Gli studi culturali e il campo della visualità

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Gli studi culturali e il campo della visualità
Gli Studi Culturali e il campo della visualità
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25 novembre 2013
Centre for Contemporary Cultural Studies
(CCCS):
intreccio tra rappresentazioni e ideologie di
genere, classe e razza
Antonio Gramsci:
La forza da sola non basta a governare lo Stato, è
insufficiente ad assicurare uno stabile dominio di
classe. Quali altri elementi concorrono a tenere in
equilibrio la dinamica del potere?
[L]a supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due
modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e
morale»... Un gruppo sociale può e anzi deve essere
dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è
questa una delle condizioni principali per la stessa
conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e
anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante
ma deve continuare ad essere anche «dirigente» (Gramsci,
1997, p. 406).
The work of the late 1950s and early 1960s Williams/
Hoggart/Hall stage of cultural studies emphasized the
potential of working-class cultures; then began in the
1960s and 1970s appraising the potential of youth
subcultures to resist the hegemonic forms of capitalist
domination (Durham e Kellner, 2001, p. xxiv).
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La teorizzazione della “cultura visuale” è legata al vedere e
guardare in quanto pratiche culturali:
By ‘subjective capacity’ and ‘cultural practice’ we
understand how so-called objective social and psychic
positionings are formed and become productive of
interpretations, are used and ‘lived’ subjectively,
influencing from the inside – not always in manifest or
conscious ways – both what and how meaning is taken
(Hall e Evans, 1999, p. 310).
Each is implicated in the other; neither could exist without the
other. The subject is, in part, formed subjectively through what and
how its ‘sees’, how its ‘field of vision’ is constructed. In the same
way, what is seen – the image and its meaning – is understood as
not externally fixed, but relative to and implicated in the positions
and schemas of interpretation which are brought to bear upon it...
It follows from this argument that ‘the meaning’ of the image
cannot be seen as fixed, stable or uni-vocal across time or cultures
(Hall e Evans, 1999, pp. 310-311).
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“Sporco negro!” o semplicemente: “Toh! Un negro”.
Facevo ingresso nel mondo, preoccupato di trovare un senso alle cose,
con l’animo pieno del desiderio di essere all’origine del mondo, ed ecco
che mi scoprivo oggetto in mezzo ad altri oggetti.
Rinchiuso in questa schiacciante oggettività, imploravo gli altri. Lo
sguardo liberatore, che slitta sul mio corpo divenuto improvvisamente
privo di asperità, mi rende una leggerezza che credevo perduta e mi
restituisce al mondo, allontanandomi. Ma laggiù, giusto dove si apre
l’altro versante, inciampo e l’Altro, con gesti, attitudini, sguardi, mi fissa
così come si fissa un preparato con un colorante (Fanon, 1952, p. 97).
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Il negro è un balocco fra le mani del Bianco. Allora,
per rompere il cerchio infernale, esplode. Impossibile
andare al cinema senza incontrarmi. Mi aspetto.
Nell’intervallo, proprio prima del film, mi aspetto.
Quelli che sono nella fila davanti, mi guardano, mi
spiano, m’aspettano. Ora comparirà un inserviente
negro. Ho il cuore in bocca (Fanon, 1952, p. 121).
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For visual culture concerns itself with what I call
visual subjects: people defined as the agents of
sight (regardless of their biological capacity to see)
and as the objects of certain discourses of visuality
(Mirzoeff, 2005, p. 3).
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It is by our use of things, and what we say, think and feel about
them – how we represent them – that we give them a meaning
(Hall, 1997, p. 3; corsivo dell’autore).
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Moreover, we do not have a straightforward, rational or
instrumental relationship to meanings. They mobilize powerful
feelings and emotions, of both a positive and negative kind. We
feel their contradictory pull, their ambivalence. They sometimes
call our very identities into question (Hall, 1997, p. 10).
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In Orientalism (1978) il critico di origini
palestinesi Edward W. Said illustra la nascita ed il
consolidamento di un discorso coloniale, intriso di
immagini statiche e consolidate, che non rispecchia
la realtà variegata ed eterogenea delle popolazioni,
delle voci e delle culture inserite nell’etichetta vaga
ed imprecisa di “Oriente”.
The White man’s eyes break up the Black man’s
body and in that act of epistemic violence its own
frame of reference is transgressed, its field of
vision disturbed (Bhabha, 1986, p. xii).
Un regime razzializzato di rappresentazione lavora
attraverso lo stereotipo, che riduce gli esseri umani a
poche e immutabili caratteristiche, fissa confini
simbolici e costruisce come ‘altri’ coloro che non
appartengono alla norma. “Stereotyping is a key element
in this exercise of symbolic violence” (Hall, 1997, p.
259). Lo stereotipo funziona come parte dell’egemonia
dei gruppi dominanti, attraverso cui abitudini, stili e
comportamenti vengono imposti e dati per naturali.