettacolo (sino a consegnare a quest’ultima un ruolo egemone nelle strategie di metabolizzazione simbolica della realtà). È ancora tutta da fare la lunga
storia ottocentesca e novecentesca dei modi in cui i “sensi” del
soggetto fruitore sono stati progressivamente strappati a condizioni testuali rigidamente fondate su una precisa gerarchia tra funzioni semantiche affidate alla vista o all’udito o al tatto. Potremmo
dire che proprio il dispositivo poietico della sinestesia (uso il termine in senso lato) è stato direttamente alla base delle modalità
espressive (e di sviluppo) dell’industria culturale.
Sino ad arrivare ai casi a noi più vicini. Ne elenco alcuni. Per
primo, ovviamente, il ruolo che parola (anzi, scrittura) e musica
stanno svolgendo nella grafica digitale, in particolare laddove esse
fanno da sigla o da segnaletica a fini di guida e rafforzamento dell’immagine iconica (in larga analogia con la fortuna che i formati
“corti” hanno avuto nel processo di frantumazione delle grandi
narrazioni e dei palinsesti dell’audiovisivo). Altrettanto significativa
la “radiofonizzazione” della TV, ridefinizione in chiave acustica
tanto della testualità televisiva (trasmissioni a prevalenza verbale)
quanto delle condizioni del suo consumo situato (ascolto distratto,
dislocato rispetto all’immagine). Significativa anche l’ambientazione video delle clip musicali (verifica non tanto della potenza delle
immagini quanto piuttosto della loro totale immersione nella sensibilità mnemonica e evocativa della musica, dei suoi ritmi, delle
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Una domanda da rimandare alle conclusioni. È invece il momento di riflettere sul termine medium, che, nel suo uso al neutro
plurale, media, dice qualsiasi forma di comunicazione ad alto livello tecnologico. Ad un certo punto delle strategie di mondializzazione del tempo e dello spazio, questa parola latina, ha perduto il
proprio semplice e generalissimo significato di mezzo, per stravolgersi nell’interpretazione “americana” che la contemporaneità televisiva le ha imposto, facendola diventare la più forte “parola simbolo” della tarda modernità. Persino più forte di metropoli. Forse
più forte di politica o guerra o sovranità. O di società. O di tecnologia. Avendo assorbito in sé l’anima di ognuno di questi domini,
sembra avere a che fare direttamente con la vita e morte, ammantarsi del loro mistero.
Medium: tutto ciò che sta nel mezzo delle cose del mondo. Tutto
ciò che, appunto, le media, le mette in relazione, in comune. Le fa
comunicare. Parola di accesso diretto all’universo metaforico e reale delle più tipiche forme d’esperienza del Novecento, di questo nostro “ultimo” secolo di storia. Parola che –pronunciata in lingua
straniera– risuona come eclatante ibridazione tra Antico e Moderno. Trionfo del presente sul passato. Dell’inautentico sull’autentico.
Una parola che indica il punto di sintesi immateriale di tutti i processi di artificializzazione. Una parola che assorbe in sé tutti i significati delle più tipiche forme espressive delle società altamente
industrializzate e massificate. Rivelazione (apocalisse) di forme egemoni su ogni altra “arte” della rappresentazione. Nella loro forte
commistione tra vita ordinaria e strategie del potere, i media hanno
pienamente rivelato la loro sostanza più autentica: emanazioni dei
nostri corpi, protesi fisiche, mentali e percettive dei nostri sensi.
Dunque –dal più umile attrezzo primordiale ai più sofisticati dispositivi del computer– il medium è sì un utensile, un’arma e un ornamento, ma è parte di noi e dell’altro da noi. Il medium è lo spazio
sensibile in cui si producono e consumano identità e conflitti.
L’uso di questo termine resta tuttavia vincolato all’idea istintiva
(ma spesso teorizzata anche nella vecchia letteratura scientifica
sulla “specificità” dei vari linguaggi e di conseguenza sulle gerarchie tra loro socialmente negoziate) secondo la quale, nella struttura di un singolo medium, i sensi impegnati nell’essere consumati costituirebbero una sorta di “barriera” rispetto ai linguaggi
fondati su altre strutture sensoriali. Così, il medium della stampa
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fornire indicazioni molto utili, perché in largo anticipo sul contesto
dei consumi– è Radiobox. Con chi ha partecipato al lavoro compiuto
da Pinotto Fava nell’ideare e realizzare i prodotti destinati a questo
contenitore (assai noto, seppure in una cerchia relativamente ristretta di iniziati e di amatori), sarebbe stato difficile ragionare sull’opposizione tra parola e musica come ci costringono a fare oggi.
L’esperienza di Radiobox si inserisce nella storia dei rapporti tra
lavoro intellettuale e apparati radiofonici. In questo convegno vi abbiamo fatto riferimento. In questa storia possiamo distinguere alcuni momenti significativi. Nello spazio radiofonico della RAI abbiamo avuto una prima fase di strutturazione istituzionale, quando,
dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, alcuni scrittori (penso a
autori come Pratolini, che la utilizza in chiave neorealista, ma l’elenco da fare sarebbe lunghissimo) e letterati di qualità (a parte
Gadda, penso a Giulio Cattaneo) potevano contare su una dimensione dei mass media italiani (e dei loro pubblici) ancora fortemente
innervata nelle tradizioni della cultura e della scuola. Successivamente, proprio con una trasmissione come Audiobox, lo slancio istituzionale è venuto meno a fronte della crescente complessità sociale e, passando alla sperimentazione, si è avuto l’ingresso (in
qualità di collaboratori) di giovani creativi (penso in particolare a
Gabriele Frasca), parimenti versatili nel campo della parola poetica
e drammaturgica, della musica e dell’immagine. In grado cioè di
percepire le maggiori novità espressive non più in base a una vocazione educativa ma in rapporto a culture emergenti dai processi di
innovazione tecnologica e caratterizzati da una oggettiva sperimentazione linguistica. Questa ha avuto alle sue spalle una fase di innesto tra apparato radiofonico e culture delle neoavanguardie e si
pensi, sul piano della scrittura, all’esempio già offerto dal Gruppo
63, da intellettuali e scrittori, come Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e Angelo Guglielmi (divenuto a lungo non poco influente in
RAI). Eppure, in una fase di mutamenti clamorosi come quelli
“messi in forma” dai new media, la progettazione di un linguaggio
radiofonico adeguato allo spirito del tempo sembra invece rifiutare
questi antecedenti (e i tanti altri che ho tralasciato). Sembra essere
assente. Perché? Forse perché queste tradizioni appartengono ad
un rapporto tra apparato di produzione e sperimentazione che oggi
non può più rinascere negli stessi termini. A chi e in nome di chi
dovrebbe essere affidata l’innovazione di prodotto?
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re il piacere dalla conoscenza, il desiderio dalla sovranità sociale.
La singola persona dall’identità collettiva in cui viene astratta.
Su questa forma moderna di divisione del lavoro umano impegnato nei fenomeni espressivi del consumo culturale fa dunque
perno la possibilità di una ricomposizione dei singoli mezzi di comunicazione in una sola dimensione antropologica. Questa ricomposizione dipende da un’idea guida apparentemente opposta alla
precedente e invece altrettanto tipicamente moderna, proprio perché rovesciamento ideologico e metafisico della dimensione immanente dei rapporti di potere. Infatti, questo genere di ricomposizione identitaria viene affidata alla astrazione di un soggetto universale, non più fatto di sensi ma di spirito, non più corpo ma sapere, non più individuo ma società. Soggetto dotato di una identità
che è la storia del mondo, il suo “dovere essere” in quanto memoria e destino dell’Occidente. Così, ciò che la tecnica divide, lo spirito ricompone.
Queste idee, rivelano a mio avviso elementi di una realtà che,
nelle condizioni dei nostri sistemi di potere, possiamo definire oggettiva e insieme falsificata. Soprattutto aberrante, quando ci induce a credere in percorsi autonomi e paralleli tra le diverse arti, tra i
diversi linguaggi. È la tesi di quanti, pur ammettendo relazioni trasversali, prestiti, influenze, contaminazioni, calchi e analogie tra un
linguaggio e l’altro, sostengono che la nascita del cinema e la nascita della radio hanno lasciato inalterato lo statuto delle precedenti arti e che anche la televisione generalista si salverà dai new
media, continuerà a marciare accanto a loro, resterà al mondo come la scultura o la pittura. Soprattutto indicativa, quando la realtà
che stiamo enunciando ci aiuta a capire che determinate forme espressive soddisfano sensorialità legittimate da regimi di potere ad
esse speculari. Attraverso specifiche modalità di consumo dei testi,
tali regimi filtrano e controllano i rapporti sociali che vi sono inscritti, privilegiando determinate soggettività rispetto ad altre.
Ad esempio: solo alcuni ceti si esprimono attraverso la scrittura
alfabetica (e da essa sono espressi). Solo alcune fasce di pubblico
apprezzano la trivialità o la pornografia, le sentono ricche di senso,
desiderano abitarle. Solo i corpi delle nuove generazioni hanno familiarità con i linguaggi del computer. Solo a soggetti socialmente
forti sono destinate gran parte delle strutture semantiche della
modernità. La sensibilità femminile è respinta dalla scrittura ma-
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viene concepito, studiato, interpretato, criticato sempre all’interno della sua dimensione alfabetica. La sfera letteraria all’interno
della sua stessa tradizione letteraria. Così pure per il cinema o la
radio o la televisione. Si tende a dividere e ridurre il corpo in segmenti: la parte del lettore, quella dell’ascoltatore o quella dello
spettatore. Si tende a trattenere questo corpo inibito e diviso all’interno dei rispettivi campi semantici (manovra di controllo, analoga a quelle strategie di sorveglianza che hanno sempre temuto
la stretta vicinanza dei corpi, le condensazioni della folla, le contaminazioni tra spirito e carne, in quanto motivo di eccessi fisici e
mentali, di alterazioni percettive, di deliri, desideri e azioni socialmente pericolose). L’identità corporea viene così inchiodata ai testi della comunicazione sociale sempre soltanto per una parte.
L’intero non le appartiene. Il corpo non possiede la sua espressività, se non sul fronte più aspro e irriducibile, instabile e discontinuo, tattico e quotidiano, della vita ordinaria: nel trivio, al di là
delle mura, dove non v’è la sicurezza di strutture definite, di testi
ospitali, di territori ben ordinati. All’identità psicosomatica non è
data la possibilità testuale, comunicativa, di prodursi e ricomporsi
in una unità. Essa è Frankenstein: desiderio a cui è stato concesso l’uso di pezzi di corpo divisi e dunque morti (così come, nella
fabbrica, accade al lavoro operaio e intellettuale, privato dei propri mezzi di produzione, della conoscenza dell’intero processo
produttivo e della proprietà del prodotto).
La possibilità di riconoscersi e essere riconosciuta come persona sensibile al mondo le è data altrove, lontano dal corpo: nell’astrazione metafisica del soggetto moderno, nella sua intelligenza
generale. Invece di rovesciare l’ordine del discorso, rimettendo al
suo centro la pienezza sensoriale della dimensione corporea, si
procede in direzione opposta: ciascun dominio dei sensi è proiettato –in tutta la sua specificità tecnica e in tutta la sua parzialità– su
una speculare mappatura di forme di consumo: libri, radio, cinema,
televisione. Qui, le condizioni sensoriali prestabilite dai singoli modi
di produzione testuale (le parole della scrittura, le immagini del cinema, i suoni della radio, ecc.) vengono fatti contare assai più che
l’identità sensoriale del soggetto della fruizione. In tal modo si arriva a teorizzare e praticare una brutale separazione tra le esperienze comunicative localizzate in ciascun medium e la dimensione cognitiva dei soggetti di queste stesse esperienze. Si arriva a separa-
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corpo, si fa esperienza. Sono le piattaforme espressive che possiamo riconoscere solo dopo averle liberate, strappate alla loro falsificazione ideologica, alla loro necessità di dividere e imperare, alle
loro pretese e coperture universaliste. Se ci muoviamo in questa
prospettiva, allora dobbiamo sapere riconoscere che, dietro alle ideologie e politiche della modernità (dalla stampa alla televisione
generalista e dunque, al suo giusto posto di primo linguaggio di
flusso, anche la radio) ogni innovazione tecnologica delle forme di
comunicazione ha avuto come suo soggetto emergente, suo volano
e motore, una sensibilità corporea nuova, prima non contemplata
dal “panopticon” dei dispositivi di controllo e mediazione sociale.
Se così è, l’analisi dei linguaggi radiofonici dovrebbe concentrarsi
sui suoi punti di rottura, sui momenti in cui ha più mostrato e mostra di sentire il proprio limite a fronte di sensibilità che la “invadono” (si torna qui al problema della sperimentazione).
Ecco, proprio a questo punto del nostro ragionamento, dovremmo collocare la questione che oggi viene messa sempre più in rilievo e cioè il rapporto tra radio e new media. Un tema che viene
giustamente trattato sia nei termini di affinità tra le due loro rispettive culture (in comune hanno personalizzazione, localismo,
comunitarismo, oralità), sia di opposizione (la solidarietà pubblica
e sociale della tradizione radiofonica per molti ancora si contrappone alla dispersione tribale delle reti), sia –naturalmente e credo
inevitabilmente– di conversione digitale della radiofonia (esaltazione della sua già pienamente acquisita dimensione di mezzo
mobile e miniaturizzato attraverso la potenza connettiva, l’interattività e l’ubiquità spaziotemporale dell’ICT).
Ma veniamo alle uniche conclusioni di cui sono capace e che forse sono in grado di dare in una giornata così ricca di spunti in ogni
direzione. Purtroppo non sono così paziente da essere uno storico
né così preparato da essere un linguista. Sono un mediologo. Per
questo fare una relazione sulla radio mi sembra così difficile. A me
impone di pensare al presente e al futuro. Su questo piano non si
può che essere molto incerti, limitati, approssimativi. A maggior
ragione ringrazio l’amico Angelo Semeraro di avermi invitato. È comunque una conferma della sensibilità con cui ha sempre mostrato di trattare le implicazioni comunicative di ogni istanza educativa
e formativa. Spero di non deludere questa sua attenzione.
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schile. L’infanzia e la senescenza sono in ostaggio. Una infinità di
soggetti non hanno altra forma di espressione che il loro disagio o
il loro dolore. Per molti ceti chi è privo di tradizione culturale e di
capacità comunicative ad essa commisurate risulta un barbaro. E,
al barbaro, le forme espressive della civilizzazione risultano senza
senso e un sopruso sulla loro sensibilità. E così via.
Dunque –se questa può essere, come io credo, una tesi convincente– i media, per più di un secolo della loro storia, sono andati
rinnovandosi, arricchendosi e diversificandosi secondo progressive
e distinte opzioni formali, sempre risultato di negoziazioni “politiche” strategicamente operate proprio in relazione alla dimensione
percettiva che la qualità tecnica del medium mostrava di riuscire a
soddisfare. Ne possiamo ricavare due modi di intendere i media:
uno ideologico, l’altro politico. L’uno spiega l’altro. La povertà dei
conflitti che si manifestano dentro le attuali culture dell’Impero si
spiega nella caduta di ogni reciproca differenza e distanza tra ideologia e politica, nell’uniformità dei loro rispettivi linguaggi. Al
primo modo di intendere i media, quello più ideologico –l’ideologia
di un loro unico soggetto storico, di un’unica filosofia del mondo–
possiamo rispondere con la rilettura politica del loro sviluppo lungo tutto l’arco dei processi di modernizzazione, mirando a dimostrare quanto invece cinema, radio e televisione siano nati da processi di destrutturazione dovuti ai mutamenti sociali. Dall’emergere di nuove soggettività. A tal punto da imporre alle pretese d’universalità dei soggetti espressivamente egemoni una continua ridefinizione sociale delle loro piattaforme comunicative. Vale a dire
che, al culmine dell’Ottocento (ma già a partire dalla sua prima
metà, si pensi a Edgar Allan Poe), la struttura semantica dei testi
scritti e letti, è stata messa in crisi al suo stesso interno dalla forza emergente di appartenenze antropologiche esterne alla sua
storia, sino ad allora aliene. Così da avere progressivamente indebolito, se non disgregato, il tradizionale sistema di potere, pretendendo di dare luogo –dare spazio– a nuovi bisogni espressivi e
dunque nuove soggettività: quelle già emerse dal grande laboratorio dei linguaggi territoriali della metropoli. Processi di destrutturazione che tuttavia sono stati la materia conflittuale di cui la modernità si è nutrita per potere sopravvivere.
Il secondo modo di intendere i media è prevalentemente politico. Essi sono appunto le spaziature in cui il potere si localizza, si fa
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zione del consumatore tanto da “illuderlo” in una esperienza priva
di ogni legame con la realtà (ma non per questo meno “reale”). I
linguaggi digitali hanno la possibilità di lavorare direttamente sulla percezione e di raggiungere un grado finzionale mai prima raggiungibile sul piano tecnico.
Su questo piano, la radio appartiene al tipo di virtualità concesso ai media tradizionali (dal libro al televisore). Eppure, se in essa
individuiamo una particolare attinenza alla dimensione interiore
del corpo, a uno spazio sensoriale fortemente immateriale e a capacità poietiche tanto più elevate quanto più libere dai condizionamenti della visibilità esterna (della scrittura e soprattutto dell’immagine), allora vi possiamo individuare una delle matrici “iconoclaste” del virtuale, la sua più viva componente etica.
Veniamo al senso della parola territorio. In un certo tipo di letteratura il termine territorio si contrappone a mappa. Vale a dire
che esprime un luogo non in modo oggettivo (esso esiste di per sé,
ha una realtà in sé, ha un senso di per sé) ma in modo soggettivo
(esso esiste nelle forme di chi lo abita, è la forma stessa dell’abitare, è vita vissuta, esperienza). Pierre Lévy, tra i più attenti teorici
del virtuale, volendo descrivere le dinamiche diacroniche e sincroniche delle società umane, ha fornito uno schema assai interessante: terra, libro, merce, intelligenza collettiva. La sequenza indica la simultaneità di quattro dimensioni territoriali, ma anche il
progressivo loro slittamento da contesti comunicativi pesanti a
contesti comunicativi sempre più leggeri, rarefatti, fluidi, ad alto
potere connettivo. La radio ha rappresentato uno snodo fondamentale per i processi di smaterializzazione. Come la fotografia.
Per questo l’una e l’altra si offrono oggi alla svolta digitale assai
più nella qualità di territorio che di tecnologia.
Per essere più chiaro sulla qualità dei transiti tecnologici in cui
penso sia corretto e utile inserire storia, presente e futuro della
radio, debbo fare riferimento alla svista teorica con cui a mio avviso la sociologia non ha saputo riconoscere nei media un netto salto di qualità delle relazioni sociali. Credo allora che la attuale attenzione per il linguaggio radiofonico possa essere sottratta alla
sua componente sociologica in quanto esso manifesta una dimensione territoriale dell’esperienza vissuta molto adatta a soddisfare
l’emergere di soggettività che la tradizione identitaria del moderno
ha sino ad ora mortificato. Una radio dunque che non si approssi-
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La domanda che mi pongo ogni qual volta sento parlare di radio
o sono chiamato a parlarne riguarda il rapporto che essa può stabilire con gli altri media. Mi sono già soffermato su questa domanda: perché diamo un carico di senso così forte e esclusivo alla radio? È corretto teorizzare questo suo primato (di volta in volta dato
per storico, estetico, ideologico, sociale, morale, politico)? Dovrei
qui riprendere gli interventi di molti altri oltre a quello di Stefano
Cristante. Dovrei intrattenermi sul quadro problematico suggerito
dalle tracce di ricerca di Alberto Sobrero. Tenterò invece di insistere su alcuni concetti chiave: interattività, virtualità, territorio. In ultimo cercherò di avvicinare questi concetti alla particolare qualità
tecnica della radio.
L’interattività è la dote che i new media rivendicano con più forza: non più linguaggi unidirezionali tra centro e periferia, vertice e
base, dunque non più media monoculturali, vincolati ai valori della
produzione e al controllo dei consumi. La rigidità dei mass media
su questo piano è sicuramente un dato di fatto, fondato sull’organizzazione stessa dei loro apparati e sulle condizioni di fruizione
dei loro testi. Anche se questo non deve portarci a credere o far
credere che, seppure condizionate, deboli e assai tarde, non vi siano state e non vi siano tuttora modalità di comunicazione nella direzione opposta, cioè dal pubblico verso le stazioni emittenti. Anzi,
proprio da queste forme di interattività latente, sommersa, ma costantemente all’opera nell’espressività degli orientamenti di mercato, le tecnologie dell’industria culturale hanno oggi ricavato l’energia per innovarsi, per dare luogo ai new media.
Per quanto riguarda la radio, indubbiamente siamo di fronte a
un mezzo che ha una storia tutta particolare (per alcuni aspetti assai vicina alla recente storia dei new media): nasce infatti interattiva, dunque con la qualità tecnica di un personal media. Ma ben
presto diventa un mezzo unidirezionale (esito radicale di quelle
spinte economico-politiche che anche oggi, nonostante siano venuti meno molti punti di forza della società di massa, premono per
un uso monoculturale e unidirezionale esteso anche alle reti telematiche e ai linguaggi digitali).
La virtualità è un mito che le nuove tecnologie digitali hanno ridefinito e rilanciato su grande scala. La virtualità è per certi aspetti la dimensione proiettiva, immersiva e fantastica di qualsiasi
fiction, cioè di qualsiasi piattaforma espressiva che esalti la perce-
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Abbiamo accumulato una serie di considerazioni. Ora possiamo
tornare a ragionare sulla qualità tecnica della radio. Ma questa
volta –per il motivo che ho appena indicato (il consumatore che si
fa produttore)– dobbiamo riflettere sulla qualità tecnica di chi parla e non di chi ascolta. Per fare questo, debbo partire dalla mia esperienza diretta. Del resto stiamo ragionando su protesi, estensioni corporee, e dunque è in gioco anche il corpo di chi, in questa
sede, vi sta di fronte. Il mio corpo.
Quando vengo invitato a concedere una intervista televisiva, mi
accade di riuscirci con qualche spigliatezza. Mi vedo parlare e so di
parlare a chi mi vede. Lavoro sui gesti e sul mio apparire, sapendo
di usare una piattaforma espressiva che ha a che spartire con le
consuete finzioni pubbliche, con cerimoniali ben riconoscibili. La
presenza in scena del mio corpo finisce per compensare ogni errore o silenzio della voce, ogni caduta del senso. Quando invece mi
accade di essere invitato a parlare attraverso un microfono radiofonico, le sensazioni che provo sono tanto più affascinanti quanto più smarrite. Persino traumatiche. Il mio corpo e non solo i miei
occhi sono ora immersi nel buio. Le parole da trovare non possono
più essere il riflesso di chi ascolta, l’esteriorità che mi guarda e in
cui io mi guardo, ma debbo cercarle nella mia interiorità. Dentro.
In un luogo di cui non conosco i confini e che tuttavia devo sentire
“ripieno”, se non voglio precipitare nel nulla e far sentire il mio
nulla a chi mi sta scavando dentro per ascoltarmi.
La postura del mio corpo nel parlare all’obbiettivo della telecamera tiene conto di una messa in scena, di una prospettiva, di uno
spettatore di cui lo schermo decide comunque la situazione con larghi margini di prevedibilità. In quel momento sfrutto la pregnanza
storica e sociologica del visibile, le geometrie euclidee delle imma-
Quaderno di COMUNICazione
gini e del loro consumo. Mi rassicuro della distanza tra me e l’altro
che il mezzo mi offre. Invece, la postura del mio corpo nel buio della
parola radiofonica non può godere di alcuna bussola, di alcun orientamento. Sono fuori da ogni spazio euclideo. Nessuna mappa possibile. Sono immerso in una terra che so essere senza sfondo e che,
attraverso la mia parola, devo trasformare in territorio. Non sono
differenze da poco. Da un lato, quello televisivo, l’interiorità del dire
può trovare il confortevole ambiente in cui apparire. Dall’altro lato,
quello radiofonico, l’esteriorità del dire va in rovina. E la rovina, come sappiamo, non offre soluzioni estetiche, ma etiche. Impone domande. Richiede una scelta. Attende decisioni da prendere su quale
soggettività dare alla propria voce (mai come in situazioni di questo
genere, ci si accorge di quanto persino la nostra voce sia una “macchina” necessaria a dare identità a qualcosa d’altro, un mezzo
senz’anima, privo di contenuto).
Il linguaggio radiofonico, vissuto dall’interno, vissuto come dimensione produttiva del consumo, è dunque un linguaggio radicalmente interiore. Soggettività assoluta. Nella necessità di vincere
tutto ciò che nel mondo, prendendo forma materiale e visibile, le resiste. È questo un dato che può confortare la tesi di una radio tanto
dolce e discreta quanto aspra, urlata, esibizionista sarebbe la TV?
Tanto colta, civile e democratica quanto l’immagine televisiva sarebbe incolta, incivile e autoritaria? Non credo. Anzi, con la radio, siamo
nella materia arcana che fa da puntello al sacro prima che la sua
violenza simbolica si faccia religione e società. E dunque essa può
donarsi come microfono di qualsiasi identità. Anche della più terribile. Anche del più atroce fondamentalismo. Del più spietato dei comandamenti. Il fatto che essa possa ora proporsi come linguaggio di
una società aperta e pluralista, come vocazione neocomunitaria o estrema localizzazione di bisogni personali, non dipende da se stessa
in quanto tecnologia ma dalle emergenze culturali che potrebbero
rinegoziarne il significato in chiave post-moderna o anti-moderna. E
comunque, se in alcuni contesti occidentali, come ad esempio il nostro, la radio ha assolto un ruolo espressivo socialmente più morbido rispetto ai linguaggi audiovisivi, è stato sicuramente perché in
essa sono prevalse le culture politeiste dei consumi di massa.
Ci siamo soffermati su una serie di punti di grande interesse.
Non so davvero quanto sia riuscito a connetterli tra loro. Ma spero
Quaderno di COMUNICazione
Interventi
Interventi
ma a forme di interattività e virtualità generiche, ma ad una innovazione radicale dei suoi contenuti. Questa innovazione ha le sue
più forti premesse nella svolta post-industriale e post-fordista di
modalità espressive che da soggetto del consumo si sono fatte
soggetto della produzione. È nel luogo del prosumer che i conflitti
tra ideologia e politica possono riaprirsi. Dall’esperienza poietica
del consumatore vengono le soggettività in grado di negoziare il
senso e l’uso delle nuove tecnologie. Nell’esperienza di questi luoghi e di queste soggettività la radio può ritrovarsi e rigenerarsi.
195
Biblioradio
SCHEDE A CURA DI GIOVANNI FIORENTINO
Interventi
di essere stato capace almeno a dire che, parlando di rado, la cosa
più importante è cogliere interamente la ricchezza dei suoi significati metaforici. Intuire, grazie ad essa, ai suoi exempla, la effettiva
qualità relazionale degli ambienti comunicativi che viviamo. La radio ci ha suggerito la possibile dimensione di un luogo di appartenenza fluido, di una forma aperta e dinamica dell’abitare, dunque
di politiche del territorio adeguate. Professionalmente adeguate.
Questo convegno è nato dall’iniziativa di studenti e docenti che
appartengono all’area dei Corsi di Scienze della Comunicazione.
Mi piacerebbe che i nostri corsi, sottraendosi all’ipoteca accademica, letteraria e sapienziale della più parte delle scienze umanistiche, sociologiche e persino mediologiche, potessero davvero attivare laboratori di produzione radiofonica, aprire radio di ateneo e
magari radio locali situate nei nostri rispettivi bacini di appartenenza. Qui a Lecce come a Roma o a Siena o a Salerno. Ma non
credo che il nostro obiettivo possa essere solo quello di riuscire ad
avere risorse economiche e capacità formative adeguate a innovare il quadro delle professioni in campo radiofonico o a servirci di
stazioni emittenti per svolgere la didattica, garantire intrattenimento agli studenti. Bisogna sapere creare una territorialità simbolicamente più ricca. Prima di tutto, cioè, il nostro compito dovrebbe consistere nel produrre condizioni ambientali, dimensioni
di vita personale e collettiva, in cui ricerca e insegnamento possano acquisire la stessa qualità di un ambiente radiofonico attento
all’innovazione: quella dimensione di radio, interiore e insieme votata all’ascolto, che appunto abbiamo scelto tra le varie opzioni
che la “tecnica” può offrirci. Ma che abbiamo scelto a patto che si
faccia espressione di sensibilità sino ad oggi mortificate proprio
dai saperi che hanno ridotto a tal punto di degrado fisico e culturale le nostre istituzioni scientifiche e didattiche. Non vi è medium
che basti a comunicare, a formare, a farci vivere. Siamo noi la materia che lo fa vivere. Nostro il corpo e l’ambiente che vi si esprime. Se così è –date le condizioni drammatiche in cui versano gli
spazi universitari– siamo di fronte a una sfida quasi impossibile:
fare radio senza territorio, poiché al massimo l’università a cui oggi apparteniamo è un labirinto di mappe.
196
Quaderno di COMUNICazione
197
BARBARA FENATI e ALESSANDRA SCAGLIONI, 2002
La radio: modelli, ascolto, programmazione, Carocci, Roma
DAVID HENDY, 2000
La radio nell’era globale, Editori Riuniti, Roma 2002
Le Bussole/Scienze della comunicazione – pp.127, t 8,20.
prefazione di Enrico Menduni
White Box – pp. 320, t 18.00.
198
Da sinistra:
Radioricevitore CGE,
mod. Supergioiello, 1948;
Radioricevitore
SAVIGLIANO mod. 111, 1941
Quaderno di COMUNICazione
avviene tra radio pubblica e radio
commerciale, radio comunitaria e format radio, con specificità e orientamenti del presente. Si procede poi nel
descrivere le logiche della programmazione e della produzione, fino all’organizzazione professionale e ai
ruoli funzionali che alimentano la ferialità della macchina. Si chiude con
lo studio dei meccanismi pubblicitari
e dei pubblici della radio al tempo del
medium personale, con una larga attenzione alla scena italiana e ai grandi
target (casalinghe, giovani-studenti,
anziani, automobilisti, artigiani e
commercianti) che costituiscono in
larga parte un’audience attestata comunque al di sopra del 50% della popolazione totale.
Al termine di ogni capitolo una
sintesi schematica e ulteriore consente
di fermare le informazioni.
Dalle radionovelas dello Zimbabwe alle radio dei minatori colombiani, dalle emittenti rock della Russia post-sovietica alle Radios libres
francesi, dall’Urban Rap Non-stop alle Business News, fino ad arrivare alla marginalità delle esperienze italiane, con l’eccezione delle radio politiche del 1977 bolognese, diffuse attraverso la mediazione culturale internazionale di Umberto Eco. Tradotto
meritoriamente da Marta Perrotta per
colmare una lacuna dell’editoria
scientifica sui media e offrire un punto di vista internazionale sulla situazione contemporanea della radio, il libro di David Hendy (professore di
Radiofonia presso la School of Communication and Creative Industries
dell’Università di Westminster) analizza il ruolo della radio nelle società
contemporanee, a partire dall’osservatorio privilegiato inglese per poi transitare dall’Africa agli Stati Uniti, dall’Europa all’America Latina. Si tratta
quindi di un raro caso dove la geografia comparata dei media (Robins e
Torchi, La geografia dei media, Baskerville) diventa prezioso e situato elemento di analisi.
Lo sfondo sul quale ragiona
Hendy è rappresentato da un sistema
internazionale fondato su fitti scambi
culturali e sostanziose interazioni economiche dove –e vale per molti paesi
d’Europa– le proprietà delle emittenti
in più casi sono già parte di conglo-
merati plurimediali e plurinazionali di
grandi dimensioni. Il testo, appassionato e molto documentato, analizza la
radio da molteplici punto di vista. Prima di tutto l’impresa, l’industria nella
sua più recente evoluzione, dal finanziamento alla commercializzazione ai
rapidi cambiamenti tecnologici, con il
nodo centrale, assieme locale e internazionale, della concentrazione delle
proprietà. Successivamente gli aspetti
tecnologici e produttivi, i testi, nella
duplice natura musicale e parlata e il
pubblico nella sua centralità di “ascoltatore cooperativo”. La radio che
ne esce, pur se mostra un profilo ridotto in ambito sociale generalista, è
un mezzo di comunicazione di ampie
influenze culturali sulla società, che si
gioca intorno alla cultura democratica, al senso di identità, e alla capacità
di modellare i gusti musicali. Sicuramente il contesto sociale è una variabile fondamentale, basta ricordare con
Hendy, che in alcuni paesi africani la
radio rimane l’unico mezzo di comunicazione a raggiungere la maggior
parte della popolazione. Al centro di
una sistemazione teorica ed etica del
mezzo, resta un mezzo di comunicazione che presenta allo stesso tempo
caratteristiche localizzate e frammentate da una parte, globalizzate e omogeneizzate dall’altra. Le caratteristiche contraddittorie quanto saldamente
intrecciate sono, in una parola, connotazione di un medium glocal.
Quaderno di COMUNICazione
Biblioradio
Biblioradio
Uno sguardo all’interno della comunicazione radiofonica, una guida
all’analisi complessiva del mezzo per i
neofiti dell’argomento. Il volume di
Barbara Fenati e Alessandra Scaglioni,
la prima si occupa di ricerca sul pubblico dei media, la seconda è caporedattore di Radio 24 – Il Sole 24 Ore e
docente allo IULM di Milano di Teorie e tecniche del linguaggio radiofonico, è uno strumento di navigazione,
appunto una bussola: informativo,
classificatorio, chiaro, conciso, leggero, concreto, legato dichiaratamente al
presente del medium, piuttosto che al
passato. Il punto di vista è quello di
chi alla specificità della ricerca affianca i benefici del vivere i processi dal
di dentro, appunto operativamente.
Il breve itinerario è organizzato in
questo modo: innanzitutto i modelli e
il loro contesto sociale, il confronto
199
ENRICO MENDUNI, 2001
Il mondo della radio. Dal transistor a Internet, Il Mulino, Bologna
Universale Paperbacks – pp. 281, t 12.91.
Enrico Menduni, 2002
I linguaggi della radio e della televisione. Teorie e tecniche,
Laterza, Roma-Bari
200
Questo spazio di segnalazione bibiliografica intorno al medium radio,
incontra inevitabilmente e in più contributi la ricerca fondante che in questi
anni è stata portata avanti da Enrico
Menduni, prima nel Corso di laurea in
Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, poi nei
corsi di laurea omonimi dell’Università di Siena e dello IULM di Milano.
A Menduni si devono lavori preziosi
sulla televisione ma in questo caso è
utile ricordare che è stato tra i primi in
Italia a sdoganare la radio negli spazi
di ricerca scientifica (basti ricordare
ad esempio un testo paradigmatico del
1994, La radio nell’era della TV. Fine
di un complesso di inferiorità, Il Mulino, Bologna). Tra l’altro offrendo il
punto di vista inedito e utile, di un ricercatore transitato a lungo nel mondo
della prassi comunicativa in vesti di
giornalista.
Il mondo della radio, pubblicato
per Il Mulino nel 2001, parte –come
del resto capita spesso nelle ricerche di
Menduni– da una grande attenzione
per la storia sociale del medium, per
ragionare poi, e quindi utilizzare anche
elementi che appartengono al suo sviluppo diacronico, sul presente sociale
della radio, con un ampio spazio di approfondimento per la situazione italiana. Si potrebbe partire proprio da qui,
la situazione italiana, lo sterminato e
vario carnet radiofonico offerto sul territorio regionale della penisola censito
Quaderno di COMUNICazione
in appendice (da Radio Manbassa a
Radio Stella Avezzano, da Radio Internazionale Costa Smeralda a Paneburromarmellata Musica Italiana, da Radio
Piterpan a Radio Città Futura-Popolare
Network, tanto per fare qualche nome)
per far emergere una situazione mobile, complessa, animata, a un tempo ricca di fermenti locali e di concentrazioni globali, comunque in continua trasformazione. Il saggio si muove tra
storia culturale e teoria sociale, ricchezza informativa dei dati e eterogeneità di una bibliografia che sta tra
Arnheim e Zumthor, nelle dichiarate
intenzioni dell’autore si costruisce per
differenza, per distanza dalla visibilità
generalista delle immagini, a partire da
Marconi fino al fluttuare dei nostri
tempi, alle tribù della musica, e al nuovo, intrigante triangolo di comunicazione definito da Internet, radio e telefonino cellulare. Dal momento in cui
si è avviata per le vie del mondo sotto
forma di transistor, di autoradio e di
walkman, si è miniaturizzata come apparato, ha assunto le funzioni di medium delle identità e della connessione,
di strumento di informazione in tempo
reale e di contenitore soffice dell’oralità e dell’intimità. Il percorso ibrido e
ibridante della radio, ci fa approdare a
una terza e fortunata giovinezza della
sua lunga vita in relazione intensa con
i cosiddetti new media che si traduce
in funzioni sociali connettive, identitarie e partecipative.
Un manuale che si fonda sulle esperienze didattiche ed è realizzato
fondamentalmente per l’uso didattico. La radio, nell’Università italiana, viene accomunata quasi sempre
alla sorella più visibile e potente, la
televisione. Da circa una decina
d’anni nei corsi di laurea in Scienze
della comunicazione sono stati istituiti gli insegnamenti in linguaggio
radio-televisivo. Menduni, che è appunto docente di Tecniche del linguaggio radiotelevisivo a Siena e
Milano, tiene conto di come si insegna questa disciplina nelle università europee e americane, fa presente che, soprattutto in Italia, il solco
tra teoria e pratica è tristemente ampio, dichiara la indispensabile necessità di laboratori.
Naturalmente nel caso di questo
volume, lo studio dei linguaggi radiofonici è stato sottratto a ogni subalternità o falsa simmetria rispetto
alla televisione, mantenendo una sua
trattazione autonoma. Il testo nella
prima parte introduce in generale all’universo della comunicazione, e
poi, specificamente, al mondo dei
“mass media nella società di massa”,
seguono due brevi capitoli di ordine
storico, dedicati rispettivamente a
sintetizzare la storia di radio e televisione. Poi il cuore del libro, una seconda e una terza parte concentrati
sul presente, appunto, dei linguaggi
della radio e della televisione. Per
quanto riguarda la radio, l’attenzione
si concentra sul versante operativo,
fino ad entrare in un tradizionale studio radiofonico: “una stanza abbastanza minuscola, accuratamente insonorizzata con materiali fonoassorbenti (per le piccole emittenti, gommapiuma e contenitori di cartone per
uova) e con una porta molto spessa e
silenziosa, in cui è collocato un tavolino ricoperto da un panno di feltro,
su cui penzolano alcuni microfoni, in
vista di un grande orologio…”.
Anche qui al termine di ogni capitolo una funzionale bibliografia di riferimento e a conclusione del volume
un utile Glossario che attinge naturalmente a mani larghe dalla lingua franca dei media (l’inglese), si veda a caso
anchorman, audience, chroma key, jingle, syndication, ecc.
Biblioradio
Biblioradio
Manuali Laterza – pp. 223, t 18,00.
Quaderno di COMUNICazione
201
Enrico Menduni (a cura di), 2002
La radio. Percorsi e territori di un medium mobile e interattivo,
Baskerville, Bologna
Collettivo A/Traverso, 1977
Alice è il diavolo. Storia di una radio sovversiva,
Shake edizioni underground, Milano 2002
Biblioteca di Scienze della Comunicazione – pp. 570, t 22,00.
pp. 176, t 15,00.
Quantità e universalità, la radio al
microscopio o al telescopio, secondo i
punti di vista di sociologi, semiologi,
giornalisti, storici, operatori radiofonici, psicologi, economisti, linguisti. Un
volume di oltre 500 pagine dedicate
alla radio, una enciclopedia dei saperi
e delle conoscenze che insistono sul
medium radiofonico, frutto in larga
parte delle “Giornate di lavoro sulla
radio” tenute all’Università di Siena
nel novembre 2001 e promosse ancora
da Enrico Menduni. Le riflessioni teoriche delle scienze sociali (Losito, Abruzzese, Colombo, Livolsi, Ortoleva), l’analisi dell’utenza e del consumo radiofonico (Fenati, Monteleone,
Varvello, Moscati, Tonello, Roberti,
Testa, Cacciari, Doglio), l’integrazione del medium radio in un più ampio
sistema dell’industria culturale (Sinibaldi, Sorice, Natale, Diadori, Guidetti, Giomi, Muscio, Novelli, Perrotta,
Fusi, Marchesini), il mondo della notizia, quel giornalismo che vive e si nutre di radiofonia (Agostini, Sorrentino,
Scaglioni, Mazzoleni, Boni, Nanni, Achtner, Catolfi, Nicastro), il dibattito
internazionale e le esperienze di paesi
diversi (Hibberd, Kleinsteuber, Fran-
“Alice era il diavolo, l’assalto totale allo stato dell’oppressione, il nostro
sorriso, il nostro corpo sempre più libero, capace di amare”. Edito per la
prima volta nel 1976 da L’Erba Voglio
e riedito oggi da Shake, questo libro
conduce alla scoperta di Radio Alice,
contiene tra l’altro la trascrizione delle
prime trasmissioni della radio ed altri
documenti storici, più un cd audio con
una scelta godibilissima e attuale di registrazioni dalle trasmissioni. Curato
da Bifo, studioso di filosofia della comunicazione, allora membro del collettivo Radio Alice che per le accuse rivoltegli ha subito carcere ed esilio, e
Gomma, uno degli animatori della
scena cyberpunk e hacker italiana, esperto di storia dei movimenti, il volume racconta la storia della “radio libera” che ha trasformato il volto della comunicazione via etere, e non solo in Italia, l’avventura di un collettivo di
hackers, pirati della tecnologia e del
linguaggio, innovatori della cultura underground, dadaisti, demenziali e libertari, anima del Movimento del Settantasette a Bologna, che pagarono con il
carcere le loro imprese. Il 1976 era
l’anno in cui le radio libere cominciavano a proliferare in giro per l’Italia,
Radio Alice era probabilmente la più
quet, Maeusli, Grishenko), le prospettive digitali e le interazioni radio internet (Natucci, Vittadini, Borgnino,
Fondelli).
In ogni sezione del volume emerge comunque una sensibilità diacronica e sincronica, che del resto appartiene al curatore, non ultima un’appendice dedicata al ricordo di Gianni Isola,
ricostruzione e analisi sintetica del lavoro di ricerca realizzato intorno al
medium radiofonico dallo storico
scomparso da poco.
Dalla molteplicità dei contributi
raccolti nel volume, risultano ancora
una volta confermati i molteplici aspetti e fenomeni del suo mondo vitale e l’interesse –direi il fascino– esercitato su molti di noi. Nonostante
questo e la varietà degli interventi, mi
pare che si possa ancora confermare il
parere del curatore: il territorio e i
percorsi della radio rimangono in parte inesplorati e impalpabili, le sue
funzioni sociali, il suo “senso”
profondo, la sua collocazione nel sistema dei media e nell’industria culturale rimane difficile da definire, o comunque semplicemente da stabilire
per differenza dalla televisione.
radicale, certamente la più bizzarra.
Ma il caso esplode solo quando, il 12
marzo del 1977, nel pieno della insurrezione studentesca seguita all’omicidio del giovane Francesco Lorusso, la
polizia entra nei locali da cui la radio
trasmette, distrugge le apparecchiature,
arresta i redattori, e spegne la voce dell’emittente. La radio riprende a trasmettere il giorno successivo con mezzi di fortuna, e la polizia la chiude nuovamente. Inizia così la leggenda della
radio libera. In realtà Radio Alice non
è stata solo una radio militante, uno
strumento di controinformazione, anzi,
i suoi redattori rifiutavano l’espressione controinformazione, pensando invece a una forma di comunicazione giocata sul registro dell’ironia, della leggerezza, della follia visionaria. Il libro,
pubblicato da una casa editrice (appunto Shake) che si distingue per un lavoro incentrato sulle tecnologie digitali di
comunicazione e sulla rete, cerca di ripercorrere i problemi della comunicazione alla luce dei nuovi equilibri di
potere che si sono determinati negli ultimi anni, offrendo una sorta di cronologia molto animata di quegli anni, allo
stesso tempo anni dell’ultima rivolta utopica e del primo esplodere del grido
punk “Non più futuro”.
Biblioradio
Biblioradio
202
Quaderno di COMUNICazione
Quaderno di COMUNICazione
203
Orson Welles, 1990
La Guerra dei Mondi, Baskerville, Bologna, 2002
prefazione di Fernanda Pivano, nota di Mauro Wolf
Collana Blu – pp. 190, t 16,50.
Biblioradio
Nel 1938, il giovanissimo Orson
Welles (aveva appena 23 anni) manda
in onda via network CBS una puntata
del Mercury Theatre, si tratta della trasposizione radiofonica della Guerra
dei mondi scritto da Herbert Gorge
Wells nel 1898. Quando la trasmissione va in onda, si verifica un fenomeno
straordinario di schizofrenia collettiva
che coinvolge l’intera nazione e crea
la leggenda di Welles. Un annunciatore anonimo interrompe la trasmissione
con la notizia che i marziani sono appena sbarcati nel New Jersey, a seguire, di volta in volta, altre comunicazioni, tra le quali un discorso drammatico
del Ministro degli Interni. In effetti si
trattava di una fiction, annunciata per
altro ripetutamente e prima della messa in onda. Ma le tecniche utilizzate da
Orson Welles furono tanto efficaci da
risultare verosimili. Ne seguì la prima
ondata di panico massmediatico della
storia: milioni di ascoltatori credettero
che fosse giunta la fine del mondo e
ne derivò un panico assoluto, la gente
fuggiva in tutte le direzioni, dalle città
in campagna o dalla campagna in città.
Mentre gli Stati Uniti erano in pre-
204
Quaderno di COMUNICazione
da al panico, Welles, ignaro, continuava la sua trasmissione, precipitandosi
poi con i suoi attori in teatro per le
prove serali del suo Danton: scoprì il
disastro soltanto l’indomani mattina. Il
biografo di Welles, André Bazin, ricorda che quando, anni dopo, una trasmissione fu interrotta per annunciare
che Pearl Harbour era stata distrutta
dai giapponesi, molti americani che avevano ascoltato la trasmissione di
Welles lo considerarono uno scherzo
di cattivo gusto. Nel frattempo Welles
era diventato voce popolare radiofonica, e stella nazionale, consacrata dall’uscita del film Citizen Kane (1941).
Oggi la radio non è più il potentissimo medium generalista degli anni Trenta, eppure il volume che raccoglie il testo di Orson Welles, oltre ad essere la
testimonianza creativa di un talento mediale unico nel Novecento (dalla recitazione teatrale alla regia cinematografica, fino alla performance radiofonica) ci
offre un prezioso strumento in grado di
provocare riflessioni e connessioni tra
immaginario e informazione, passato e
presente dei media, corredato e guidato
da una puntuale nota di Mauro Wolf.
COMUNICARE LE INFANZIE
Osservatorio
Due contributi dall’Osservatorio interdipartimentale sulle infanzie e adolescenze dell’Università di Lecce, in
continuità con i temi sviluppati nello scorso anno al convegno sul Glocale degli innocenti (le cui relazioni sono
state pubblicate nel fascicolo n.1 di “Comunicazione”). G.
Fiorentino argomenta sui benefici problematici del videogioco; V. De Vitis, una giovane pubblicista, studia
l’impatto sui media di carta dell’infanzia “normale” e di
quella “molesta” (ovvero del minore “maltrattante”).
205
loredana de vitis
infanzie di carta
Da una parte il timore, la dislocazione, l’imposizione della disciplina. Dall’altra la progressiva stratificazione di attese, speranze, metafore di futuro. Così gli
adulti si sono rapportati per secoli, e continuano a
rapportarsi, al soggetto più erratico che il mattatoio
della storia abbia mai conosciuto: i bambini. Quando
Paolo Rossi stabilisce un sottile ma tenace legame tra
bambini, sogni e furori1, lo fa pensando alle definizioni
che, nel tempo, si sono date ai bambini, che sono stati
considerati “inviati dagli dei”, ai quali si è attribuita
capacità oracolare ma anche una certa vicinanza ai
“folli”. Queste come altre idee hanno influito, in epoca
moderna, sull’immagine dell’infanzia e sul comportamento quotidiano degli adulti e dei bambini (Dieter Richter ha formulato con
grande chiarezza questa distinzione tra “vita dei bambini” e “immagine dell’infanzia”2). Accogliendo le “provocazioni” della cronaca, mi sono chiesta in che misura e in quali modi, nella stampa italiana che parla d’infanzia, realtà e immaginario si sovrappongono. Il punto era capire che idea dell’infanzia si comunica, o meglio
capire, attraverso le notizie di cronaca, gli approfondimenti, i commenti, che tipo di “cultura d’infanzia” si diffonde.
Le principali testate prese in considerazione nel triennio 19992001 (“Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “il Giornale”, “il manifesto”, “L’Espresso”, “Panorama”) hanno rivelato grande sensibilità per le notizie che riguardano bambini e adolescenti: basta
pensare al gran numero di prime pagine loro dedicate e alle tante,
sempre suggestive e spesso ambigue copertine patinate. Negli anni presi in esame la stampa si è addentrata nel mondo “bambino”
cercando di rispondere alle richieste di un’opinione pubblica sempre più a disagio rispetto al rapido mutamento dell’identikit soprattutto adolescenziale. Ma nel farlo ha inevitabilmente utilizzato
linguaggi, idee e stereotipi che, come abbiamo visto, vengono da
più lontano. Lo stesso Paolo Rossi parla di un’oscillazione tra nostalgia e risentimento3, che –come vedremo– la carta stampata riprende ed amplifica. L’indignazione, per esempio, è il sentimento
più presente nei commenti a notizie di pedofilia e sfruttamento:
Osservatorio
Quaderno di COMUNICazione
207
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
“Quelli” che odiano i bambini
La sequenza di casi sconcertanti di pedofilia “della porta accanto” comincia alla fine degli anni Novanta con nomi noti come Simone Allegretti, Lorenzo Paolucci, Melissa Russo, Silvestro Delle
Cave e con quelli di altri bambini le cui storie sono riuscite ad arrivare all’opinione pubblica, al contrario della maggior parte degli abusi che, dicono gli esperti, avvengono in famiglia. Nel triennio analizzato, i casi più eclatanti riguardano due bambine, uccise dopo
tentativi di violenza a distanza di 24 ore l’una dall’altra nell’agosto
2000. È un agosto particolarmente “caldo”, in cui l’allarme dilaga,
internet sconvolge con casi di pedofilia di rara ferocia, Vittorio Feltri dà scandalo pubblicando su “Libero” liste di pedofili “bollati” da
una sentenza definitiva. Inizia peraltro una vivace querelle sulle
più efficaci forme di intervento: qualcuno appoggia la pubblicazione dei nomi, altri invocano la castrazione chimica e la pena di
morte. Ma torniamo ai due casi citati. È accaduto che la piccola
Hegere Kilani, cinque anni non ancora compiuti, figlia di immigrati
tunisini abitanti di un quartiere povero di Imperia, viene trovata uccisa da sette coltellate in un appartamento a pochi metri dalla
piazza dove stava giocando con la bicicletta, prima di essere “attirata” in qualche modo dal suo carnefice (un giovane clandestino
rumeno) che ha tentato di violentarla. Gabriella Mansi è l’altra
bambina uccisa. Il caso è notissimo. La piccola, otto anni, di Andria
(Bari), è figlia di una famiglia povera che vive grazie ai guadagni di
una bancarella di noccioline. Attirata, mentre riempie un secchio
d’acqua a una fontanella pubblica ai piedi di Castel del Monte, dal
18enne Pasquale Porpora, che le racconta di aver trovato dei cuccioli nel bosco vicino, viene bruciata viva dal ragazzo e da quattro
suoi amici dopo un tentativo di violenza4.
Questi casi, intanto, fanno riflettere su un cambiamento, diciamo così, di target: “Repubblica” riporta il parere del procuratore
capo di Sanremo Mariano Gagliano, che sottolinea come da fenomeni di pedofilia che vedevano protagoniste, nei panni dei carnefici, “persone di una certa cultura o di pochissima cultura”, si sia
passati a un tipo di pedofilo che “appartiene a tutte le razze e a
tutti i ceti”: non si tratta più di “anziani viziosi, che trovano nei minori un surrogato al declino della loro sessualità” ma anche di giovani “che sono più determinati, più pericolosi” 5. E già si sente
qualche commento che sposta l’attenzione dal particolare al gene-
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
208
c’è indignazione verso chi compie atti a danno di bambini innocenti, minandone per sempre la “parte migliore dell’esistenza”. La
rabbia, invece, è il sentimento che prevale quando si parla di adolescenti disimpegnati, perversi e magari assassini, che avrebbero
bisogno di essere trattati, e dunque anche puniti, come gli adulti
(emblematico il caso Novi Ligure).
Gli specialisti invitati ad esprimere un’opinione professionale
(ma spesso anche umana) sui fatti di cronaca che più hanno colpito
l’opinione pubblica si sono richiamati a temi cruciali, come la mancanza di un’adeguata educazione emotiva, che si ripercuote sui
rapporti interpersonali e sulla gestione delle sensazioni corporee;
ma hanno anche indicato le responsabilità di un sistema dei media
che sembra saper proporre soltanto sangue e violenza o, al più, accattivanti prodotti per uno dei tanti target di consumo. La stampa,
in effetti, si è fatta carico di dibattere su problemi etici che erroneamente vengono attribuiti esclusivamente alla televisione, soprattutto quando si parla di adolescenti. La cronaca degli ultimi tre anni
denuncia la pressoché totale assenza di capacità (e volontà) di rispettare il codice deontologico della “Carta di Treviso” e del successivo “Vademecum ’95”: troppi articoli, sintetizzati in titoli efficaci
quanto sconcertanti, hanno trattato ragazzi poco più che bambini
come semplici oggetti di scoop. Si sono fatti nomi e cognomi, si è
indagato su ogni aspetto della loro vita, si è proceduto in modo manicheo e semplicistico, qualche volta si sono costruite icone mediali
del Male assoluto. Erika, per esempio, è diventato un nome comune, sinonimo di figlia incomprensibile e pericolosa, ma anche un tipo di “sindrome” e il possibile emblema di una generazione.
Voglio entrare subito nel merito, parlando prima dei bambini e
quindi degli adolescenti, e utilizzando così una schematizzazione arbitraria, visti gli incerti confini tra le due fasi della vita. I fatti di cronaca che hanno destato maggiore preoccupazione sono quelli relativi a
casi di pedofilia, con una maggiore attenzione per quella che potrebbe essere definita “pedofilia della porta accanto” e per i casi di pedofilia on line. È stato approfondito assai meno, invece, il fenomeno del
cosiddetto “turismo sessuale” che, riguardando i bambini delle aree
povere del mondo (i numeri più alti si registrano in Thailandia, India,
Filippine, Sri Lanka, Pakistan, Nepal, ma anche in Brasile, nella Repubblica dominicana e in altri paesi caraibici), tocca meno la sensibilità dell’Occidente, più preoccupato dei “propri” bambini.
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il manifesto
rale, come nel caso della psicologa Tilde Giani Gallino e dello psichiatra Andrea Masini, pronti a sostenere che “non servono pene
più severe ma un cambiamento culturale, che consideri il bambino
un soggetto con una sua identità psichica, una sua fantasia inconscia, cui l’adulto deve sapersi rapportare senza prevaricazioni”6.
Nel frattempo la storia irrompe nella cronaca: ad Andria, dove
crescono la rabbia e la paura, i bambini vengono coinvolti in cortei
accusatori, come era avvenuto negli anni precedenti in altri paesi
d’Europa. Si ripropone così quel legame tra innocenza e massacro
che gli storici dell’infanzia hanno segnalato nelle crociate e nella
violenza perpetrata ai danni di ugonotti ed ebrei (nel primo caso in
Francia, nel secondo in vari stati europei) tra il Quattrocento e il
Settecento7. E mentre c’è chi si preoccupa di “castigare” il costume, il cardinale Ersilio Tonini collega la pedofilia a quel “fenomeno
indomabile” che è la “sessualità sregolata”, generata dalla sua
sovraesposizione: “Si può pensare che quando la sessualità non è
guidata ed è buttata ai quattro venti non accada qualcosa? […] Come non pensare alle sollecitazioni che arrivano al pedofilo? È proprio vero che si è pedofili da sempre o non lo si è diventati?”8.
Sul “Corriere della Sera”, Fulvio Scaparro attribuisce invece la
pedofilia a persone che “ritenendo per l’infelicità delle proprie vicende personali di essere in credito con il mondo, sono giunte ad
odiare il prossimo fino a desiderarne la distruzione pur mantenendo quel minimo di lucidità che consente loro di individuare il punto
più sensibile, il cuore della comunità: i bambini e le donne”. Da qui
l’auspicio che si possa ricostruire questa comunità, minata dallo
“scollamento” tra cittadini e istituzioni e caratterizzata da una trama sociale sempre più logora. La comunità dovrebbe tornare ad
essere, secondo Scaparro, quella “rete di relazioni” grazie alla
quale i bambini possono essere “sicuri in ogni luogo”9. Interessante è, a sua volta, la valutazione di Dacia Maraini, nella quale la pedofilia assume “quel valore simbolico che ogni epoca dà ai propri
mali”. Dopo la proposta di cambiare il termine pedofilia in pedofobia o misopedia, Maraini sottolinea come la violenza di singoli atti
non sia “un’eccezione che riguarda pochi criminali, ma un modo di
essere di una società che dice di amare i bambini, ma in realtà li
vorrebbe distruggere prima che crescano”, volendo in ultima analisi ribadire “gli antichi privilegi dei padri sui figli”. Di cosa preoccuparsi, allora? Dell’“odio quotidiano, ben mimetizzato” che con-
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Di tutt’altro segno le scelte del “manifesto”, che tenta un’analisi
a vasto raggio, intervistando due assistenti sociali di Milano che lavorano in centri di assistenza per bambini maltrattati e ribadendo
–tramite questi interlocutori– che la maggior parte degli abusi si
verifica in famiglia, visto che “gli istinti materni e paterni non sono
così lineari come sembra. E per i bambini è più difficile districarsi
da mamma e papà che dall’estraneo dei giardinetti”14. Nel fondo del
23 agosto, firmato da Guglielmo Ragozzino, si analizza il meccanismo per il quale, nell’Occidente contemporaneo, gli adulti lavorano
molto per poi avere un figlio unico e magari vederlo poco, mentre i
bambini non imparano a conoscere i coetanei, spaventati come sono in ogni modo “con i terribili pericoli del mondo”. Secondo Ragozzino bisognerebbe invece “insegnare ai bambini e alle bambine
a difendersi da noi, padri violenti. […] A capire che nessun essere umano appartiene a un altro. […] Un figlio nasce, ha bisogno di aiuto,
ma nasce libero, non nasce come oggetto”15. Infine, una lettura psicoanalitica dell’emergenza pedofilia da parte del neuropsichiatra
infantile Martin George Egge, che sottolinea in particolare lo “spostamento dagli ideali agli oggetti di godimento”, perfettamente esemplificato dagli spot che fanno leva “allusivamente sulle varie
Lolite: è come se dicesse, così fan tutti, anche tu puoi godere”16.
Non mi soffermo sui settimanali “L’Espresso” e “Panorama”,
che si limitano a riassumere ciò che i quotidiani hanno ampiamente dibattuto, entrambi parlando di “allarme”, di “guerra”, di necessaria “difesa”. Non posso soffermarmi neppure su quella aberrante forma di pedofilia che è il cosiddetto “turismo sessuale”: l’attenzione verso questo fenomeno è ridotta, si limita a casi eclatanti,
a reportage una tantum17. I figli di cui si parla di più sono inevitabilmente quelli dell’Occidente ricco.
Pedofilia “virtuale”: il “mercato” in corto circuito
Il caso di pedofilia che davvero ha innescato una spirale di panico, anche perché di poco successivo alle due vicende di cui abbiamo poc’anzi parlato, è un caso “virtuale”, un’occasione dunque per
discutere anche sull’utilità e sulla pericolosità di internet per i
bambini. Alla fine del settembre 2000 la Procura di Torre Annunziata scopre un traffico on line di immagini e videocassette tra Italia e Russia: undici arresti, 1.700 inquisiti, 490 avvisi di garanzia,
600 perquisizioni per scene non solo di stupro ma anche di omici-
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duce “alla pratica ordinaria della sopraffazione e del mercato”,
perché è con le idee di “possesso” e di “razzismo sessuale” che si
prepara il terreno ai pedofili10.
Sul “Giornale”, un fondo di Ida Magli insiste invece sulla necessità di tutelare i bambini innanzitutto dalla paura. Come? Facendo
circolare il meno possibile notizie su fatti di pedofilia, abbassando la
soglia del “valore” sessualità, smettendo di usare i bambini come
stimolo pubblicitario e, infine, mettendo i “malati mentali” in condizione di non nuocere11. Curioso che sullo stesso quotidiano un’intera
pagina venga dedicata, lo stesso giorno, al libro scritto e pubblicato
a proprie spese dalle psicoterapeute Stefania Rialti e Loredana Petrone dal titolo Chi ha paura del lupo cattivo? Con illustrazioni e raccomandazioni decise ma espresse in un linguaggio “affettuoso”, si
consiglia tra l’altro di insegnare al bambino a camminare tenendo
per mano i genitori, di farlo giocare solo in luoghi costantemente
sorvegliabili, di non mandarlo da solo nei bagni pubblici e di evitare
la visione di film violenti. Nell’articolo principale si annuncia anche
l’uscita di un manuale per genitori, pubblicato da Franco Angeli nel
2002 e scritto dalle stesse autrici, e si indicano le tipologie di pedofili
(latente, occasionale, regressivo, dalla personalità immatura, omosessuale, sadico) e i sintomi che potrebbero presentare i bambini
vittime di violenza12. Chi aveva parlato di paura?
Sempre sul “Giornale”, Marcello Veneziani aggiunge qualche
provocazione: “si respira troppa morbosità sessuale in giro, in video, nella vita; si benedice troppo la trasgressione e la pornografia,
si ripete da troppe parti che prima di tutto c’è il piacere. La famiglia
diventa per le fabbriche della nuova morale una variabile secondaria e arretrata dell’accoppiamento. […] E poi si respira troppa violenza, troppo compiacimento per il sangue e l’efferatezza. Sesso e
sangue diventano una miscela devastante. […] Questo probabilmente non crea comportamenti criminali, ma sicuramente li favorisce, fa cadere le ultime distinzioni fra il bene e il male, fa crollare
gli ultimi freni inibitori, che sono un bene, e invece nella sociologia
corrente passano per un male, al punto che oggi si dice malato non
chi è sfrenato ma chi si frena. […] Poi non lamentatevi se crescono i
pedofili e se le folle esasperate si danno al linciaggio: entrambi
pensano che il miglior modo per vivere nella società sia sfogare
tutto e subito, consumare crimini e vendette sul posto, come in un
picnic della barbarie”13.
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c’è forse il desiderio di sbarazzarsi di questi problemi troppo ingombranti per l’inefficienza del mercato? Il trattamento che riserviamo
ai bambini, e quindi alla generazione futura, ci fa propendere per la
seconda ipotesi”19. Galimberti torna in seguito sul problema, soffermandosi sulle polemiche scatenate dalla messa in onda, la sera del
27 settembre, nelle edizioni del telegiornale di Rai Uno e Rai Tre, di
immagini raccapriccianti relative all’inchiesta in questione. La visione di quelle immagini innesca, per Galimberti, un “cortocircuito emotivo” che rischia di azzerare la possibilità di dialogo tra genitori e
bambini in fase di “pre-comprensione” della sessualità, un dialogo
necessario per sottrarre i bambini a quella “pericolosissima ingenuità che li rende esposti a incontri malaugurati”20. L’ipotesi avanzata è che quelle immagini abbiano scatenato la Grande Indignazione
per il loro aver “perforato” il Grande Silenzio, provocando di conseguenza non una rimozione (freudianamente una nevrosi) ma una
negazione (dunque una psicosi, un atto di follia). A questa considerazione iniziale Galimberti si appoggia per additare la colpevole non
conoscenza del fenomeno pedofilia, una “ignoranza”, un “silenzio”
che viene subito dopo quello sulla sessualità. Con l’aggravante che
l’informazione che bisognerebbe fornire ai bambini non è supportata, sottolinea Galimberti, da un corretto ed aggiornato sapere specialistico: un eloquente esempio è lo stesso equivoco generato dall’uso scorretto della parola pedofilia, che letteralmente indica l’amore per i fanciulli, un amore che, “opportunamente sublimato, può
diventare anche attitudine pedagogica”. I rapporti sessuali con minori si collocano invece nell’ambito della pederastia, termine a sua
volta confuso e mescolato all’omosessualità21. Questo per dire che
se da una parte “sappiamo tutto dell’eterosessualità, dell’omosessualità, della bisessualità e della transessualità”, dall’altra non conosciamo “nulla della sessualità con i bambini anche se il fenomeno in Estremo Oriente e in America Latina ha cifre a sei zeri”22.
Insomma, chi sono i pedofili? E dove sono? Contrastanti i pareri
su quest’ultimo punto. Sul “Giornale”, nel fondo del 28 settembre
Mario Cervi denuncia “le perversioni della Rete” sottolineando come, davanti a precedenti episodi che potevano essere ricondotti a
comportamenti delinquenziali individuali, l’inchiesta della Procura
di Torre Annunziata spalanca un insospettabile “abisso d’orrore”.
Ecco perché, secondo Cervi, occorrerebbe prendere coscienza che
“i pedofili sono tra noi, […] e che non vengono da una subumanità
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dio violento di minori, alcuni piccolissimi. L’inchiesta è durata circa
19 mesi ed è partita su segnalazione di “Telefono Arcobaleno”; tra
gli indagati ci sono anche 18 minorenni. La base del traffico è in
Russia, dove risiede l’ideatore, Dimitri Victor Kuzentov, 33 anni, fotografo per mestiere e animatore in campeggi estivi per hobby:
due attività che gli consentono facile contatto con bambini e ragazzi. “Se l’Occidente ricco paga in dollari per i suoi piaceri perversi”,
scrive su “Repubblica” Alberto Stabile, “nella Russia della transizione, senza legge né regole, si produce pornografia per pedofili,
al pari di qualsiasi paese sottosviluppato”18. E il mercato, già fiorente, della pedo-pornografia viene amplificato da internet.
Proprio della logica di questo mercato, che riesce a spostare il
soggetto bambino verso la condizione di oggetto dell’adulto, parla,
sempre su “Repubblica”, Umberto Galimberti. La vicenda dei necropedofili via internet rivela, secondo il filosofo, il vero volto di quella
“pura e cruda violenza” che trova un mercato pronto a coinvolgere
“una gran quantità di gente […] interessata […], qualunque sia la
merce”. Il mercato non è dunque uno “strumento innocente”, perché, come internet, “non si cura della qualità della merce che si
scambia”. Così, invece di essere “destinatario della trasmissione
culturale” dell’adulto, il bambino è diventato proprio una “merce”,
un “anello della catena della produzione materiale”. Galimberti parla di “materializzazione dell’infanzia”, un fenomeno che sembra avviare a quel “grande capovolgimento” che per Platone ha luogo
quando Dio abbandona il governo del mondo e che Karl Marx esplicitò nel 1849 parlando di forze materiali che vengono dotate di vita
spirituale e di esistenza umana avvilita a forza materiale, e di cui il
sintomo odierno è il trattamento riservato ai bambini: “Se la sorte di
troppi bambini oggi ci commuove non fermiamoci lì. La loro condizione non è una faccenda di lacrime o di buon cuore, ma il sintomo
di un’umanità che, senza accorgersene, e in nome del mercato sta
abdicando alla condizione della propria conservazione e alla conservazione della propria identità. Questa condizione si chiama trasmissione culturale che ha proprio nei bambini i loro destinatari. Dimenticarlo significa avviarsi rapidamente alla fine del modo con cui
l’umanità ha finora propagato e conservato se stessa. Ma esiste un
altro modo? C’è forse tra i segreti del mercato, nascosto in qualche
recondito apparato, il modo di conservare l’umanità e i suoi tratti
senza trasmissione culturale alla generazione successiva? O non
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La società dello spettacolo
Riassumendo, i fatti di cronaca riguardanti i bambini che più hanno sconcertato l’opinione pubblica sono casi di pedofilia, della quale
si è attribuita la responsabilità ultima, in fin dei conti, alla logica del
mercato e a quella –che è poi la stessa– dei mezzi di comunicazione.
Ora, se ci si limita anche semplicemente ad analizzare i periodici,
cercando i servizi attinenti ai gusti e all’educazione dei bambini, è fa-
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primordiale ma da un’umanità che con sforzo devo definire apparentemente normale”23. Isabella Bossi Fedrigotti, invece, in un intervento sul “Corriere della Sera” parla di “altra razza umana”: chi
paga per vedere on line gli stupri e gli omicidi dei bambini e i serial killer che li seviziano e uccidono le paiono una “razza aliena”,
una razza da “scovare, emarginare, indicare a dito”24. Sui settimanali “L’Espresso” e “Panorama”, il dibattito continua su questi temi: il mercato, i problemi della rete, la necessità di una regolamentazione davvero difficile da applicare, le responsabilità dei media con le loro offerte di film e pubblicità in cui “trionfa il pulp &
sex, straripano le immagini violente, l’erotismo da obitorio, la volgarità offensiva come un’arma. In dosi sempre più hard”25.
Allo shock mediatico generato dalle immagini televisive (sfuggite
–sia detto per inciso, visto che non è questo il luogo per approfondire
la questione– al controllo dei direttori dei telegiornali Rai), si aggiunge la seconda “provocazione” di Vittorio Feltri, che il 29 settembre,
sulla terza pagina di “Libero”, pubblica sette fotografie pornografiche con adolescenti e, a pagina quattro, una foto di violenza tratta da
un video sequestrato dalla Magistratura in occasione dell’inchiesta di
Torre Annunziata26. Sotto, 150 righe di dialoghi brutali tra pedofili,
trascritti da un sito internet. L’Ordine dei giornalisti della Lombardia
notifica immediatamente a Feltri un avviso disciplinare, nel quale si
legge che quelle fotografie “appaiono tutte contrarie al buon costume e tali”, “illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti”,
“da potere turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare”27. Feltri rinuncia a comparire, non nomina un difensore di fiducia, non risponde all’avviso. Con la sua deliberata scelta di scandalizzare i lettori per svegliarne le coscienze (come il direttore aveva
scritto nel fondo del 29 settembre) ha, secondo l’Ordine, “gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile
con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo”. Vittorio Feltri viene infatti radiato il 20 novembre 2000. Mi pare importante sottolineare come, nella deliberazione, non si faccia neanche il minimo cenno
alla dignità lesa dei minori direttamente e indirettamente coinvolti in
quella pubblicazione. È invece nella deliberazione che proscioglie
Gad Lerner che si trattano questi argomenti: l’ex direttore del Tg Uno
viene prosciolto dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte
per essersi “attivato in tutti i modi perché quelle immagini non venissero trasmesse”, vedendo invece disattese le sue direttive. È qui da
rilevare la presa di coscienza sul “modo in cui ancora oggi, nonostante i numerosi interventi degli Ordini professionali, del Garante
per la privacy, delle direttive indicate dalla Carta di Treviso e dal Comitato nazionale di Garanzia per l’Informazione sui Minori, si continui
a diffondere sia sulla carta stampata sia in tv immagini che, a giudizio di questo Consiglio, non dovrebbero mai essere rese pubbliche,
seppure schermate”. Da questa vicenda sembra che “buona parte
della categoria dei giornalisti” esca “sconfitta: la superficialità, la
smania dello scoop e la mancanza di una sensibilità culturale fanno
passare in secondo ordine una realtà drammatica che dovrebbe essere affrontata con il massimo della sensibilità”28.
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si sofferma anche –e siamo al punto– sulle responsabilità della
stampa specializzata, anzitutto rivelando il ruolo spesso determinante delle giornaliste, assunte di frequente come stylist, cioè come consulenti di una o più case di moda. Tale consulenza si estende dalla selezione degli accessori alla scelta delle modelle, del
trucco e dei fotografi, che magari, dopo aver fotografato i cataloghi, curano i servizi redazionali delle testate per cui lavorano le
stesse giornaliste. A volte le stylist, se sono direttori, possono influenzare le scelte di stile, come denuncia Ennio Capasa, stilista
internazionale d’origine salentina. Il commento di Franco Abbruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, è secco:
“Il giornalista è un informatore critico. Chi fa altro è moralmente
fuori della professione. […] Il problema è che nessuno denuncia,
con nomi e cognomi, questi patti col diavolo”31.
Vogliamo parlare ancora di mercato? Nel 2000, l’uscita nelle librerie del quarto volume della serie dedicata al piccolo mago Harry
Potter, geniale creatura della scrittrice inglese Joanne K. Rowling,
e il grande successo riscosso dalla saga tra i bambini spinge i settimanali ad approfondire i motivi di un fenomeno che fa parlare
“Panorama” di una Potter Generation. La fortuna della scrittrice
viene ricondotta alla sua capacità di attingere e dare nuova linfa ai
classici della letteratura per ragazzi, da Lewis Carroll a Francis
Compton Burnett, ma anche della letteratura fantastica letta pure
dagli adulti, da Tolkien a Dahl. Anche se diversi critici la contestano, molti concordano nell’attribuire a Rowling “una geniale capacità di entrare in sintonia con la mentalità dei piccoli, divertendo
anche i grandi”, mescolando ingredienti “accattivanti per un lettore
bambino”, come “buoni sentimenti, colpi di scena, identificazione
con i personaggi positivi”32. Tra i pareri riportati, ci sono quello del
“New York Times”, secondo il quale le storie della scrittrice inglese
hanno la caratteristica positiva di “emozioni e trionfi” riportati da
personaggi che, pur utilizzando mezzi soprannaturali, “si mantengono su una scala rigorosamente umana”; e quello del “Times”,
che ha dedicato al piccolo mago –come il “Newsweek”– anche una
copertina: in linea con le più moderne ricerche di genere sui libri, il
critico Christine Schroefer ha stigmatizzato la misoginia delle storie di Harry Potter, nelle quali “le figure femminili […] agiscono solo
da contorno”. Altri giudizi positivi sono invece stati espressi in riferimento al gradito ritorno dei bambini alla lettura e ad una nuova
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cile rendersi conto di come, fatti uscire dalla porta, questi problemi
rientrino dalla finestra. Due i casi da segnalare. Il 23 novembre 1999
la Bbc manda in onda la trasmissione MacIntyre under cover, in cui
un giornalista –vissuto in incognito per diciotto mesi tra Milano, Parigi e Londra– mostra il mondo della moda nelle sue perversioni: modelle drogate a quindici anni, clienti che chiedono sesso, autisti e
procacciatori trasformati in sfruttatori. Le polemiche più accese nascono, naturalmente, a proposito dello sfruttamento di minorenni.
Già nell’ottobre precedente, in realtà, si era discusso del problema:
quando la estone dodicenne Tatiana Stsemeleva si fece notare sulle
passerelle milanesi, molti stilisti cominciarono a discutere di etica, di
immoralità, dissero che si trattava di “una bambina strappata alle
grinfie di un pedofilo”. “L’Espresso” approfondisce il problema in un
servizio sul numero del 14 ottobre, dove si racconta la storia di questa ragazza altissima e con lunghi capelli biondi, notata per strada e
selezionata per frequentare una scuola serale di portamento e poi
–molto prima delle sfilate milanesi– lanciata su gigantografie per un
noto marchio di abiti per ragazze, con “il suo visetto dai colori albini,
reso volutamente più infantile”. Sul finire dell’articolo, la “censura”:
“Che cosa ha veramente indossato Tatiana Stsemeleva durante le
sfilate milanesi? Ha davvero valorizzato come nessun’altra i vestiti di
Mila Schön, di Romeo Gigli o di Etro? O invece ha portato in passerella soprattutto il suo seno che non c’è, il suo corpo senza ancora sesso, né malizie, né attrattiva? […] Tatiana ha fatto scandalo perché ha
mostrato a tutti che il gioco si è fatto davvero estremo. Ciò che ci piace, ci attira, ci dispone a comprare merci deve essere sempre più indistinto, fissato in un’espressione e in un’età che non mostra la differenza tra infantile e adulto, tra femminile e maschile. […] Ci saranno
sempre più ragazzine non cresciute ed esaltate in questa condizione,
bambine vulnerabili vestite in modo da apparire disponibili, prodotti
anche loro –e non modelli– di una società che non riesce più a far diventare adulti i propri figli”29.
“Panorama” invece si occupa dello scandalo innescato dal servizio della Bbc in due servizi speciali30 e, riguardo alle piccole modelle, sottolinea maggiormente le responsabilità dei genitori. Il
primo servizio precisa, per bocca di Riccardo Gay, della celebre agenzia di moda, che i luoghi di provenienza di queste modelle sono
spesso non a caso paesi poveri come Russia, Ucraina, Bielorussia,
Estonia, Lituania, Lettonia. Nel servizio successivo, il settimanale
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che si spinge verso dolciumi, bibite, prodotti per la pulizia personale. Difficile credere che di questa operazione commerciale non facciano parte anche i servizi di questo genere.
La fuga dei padri e i buoni consigli degli “esperti”
La stampa è quindi artefice e vittima della mancanza, tanto evidente, di “cultura d’infanzia”. D’altra parte i saperi specialistici
non aiutano. Quando, nel giugno 1999, Karol Wojtyla interviene sul
ruolo della figura paterna contestando la tendenza dei nuovi padri
a comportarsi come “amici” piuttosto che come genitori, “Panorama” mette a confronto i pareri di Silvia Vegetti Finzi, docente di
Psicologia dinamica all’Università di Pavia, e del noto pediatra
Marcello Bernardi36. Vegetti Finzi si dice d’accordo con il Papa, a
suo avviso i ragazzi “hanno bisogno di regole, di un limite esterno,
senza scontrarsi da soli con gli eccessi”. La famiglia, per come si è
configurata negli ultimi anni, sembra a Vegetti Finzi permissiva in
quanto “i genitori trascorrono poche ore insieme ai figli e non vogliono rovinarsi il poco tempo insieme”. La “fuga” dei padri sarebbe riconducibile in ultima analisi alla loro “paura di sbagliare”, di
risultare “poco amati”. Bernardi è invece di tutt’altro avviso, già il
concetto di ruolo non piace al pediatra: “Nella figura paterna la
cosa più importante è saper esprimere la propria opinione, non
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passione per la magia, nella sua “accezione più innocente”. Quest’ultimo parere si scontra, come riportato da “L’Espresso”, con le
detrazioni dei “fondamentalisti cristiani” d’oltreoceano, secondo i
quali la serie di Harry Potter rappresenta “un’introduzione al mondo della stregoneria e dell’occulto”33.
Il 6 dicembre 2001 debutta nei cinema italiani il primo film tratto
dalla saga, portando con sé il merchandising tipico di fenomeni come questo: Harry Potter e la pietra filosofale guadagna una copertina di “Panorama”, insieme con il tentativo di comprendere “perché tutti i ragazzini (e non solo loro) sognano di cambiare il mondo
con un colpo di bacchetta magica”. Nel servizio principale spicca la
considerazione per la quale il successo del personaggio è legato al
suo essere non un supereroe ma “un ragazzino molto normale, che
va a scuola e fa grandi cose”. Sono parole del produttore del film
David Heyman, che non manca di sottolineare che, se la storia si
sviluppa in un contesto fantasy, le emozioni sulle quali si basa sono
“condivisibili”. L’identificazione di “grandi e piccini” con Harry verrebbe inoltre facilitata dal suo provenire da una “famiglia disfunzionale”, dal suo non essere bravo a scuola, dall’avere problemi con
gli insegnanti, ma pure dal portare gli occhiali: la “rivincita” del suo
possedere poteri magici fa sì che “tutto sembri possibile e un po’
meno straordinario”. Anche l’amica Hermione, amatissima dalle
bambine, ha caratteristiche ideali: su tutte, è figlia di “babbani” (di
genitori privi di poteri). Nell’articolo si citano le opinioni del “New
York Times” e del “Newsweek”, che hanno attribuito al film di
Harry Potter il merito di aver “restituito il sorriso agli americani”
dopo la tragedia dell’11 settembre: il cattivo Voldemort è stato associato a Bin Laden e i suoi seguaci ai membri di Al Qaeda, “mimetizzati fra la gente normale ma pronti a rientrare in azione ai comandi dell’Oscuro Signore”. Ironia della sorte, il perfido professor
Raptor, seguace di Voldemort, è l’unico a indossare il turbante.
D’altra parte lo studioso di religioni Massimo Introvigne, collaboratore di “Avvenire”, ha sostenuto che “Harry Potter può avere una
funzione pedagogica importante in un momento come questo: riafferma i valori senza cadere in una rappresentazione manichea e
fondamentalista della lotta fra bene e male”34. E, ritornando al
mercato, ecco un articolo riguardante il merchandising che accompagna l’uscita del film35, operazione commerciale che supera di
gran lunga la classica produzione di magliette e giochi da tavolo e
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Bollea: “L’ideale è rientrare sempre alla stessa ora, perché il bimbo segue un orologio biologico che non va deluso. E poi nella prima ora che si passa in casa la madre deve dimenticare sacchetti
della spesa, fornelli, telefono e tv”. Se poi il bambino è in età scolare e “la madre non può essere a casa, che ci trovi almeno il padre”. Al padre, in particolare, dovrebbe spettare “la responsabilità
di dare al figlio stabilità, protezione e indirizzo nella vita, […] la
protezione dal mondo esterno”: tutti compiti che si potrebbero
concretizzare in azioni come accompagnare a scuola i figli, parlare
con i professori, essere presenti ai “debutti” scolastici, sportivi e
così via. I consigli, naturalmente, non finiscono qui. Ciò che in questa sede conta osservare è che, in ultima analisi, vengono forniti
pareri contrastanti (in particolare riguardo ai “no” da dire ai figli),
in perfetta contraddizione con le ambizioni del servizio40.
Le contraddizioni che fin qui ho avuto modo di sottolineare si
amplificano quando si parla, invece che di bambini, di adolescenti.
Per approfondire brevemente questo punto, voglio partire dal caso
di cronaca che, nei tre anni presi in considerazione, ha destato
maggiore sconcerto, dando adito ad una vera e propria “guerra” di
interpretazioni: il delitto di Novi Ligure. La sera del 21 febbraio
2001, mentre Francesco De Nardo gioca ancora a calcetto con gli
amici, la moglie Susanna Cassini (45 anni) e il figlio Gianluca De
Nardo (12 anni) vengono trovati massacrati da circa cento coltellate in una delle tante villette a schiera del quartiere residenziale
Lodolino di Novi Ligure, trentamila abitanti in provincia di Alessandria. Susy Cassini giace in cucina al piano terra, Gianluca nella vasca da bagno piena d’acqua al primo piano. Erika (16 anni), figlia e
sorella degli assassinati, dopo aver simulato una fuga, racconta agli inquirenti di aver assistito ad un omicidio perpetrato da “immigrati slavi”, dei quali poi identificherà un albanese con un alibi fortunatamente inattaccabile. Anche se all’inizio la testimonianza
sembra verosimile, i dubbi sorgono presto: dopo un sopralluogo,
una registrazione “a tradimento” delle conversazioni tra la ragazza e il suo boyfriend Omar Favaro (17 anni) e un lungo interrogatorio, i due vengono arrestati. I giornali non perdono tempo, sottolineano subito che Erika sembrava una ragazza normale cresciuta
in una famiglia normale, agiata e religiosa; con un padre, ingegnere nello stabilimento Pernigotti, molto amato e rispettato; con una
madre bella, onesta e simpatica, che aveva lasciato il lavoro per
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imporla ai figli”. Il rischio del richiamarsi alla figura paterna sta,
secondo Bernardi, nel ritorno ad una “forma di paternalismo bonario e religioso, cristiano e anche islamico, dove alla base di tutto
c’è il padre”. Se il Papa giustamente si richiama alla necessità che
il padre non sia soltanto un “amico”, ma anche “un sostegno, un
aiuto reale, una persona degna di fiducia”, è anche vero che le regole non sono fondamentali, al contrario dell’“esempio”. Nello
stesso anno “Panorama” dedica un ampio servizio all’approfondimento dei temi trattati in un libro dell’americana Judith Rich Harris, autrice di testi scolastici di psicologia infantile37. La traduzione
letterale del titolo del testo dovrebbe essere Non è colpa dei genitori, ma la versione italiana edita da Mondadori si intitola La nuova
teoria dell’educazione: perché i figli imparano più dai coetanei che
dalla famiglia. La tesi di Rich Harris è che a determinare il “destino” dei figli è fondamentalmente “il tipo di coetanei che incontrano, gli amici, il gruppo che frequentano”. Di contro, ecco l’opinione
dello psichiatra Paolo Crepet, che spiega il successo dell’autrice
richiamandosi al contesto di una “società occidentale deresponsabilizzata ed egocentrica, che punta tutto sul lavoro”. Secondo Crepet, è come se questa teoria dicesse ai genitori “fate quello che
volete senza preoccuparvi troppo dei figli”, ed aggiunge: “ognuno
ha i figli che si merita e ogni società i giovani che si merita”. Si torna al discorso delle merci: “Se comunico solo attraverso gli oggetti, mio figlio capirà che l’unico modo per avere emozioni è possedere oggetti”.
Il problema della corretta educazione dei bambini è lungamente sviluppato, infine, in un nuovo servizio su “Panorama”, in cui si
esprimono psicologi e pediatri38. Sette le “regole d’oro” dello stesso Marcello Bernardi: “State con il vostro bambino il maggior tempo possibile durante il primo anno di vita: è fondamentale per la
crescita; staccatevi in modo graduale e non improvviso quando
tornate a lavorare; dite pure dei no, ma spiegate il perché; date
delle regole, ma ricordatevi che l’esempio è il metodo più efficace;
ascoltate i bambini e stimolateli a dialogare con gli adulti; rispettate il tempo dell’infanzia: non è un tempo cronologico ma emozionale, più lento del vostro, non stressate i bambini con troppe attività parascolastiche; evitate nuove paure ai bimbi: attenti a cosa
guardano in tv e sui giornali”39. Sul problema di conciliare lavoro e
vita familiare, altri consigli da parte del neuropsichiatra Giovanni
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Novi Ligure: la guerra delle interpretazioni
Sulla “Repubblica”, Umberto Galimberti sottolinea subito che
la “follia”, che un tempo si conosceva come “eccesso della passione”, oggi “veste gli abiti della freddezza e della razionalità, non lascia trasparire alcunché ed esplode in contesti insospettabili che
nulla lasciano presagire e neppure lontanamente sospettare”. Ed
è proprio questa “imprevedibilità” a scatenare in noi “l’angoscia
primordiale”: in casi come questi, spiega Galimberti, quando la
causa è irreperibile e occorre scavare più a fondo, la psichiatria
parla di psicopatia. È la buona educazione “borghese” che, secondo il filosofo, riesce a tenere a bada gli “eccessi emotivi” e rende
gli individui “impenetrabili e scarsamente leggibili alle altre persone”: una “mancata crescita emotiva” si può registrare in famiglie come quella dei De Nardo, nelle quali i problemi si affrontano
in maniera pressoché asettica, di fatto senza autentica comunicazione. Al di là delle poche informazioni di rito (come è andata a
scuola, l’orario di rientro serale), in queste famiglie i figli “sono lasciati nel rispetto della loro autonomia, dietro cui si nasconde il
terrore (anche questo mascherato) dei genitori ad aprire quell’enigma che i figli sono diventati per loro”. I figli, per parte loro, sentono questa “paura” oppure percepiscono un “disinteresse emotivo”; questi figli “del benessere e della razionalità”, allora, invocano prima “attenzione emotiva”, quindi giocano d’anticipo “delusione” e “cinismo” per difendersi “da una risposta d’amore che sospettano non arriverà mai”. Ecco che il cuore si fa “piatto”, “non
reattivo”, “pronto a declinare ora nella depressione ora nella noia,
e quando nell’adolescenza la tempesta emotiva si abbatte nel loro
cuore, ormai arido perché mai irrigato, si comprime tutto con le
Quaderno di COMUNICazione
difese impenetrabili approntate dalla buona educazione, dalle
buone maniere, dal buon allenamento nella palestra gelida della
razionalità”. Questa “compressione della razionalità”, questa “difesa delle buone maniere (= insincerità)” e la “noia” formano
“quella miscela che sotterra l’Io di questi adolescenti infelici, facendoli agire in terza persona”. Da tutte queste premesse, Galimberti giunge alla conclusione che, al fondo del problema, c’è il
mancato insegnamento del “come “mettere in contatto” il cuore
con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi
del mondo incidono nel nostro cuore”41.
Su “Repubblica” interviene anche Michele Serra, con uno dei
corsivi più interessanti e dibattuti dell’intera vicenda. Serra contesta
la tendenza a identificare l’“assassino” con il “vuoto”, che sia di valori, di ideali o di sentimenti: dire che “l’assassino è il vuoto” gli
sembra una variante de “l’assassino è il maggiordomo”. Il fatto è
che questo vuoto, secondo Serra, in Occidente non esiste, l’Occidente è “l’impero del Pieno”. Ecco perché l’assassino, semmai, è il pieno: “Proviamo a pensare […] che a interrompere la connessione tra
una persona e il proprio sé possa essere […] l’occupazione costante
e greve del suo territorio mentale, l’abuso della psiche, l’attivazione
simultanea di tutti i suoi talenti e i suoi desideri”. Allora ciò che non
si riesce a “donare” ai figli è “la forza del vuoto, il privilegio della solitudine, la ricchezza della contemplazione, il lusso impagabile della
distrazione”. Tentando un “azzardo ideologico”, si potrebbe pensare,
sostiene Serra, che “il sistema ci vuole schiavi del desiderio e del
bisogno, consumatori avidi e sempre inappagati”: è questo sistema
che non vuole concederci “la riflessione, l’interruzione, la vacanza
vera”. Agli adolescenti di un tempo non lontano era concessa “la disciplina preziosa della svagatezza”, veniva loro risparmiata “questa
leva obbligatoria di massa, che richiama anche i dodicenni e gli undicenni, ormai, ai loro doveri di bravi studenti bravi calciatori bravi
nuotatori bravi schermidori bravi internauti bravi danzatori bravi figli bravi indossatori e bravi tutto”. Conclusione: c’è da augurarsi che
covi in qualche ragazzino/a “il germe della diserzione”, magari con
l’aiuto di qualche genitore capace di insegnare che è più ambizioso
sognare la libertà piuttosto che il successo42.
Sul “manifesto”, in un lungo editoriale Alessandro Dal Lago ricorda come siano state numerose le cronache di fatti simili a quello
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dedicarsi alla famiglia; con un fratellino amatissimo che la considerava la sua “migliore amica”. Omar, invece, che vive in una casa
“modesta” e distante dal quartiere bene dei De Nardo, era “succube” della ragazza e la loro relazione, forse un po’ “morbosa”, probabilmente non piaceva a Susy Cassini. Il tutto descritto con precisione maniacale, riassunto con titoli da brivido e corredato da foto
dei due ragazzi correttamente sfumate (ma la correttezza si ferma
qui) nella zona degli occhi. Decine e decine le prime pagine dedicate al delitto, centinaia gli opinionisti interpellati: qui devo limitarmi a citare i pareri più rappresentativi.
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confine, dell’auto-limitazione”. È questa “emotività disordinata” che,
secondo Spinelli, nel caso di Novi è sfociata in un gesto che fa parte
non solo della realtà ma anche dell’immaginario. Occorrerebbe allora indagare sulla capacità delle famiglie di “vedere” le “verità
sgradevoli”, “soffocate” come sono nel kitsch, cioè nell’“imbellimento della realtà, la sua falsificazione rassicurante e sedativa, il
lindore di tende o cucine, il benessere senza più crepe, senza più orizzonti di sforzo, di attesa”. In questo contesto, l’orizzonte che accomuna padri e figli (e che “li spinge a sbranarsi”) è quello di “accampare diritti”: su tutto, il diritto di possedere ogni prodotto immediatamente consumabile. La meta è “il geloso possesso della felicità”
assieme al “terrore di perderlo” e alla “chiusura al principio di
realtà come al tempo lungo”. Emblematico le appare l’utilizzo, da
parte delle famiglie nucleari della provincia ricca italiana, di un linguaggio “sempre più ricco di vezzeggiativi, che da un momento all’altro può generare mostri”. Qualche esempio: villetta, tendine, fratellino, mammina. Spaventa poi il tanto ricorrere alla parola normalità: possibile –si chiede Spinelli– che non si sia mai intravisto qualcosa di anomalo nella famiglia De Nardo? Oppure nessuno è stato in
grado di vederlo perché la norma è diventata quella dell’assassino?
Allora, se si vuole operare un “ricominciamento”, le fasi da seguire
sono semplici: per prima cosa, occorrerebbe eliminare la parola
“normale”, poi le locuzioni che declinano il verbo “sembrare”, quindi diminuire i vezzeggiativi. Infine, “mettersi a cena con i propri figli
e tentare una conversazione, […] dilatare il presente e incorporare
più passato, più futuro, […] impratichirsi in esercizi di ammirazione,
a proposito di personaggi esemplari”. La cena dovrebbe essere “a
televisione spenta”, e non per evitare di apprendere brutte notizie,
ma perché il televisore sempre acceso è in grado di annullare la distanza “tra vita vissuta e recitata, tra fatti e immaginazione”. E poi
“aiuta non poco a restar imprigionati nelle famiglie, e a odiarle”47.
Per quanto riguarda i settimanali, è evidente la differente prospettiva adottata. L’8 marzo 2001 “Panorama” esce con una copertina cruenta, con l’illustrazione di una ragazza bionda che si accanisce contro una donna brandendo un coltello insanguinato; il titolo
è Quelli che uccidono la mamma. Nel servizio interno, in cui compaiono anche diverse foto della famiglia De Nardo, si dà del delitto
un’interpretazione per così dire “passionale”: il rapporto tra i due
ragazzi assassini viene definito un “amore morboso, che non accet-
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di Novi, nei quali hanno giocato una parte importante sentimenti
forti come l’avidità, la gelosia, ma anche la stupidità o “semplicemente il nulla”43. Luigi Pintor, invece, fa il punto sui commenti espressi dai vari specialisti per constatare come quasi nessuno di loro abbia parlato di “patologia individuale” o “insanità mentale”: hanno prevalso invece i riferimenti ad un “disagio giovanile” genericamente inteso, alla noia di provincia, all’eccesso di agiatezza e dunque all’egoismo, allo “smarrimento” di valori e di sentimenti, alla
violenza che permea la “società” genericamente intesa, all’assuefazione al male, alle costrizioni e ai veleni delle comunità chiuse, alla
vita familiare. Eppure, l’unica cosa che secondo Pintor si può concludere è che l’omicidio resta incomprensibile, fa paura perché evidentemente “questa “possibilità” esiste nella nostra natura”, “riconoscerlo potrebbe essere un aiuto, ma è un’umiliazione che rifiutiamo”44. Si tratta di una posizione interpretativa rimasta isolata.
Sul “Corriere”, Aldo Grasso mette a confronto la “bella favola”
della famiglia alla “Mulino Bianco” con lo spot della Telecom (in onda in quel periodo), in cui una madre elogia la propria figlia, diversa
da “tutte le altre” salvo l’aggiunta di un inquietante “credo”. Mentre
la donna parla, la figlia è intenta a scambiare sms di nascosto tramite un particolare telefono fisso (“se mamma sapesse…”). Questo
è per Grasso uno spot emblematico, i ragazzi gli paiono “sempre più
immersi nel mondo della comunicazione […] e sempre meno disposti al dialogo in famiglia, a farsi capire”45.
Tra i numerosi servizi del “Giornale” colpisce tra l’altro un semplice trafiletto, che sintetizza le indicazioni di Maria Teresa Crotti,
psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza (l’articolo è certamente ripreso da un lancio d’agenzia)46. Nel pezzo si parla dei “segnali” che andrebbero tenuti sotto controllo per evitare l’insorgere
di “atteggiamenti pericolosi”: aggressività (se eccessiva, con crisi
di opposizione violenta); disturbi alimentari (anche semplicemente
un anomalo rapporto con il cibo); insonnia; balbuzie; difficoltà nel
rendimento scolastico; dislessia; enuresi; isolamento; onicofagia
(mangiarsi le unghie); tic; cleptomania. Morale? Tutti a rischio,
nessuno a rischio?
Sulla “Stampa” uno degli interventi più interessanti è firmato da
Barbara Spinelli, che denuncia la presenza, tra le mura domestiche,
di “un torrente di passioni in parte occultate in parte urlate, informi
e al contempo glaciali, ignare comunque di quel che è il senso del
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Erika e Omar sono stati condannati in primo grado, il 14 dicembre 2001, rispettivamente a 16 e 14 anni di carcere. Anche su questa
condanna ci si è espressi approvandola o indignandosi e tornando
sui consigli e le esortazioni, e gli articoli di cronaca hanno continuato a insistere, talvolta con rabbia, sulla figura di Erika, definita sulla
“Repubblica” una “bambolina automatica”, una “primadonna all’ultimo spettacolo”, una “signora con troppe parolacce”52. Nei commenti sulla vicenda di Novi Ligure ci si è richiamati dunque alla responsabilità individuale di giovani considerati sempre più “adulti”,
ad una responsabilità “sociale” in senso largo, alla responsabilità
dei media e dei contenuti che propongono agli adolescenti, alla “banalità del male” anche nella variante del Male assoluto come entità
metafisica. A fronte dell’evidente “smarrimento” dei saperi specialistici, rimane irrisolta la delicata questione di una necessaria, effettiva messa in atto della quasi sempre solo teorica deontologia della
professione giornalistica: rileggere la “Carta di Treviso” e il “Vademecum 95”, francamente, è sconfortante. Un’ulteriore riprova? La
possiamo trovare nei servizi dei settimanali che si occupano degli adolescenti e che, quando non si propongono di approfondire specifici
fatti di cronaca, tentano analisi a più vasto raggio che finiscono per
essere inevitabilmente generiche oppure si rivolgono, ancora una
volta, ad uno dei tanti target di consumo. Con una strategia: la descrizione dei consumi culturali giovanili viene presentata, la maggior parte delle volte, come funzionale ai tentativi di comprensione
dell’universo adolescenziale, e viene quindi inserita in servizi che
parlano agli adulti fornendo una sorta di compendio dei possibili
comportamenti da assumere. Tuttavia non mancano servizi strutturati per essere destinati direttamente ai ragazzi, perché descrivono
ciò che li riguarda senza il dichiarato secondo fine di essere utili agli
adulti, oppure essendolo in seconda battuta e in senso lato.
La generazione “invisibile”
Nel 1999, uno dei servizi dedicati da “L’Espresso” ai teenager
passa in rassegna “chi sono, come vivono, dove vanno, chi amano,
cosa comprano” i ragazzi di “una generazione che ormai detta legge”53. La considerazione preliminare è che sono in molti a considerare l’attuale generazione di teenager una “Generazione Invisibile”,
fatta di “ragazzini senza qualità e pure un tantino sfigati”, eppure
“Tendenze”, newsletter dell’osservatorio sui consumi GPF&Asso-
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tava né divieti né limiti”, una “passione contro tutto e contro tutti.
Perfino contro la madre e il fratellino”48. Puntigliosa la descrizione
dell’assassina, di cui si cercano i segni di “squilibrio” in tanta “normalità” con interviste agli insegnanti: chi parla di “premonizioni”,
chi del “magnetismo” della ragazza nei confronti di Omar. E poi sospetti di droga sullo sfondo di una “famiglia del Mulino Bianco”, anche questa puntigliosamente descritta. Il servizio è corredato da un
approfondimento sui casi di quello che la criminologia definisce “omicidio intrafamiliare verticale” ed uno in cui si fa cenno a “chi influenza la fantasia dei giovani”49: le citazioni sono per Marilyn Manson, per alcuni film (Fight Club: “un gruppo di maschi bestiali che
combattono a mani nude fino alla morte”; Sex crime; Boys don’t
cry), per cartoni animati più o meno violenti e volgari (Beavis &
Butthead, South Park) e videogiochi agghiaccianti (Hitman: “un’autentica gara di violenza”; Messiah: “l’obiettivo è quello di arrivare a
Satana facendo a pezzi chiunque si metta di mezzo”). Prevale comunque l’accento sulla “responsabilità individuale”.
Sulla “responsabilità sociale” insiste invece “L’Espresso” che,
sempre l’8 marzo, esce con una copertina in bianco e nero che riproduce una nota foto dei due ragazzi mentre escono da casa De
Nardo dopo il primo sopralluogo, con la solita sfumatura computerizzata nella zona degli occhi. Il titolo è in rosso: Figli nostri. Figli
mostri. Lo stile del servizio principale50 è simile a “Panorama”: si
descrivono i due ragazzi, le loro famiglie, i loro amici, si raccoglie
qualche “indiscrezione” dal diario di Erika, si intervista il preside
della scuola. A parte, si fa il punto dei pareri espressi dagli svariati
specialisti interpellati da stampa e televisione, da psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, psicanalisti (Paolo Crepet in testa, poi Vittorino Andreoli, Anna Oliviero Ferraris, Vera Slepoj, Giovanni Bollea,
Maria Rita Parsi, Maria Teresa Crotti; l’unico apprezzamento è per
l’antropologa Ida Magli), per concludere con un auspicio per il futuro: “Sappiamo di essere stati tutti attraversati nell’infanzia da
desideri e impulsi a noi stessi inconfessati. Non c’è nessuno che
non abbia fantasticato la distruzione delle persone più amate e
che non conservi, ben riposta, questa vaga consapevolezza. Quei
desideri universali sono stati però tenuti a bada dal corso naturale
e armonioso della crescita. Ci è andata bene. E, in qualsiasi tempo
e società, andrà probabilmente bene alla stragrande maggioranza
dei nostri figli”51.
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Consumatori sofisticati, secondo “Tendenze” i teenager “hanno
costruito un universo di consumi e di scelte autonomo, ricco di novità, che attinge a piene mani dalle nuove tecnologie”. Ecco allora lo
scopo del servizio: una “guida per conoscerli da vicino”, citando i gusti in fatto di abbigliamento, accessori, viaggi, cibo e molto altro ancora. A completare e diversificare il quadro, la sintesi di un’ampia indagine curata dai responsabili dei COSPES, i “Centri di Orientamento
scolastico-professionale e sociale” della Congregazione salesiana,
pubblicata per Il Mulino a firma di Giorgio Toniolo con il titolo Adolescenza e identità54. L’indagine ha riguardato dodicimila ragazzi italiani tra i 14 e i 20 anni, che sono stati tenuti sotto osservazione dal
1990 al 1998. Questi i risultati principali: il 94% dei ragazzi ama stare
con gli amici “lontano dai luoghi degli adulti” e quindi “in strada, in
piazza o in casa di coetanei”, luoghi in cui “i maschi parlano di sport,
musica e spettacolo, e le ragazze si scambiano confidenze o affrontano temi di natura esistenziale”; i media risultano “molto amati” e i
teenager “si sentono in grado di dominarli”; la musica è tra i primi
consumi, “dallo stereo alla discoteca, dai concerti ai cd”. Nella ricerca, gli adolescenti sono stati poi catalogati –in base al modo in cui
impiegano il tempo libero– in organizzati, dispersivi, solitari, impegnati e trasgressivi. Il gruppo rimane “la prima palestra di vita autonoma” che ha “una funzione di accoglienza emotiva e affettiva” e
che, nei casi in cui “la famiglia è debole, diviene la prima fonte di crescita”; nel gruppo avviene anche il primo approccio all’altro sesso,
che “si traduce in precoci avvicinamenti fisici eterosessuali, in un
contesto in cui è sfumata l’idea di un vincolo stabile e si anticipano le
possibilità di libera espressione sessuale”. Il rapporto con i genitori e
il clima familiare restano comunque i fattori più influenti sulla crescita, anche se con una “rinegoziazione delle relazioni”. Dalla ricerca
emerge inoltre che la maggioranza dei ragazzi sotto i 20 anni “vede
nel padre un genitore arrabbiato, deluso e intransigente”, mentre le
madri “rappresentano di più un punto di riferimento”, essendo, tra
l’altro, più “comprensive, democratiche e flessibili”. La scuola è un’istituzione giudicata “non al passo coi tempi e incapace di rinnovarsi”,
che tende a privilegiare “i rapporti di profitto a svantaggio del rapporto umano e della comprensione delle situazioni individuali”. Il
37,2% dei teenager pensa inoltre che nella scuola ci sia “mancanza
di dialogo e cordialità”, mentre per molti ragazzi i docenti dovrebbero
essere “più stimolanti e fantasiosi”.
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ciati, diretto dal sociologo Giampaolo Fabris, ha dedicato alla generazione di nati tra il 1979 e il 1994 una lunga riflessione la cui conclusione parla di ragazzi “più pragmatici dei loro fratelli maggiori”
e capaci di “scelte di consumo molto più personalizzate”.
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semplificare le richieste più frequenti sulla base delle dichiarazioni di rappresentanti di alcune aziende produttrici.
Pillole pedagogiche
Anche nel caso degli adolescenti torna il problema dell’educazione. “L’Espresso” se ne occupa nel 1999 in Imparate a dirgli no59, un
servizio che mira a fornire consigli utili ai genitori sulla base delle
osservazioni di svariati specialisti: Asha Phillips, psicoterapeuta infantile formatasi nella Tavistock Clinic di Londra, che nel suo libro I
no che aiutano a crescere, edito da Feltrinelli con una prefazione di
Giovanni Bollea, sostiene che “il divieto, […] se accompagnato dalla
sensibilità alle esigenze del bambino, aiuta nello sviluppo”, perché
“il credo pedagogico più permissivo non sviluppa l’autocontrollo e
favorisce la crescita di baby tiranni che non saranno equilibrati nella
vita”; Jan-Uwe Rogge, docente a Tubinga e consulente di problemi
familiari, nel suo Quando dire no. Per il bene dei nostri figli (traduzione italiana per Pratiche editrice) sottolinea come “chi desidera
filtrare la vita per il bambino e lasciar posto solo agli elementi positivi […] riduce i molteplici aspetti dell’esistenza”, mentre imporre alcuni doveri ai bambini significa non soltanto orientare i comportamenti del momento, ma indicare “una meta da raggiungere” ed invitare alla ricerca, “oltre le frontiere conosciute, [di] nuove direzioni
per nuovi cammini”; lo psicobiologo Alberto Oliviero, che, nel suo
L’arte di imparare (Rizzoli), si esprime infine a favore dei “piccoli
stress” di emulazione e competizione, perché l’“atteggiamento peggiore della nostra epoca” sembra ad Oliviero il “morettismo”, l’“elogio di quello che non si mette alla prova perché ha paura”.
Ancora “L’Espresso”, con la copertina dell’8 febbraio 2001,
preannuncia un’ampia analisi dell’universo adolescenziale ed un
atto di accusa alla fallimentare politica delle tradizionali agenzie
educative60. Lo spunto è offerto da un articolo apparso sulla prima
pagina di “Repubblica”: con il suo Professori, tornate al sette in
condotta, il 21 gennaio 2001 Mario Pirani rilancia “il principio d’autorità in una scuola descritta come una deriva di anarchia, disinteresse, maleducazione e violenza”. Il dilemma è sostanzialmente:
sono “cattivi” i ragazzi oppure “incapaci” gli educatori? Per rispondere a questo interrogativo, si forniscono innanzitutto i risultati di
un’indagine commissionata dal settimanale al CIRM e condotta su
un campione di 570 ragazzi tra i 16 e i 18 anni, da cui emergono
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Nel 2000, invece, “L’Espresso” si occupa della “moda” (e del
“business”) dei messaggi sms55. Il servizio parte dalla considerazione che gli utenti sono soprattutto “i giovani tra i 16 e i 24 anni”,
visto che “82 studenti su 100 hanno un telefono cellulare”. Sui
messaggi inviati, il giudizio di valore è immediato: “la maggior
parte […] sono del tutto inutili, generati solamente dalla possibilità
di spedirli, secondo le leggi del più entusiastico consumismo”. Dopo aver spiegato le modalità espressive di questi messaggi, caratterizzati da brevità e numerosi emoticon (emotion e icon = icona emotiva)56, vengono riportate brevemente le opinioni del sociologo
Alberto Abruzzese (“Siamo agli albori di una nuova forma di comunicazione”) e del linguista Tullio De Mauro (“Ben vengano gli short
message, potranno solo arricchire la comunicazione”). L’articolo
continua illustrando le iniziative di mercato e le modalità di adozione del linguaggio degli sms anche da parte dell’editoria e della
politica. Più interessante è un’intervista a Paolo Fabbri, docente di
Semiotica al Dams di Bologna, il quale divide anzitutto i cosiddetti
“messaggini” in tre categorie: stenogramma (“scrittura abbreviata, sul genere di quella sviluppata su Internet, ma ancora più essenziale”), memo (“un’asciutta informazione”), memoranda (“una
comunicazione personale, […] fortemente enfatica. È la poesia del
messaggino, il mondo del punto esclamativo. Perché lo spazio è
ridotto, le frasi necessariamente brevi, e si vira su uno stile poetico che ricorda gli haiku giapponesi”)57. Partendo poi dal presupposto che “è un errore continuare a studiare da una parte i telefonini
e dall’altra gli uomini”, poiché “bisogna rapportarsi con il nuovo ibrido: una persona con una cosa appiccicata all’orecchio”, Fabbri
conclude che “il giovane uomo tecnologico ha ritrovato il gusto di
scrivere. È una piccola vittoria di Gutemberg. Seppure con frasi
smozzicate, prive di verbi e grammaticalmente discutibili, i ragazzi
scrivono. Pensare che pochi anni fa eravamo tutti convinti che la tv
avrebbe sepolto per sempre la comunicazione scritta”. E, tanto per
tornare al mercato, è a questo “giovane uomo tecnologico” che
“L’Espresso” dedica, sempre nel 2000, un importante servizio che
parla di tecnologia prendendo spunto dal grande successo, riscosso presso i giovanissimi, del celeberrimo Futurshow58. Nell’occhiello si legge Tecnoadolescenti / La dittatura dei giovani sull’industria, ma il servizio, più che cercare di interpretare il fenomeno
dell’uso massiccio di tecnologia da parte dei ragazzi, si limita a e-
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“baby sboomer” gli sembra essere il “disimpegno dei loro genitori”, un disimpegno “assimilato con merendine, hamburger, playstation e vacanze in camper. Politica in dosi omeopatiche, o al
massimo per prescrizione televisiva. Religione quel tanto che basta per non dichiararsi del tutto scristianizzati”. In questo contesto, il telefonino appare non tanto uno strumento di comunicazione
o semplicemente di consumo, quanto “un surrogato portatile delle
infrastrutture”, se si considera che si comunica anche “per tenere
sotto controllo l’organizzazione quotidiana, in una società che i padri si sono dimenticati di modernizzare”. Così si spiega pure l’imperare degli “oggetti” e delle “figure” della “rassicurazione collettiva”, come le chat-line, gli sms, la mamma, la monogamia61.
Cito un ultimo servizio: quello in cui “Panorama”, a poco più di
un mese dal delitto di Novi Ligure, cerca di “definire” gli adolescenti una volta per tutte. Ben sei giornalisti compilano, in questo
servizio speciale, un elenco alfabetico di tutto quello che i genitori
dovrebbero sapere su “cosa fanno i ragazzini” quando escono di
casa62, mentre la sequenza di dati statistici commentati è corredata da schede che riguardano la vita quotidiana dei ragazzi di alcune grandi città italiane (Milano, Roma, Palermo) e di Treviso63. L’articolo viene introdotto riportando, intanto, il risultato di un’inchiesta svolta da Radio 105, che ha rivelato che i genitori italiani riescono a trovare appena otto minuti al giorno per parlare con i figli.
Il servizio di “Panorama” vuole allora aiutare a capire, “in otto minuti, dove vanno e cosa fanno i figli adolescenti quando non sono in
casa”. Perché quando sono in casa il problema, secondo il settimanale, non si pone: la vita familiare si basa su un “contratto” di
questo tipo: “Tu fai il bravo e io ti do tutto quello che chiedi”. È con
questo contratto che Carlo Buzzi, direttore ricerca dello IARD, spiega la tendenza a rimanere in famiglia fino a 30 anni: “semplicemente, è molto comodo”. Fuori di casa, invece, “i ragazzi vivono vite parallele, con regole diverse”, “regole” (in senso largo) che “Panorama” cerca di elencare come in un “dizionario dei segreti dei 3
milioni e mezzo di adolescenti nostrani”, “quasi una guida per genitori”, e comunque per chiunque volesse capire i dati dell’ultimo
rapporto IARD, che indicano che il 28% dei ragazzi tra i 15 e i 17 anni si dichiara “preoccupato”, il 24,4% “turbato” e il 20,7% “irrimediabilmente solo”64. Qui è sufficiente elencare le voci per avere
un’idea del tipo d’analisi cui siamo di fronte: alcool, ballo, compa-
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questi dati medi: i ragazzi dedicano cinque ore al giorno allo studio
e due ore alla tv, leggono tre libri l’anno, ascoltano musica per
un’ora e mezzo al giorno, per il 50% navigano in internet, dedicano
allo sport due ore e mezzo a settimana, per il 79% posseggono un
cellulare e per il 53% un motorino, hanno più confidenza con le
madri che con i padri, nella maggior parte dei casi credono in Dio
ma non vanno mai a messa, nella maggior parte dei casi non hanno mai fumato uno spinello (con una percentuale maggiore tra le
ragazze), la discoteca è uno dei luoghi preferiti per ritrovarsi (seguito dalla strada, la pizzeria, il bar e casa di amici), nel 55% dei
casi hanno avuto rapporti sessuali completi. Dal sondaggio emerge un’immagine piuttosto “tranquillizzante” degli adolescenti italiani, ancora una volta descritti come individui che usano quotidianamente la tecnologia, dal cellulare a internet ai cd-rom. Con i risvolti negativi del caso, perché “i ragazzini a scuola fanno cose
nuove e strane”, “portano il cellulare in classe, non leggono più i
romanzi, hanno noia della storia e ribrezzo della politica”, “danno
del tu all’insegnante di 60 anni, parlano volgare, si stravaccano tra
i banchi con l’anello al naso, si spinellano in bagno nell’indifferenza generale”. Nei giovani sembrano convivere “regressione ed esplorazione”, “tribalismo e tecnologia”. Che cosa pensare? È davvero utile il sette in condotta? O bisogna riflettere sulla “crisi” dell’istituzione scolastica?
Il nodo cruciale sembra la mancanza di fiducia nell’insegnante
da parte dei ragazzi, che, se ne avevano “molta o abbastanza” nel
70% dei casi nel 1983, quella percentuale è scesa al 63,1% del
1992 e al 58,1% del 2000. La psicologa Silvia Vegetti Finzi parla di
“modelli deboli” cui i ragazzi sono costretti a fare riferimento, sia
a scuola che in famiglia: se a casa ci sono “padri vacanti o dimissionari”, il problema “si riflette sulla scuola”, dove l’insegnante-amico non può certamente essere un sostituto valido. I ragazzi,
conclude Vegetti Finzi, “devi farteli alleati, partecipare alla loro ricerca, sforzarti di cogliere i loro elementi di creatività”. Edmondo
Berselli, infine, chiosa il tutto dicendo che, di fronte all’attuale generazione di adolescenti, “tutte le categorie apocalittiche suggellate dalla professione sociologica sbiadiscono in un alone indistinto”, mentre l’“unica certezza” rimane il fatto che non sono in corso
“rivolte consapevoli, generazionali o politiche, ma neanche familiari o scolastiche”: la causa ultima delle “grandi percentuali di
235
gnia, droga, e-mail, famiglia, gergo, hobby, interrogazioni, look,
modelli, noia, orari, paghetta, qualunquismo, riti, sesso, telefonino, underground, videogame, zona proibita (la camera dei ragazzi).
236
Quaderno di COMUNICazione
P. Rossi, Bambini, sogni, furori, Feltrinelli, Milano 2001.
D. Richter, Il bambino estraneo: la nascita dell’immagine dell’infanzia nel
mondo borghese, La Nuova Italia, Firenze 1992.
3
P. Rossi, Bambini…, cit., p.66.
4
I cinque sono stati condannati, Porpora a 30 anni e gli altri all’ergastolo, nel
2002.
5
R. Bianchin, Due assassini per Hegere, il clandestino che non era solo, “la
Repubblica”, 22 agosto 2000.
6
D. Alfonso, “Pubblicate i nomi di questi criminali”, “la Repubblica”, 20 agosto 2000.
7
Cfr. D. Julia, L’infanzia agli inizi dell’epoca moderna (in particolare Innocenza e massacro, pp.236 e sgg.), in E.Becchi, D.Julia, Storia dell’infanzia, Laterza,
Roma-Bari 1996, volume I, pp.231-311.
8
Riportato in M. Politi, “Un atto di barbarie. È roba da giustizieri”, “la Repubblica”, 24 agosto 2000.
9
F. Scaparro, Insieme contro i lupi, “Corriere della Sera”, 21 agosto 2000.
10
D. Maraini, Il silenzio degli ipocriti, “Corriere della Sera”, 27 agosto 2000.
11
I. Magli, La malattia abolita per legge, “Il Giornale”, 22 agosto 2000.
12
L. Arezzo, Ecco il manuale dei bambini per difendersi dai maniaci, “Il Giornale”, 22 agosto 2000.
13
M. Veneziani, Al picnic della barbarie, “Il Giornale”, 23 agosto 2000.
14
L. Fazio, “L’orco vive in famiglia”, “il manifesto”, 22 agosto 2000.
15
G. Ragozzino, Il paradiso dei bimbi, “il manifesto”, 23 agosto 2000.
16
L. Quagliata, Il pedofilo nella società del godimento, “il manifesto”, 26 agosto 2000.
17
Cfr. per esempio S. Pende, Bucarest. Periferia dell’inferno, “Panorama”,
anno XXXIX, n.24, 14 giugno 2001, pp.44-48, in cui si parla dei bambini cosiddetti
“figli di Ceaucescu”, sfruttati sessualmente e costretti ad affollare le fogne e a
sniffare colla o assumere eroina per non sentire la fame e il dolore delle pratiche
aberranti cui sono sottoposti.
18
A. Stabile, Il paradiso degli orchi nel caos della nuova Russia, “la Repubblica”,
28 settembre 2000.
19
U. Galimberti, Quando i bambini sono una merce, “la Repubblica”, 28 settembre 2000. Corsivi miei.
20
U. Galimberti, Il pericolo del silenzio, “la Repubblica”, 30 settembre 2000.
21
Galimberti sottolinea come nel “Nuovo Dizionario di Sessuologia” Longanesi,
a pagina 920, la pederastia è definita come immissio penis in anum, definizione
che non consente di distinguerla da analoghe pratiche omosessuali ed eterosessuali. In ogni caso questo dizionario dedica circa trenta linee alla pederastia, mentre –denuncia Galimberti– la ignorano completamente il “Dizionario di Psicologia”
edito da Laterza, il “Trattato di Psicoanalisi” di Musatti e il “Manuale di Psichiatria” di Silvano Arieti. Diluiscono pederastia in pedofilia e vi dedicano poche righe
il “Trattato di Psicoanalisi” di Alberto Semi, il “Dizionario di Psicologia” di Dalla
Volta e l’“Enciclopedia Psichiatrica” della Roche. Gli dedica tre righe definendola
1
2
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
Osservatorio
Ciò che resta (dopo il diluvio)
Come si vede, le interpretazioni degli specialisti (per lo più psichiatri, sociologi e criminologi) sono quasi sempre contrastanti, e
le modalità di “lettura” delle notizie indicano la persistenza nella
contemporaneità di quella che la storiografia d’infanzia evidenzia
come una forma intramontabile di “alienazione dell’infanzia” 65.
Sia i fatti di cui siamo informati che il modo di interpretarli (a livello giornalistico e non) indicano chiaramente la tendenza ad oggettivare bambini e ragazzi, facendo prevalere –cioè– le aspettative, le emozioni, le ideologie adulte su un universo infantile per interpretare correttamente il quale non si possiedono ancora gli
strumenti adatti. Nella continua sovrapposizione tra vita dei bambini e immaginario adulto, rimane ben poco della “realtà” quotidiana degli infantes (ammesso che una realtà del genere si possa
cogliere), ritratta in rare pagine di ottimo giornalismo eticamente
corretto e capace, per questo, di un “racconto” privo di fuorvianti
sociologismi. La maggior parte delle cronache cominciano e restano irretite nell’ambiguità adulta, e si convertono presto in consigli, esortazioni, prescrizioni per gli adulti. Prescrizioni che poi
sono quasi sempre tradizionali: sorvegliare, disciplinare ed eventualmente punire. Le acquisizioni più raffinate, che rimandano alla complessità del soggetto infantile e, quindi, dell’approccio adulto ad esso fuori dal tenace velo metaforico denunciato dagli
storici dell’infanzia, rimangono appannaggio di una ristretta élite.
È evidente, dunque, il permanere di una profonda cesura tra
“senso comune” e “consapevolezza dei chierici”: questi ultimi intervengono sui giornali (e magari in televisione) per distribuire le
tessere di un puzzle difficile a comporsi. Che dire dunque del rapporto tra stampa italiana e cultura d’infanzia? Che dell’assenza di
questa cultura la stampa italiana è insieme vittima e produttrice.
Note
237
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
U. Galimberti, L’abisso di ragazzi perbene, “la Repubblica”, 24 febbraio
2001.
42
M. Serra, Non accusate il vuoto, “la Repubblica”, 28 febbraio 2001.
43
A. Dal Lago, Chi fa paura, “il manifesto”, 25 febbraio 2001.
44
L. Pintor, Il coro, “il manifesto”, 25 febbraio 2001.
45
A. Grasso, Nello spot degli sms tutta la distanza delle famiglie, “Corriere
della Sera”, 25 febbraio 2001.
46
Cfr. I dieci segnali da tenere sotto controllo, “il Giornale”, 26 febbraio 2001.
47
B. Spinelli, Famiglie, vi odio!, “La Stampa”, 1 marzo 2001, p.1 e p.6.
48
S. Pende, C. Abbate, A sangue freddo, “Panorama”, anno XXXIX, n.10, 8 marzo
2001, pp.38-47.
49
Brutti, sporchi e soprattutto cattivi, “Panorama”, anno XXXIX, n.10, 8 marzo
2001, pp.46-47.
50
R. Di Caro, Figli nostri assassini, “L’Espresso”, anno XLVII, 8 marzo 2001,
pp.40-49.
51
S. Rossini, Benvenuti alla fiera della psico-interpretazione, “L’Espresso”,
anno XLVII, 8 marzo 2001, pp.44-45.
52
M. Crosetti, “La mia vita finisce oggi”, “la Repubblica”, 15 dicembre 2001.
53
S. Pistolini, Teen-ager sì, coatti no, “L’Espresso”, anno XLIV, n.28, 15 luglio
1999, pp.112-117.
54
Cfr. l’articolo di G. Schwarz, Otto anni sotto la lente, ivi, pp.116-117.
55
S. Pistolini, Short Generation, “L’Espresso”, anno XLV, n.11, 16 marzo 2000,
pp.84-88.
56
Ecco un esempio riportato nell’articolo: “xk 6: - (? xxx” significa “Perché sei
triste? Tanti baci”.
57
S. P., È la rivincita di Gutemberg, ivi, p.87.
58
E. Manacorda, Generazione FuturShow, “L’Espresso”, anno XLV, n.6, 6 aprile
2000, pp.40-43.
59
M. Serri, Imparate a dirgli no, “L’Espresso”, anno XLIV, n.41, 14 ottobre
1999, pp.44-45.
60
E. Arosio, Guerra di classe, “L’Espresso”, anno XLVI, n.6, 8 febbraio 2001,
pp.36-42.
61
Per esempio “gli “sprecati”, i “ragazzi senza tempo” i “suoni nel silenzio”, la
“generazione in ecstasy”. Cfr. E. Berselli, Rimedio dal sapore antico, ivi, p.38.
62
D. Burchiellaro, S. Mangiaterra, G. Padovani, A. Piperno, B. Stancanelli, Ma
cosa fanno i ragazzini (quando escono di casa), “Panorama”, anno XXXIX, n.13, 29
marzo 2001, pp.40-48.
63
La prospettiva locale è in verità trattata in maniera un po’ troppo schematica. Cfr. Tutte le mode nascono sul Naviglio, (Milano) p.43; Papà, usciamo e comprami tutto, (Treviso) p.45; Ma tu sei fighetto o hiphoppettaro?, (Roma) p.47; La
piazza della birra e della marijuana, (Palermo) p.48.
64
Ivi, p.42. Non si capisce bene per che cosa o da che cosa gli adolescenti si
sentono preoccupati o turbati.
65
D. Bertoni Jovine, L’alienazione dell’infanzia, Editori Riuniti, Roma 1963. Si
allude ad una ricerca ormai datata, riproposta e attualizzata da Angelo Semeraro
in edizione critica per Manzuoli, Firenze 1989.
41
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
238
coitus per anum il “Dizionario di Psichiatria” di Hinsie e Campbell, e una colonna e
mezzo sotto la voce pedofilia il “Lessico di Psichiatria” di Christian Muller. Lo
stesso Galimberti ammette che nel suo “Dizionario di Psicologia” ha dedicato alla
pederastia due righe e alla pedofilia quattordici.
22
Il riferimento è, naturalmente, al turismo sessuale.
23
M. Cervi, Le perversioni della rete, “Il Giornale”, 28 settembre 2000.
24
I. B. Fedrigotti, L’altra razza umana, “Corriere della Sera”, 28 settembre 2000.
25
C. Mariotti, Fortissimamente pulp, “L’Espresso”, anno XLV, n.41, 14 ottobre
2000, pp.45-49.
26
Trascurerò di rendere conto dell’inchiesta aperta per verificare la provenienza di queste immagini, che la Magistratura non era autorizzata a fornire.
27
www.odg.mi.it/feltri9.htm. La pubblicazione delle otto fotografie viola gli articoli 2 e 48 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica
in relazione all’articolo 21 (VI comma) della Costituzione e all’articolo 15 della
legge 47/1948 sulla stampa.
28
www.odg.mi.it/gad.htm.
29
S. Rossini, Tatiana che avrà 13 anni nel Duemila, “L’Espresso”, anno XLIV,
n.41, 14 ottobre 1999, pp.70-71. La tematica viene ripresa in un servizio successivo, a carattere più generale. Cfr. E. Attolico, Top bimbe in passerella,
“L’Espresso”, anno XLIV, n.47, 25 novembre 1999, p.115.
30
Cfr. M. Tortorella, Nonsolomodelle; M. Boglierdi, Sotto il vestito, l’agenzia;
G. Amadori, Il business dei sogni che restano tali; M. Bogliardi, A. Matarrese, Piacere, sarò il tuo model driver; ma soprattutto A. Matarrese, Facciamo le Barbie (e
papà fa i soldi): tutti servizi facenti parte di un’inchiesta annunciata in copertina su
“Panorama”, anno XXXVII, n.48, 2 dicembre 1999, pp.36-46. Il secondo speciale è
M. Bogliardi, P. Busnelli, A. Matarrese, Moda. Tutto quello che non vi hanno mai
raccontato, “Panorama”, anno XXXVIII, n.8, 24 febbraio 2000, pp.168-173.
31
M. Bogliardi, P. Busnelli, A. Matarrese, Moda. Tutto quello…, cit., p.172.
32
W. Ward, Potter Generation, “Panorama”, anno XXXVIII, n.29, 20 luglio 2000,
p.135.
33
L. Soria, Tutti pazzi per Harry Potter, “L’Espresso”, anno XLV, n.29, 20 luglio
2000, pp.174-175.
34
E. Rosa-Clot, Harry Potter. Tutti vogliono essere così, “Panorama”, anno
XXXIX, n.49, 6 dicembre 2001, pp.242-249.
35
B. Di Leo, Magico merchandising, “Panorama”, anno XXXIX, n.49, 6 dicembre
2001, pp.251-254.
36
I pareri sono riportati nella rubrica Pro & Contro. Cfr. “Panorama”, anno
XXXVII, n.24, 17 giugno 1999, p.209.
37
Cfr. F. Amoni, Cari genitori non mi servite più, “Panorama”, anno XXXVII,
n.32, 12 agosto 1999, pp.106-109.
38
M. Bogliardi, E. Rosa-Clot, Come si educa davvero un bambino, “Panorama”, anno XXXVII, n.45, 11 novembre 1999, pp.278-287.
39
Le sette regole d’oro per crescerli bene, ivi, p.281. Le parole in corsivo sono
evidenziate in grassetto nel testo originale.
40
Anche “L’Espresso” si è occupato di queste tematiche, ma con un taglio diverso. Ne parlerò a breve.
239
giovanni fiorentino
play, sul videogioco
“Ma che fa il bambino della sua ragione,
se non la usa, se non la utilizza? Che fa?
Quello che fa di tutto: ci gioca”.
J. Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, 1933
240
Nello stesso anno, sul mercato dei videogiochi è arrivato il Nintendo 64, ultima versione di console a 64 bit prodotta da una delle
grandi aziende del settore. La brochure recita in maniera spudoratamente pubblicitaria: “l’ultima grandiosa console in grado di affrontare le sfide del terzo millennio”. L’azienda giapponese si inscrive direttamente a vivere il futuro. “Le sue possibilità –continua
il testo pubblicitario– di generare realistici mondi tridimensionali,
la sua eccezionale risoluzione grafica, la sua straordinaria capacità
di muovere figure e oggetti fluidamente, insieme alla possibilità di
rappresentare due milioni di colori contribuiscono a realizzare il
desiderio di ogni giocatore di vivere e non più solo osservare l’emozionante realtà virtuale”. La virtualità audiovisiva senza il filtro della tastiera. “Accendi e gioca!”, recita ancora con enfasi l’invito sulla
confezione, per entrare nelle simulazioni a tre dimensioni, per
“scegliere il punto prospettico da cui giocare, zoomare sui protagonisti e sugli oggetti, oppure girargli attorno…”. Il videogioco Super
Mario 3D, realizzato da Shigeru Miyamoto, integra simulazione e
immedesimazione, realismo ottico, sonoro e sensibile. Mario Bros,
l’idraulico più conosciuto e apprezzato dai bambini1, attraversa
Quaderno di COMUNICazione
La realtà che abbiamo di fronte è l’infinito “popolo dei joystick”
(Herz, 1997), un bambino grande giocatore e grande consumatore
che diventa manipolatore di schermi, oggetto di indagini di mercato, in grado di orientare i gusti degli adulti. Si delinea un mercato
mondiale di consumi infantili e un’industria dei videogiochi in espansione costante, un sistema composito, fatto anche di giornali2,
gadget, assistenza e scambi in rete, siti specializzati. Si constata
uno spazio di confine tra fumetto, cinema, tv e cartoni animati che
fa registrare un giro d’affari annuo di trentadue miliardi e solo negli Stati Uniti offre lavoro a centomila persone. Questa è la realtà
ai margini delle agenzie formative classiche –scuola e famiglia–:
un sistema tecnologico e culturale compiuto del presente sociale
(Carzo-Centorrino, 2002; Colombo-Cardini, 1996; Fiorentino,
2000), fenomeno economico, tecnico, scientifico, affare in cui ognuno vuole entrare, dalle aziende specializzate in prodotti tecnologici, a quelle che operano nel campo delle comunicazioni, fino ai
principali produttori di giocattoli, fenomeno mediale dalle dimensioni in crescita inalterata, nonostante la crisi della new economy,
che coinvolge utenti bambini e giovani ma non solo, che viola le discriminanti generazionali, a favore di una comunità allargata di
giocatori che talvolta non manca di ricongiungere padri e figli.
Per comprendere un mercato dominato dalle console dei nostri fi-
Quaderno di COMUNICazione
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Nel dicembre 1997 ho intervistato lo scrittore ebreo
Uri Orlev, che ha scritto molti libri per bambini. Alcuni,
in particolar modo L’isola in via degli Uccelli, raccontano l’Olocausto dal suo punto di vista infantile. Nel
raccontare la sua esperienza e i suoi libri dice: “I bambini hanno bisogno di giocare, sempre, proprio come
hanno bisogno di mangiare: anche nel ghetto, anche
nei campi di concentramento: finché non venivano
ammazzati, i bambini giocavano. Saltavano, tiravano
calci a palloni fatti di stracci, nelle case prive di vita
del ghetto c’erano un sacco di giocattoli per i bambini. Anche nel
campo di concentramento di Bergen Belsen, accanto alla morte
c’era il gioco e la vita”.
stanze di palazzi meravigliosi e grotte sotterranee, passa da paesaggi ghiacciati a scenari con vulcani eruttanti, si infila nelle trame
e nelle sottotrame del gioco, è identità mutante del bambino giocatore che controllando il joystick associa strategia e azione, si muove liberamente e si immerge nella virtualità di un ambiente tridimensionale fatto di suoni, immagini, spazi sinestetici da esplorare,
sperimentare, vivere. Le macchine per giocare entrano a far parte
del corpo, lo sguardo si indirizza verso l’universo di simulazione,
ma è l’apparato percettivo nel suo complesso a sentirsi immerso
nella dimensione del gioco: attraverso l’unità di mano e joystick,
con il tatto, la sensibilità del palmo della mano, di pollice e indice,
si ricostruisce la tangenza tra corpo e mondo (Serres, 1985; Semeraro, 2002), si recupera ampiamente una sensorialità che è sfera
della realtà sfuggente all’occhio ordinario adulto, comunque dominante nella crescita, nello sviluppo e nell’apprendimento della prima infanzia.
241
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
mancano: l’azienda di videogiochi di George Lucas, il regista della
saga di Guerre Stellari, sviluppa e produce giochi dedicati ad Anakin e soci. Steven Spielberg, investe in sale giochi con il particolare che si tratta delle più avanzate nel mondo: nel 1997 ha inaugurato a Seattle Gameworks, un gigantesco centro giochi elettronico
frutto della collaborazione tra la Dream Works, gli Universal Studios e Sega. Il centro vuole concretizzare la dimensione collettiva e
spettacolare del videogioco con il contributo dei migliori programmatori di giochi e designer dei parchi tematici americani4.
Ultimo dato da registrare è il convergere della ricerca tecnologica e scientifica con la grande industria dei giocattoli, nella prospettiva unica della simulazione in Internet. Le ludoteche telematiche proliferano, il mercato del videogioco rappresenta l’affare più
ricco della rete e secondo i dati di Juppiter Communications il gioco interattivo in rete raddoppia di fatturato anno dopo anno. Nei laboratori del MIT di Boston si inventano i giocattoli del futuro, con
partner economici come Lego, Disney, Mattel, Hasbro, Banday,
Toys’r’Us, affiancati da aziende che producono computer o che operano nel campo delle comunicazioni. “Mai prima d’ora –afferma
Nicholas Negroponte, fondatore del Media Lab del MIT– i principali
produttori di giocattoli del mondo, le aziende di prodotti tecnologici
e le organizzazioni sportive avevano collaborato in questo modo… i
giocattoli del futuro porteranno con sé parte delle tecnologia più
imponente e ispiratrice che l’umanità abbia mai inventato. Ed essa
sarà in mano ai bambini, cui appartiene” (1998, p.11).
Molto prima dei videogiochi, la ricerca sulla socializzazione ha
mostrato i suoi limiti al confronto con i consumi culturali di massa. Se il Novecento lascia registrare l’ingresso pervasivo nell’ordinarietà della vita prima dei mezzi di comunicazione generalisti,
poi dei personal media, è singolare costatare come parallelamente la storia dell’istituzione scolastica ha visto allontanarsi sempre
più il suo ambiente naturale d’apprendimento dalla vita quotidiana dei suoi utenti. I limiti di una scuola che da sempre ha fatto pochissime concessioni ai media e vive un rapporto difficile con i
mezzi di comunicazione tecnologica alternativi alla scrittura e alla parola, fanno il pari con la crisi d’identità della famiglia e delle
istituzioni educative in genere, oltre che con l’inadeguatezza dei
paradigmi classici della ricerca sociologica.
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
242
gli, ma che viene a coincidere sempre più con lo sviluppo delle nuove
tecnologie e che vede il contenuto ludico caratterizzare l’offerta di
media diversi tra loro, dal telefono cellulare alla tv satellitare, è opportuno prendere in esame il caso e, sinteticamente, i numeri della
Sony: per entrare nel mercato dei videogiochi, l’azienda giapponese
ha creato appositamente nel ’92 la multinazionale Sony Computer
Entertainment. Nel ’95 sul mercato arriva la prima Playstation, una
console che somiglia a un computer e mira a un mercato che non è
fatto di soli bambini. Dopo tre anni Sony ha raggiunto e superato la
concorrenza, ha venduto duecentosessantaquattro milioni di giochi,
ha diffuso trentasette milioni di console in tutto il mondo, delle quali
circa un milione in Italia. Lo scontro commerciale che negli anni Ottanta ha visto sfidarsi aziende specializzate (Sega e Nintendo) oggi
vede in campo i colossi dell’industria tecnologica giapponese e americana: nel marzo 2000 Sony ha immesso sul mercato l’ultimo modello di Playstation (PS2), vendendone in solo tre giorni 980mila
pezzi3, dal canto suo Microsoft fa debuttare la console X-Box che prevede una maggiore realtà nella simulazione, un lettore DVD incorporato e la possibilità di connessione in Internet, con la vecchia guardia
del videogioco, è il caso di Nintendo, che prova a recuperare il mercato perduto con la nuova console Game Cube.
Ancora alcuni elementi di riflessione: dal cinema, l’illusione della vita si trasferisce ai videogiochi; i personaggi, i luoghi, le storie
dell’immaginario cinematografico e mediale vengono controllate e
personalizzate da un joystick; i videogiochi sviluppano le forme di
narrazione classica, coinvolgendo il bambino con dinamiche interattive; gli interessi dell’industria dello spettacolo vanno a coincidere con il gioco sul piccolo schermo; le fasi di creazione, programmazione e produzione di un videogame ricordano sempre più il circuito produttivo dell’industria cinematografica (Grasso, 1985; Goldfinger, 1994; Ascione, 1999; Fiorentino, 2000). Il flusso dei contenuti
si è fatto reciproco e mutuabile, Lara Croft approda allo schermo
cinematografico, Harry Potter, scivola dalle pagine della saga testuale al cinema, ai file di videogiochi. Walt Disney, che rappresenta l’avanguardia multinazionale di un sistema che occupa in maniera invasiva ogni spazio della comunicazione mediale, fa transitare i
suoi personaggi dalle pagine di libri e giornali a grandi e piccoli
schermi, fino a diventare protagonisti di giochi interattivi su cd rom
o di cacce al tesoro in Internet. Altri esempi caratterizzanti non
243
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
dere la prima metà degli anni Ottanta per avere una prima specifica riflessione bibliografica (Grasso, 1985; Bates, 1985), e approdare
agli anni Novanta per verificare un primo approccio sistematizzato
al fenomeno in ambito sociologico (Le Diberder-Le Diberder, 1993;
Colombo-Cardini, 1996). Indubbiamente percorsi ricorrenti, provengono dall’area di ricerca psicologica, inglobano i videogiochi nell’universo delle tecnologie informatiche e sembrano obbligati nell’orientare sempre e necessariamente un atteggiamento preciso a favore o, più spesso, contro6 l’utilizzo dei videogiochi da parte dei
bambini, spesso, e non a ragione, pensati come unico interlocutore
dell’oggetto in questione. Voci in difesa dei videogiochi, sebbene in
quantità inferiore, tendono a evidenziare le potenzialità didattiche
ed educative degli strumenti informatici (Graham, 1988; Loftus,
1983; Papert, 1980 e 1993; Turkle, 1996) e per quanto riguarda la
ricerca italiana di ambito psicopedagogico non mancano di percorsi
originali (Antinucci, 1992 e 1999; Maragliano, 1996).
Contributi più recenti tendono a evidenziare lo statuto autonomo dei videogiochi in quanto prodotto dell’industria culturale, sottolineando l’aspetto articolato e complesso dei videogiochi (Sheff,
1994; Rich, 1991; Le Diberder-Le Diberder, 1993; Colombo-Cardini, 1996; Carzo-Centorrino, 2002). Inoltre alcune ricerche si misurano con la ricostruzione storica e la classificazione dei videogiochi, talvolta rivolte direttamente a un pubblico di giocatori, e in
questo caso solo parzialmente da tenere in considerazione (Carlà,
1994; Jolivalt, 1994; Ascione, 1999).
La storia e lo sviluppo dei videogiochi dimostrano un profondo
radicamento nella storia e negli sviluppi dei nuovi media, oltre che
nella sensibilità di percorsi già interiorizzati dalla natura del bambino. I fratelli Le Diberder (1993) sintetizzano il mutevole panorama
del mercato dei videogiochi, dalla fase mitica e originaria di Pong
(1972) fino alla metà degli anni Novanta, in tre fasi essenziali che
corrispondono all’evoluzione delle case produttrici di hardware. Una
prima fase vede la nascita e la diffusione delle prime console, con
una scarsa e inadeguata produzione di software. Dal 1972 al 1977, i
titoli offerti sul mercato rappresentano più o meno versioni aggiornate di Pong. Un secondo momento vede la diffusione degli home
computer e la scissione fra editori e programmatori, con una immediata sovrapproduzione di console e cartucce e il conseguente svi-
Quaderno di COMUNICazione
Osservatorio
244
È il caso quindi, provando a sintetizzare e semplificare con Morcellini, di individuare nell’ambito delle ricerche sulla socializzazione,
i due filoni fondamentali, radicati essenzialmente nella tradizione
sociologica (1992, pp.75-77)5. Da una parte si riscontra un itinerario
segnato dalla ricerca funzionalista, lungo una linea che parte da
Durkheim (1922) per approdare fino a Parsons (1964) e Merton
(1949). Si tratta di un’area che offre una versione problematica e
“preoccupata” del processo di socializzazione, definito in quanto
percorso essenziale ai fini della riproduzione delle condizioni di esistenza del sistema sociale stesso, come apprendimento e interiorizzazione di un complesso di regole definite che predeterminano il
comportamento degli attori sociali, come processi educativi dalla
funzione prevalentemente integrativa. Dall’altra parte un orientamento che fa capo all’interazionismo e trova riferimento centrale
nelle riflessioni di Mead (1934) e Goffman (1959), tende a leggere la
socializzazione dalla parte dell’individuo, come sviluppo delle sue
potenzialità e capacità, come negoziazione e interazione di un minore che si fa soggetto attivo.
È naturale constatare che entrambi i punti di vista si mostrano
sostanzialmente inadeguati a porsi quali esclusivi presupposti teorici per un’interpretazione del processo di socializzazione. Impensabile accedere al mercato nero della socializzazione informale con
tali paradigmi di riferimento, difficile affrontare la centralità che i
media occupano nella vita quotidiana dei ragazzi. Per confrontarsi
debitamente con l’ambiente d’apprendimento del bambino, con vere
e proprie agenzie socializzanti –dal televisore al videogioco, fino al
personal computer e alle reti telematiche– è opportuno muoversi su
linee di confine e spazi di mutuo scambio tra ambiti disciplinari più
diversi. È d’obbligo tener da conto riflessioni storicamente centrali
in ambito educativo come quelle di John Dewey, per quanto concerne l’ambito della sociologia e della filosofia dell’educazione, o come
quelle di Jean Piaget, sul versante più specificamente psicopedagogico, bisogna accogliere i più recenti contributi nell’ambito specifico
della sociologia della comunicazione e della sociologia dell’educazione, bisogna controllare tutta quella eterogenea bibliografia pedagogica, psicologica, antropologica e sociologica, che porta da una
parte il gioco, dall’altra i mezzi di comunicazione, al centro dei processi di apprendimento del bambino.
Per quanto riguarda lo specifico dei videogiochi bisognerà atten-
245
246
Se proviamo a interrogare la natura di un videogioco nella sostanza della sua interazione con il bambino, scopriamo un audiovisivo con il quale l’utente interagisce fisicamente oltre che mentalmente, che ci propone un itinerario narrativo su cui il giocatore interviene attivamente, trasformando la relativa passitività del pubblico in operatività dell’utente. I videogiochi ridefiniscono il rapporto tra corpo e tecnologia, affinano una nuova sensibilità, sviluppano abilità specifiche che si definiscono in sintonia con l’evoluzione
tecnologica della società, mettono in gioco una intensa attività
percettiva di natura psicomotoria che coinvolge sensi, azioni e figure che la tradizione della scrittura ha storicamente e socialmente mortificato (Abruzzese, 1996). Oltre il cinema e la televisio-
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ne, Maragliano (1996) prova a evidenziare come i videogiochi spingano in avanti i termini dell’espansione sensoriale, aggiungano alla vista e all’udito la nuova dimensione della tattilità, estendendo il
grado di partecipazione del corpo al processo comunicativo. Il gioco nel video è l’ambiente naturalmente artificiale per il bambino
della proiezione, dell’immedesimazione, della sfida, dell’esplorazione, dell’apprendimento. Il piano strategico è affiancato dall’azione, la storia porta a interpretare ruoli, incontrare personaggi,
raccogliere oggetti, risolvere enigmi, la forza degli ibridi di grande
successo su un mercato globalizzato dal target sempre più indifferenziato, e penso naturalmente all’esempio di Lara Croft, è affiancata dalla sfida locale di prodotti che nel mercato educational provano a ricalcare i modelli, localizzandoli su target e contenuti specifici, penso ad esempio alle esperienze e i prodotti per bambini di
Daniele Panebarco, dove mutuando una provata e lunga esperienza sul fumetto si prova a far coincidere digitalmente animazione,
avventura, gioco e apprendimento. Secondo l’ipotesi suggestiva di
Maragliano, il videogioco potrebbe disegnarsi in fondo come “una
macchina virtuosa per la cognizione” (p.42), in grado di offrire forme di conoscenza che dialogano con la realtà, comunque esperienze di una realtà, che sono personalizzate, negoziabili, graduali,
e interattive oltre che multimediali.
Seymour Papert, prima collaboratore di Jean Piaget, attualmente direttore dell’Epistemology Learning Group del Media Lab del
Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston, impegnato
in ricerche sull’intelligenza artificiale, ha studiato a lungo i videogiochi con grande attenzione pedagogica, provando a coniugare la
simulazione digitale con l’aprendimento naturale, tracciando una
strada che unisce il possibile tecnologico e il potenziale infantile.
Con Papert la tradizionale scissione gioco lavoro viene ricomposta
per trovare una naturale risoluzione sullo schermo. “I videogiochi
–scrive semplicemente Papert– insegnano ai bambini che alcune
forme di apprendimento sono rapide, coinvolgenti, gratificanti”
(1993, p.16). In effetti sono il primo approccio dei bambini al mondo
del computer, all’ambiente della simulazione come luogo dell’apprendimento negoziato e individualizzato, oltre che “rapido, coinvolgente e gratificante”. In Italia la ricerca di Papert arriva nel 1984
con la traduzione di Mindstorms. Bambini computers e creatività
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luppo di una concorrenza selvaggia. In Europa le aziende britanniche monopolizzano il settore, mentre negli Stati Uniti domina il
Commodore Vic 20. La terza fase registra, come del resto già ricordato, l’ingresso di Nintendo e poi di Sega nel settore delle console
che viene completamente recuperato. Prodotti tecnici curati e affidabili, prezzi più bassi rispetto alle cartucce, software gestiti in regime di monopolio, le aziende propongono un vero e proprio sistema
all’interno del quale circolano periodici specializzati, gadget e una
rete di assistenza specializzata, oltre che un’attenzione comunicativa costante nei confronti del pubblico determinante dei genitori.
La situazione attuale viene presa in considerazione da Colombo-Cardini (1996, pp.241-243) che individuano il nodo problematico
nelle modalità di coesistenza di console e pc. “Pc e console coesistono –scrivono i sociologi– ma si stanno configurando come due
mercati distinti, con caratteristiche sempre più divergenti. Si sta
imponendo, cioè, una precisa settorializzazione del mercato più
che una omogeneizzazione pacifica” (p.241). Dall’analisi dello scenario fatta in precedenza in effetti non si può parlare di una omogeneizzazione pacifica, ma neanche di una precisa settorializzazione del mercato. L’irruzione della Sony sul mercato, i progetti di
Microsoft, l’interesse delle aziende di telecomunicazione e dei
maggiori produttori di giocattoli, i rapidissimi cambiamenti tecnologici legati allo sviluppo dei nuovi media, lasciano immaginare
sovrapposizioni impensabili pochi anni prima, disegnano uno scenario in costante evoluzione, e caratteristiche sempre più convergenti nell’orizzonte dei nuovi media e di Internet.
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conseguono all’azione, riprovando, cambiando qualcosa e di nuovo, osservando i risultati. Gli psicologi lo chiamano apprendimento
“senso-motorio” o “percettivo-motorio” contrapponendolo o affiancandolo all’apprendimento “simbolico ricostruttivo”.
L’apparto senso motorio si configura come l’apparato più antico
dal punto di vista dell’evoluzione umana –spiega ancora Antinucci–
è anche l’apparato esclusivo che usa il bambino nei primi mesi
della sua vita, quando ancora non parla (ibid.). È l’apparato che
usa quando gioca, che lo avvia alla conoscenza, all’apprendimento,
è anche l’apparato al quale la scuola ha a lungo rinunciato, è lo
stesso preferito dal bambino, che alla forma libro, istituzionalizzata, spogliata della realtà, al mondo visto attraverso gli occhi dell’alfabeto preferisce il viaggio nella realtà, la conoscenza che avviene giocando: osservando, sperimentando, manipolando, costruendo, toccando anche fisicamente con mano.
Sono stati due grandi pensatori, un pedagogista e un antropologo, Jean Piaget e Claude Lévi-Strauss, a scoprire la dimensione
dell’apprendimento “concreto” e poi a negarlo nelle contrapposizioni bambini-adulti e primitivi-occidentali. Il bambino o il primitivo sono bricoleurs che giocano con concetti e oggetti allo scopo di
conoscerli, e vengono superati rispettivamente da adulti e occidentali che vanno al di là delle operazioni concrete per approdare
all’astrazione al formale, al testo. Seymour Papert rovescia le contrapposizioni di Piaget e Lévy-Strauss, apre un modo nuovo di
pensare che si è fatto rapidamente strada: “la mia strategia, al
contrario, –scrive ancora– consiste nel rafforzare e perpetuare il
tipico processo concreto perfino alla mia età. Invece di spingere i
bambini a pensare come gli adulti, faremmo meglio a ricordare
che abbiamo a che fare con individui che imparano rapidamente e
che dovremmo fare noi ogni sforzo per assomigliare a loro” (1993,
p.168). Nell’ottica di Papert, come esseri che apprendono permanentemente, non possiamo che farci bricoleurs. Imparare significa
costruire materiali e strumenti che è possibile maneggiare e manipolare. Significa aprire alla dimensione del gioco che è “modo di
pensare in anticipo, di far girare una simulazione mentale” (Rheingold, 1992, p.502).
Con il computer, il gioco si sposta sulla superficie dello schermo, lo sviluppo dell’intuizione avviene attraverso la manipolazione
di oggetti virtuali. Il bricolage trova spazi nella cultura della simu-
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(1980). Da allora il videogioco come luogo dell’apprendimento è un
motivo rinnovato anche per alcuni ricercatori italiani e trova sviluppi particolari che è utile recuperare.
L’approccio più singolare all’argomento è senza dubbio dello
psicologo Francesco Antinucci (1992; 1999) che con una rielaborazione originale classifica per contenuti i videogiochi, individuando
tre categorie che coincidono perfettamente con i tre livelli di sviluppo cognitivo dell’età evolutiva individuati da Piaget:
- nel primo livello ci sono i giochi di abilità che corrispondono al
livello psicomotorio, in cui si sviluppano e si coordinano fra loro gli
schemi che integrano la percezione e l’azione del soggetto;
- al secondo gruppo appartengono i giochi di simulazione, che
corrispondono al livello operatorio, in cui si formano il pensiero logico-razionale e il ragionamento inferenzialedi tipo “se… allora…”;
- infine del terzo livello fanno parte i giochi adventure che sono
speculari ai contenuti del livello rappresentativo, in cui si struttura
il pensiero simbolico.
Tutte le possibili forme di interazione con un videogioco rimandano alle tre categorie piagetiane, basate sui modi fondamentali
dell’operare cognitivo. Nel percorso di Antinucci i videogiochi traducono visivamente i percorsi dell’apprendimento, li rendono interattivi e individualizzati, li differenziano dal punto di vista narrativo
ed estetico, per incontrare i gusti e le sensibilità più diverse. Alla fine degli anni Novanta poi i videogiochi hanno accentuato un itinerario di moltiplicazione, diversificazione e integrazione reciproca dei
contenuti (Carzo-Centorrino, p.147), traducendo in realtà una grande promiscuità delle tre categorie base individuate da Antinucci.
L’itinerario ci porta a recuperare e ripartire dal bambino di Piaget. Dopo di lui si è diffusa sempre più la consapevolezza che la
conoscenza non si trasmette in modo unidirezionale e acritico, ma
sono i bambini stessi a costruire il proprio sapere. Il passaggio pedagogico dall’istruzionismo a un’educazione attiva, progressiva, aperta, puerocentrista, ancora costruttivista dovrebbe essere scontato anche negli ambienti naturalmente decretati alla socializzazione ma si scontra con una realtà che spesso offre altre situazioni
di fatto. Provando a semplificare ulteriormente, è ancora Antinucci
a ricordare seguendo una tradizione consolidata di studi psicopedagogici, che esiste anche un altro tipo di apprendimento, che si
ha osservando, toccando, modificando, riosservando gli effetti che
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Tra i sociologi, Giovanni Cesareo non è l’unico a presentare il videogioco come presenza dominante e negativa delle applicazioni
digitali (1996). Gli fanno eco psicologi, pedagogisti e una massa indeterminata di giornalisti. Il dibattito si attarda sul problema degli
effetti che i videogiochi esercitano sui loro fruitori. Le critiche più
comuni si appuntano nella rilevazione di contenuti evidentemente
negativi (Greenfield, 1984), in grado di alimentare palesemente una
cultura della violenza (Alloway - Gilbert, 1998), o ancora nei rischi
psicologici dovuti a eccessiva sovraesposizione ai videogiochi (Le
Diberder-Le Diberder, 1993), nella possibilità di influenzare una
prospettiva egemonica della cultura al maschile, nella capacità di
veicolare forme culturali estranee alla cultura europea, e infine di
incrementare la natura simulacrale della rappresentazione che i
media offrono della realtà. Anche in tal caso i videogiochi seguono
il passo dei media, e la discussione di ogni singolo “effetto” porterebbe probabilmente a recuperare larga parte del dibattito sugli effetti sociali dei media (Wolf, 1983). Inoltre da una parte il collasso
da videogioco, rappresenta il paradosso di una estraneazione completa dalla realtà, dall’altra il problema di una censura dei contenuti esiste in pratica dal principio della storia dell’educazione. Essere
nella realtà vuol dire vivere tutta la realtà, accogliere il confronto
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con i rischi che comporta il reale. In tale prospettiva è interessante
rovesciare il punto di vista utilizzando la riflessione di Howard
Gardner (1991, pp.218-220): l’apprendimento comporta costantemente dei rischi e in tal senso offre continue opportunità. L’altro da
sé rappresenta un pericolo costante, la conoscenza nelle sue molteplici forme comporta rischi tenuti distanti dalle sicurezze della
scuola tradizionale. Al bambino vanno offerti scenari e ambienti diversi, nuovi parametri di lettura più che domande preventivate e sicurezze di sempre.
Mi sembra che la risposta di Sherry Turkle possa offrire ancora ulteriori considerazioni (1996). La sociologa sposta in avanti il
senso della questione, ripropone la sostanza del dibattito tradizionale sui mezzi di comunicazione, centrandolo intorno agli scenari virtuali di comunicazione, relazione e apprendimento determinati dal gioco sullo schermo del pc. Per la ricercatrice del MIT
l’apprendimento deve percorrere inevitabilmente le strade ludiche dell’esplorazione virtuale, in quanto opportunità e ovvia presenza del reale. Il nocciolo del problema è intorno a una proprietà
critica da costruire nei confronti dell’apprendimento negli ambienti virtuali. Anche la simulazione può e deve essere interrogata. Se le potenzialità dell’apprendimento per immersione in ambienti virtuali sono cosa ovvia, la sociologa sposta le coordinate
del problema: le simulazioni possono essere “lette”. “Potremmo
considerare la capacità di penetrazione della simulazione come
una sfida allo sviluppo di una nuova critica sociale”. Scrive Turkle
e continua: “una nuova critica in grado di operare scelte tra le diverse simulazioni. Avendo come obiettivo primario la realizzazione di simulazioni in grado di aiutare chi le utilizza a comprendere
e mettere in discussione le ipotesi di partenza insite nei modelli
proposti (1997, p.236).
Non è in dubbio la centralità che videogiochi e nuovi media occupano nella realtà e che dovrebbero necessariamente trovare in
un’istituzione scolastica di nuovo parte essenziale dello sviluppo
sociale. Il problema per Turkle consiste nel provare a “sviluppare
l’abitudine a una modalità di lettura che sia appropriata alla cultura della simulazione” (p.238). L’immediato futuro ci vede a cimentarsi nell’interpretare, giocando con il bambino, la natura della simulazione stessa.
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lazione. Lo schermo si disegna come superficie per simulazioni da
giocare, o come porta per la comunicazione. I videogiochi e, passo
integrato, il computer, con i suoi codici e i suoi linguaggi, con le sue
immagini, i suoi suoni, i suoi testi, ci consentono di poter vedere a
distanza, sentire a distanza, interagire a distanza, manipolare a distanza, ricreando elettronicamente ambienti e universi percettivomotori. Restituiscono spazio all’apprendimento concreto, più inconscio, più semplice, più potente. I bambini, più che imparare regole, vogliono creare ambienti da esplorare (Parisi, 1999).
È ancora una ricercatrice al MIT di Boston, la psicologa e sociologa Sherry Turkle a ricordare che “il bambino non impara il linguaggio naturale conoscendone le regole, ma attraverso l’immersione nella sua cadenza” (1996, p.52). Allo stesso modo, la produzione di software didattici più aggiornata viene progettata per immersione. La produzione multimediale offre al bambino ambienti
di realtà virtuale e d’immaginazione interattiva con personaggi, eroi in cui immedesimarsi, di cui i partecipanti si possono fidare.
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Note
Uno studio piuttosto recente ha rivelato che i bambini americani conoscono
Mario Bros più di Topolino (Kent, 2001).
2
“Anche nel caso dei videogiochi –scrivono Colombo e Cardini– il ruolo delle
riviste è fondamentale in una prospettiva circolare, in cui da un lato esse vampirizzano il successo di un fenomeno mediale, dall’altro collaborano a definirne i
contorni e le scansioni interne” (1996, p. 232).
3
Alla fine del 2002 sono presenti nelle case degli italiani circa 800.000 PS2.
4
È utile segnalare che il mondo virtuale dell’intrattenimento fatto di sale giochi, parchi tematici e luna park, in America genera un fatturato annuo di circa
dieci miliardi di dollari, che rappresenta il doppio rispetto a quello del cinema.
5
Solo di recente lo studio dei rapporti tra le diverse istituzioni educative e la
realtà sociale è venuto precisandosi come disciplina specifica (la sociologia dell’educazione). Per avere un quadro più ampio del problema è opportuno rifarsi agli
studi di Ardigò (1966), Besozzi (1993) e Ribolzi (1993).
6
Basti citare in riferimento a tale atteggiamento ancora Herz (1997).
1
252
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IL CORSO DI LAUREA INTERFACOLTÀ IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE
DELL’UNIVERSITÀ DI LECCE
Identikit
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Oltre i luoghi
È stato istituito nell’a.a.2000-2201 come corso di laurea triennale, anticipando di un anno la riforma degli Ordinamenti didattici (legge 509/99) come indirizzo
di studi della Laurea in Lettere della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Nell’anno 2002-2003 si è trasformato in Corso Interfacoltà.
La popolazione studentesca è di circa 900 iscritti.
Presidente del Corso di laurea è il prof. Angelo Semeraro, che vi insegna Pedagogia della comunicazione.
Vice-Presidente il prof. Alberto Sobrero, che vi insegna Linguistica italiana.
Incaricata del Tirocinio con le aziende di comunicazione è la prof.ssa Viviana
Colapietro, associata di Educazione degli adulti nella Facoltà di Lettere e Filosofia.
Il logo del Corso di studi è stato progettato da Giancarlo Moscara, professore
di Grafica.
Si accede al Corso attraverso prove selettive per un numero annuale di 200
posti a disposizione per le iscrizione e 30 per i trasferimenti da altre sedi o Facoltà dello stesso Ateneo.
Il piano degli studi ”guidato” prevede gli indirizzi di comunicazione pubblica,
d’impresa e nei media.
Il Corso ha un suo sito (www.unile.it/comunicazione). In esso è possibile compulsare l’Ordinamento didattico, i Regolamenti, i programmi e il calendario annuale nelle sue scansioni semestrali; il piano degli studi; il curriculum scientifico
dei professori; le bacheche didattiche e di presidenza.
L’anno accademico è ripartito in due blocchi didattici: le lezioni si tengono nei
mesi di ottobre-dicembre e marzo-maggio. I mesi di gennaio, febbraio, luglio e
settembre sono interamente dedicati agli esami.
Nel mese di novembre del 2003 sarà tenuta la prima sessione delle lauree
triennali.
Il Corso ha sviluppato alcune iniziative, tra cui due Convegni sul Glocale (Oltre
il senso del luogo e Il glocale degli innocenti nel corso del 2001 e il più recente
Convegno su Mezzogiorno di radio:cento anni di storia/e, i cui atti sono ospitati in
questo fascicolo.
Pubblica la rivista di Comunicazione (un numero annuale).
Nel corso dei due ultimi anni dieci studenti hanno frequentato corsi Erasmus
(Malta, Paris Sorbonne, Lille, Nancy, Bilbao).
Nel corso dell’ultimo anno cinquantadue studenti hanno seguito il Convegno
internazionale di studi tenutosi a Fisciano il 29 nov.2002, costruendo un ipertesto
sul tema Memoria/Oblio.
Nel corso dell’ultimo anno trenta docenti del Corso hanno indirizzato al Presidente della Repubblica e ai Presidenti di Camera e Senato un appello in difesa
della libertà d’informazione.
È in corso un seminario interdisciplinare su “Semantica e Retorica della
guerra e della pace”.
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