L`abito fa o non fa il monaco? Travestimento femminile ne La
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L`abito fa o non fa il monaco? Travestimento femminile ne La
L’abito fa o non fa il monaco? Travestimento femminile ne La Calandria del Bibbiena (14701520) Tesi di laurea Facoltà di Lettere, RTC, MA Università di Groninga Giugno 2010 P.G. Bossier/ M.C. D’Angelo Aline Wetzelaer, s1551027 Indice Introduzione pag. 3 Capitolo 1: Introduzione a La Calandria 1.1 Scrittore ed ‘alter papa’: la vita turbolenta di Cardinal Bibbiena pag. 7 1.2 Dai modelli classici ad un modello nuovo: la commedia dell’Ariosto pag. 8 1.3 La Calandria: una commedia degna del Rinascimento pag. 12 Capitolo 2: La ricostruzione contestuale operata da Franco Ruffini e la festa ‘come culmine della cultura’ 2.1 Introduzione pag. 16 2.2 Il meccanismo de La Calandria: la soluzione per il problema di Plauto pag. 17 2.3 Il luogo teatrale come utopia antica pag. 19 Capitolo 3: Il soliloquio femminile 3.1 Introduzione pag. 22 3.2 Santilla: un grido per il sesso femminile pag. 23 3.3 Fulvia: in cerca di vantaggi personali pag. 24 3.4 Fessenio ed il monologo maschile: un controesempio pag. 25 Capitolo 4: Il travestimento femminile 4.1 Funzioni letterarie del travestimento femminile pag. 29 4.2 Inganno ed astuzia: mascheramenti nel Prologo pag. 30 4.3 Sorpassando la libertà di movimento pag. 31 4.4 Il travestimento di Fulvia pag. 33 4.5 Santilla: tra mascheramento costretto e volontario pag. 35 Capitolo 5: Onore e spazio femminile 5.1 La casa: spazio della castità femminile pag. 38 5.2 Onore femminile ne La Calandria pag. 40 5.3 Onore e beffa femminile: il gioco di Fulvia pag. 42 1 Conclusioni pag. 45 Supplementi Supplemento A: corpus pag. 50 Supplemento B: bibliografia pag. 63 2 Introduzione FANNIO Sappi che Lidio mio padrone è ermafrodito. RUFFO E che importa questo merdafiorito? FANNIO Ermafrodito, dico io. Diavol! tu se’ grosso! RUFFO: Be’, che vuol dire? FANNIO Tu nol sai? RUFFO Per ciò il dimando. FANNIO Ermafroditi sono quelli che hanno l’uno e l’altro sesso. RUFFO Ed è Lidio uno di quelli? FANNIO: Sí, dico. RUFFO Ed ha il sesso da donna e la radice d’uomo? FANNIO Messer sí. RUFFO Te giuro, alle guagnele, che mi è sempre parso che Lidio tuo abbia, nella voce e anco ne’ modi, un poco del feminile. Cal., III, 17. Un uomo che pare essere allo stesso tempo del sesso femminile: lo stupore è enorme nella scena sovrastante, proveniente da La Calandria (1513) di Bernardo Dovizi da Bibbiena, il nostro oggetto di studi. Questo trasecolamento dei personaggi ci porta direttamente all’argomento principale di questa tesi di laurea, ossia il travestimento ed in particolare il mascheramento femminile. Oggidì, in un’epoca in cui lo studio ‘gender’ nella letteratura conosce un grande successo, questo transgenderismo rinascimentale (ossia la ricerca continua tra l’identità maschile e femminile) è particolarmente interessante. Il travestimento era una tematica amata, e dunque spesso frequentata, sia nella commedia dell’Antichità, che nella commedia rinascimentale. Completamente nuovo né veduto non era quindi il modello usato dal Bibbiena, però la maniera in cui l’autore presenta la questione era innovativa, come indica Moncallero (1953): 3 Il gusto degli scambi e dei riconoscimenti portava con sé naturalmente quello dei travestimenti. Se è vero che essi erano già in uso presso i più antichi attori nelle stesse atellane, e, in alcuni casi, persino il titolo ne fa testimonianza, nella Calandria essi acquistavano caratteristiche proprie del secolo e assumevano un significato e un’importanza interamente nuovi. Presso i latini il travestimento aveva più spesso la funzione di nascondere l’identità della persona e non il sesso, serviva per recarsi, senz’essere riconosciuti, a convegni d’amore, o per sottrarsi al pericolo di essere scoperti in altre circostanze; invece in molte commedie del Cinquecento (corsivo nostro), come nella Calandria, il travestimento era di uomini in donne e viceversa e (anche se questo non era ignoto agli antichi: basterebbe ricordare il Maccus virgo), costituiva piuttosto un mezzo facile a intrighi lubrici e ridevoli che il Cinquecento massimamente amava.1 Moncallero evidenzia che il travestimento femminile non era un argomento sconosciuto nell’Antichità, ma lo scopo del mascheramento era diverso. In più, il Bibbiena ha creato una trama complicata con diversi camuffamenti in cui l’autore e Cardinale gioca con la gemellarità bisessuale dei protagonisti Lidio e Santilla, un tema che rispecchia l’atmosfera intrinsecamente boccaccesca 2. La commedia presenta un capovolgimento continuo, definito da Bianca Concolino Mancini Abram come una vertigine dei travestimenti 3 oppure un gioco di specchi 4: il Bibbiena ha costruito un susseguirsi di scene vertiginose, fatto per fingere la trappola in cui può cadere il pubblico, e proprio in questo consiste il fascino de La Calandria. In questo ‘perpetuum mobile’ di travestimenti salta all’occhio a maggior ragione i mascheramenti di donne in uomini, ed il nostro argomento d’approfondimento saranno proprio i casi della giovane ragazza greca Santilla e della ricca padrona romana Fulvia. 1 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 570. 2 Sulla relazione tra La Calandria e il capolavoro boccaccesco, Il Decamerone (1351) è stato scritto in modo molto ampio da vari critici letterari. Il nostro scopo in questa tesi non è di trattare questa tematica troppo ampia entro i presenti limiti, nonostante il fatto che vi accenneremo: un argomento d’approfondimento su La Calandria non sarebbe completo senza nominare anche il legame con Boccaccio. Per una spiegazione approfondita su questo rapporto si veda ad esempio Janet Smarr. “The Marriage of Plautus and Boccaccio”. Università di San Diego, Heliotropia 1.1, 2003.http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/heliotropia/01-01/smarr.pdf, Stäuble, Antonio. “Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi della commedia rinascimentale”. Università di Losanna, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 37-47. http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/view/143963/195663, oppure Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953. 3 Concolino Mancini Abram, Bianca. Da Calandrino a Calandro.Variazioni sul tema della beffa. Université de Poitiers, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 19. http://ddd.uab.cat/pub/qdi/11359730n14p13.pdf 4 Concolino Mancini Abram, Bianca. “Tradizione e innovazione nella commedia del Cinquecento”. Chroniques italiennes n. 65 (1/2001), pp.27-47. Pp. 34. 4 L’enfasi di questa tesi sarà sulla rappresentazione della veste femminile e la nostra domanda principale è la seguente: come sopravvive la veste femminile in questo flusso ininterotto di scambi sessuali? Per rendere più chiaro il termine ‘veste’, è prima di tutto utile esaminare la sua definizione esatta. Il significato della parola e le sue connotazioni possiamo considerare essere abbastanza ampi, se rivolgiamo l’attenzione a Lo Zingarelli 2010: vès-te o † vèsta [di orig. indeur. sec. XII] s.f. [pl. vesti, † vesta] 1 (gener.) abito, vestito (…). 2 (spec.al pl) il complesso degli indumenti indossati da una persona (…). 3 (est., raro) rivestimento, copertura (…). 4 (poet.) il corpo umano, rispetto all’anima. 5 (fig.) forma, aspetto esteriore, apparenza: una v. ingannevole di pudicizia, di onestà, di simpatia (...). 6 (fig.) autorità e diritto inerente a una carica, un ufficio│qualità, funzione (…). 7 (fig.) forma di espressione: dare una v. nobile, poetica, eroica alle proprie idee 5 La veste pare avere un doppio carattere e non ha solo il significato letterale di ‘vestiti’, un fatto di cui bisogna tener conto. Bianca Concolino Mancini Abram (2002) sottolinea nel suo saggio ancora una volta l’importanza simbolica della veste: Il vestito diventa allora simbolo tangibile del disordine e dell’anarchia che regnano sulla scena. Può essere il segno della sciocchezza di alcuni personaggi, l’elemento rivelatore della sfasatura tra l’idea che il personaggio ha di sé e l’immagine che egli offre al pubblico. 6 Per rispondere alla nostra domanda chiave, la tesi verrà divisa in cinque elementi essenziali: una prima parte sarà rivolta ad un’introduzione riguardante l’autore e la sua opera . Nel secondo capitolo offriremo in forma sintetica l’essenziale del saggio critico di Franco Ruffini (1986)7, il quale è, fino ad oggi, assolutamente unico per la maniera dettagliata in cui presenta la rappresentazione e la scena de La Calandria alla corte urbinate e la sua ricostruzione contestuale nella Urbino del secondo decennio del ‘500. Il terzo capitolo verrà dedicato alle analisi del soliloquio femminile nella nostra 5 Zingarelli, Nicola. Lo Zingarelli 2010. Vocabolario della linga italiana. Bologna, Zanichelli, 2009, p. 2522. 6 Concolino Mancini Abram, Bianca. “Il travestimento nella commedia del ‘500.” Da: Il vestito e la sua immagine. Atti del convegno in omaggio a Cesare Vecellio nel quarto centenario della morteBelluno 2022 settembre 2001. A.c.d. Jeannine Guérin Dalle Mese. Belluno, Amministrazione Provinciale di Belluno, 2002, pp. 244. 7 Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria » alla corte di Urbino. Bologna, Il Mulino, 1986. 5 commedia, per poi analizzare nel quarto il processo del travestimento femminile dei protagonisti Fulvia e Santilla. Nel quinto e ultimo capitolo esamineremo la tematica della pudicizia legata alla casa come luogo di castità femminile ne La Calandria. Così speriamo di riuscire a rispondere alla domanda posta, senza perderci nella trappola del Bibbiena. 6 Capitolo 1: Introduzione a La Calandria 1.1 Scrittore ed ‘alter papa’: la vita turbolenta del cardinal Bibbiena Prima di porre l’accento su La Calandria stessa, rivolgiamo l’attenzione al suo autore, il cardinal Bibbiena8. Il Bibbiena nacque il 4 agosto 1470 come Bernardo Dovizi da Bibbiena. Già presto nella sua vita nel 1488, insieme al fratello Pietro, si legò alla corte fiorentina de’ Medici, e fu un uomo potente in un periodo turbolento per la famiglia medicea. Quando cardinal Giovanni de’ Medici venne esiliato presso la corte urbinate di Guidobaldo de Montefeltro, il Bibbiena lo seguì come segretario: lo scrittore è sempre stato molto fedele alla corte medicea in questi tempi problematici, al contrario del fratello che venne cacciato da Firenze per il suo carattere violento 9. Ad Urbino il Bibbiena ebbe la possibilità di incontrare artisti e scrittori, come ad esempio Bembo, Raffaello e Castiglione. Con quest’ultimo strinse amicizia e non per niente il Bibbiena appare come uno dei personaggi principali nel capolavoro di Castiglione, Il Cortegiano (pubblicato nel 1528). Castiglione scrisse anche un prologo per La Calandria (1513), l’unica commedia scritta dal Bibbiena, e si prese cura della prima rappresentazione teatrale presso la corte urbinate.10 Nel 1513 Giovanni de’ Medici venne proclamato papa, sotto il nome di Leone X: l’elezione fu osannata dal popolo, che sperava tempi migliori e più liberali dopo i pontificati inquieti di Alessandro VI e Giulio II. La proclamazione era stata sicuramente influenzata dal Bibbiena 11. In cambio il nuovo papa ebbe così la possibilità di eleggere il Bibbiena come Cardinale con Santa Maria in Portico Octaviae come cappello cardinalizio. Questa elezione fu considerata inopportuna, riferendoci a Moncallero (1953) proprio perché il Bibbiena avevo scritto una commedia: 8 Per una bibliografia approfondita sul Bibbiena si veda Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953. Moncallero evidenzia nella sua introduzione che oltre alla sua biografia esiste solamente un’ altra opera completa sul Bibbiena, vale a dire Bandini, A.M., Il Bibbiena o sia il Ministro di Stato delineato nella vita del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena dal Dott. Angelo Maria Bandini., Livorno, 1758. 9 Ibidem, pp. 38. 10 Fossati, Paolo. Nota bio-bibliografica in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9. 11 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 341. Moncallero rimane senza dubbi sull’influenza del Bibbiena: “Noi crediamo che l’elezione di Papa Leone fu, quasi esclusivamente, opera del Bibbiena e in ciò concordiamo con quasi tutti gli storici (…)”. 7 Gli storici moderni giudicano quasi tutti inopportuna l’elezione del Bibbiena, ma noi abbiamo già detto che spesso il loro apprezzamento sfavorevole ha come principale motivo il fatto che il Bibbiena fu l’autore della Calandria per la quale è ritenuto uomo mondano. Il Cavalcaselle si limita a dire: « Non era strano il vedere innalzato alla porpora un uomo la cui fama era apparentemente fondata sulla sua commedia indecente e immorale: la Calandra » (22). Questo giudizio che cerca trovare una attenuante all’elezione del Bibbiena nella poca moralità del tempo è condiviso da molti storici che noi non citeremo, limitandosi a riferire quanto scrive il Pastor: « Anche l’ultimo adornato con la porpora il 23 settembre era indubbiamente un uomo intellettualmente di gran conto (eingeistig hochbedentender Mann), ma di carattere così mondano che la sua elezione è parimenti da biasmare (zu tadeln ist)…12 Il cardinale restò durante il pontificato di Leone X il suo uomo di fiducia ed eseguì alcune missioni diplomatiche in Francia per il papa, la cui politica fu filofrancese. Il Bibbiena morì all’età di cinquanta anni, il 9 novembre 1520. La causa della sua morte prematura rimane incerta, possiamo considerare le circostanze sospettose: veniva vociferato che il cardinale fosse stato avvelenato perchè aveva troppa influenza.13 1.2 Dai modelli classici ad un modello nuovo: la commedia dell’Ariosto14 Un argomento d’approfondimento che riguarda la commedia bibbienesca non sarebbe completo senza considerare la sua origine: rivolgiamo l’attenzione brevemente ai classici modelli plautini e terenziani e ad uno scrittore che ha sicuramente cambiato la ricezione del genere letterario della commedia rinascimentale, Ludovico Ariosto (14741533). Quest’ultimo fu contemporaneo del Bibbiena e i due commediografi conobbero l’opera reciproca.15 Gli scrittori classici Plauto (±250-184 a.C.) e Terenzio (185-159 a.C) marcano la nascita della commedia latina, basandosi quindi sul modello greco di Menandro. Le loro 12 Ibidem, pp. 368. Ibidem, pp. 499-509. Moncallero riferisce ad alcuni storici, come a.e. il Bandini che sono certi che il Bibbiena fu avvelenato. Moncallero stesso conclude con l’affermazione seguente (pp. 507): Dopo questi giudizi storici, la questione non può avere che una soluzione. Non si può credere alle affermazioni di veneficio non suffragate da prove, non si può prestare fede agli scrittori che su una semplice espressione del De’Grassis intessono un romanzo, quasi una congiura di palazzo a conclusione tragica. La morte del Bibbiena avvenne per malattia, come scrive l’autore anonimo della Vita di Leone X: il Bibbiena “stomachi languore absumptus est.” 14 Per questo paragrafo è stato fatto uso di informazioni inerenti alla propria tesina di laurea: Wetzelaer, Aline. I Suppositi: viaggio tra antichità e un’illusione nuova. Università di Groninga, seguitata da professor P. Bossier e dottoressa M.C. D’Angelo, 2008. 15 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 195-196. Non solo i due scrittori si conobbero, l’Ariosto menzionò pure in luce positiva il Bibbiena nel canto XXVI (ottava 48) dell’Orlando Furioso (1516-1532). 13 8 opere furono scritte in versi con una metrica sempre diversa. Nuovo, rispetto alla commedia greca, era la ‘cantica’, cioè le parti del testo che venivamo cantate. Un altro aspetto notevole era la legge dell’unità che consiste in tre elementi: • l’unità di tempo, la storia si svolge in un certo tempo senza sguardi al futuro o al passato. • l’unità di luogo, vale a dire che tutta la storia si svolge in un determinato posto che nelle commedie latine normalmente è fuori di casa, spesso in una piazza. • l’unità d’azione: non c’è spazio per altre storie accanto a quella principale. Le commedie latine erano sempre composte da cinque atti e un prologo. Le commedie, similmente alla situazione greca, venivano rappresentate durante i ludi romani, i ludi plebeii e gli Appollinares, che erano delle festività religiose e dei giochi per il popolo. Le rappresentazioni durante questi ludi furono accessibili per tutto il popolo: questo fatto implica che anche la comicità dovesse essere accessibile per ognuno, e quindi essere relativamente di facile comprensione. La trama di una commedia aveva dunque sempre più o meno la stessa base: essa trattava di una storia d’amore in cui normalmente la donna sembrava non appartenere ad una nobile stirpe e quindi non essere una partner adatta al marito. Alla fine invece, dopo intrighi e capovolgimenti, la donna veniva riconosciuta come un’aristocratica. Leggermente diverse sono le trame come quella di I Menaechmi di Plauto, ma anche lì l’ultima scena del riconoscimento era di grande importanza. Certe virtù morali furono sempre presente nella commedia latina: la fides (la fedeltà), la pietas (la devozione religiosa ed il rispetto per il prossimo), la constantia (la coerenza del comportamento), la gratia (essere grati per quello che si riceve) e infine l’obbedienza ai genitori. Queste virtù dovevano far risaltare il comportamento richiesto nella società romana. La comicità della rappresentazione veniva risaltata da questi elementi scenici: comici per il pubblico erano i personaggi fissi, come per esempio lo schiavo astuto (il servus callidus), la cortigiana avida e spietata e la ‘matrona’ che causa problemi al marito. Poi c’erano i capovolgimenti e gli scambi di persone, che erano ancora più buffi per il fatto che gli attori portavano delle maschere, rendendo così la situazione più difficile da capire. Quest’elemento comico andava di pari passo col fatto che il pubblico 9 era onnisciente rispetto ai personaggi ignoranti. Così anche il pubblico veniva coinvolto nella storia, era un complice muto. L’ultimo elemento comico era quello della pazzia di uno dei personaggi. Spesso questa pazzia era finta e come nella parte sovrastante vale anche qui che l’onniscienza del pubblico e l’ignoranza dei personaggi rendeva la situazione più buffa. La commedia classica rimaneva per secoli il modello da seguire nell’Europa medioevale. Anche quando nell’Umanesimo le commedie venivano tradotte in volgare e il dialetto guadagnava d’importanza, le trame delle commedie non cambiavano e non c’erano riferimenti alla vita quotidiana dell’Italia contemporanea. Erano semplicemente imitazioni delle rappresentazioni precedenti. Tuttavia questo tipo di commedia aveva un gran successo: se guardiamo per esempio a Ferrara, I Menaechmi venne messa in scena già dieci volte alla corte estense negli ultimi vent’anni del Quattrocento e attraverso la traduzione i modelli plautini rivivevano. La persona che apportò una modifica in questa tradizione e che segnalava così l’inizio della commedia italiana, fu senza dubbio l’Ariosto16 (1474-1533), lo scrittore della prima commedia nuova, La Cassaria (1508) che venne messa in scena per la prima volta alla corte di Ferrara. Ariosto rimane soprattutto conosciuto per il suo capolavoro, il poema cavalleresco Orlando Furioso (1516-1532), ma scrisse dopo La Cassaria altre quattro commedie: subito dopo nel 1509 venne pubblicata I Suppositi, seguita da Il Negromante (1520) e La Lena (1528), tutte e due scritte prima in versi. Prima di esalare l’ultimo respiro fece delle nuove versioni in versi de La Cassaria e I Suppositi e scrisse la commedia Gli studenti, che rimase incompiuta. Prima di scrivere le proprie opere, anche Ariosto utilizzò i modelli classici. Gran cambiamento per il teatro fu quindi la prima versione in prosa di La Cassaria: era la prima commedia che aveva un modello deittico, facendo riferimento allo spazio e al tempo virtuale e reale. Se osserviamo lo stile, possiamo notare anche tracce 16 Riverso, Nicla. Il teatro dell’Ariosto tra la tradizione latina e la ‘commedia umana’ del Seicento.Università di Washington, Seattle, pp. 2. http://crisolenguas.uprrp.edu/Articles/Il%20Teatro%20dellAriosto%20tra%20la%20Tradizione%20Latin a%20e%20la%20Commedia%20umana.pdf Un fatto interessante è, come indica Riverso, che Ariosto si occupò anche delle rappresentazioni di commedie non sue: “A correzione di quanto detto dal de Sanctis, bisogna osservare che nella corte degli Estensi a Ferrara egli svolse per vari anni il ruolo di praefectus ad voluptates, cioè di sovrintendente agli svaghi, col compito di organizzare feste e spettacoli. Quindi non solo ebbe da curare la rappresentazione delle proprie commedie, ma anche di commedie altrui (…).” 10 dell’elemento classico, nonostante la storia si svolga a Ferrara. Ariosto usava sempre esempi antichi e la trama plautina era ancora ben visibile: Anche nella teoria e nella prassi della commedia cinquecentesca scrivere una commedia nuova non significa allontanarsi dai modelli antichi, bensì proprio trasferire le strutture ed i modi della commedia classica nel mondo rinascimentale, adattando intrecci e personaggi alla sensibilità contemporanea e situando la scena in una città moderna. In molte commedie cinquecentesche però l’apporto originale rimane abbastanza scarso e limitato soltanto a dati esteriori, come l’indicazione della città in cui si svolge l’azione ( oltre evidentemente all’uso della lingua italiana)17 Tuttavia nelle opere ariostesche c’era un’altra specie di comicità rispetto alle commedie plautine, che possiamo considerare come più profonda e complicata. Questo è dovuto al fatto che intanto i valori sociali erano cambiati e poi dobbiamo renderci conto che anche la situazione attorno alla rappresentazione di una commedia era diversa. Nell’impero romano la commedia era messa in scena durante le festività per tutto il popolo, senza esclusione per donne e schiavi. Ariosto invece scriveva le sue opere per la corte estense, il pubblico era quindi ben diverso e soprattutto più colto: Ariosto scrisse le commedie non solo per divertire il pubblico ma anche per evidenziare gli aspetti negativi della società contemporanea. Le commedie, traendo la loro legittimazione (ossia la giustificazione del fatto di essere svincolate dalle farse e dai misteri medioevali) dai modelli classici, non potevano sottrarsi che gradualmente ai loro schemi. La corte estense ed il resto del pubblico, che affluiva al teatro nel Palazzo Ducale e che possedeva generalmente una cultura umanistica non trascurabile, avrebbe giudicato male la rappresentazione di commedie non ben giustificabili per la loro impostazione. Ariosto ebbe un compito piuttosto difficile nel conciliare i contenuti etici della tradizione classica con la rappresentazione ironica e caricaturale di situazioni e personaggi del suo tempo e nel fondere materiale attuale e contemporaneo in uno stampo antico ed ‘esemplare’. 18 Accanto all’approccio di Ariosto, ‘imitatio’ della commedia classica con riferimenti deittici, possiamo vedere anche un’altra tendenza nel teatro italiano: appaiano opere che non sono basate sui modelli classici, ma che sono delle invenzioni proprie come La Cortigiana (1525) di Aretino. Sempre di più il teatro si italianizza e sempre di meno è 17 A. Stäuble La commedia umanistica del Quattrocento. Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, 1968, pp. 219. 18 Riverso, Nicla. Il teatro dell’Ariosto tra la tradizione latina e la ‘commedia umana’ del Seicento.Università di Washington, Seattle, pp. 3. http://crisolenguas.uprrp.edu/Articles/Il%20Teatro%20dellAriosto%20tra%20la%20Tradizione%20Latin a%20e%20la%20Commedia%20umana.pdf 11 importante la base antica, andando così verso un modello comico veramente italiano a partire dalla seconda metà del Cinquecento: la commedia dell’arte. 1.3 La Calandria: una commedia degna del Rinascimento Solo cinque anni dopo la prima rappresentazione de La Cassaria ariostesca, nel 1513, viene messa in scena per la prima volta La Calandria del Bibbiena. Se l’Ariosto apportò già una modifica nella tradizione di questo genere letterario, possiamo ritenere che il Bibbiena abbia arricchito ancora di più la commedia rinascimentale con delle nuove concezioni della realtà contemporanea: così svanisce progressivamente il prototipo classico ed il Bibbiena costruisce un proprio modello come sostiene anche Paolo Fossati (1967): Se La Calandria va anche ripensata come uno dei testi che nel ‘500 fu sentito come esemplare, è perchè subito si presenta come tale: del resto il primo critico che ne tracciò pubblicamente il profilo definitivo, in sede letteraria, ancora il Castiglione, insiste proprio sul valore di «modello», che la commedia voleva assumere. Un modello tutt’altro che astratto, però: e qui occore fare ogni attenzione: La Calandria non vuole imporre la nozione fissa e astratta di una propria, più o meno alta, perfezione, non vuole cioè essere conchiusa forma a sé stante. Al contrario, entro quel formalismo di cui si discorreva, transita una nuova visione della realtà, e si arricchisce ed articola sempre più e sempre meglio: lo sviluppo formale che La Calandria inscena è dinamica progressione, ciclo operosamente condotto innanzi. 19 Laddove l’Ariosto era piuttosto legato al modello latino, il Bibbiena invece creò una commedia più dinamica scritta in un linguaggio prevalentemente boccaccesco. Anche la trama è più complicata rispetto alle opere ariostesche che trattano lo scambio di persone e punta soprattutto maggiormente sull’erotismo: dove l’Ariosto limita ad esempio nella sua seconda commedia I Suppositi lo scambio di persone solo al sesso maschile, il Bibbiena inventa una trama perspicace e piccante con travestimenti di ambedue i sessi. Dopo i due prologhi, uno del Castiglione e uno del Bibbiena stesso che viene scoperto molto più tardi 20, vediamo sviluppare la storia cervellotica dei due gemelli greci Lidio 19 Fossati, Paolo. Nota introduttiva in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 6. 20 Fossati, Paolo. Nota bio-bibliografica in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9. Fossati evidenzia che edizioni moderne del capolavoro contengono anche, accanto al prologo del Castiglione, un prologo del Bibbiena stesso: “La Calandria va, nelle edizioni moderne, accompagnata da due prologhi: uno, di mano del Castiglione, fu detto in occasione della prima rappresentazione ad Urbino; il secondo è stato scoperto solo di recente. Ed attorno ad esso non pochi dubbi sono sorti, non di paternità, bensí di collocazione: se cioè fosse effettivamente legato alla Calandria.” Anche Moncallero (1953: 623) condivide questo dubbio. 12 e Santilla: senza sapere di essere gemelli, che sono già stati separati da giovani durante una invasione turca della città Modone, adesso si trovano tutti e due a Roma. Lidio ha passato la sua gioventù in Toscana con il suo servo furbo Fessenio, Santilla invece rimane a Modone, vestita da maschio e chiamata da tutti Lidio, per nascondere il suo vero sesso. Ad un certo punto il mercante fiorentino Perillo porta Santilla (credendo che sia un uomo), la nutrice ed il servo Fannio a Roma, dove questa Lidio femmina deve sposare la figlia di Perillo. Lidio crede sua sorella morta, ma non smette mai la ricerca di ella, continuando pure a Roma. Durante la sua sosta nella città eterna incontra la ricca padrona romana Fulvia, sposata con Calandro ed i due si innamorano subito. Per andare dalla sua amata senza impedimenti, Lidio si mette i panni femminili e si fa chiamare Santilla, cosicchè il marito scimunito non scopre niente. Questo travestimento crea un effetto collaterale non del tutto positivo: Calandro vede la bella ‘Santilla’ ed il servo Fessenio, per burla, gli promette di farla conoscere. Il divertimento di Lidio e Fessenio è senza fini per questa presa in giro di Calandro. Intanto Fulvia, per essere sicura dell’amore di Lido, chiede l’aiuto del negromante greco Ruffo, il quale è per caso un amico di Lidio femmina e Fannio. Ruffo al suo posto è consapevole del fatto che potrà guadagnare tanti soldi con la faccenda, e chiede a Lidio femmina di andare da Fulvia in forma di donna: l’ultima risponde che non ha mai visto o conosciuto questa Fulvia. Tuttavia decide di partecipare e di presentarsi a Fulvia, perché sembra essere un progetto molto buffo. La povera Fulvia non sa più a che santo votarsi, perché da un momento all’altro Lidio (che in verità è Santilla) pare non conoscerla più e chiede di nuovo l’aiuto di Ruffo. Intanto si incontrano anche Lidio maschio e Lidio femmina, ma non capiscono ancora perché si assomiglianio così tanto e non si riconoscono. I servi Fessenio e Fannio scoprono ben presto che i gemelli si sono ritrovati, ma per buon rispetto tacciono. Le ultime scene raccontano la felice riunione di Lidio e Santilla: Lido maschio è insieme a Fulvia, quando l’adulterio viene scoperto dai fratelli di Calandro. Fessenio e Fannio sanno mettere Lidio femmina al suo posto e fanno scappare così Lidio maschio. Fulvia pensa che il negromante Ruffo abbia cambiato davvero il sesso di Lidio maschio, Calandro invece deve ammettere il suo errore che sua moglie fosse insieme a una donna e quindi non commette adulterio. I servi svelano il segreto, portando così la storia ad un lieto fine: i gemelli sono riuniti e Lidio sposa la figlia di Perillo al posto di Santilla, e Santilla sposa il figlio di Fulvia e Calandro. 13 La Calandria contiene degli elementi classici formali: ad esempio troviamo la presenza del prologo, il numero degli atti è cinque ed esiste l’unità di tempo, di luogo e di azione. Anche la trama fa pensare alle commedie dell’Antichità, ma nonostante ciò certi critici letterari hanno un punto di vista diverso, evidenziando un linguaggio e delle tematiche piuttosto di tipo boccaccesco come avviene in Fossati (1967): E certo il gioco di scena dedotto da Plauto scompare o si attutisce talmente da non aver più ragioni funzionali; l’uniformità e la coerenza del genere sono garantite ora dal Boccaccio, usato come repertorio di soluzioni e di atteggiamenti, persino proverbiali, tanto è norma costante di comportamento; la vicenda non solo si colloca nell’oggi più immediato ma perde la sua astrattezza di costruzione puntando tutto sulle risorse e le reazioni dell’amore come intelligenza e furberia, capacità tecnica e linguistica di proporsi grovigli e di scioglierli.21 Fossati respinge così l’ancoraggio con l’Antichità della commedia bibbienesca. Il giudizio che presenta Moncallero (1953) è ancora più estremo: La quale somiglianza, come è evidente, non è detto che sia necessariamente tratta da Plauto, potendo pur essere invenzione di qualsiasi commediografo, anche se dei casi che nascono dallo scambio di due personaggi simili si servì ripetutamente il commediografo Sarsina; tanto più che il Bibbiena fa bensì simili i due «scambiati», ma uno uomo e una donna, mentre nei Menaechmi sono dello stesso sesso. Ma tant’è: la tesi della derivazione della Calandria da Plauto è entrata nella storia della letteratura; e gli storiografi e i critici letterari si son fatti un dovere di ripeterla a gara.22 Magari bisogna assumere un’opinione più misurata: anche se indubbiamente La Calandria non è un pallido riflesso in volgare delle commedie classiche, non si può negare completamente la sua forma capostipite antica. Dall’altra parte vediamo un ingegno e un desiderio di valutare e criticare la propria società, come ha fatto anche l’Ariosto, che è nuovo per la commedia. Né i personaggi sono più soltanto prototipi fissi: sono a maggior ragione umani, che fanno la bandiera propria dell’intelligenza e mostrano sia elementi positivi che negativi del loro carattere come indica Moncallero: 21 Ibidem, pp. 7. Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 545-546. 22 14 I personaggi della Calandria, e soprattutto Fulvia, Fessenio e Calandro, non sono dunque tipi convenzionali astratti e indeterminati, ma caratteri drammatici nei quali è vivo l’elemento umano, anche se questo risulta a volte piuttosto rilevato nelle sue passioni, soprattutto nella manifestazione del vizio. Essi s’intonano all’ambiente sociale e locale di cui partecipano, sono espressioni di umanità in atteggiamenti consoni allo spirito della società in cui vivono.23 Proprio questa umanità dei personaggi potrebbe essere vista come l’ancoraggio nella novellistica boccaccesca 24, particolarmente gli elementi del vizio e della furbizia. Il titolo del capolavoro bibbienesco è derivato dal nome Calandrino, un celeberrimo protagonista di alcune novelle del Decamerone. Concludendo possiamo considerare La Calandria, con il suo prendere posizione tra antichità e realtà contemporanea, una commedia molto intelligente che è degna del pieno Rinascimento. 23 Ibidem, pp. 540. Ibidem, pp. 572-607. Moncallero accenna in queste pagine anche allo studio di Wendriner (1895) che ha fatto un confrontro tra frammenti del Decamerone e La Calandria e possiamo vedere in modo più dettagliato dove si trovano delle concordanze. Moncallero evidenzia però che La Calandria è un’opera originale, nonostante somiglianze e non bisogna farsi accecare da esse: “Coincidenze, come è evidente, della Commedia con le Centonovelle ed, a volte, senza dubbio, derivazioni dal Boccaccio di espressioni e anche di qualche situazione, ma non tali e tante da pregiudicare l’originalità della creazione del Bibbiena, sia per la condotta della trama, la quale evidentemente, non può non essere che del commediografo, sia per la rappresentazione dei caratteri che sono espressione dello spirito e del costume del Rinascimento, con intonazione personale propria del Cinquecentista; sicchè è ingiusto, ripetiamo, parlare della Calandria come di «copia » del Decamerone, di « testo mosaico » e affermare che « messer Bernardo » saccheggiava e definirlo « lavoratore d’intarsio », anche se è assai più vicino al Boccaccio che a Plauto” (pp. 586.). 24 15 Capitolo 2: La ricostruzione contestuale operata da Franco Ruffini e la festa ‘come culmine della cultura’ 2.1 Introduzione Chiunque studi La Calandria del Bibbiena, non può fare a meno di esaminare Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino( 1986) di Franco Ruffini. Questo studio si può considerare come la ricerca più profonda, ampia e soprattutto documentata sul Bibbiena e la sua opera principale, sicuramente perché tratta in modo estremamente dettagliato la prima rappresentazione nel 1513 de La Calandria alla corte urbinate. Vale certamente la pena di dedicarci un capitolo intero e di esporre la sintesi dello studio di Ruffini, prima di approfondire il nostro tema principale del travestimento femminile. Nella sua ricerca Ruffini studia primamente la Stufetta, la stanza da bagno del Bibbiena nel Vaticano, decorata con dipinti e sistemata architettonicamente dal suo amico urbinate Raffaello. Successivamente lo storico dello spettacolo si dedica al testo de La Calandria, ma la parte principale tratta la prima rappresentazione della commedia, dando un’attenzione molto dettagliata ed accurata al luogo teatrale, gli intermezzi musicali e la scena, ossia a tutte le parti anche materiali della prima recita urbinate. Ruffini rivolge in particolare l’attenzione alla nozione di scena e festa, che vede ‘come culmine di una cultura’25: Poi c’è la commedia della festa. Il luogo teatrale ne è la cornice primaria. Esso definisce il tempo-spazio fittizio che compone gli elementi costitutivi e ne fonda l’unità. Gli intermezzi sono il primo di questi elementi: perché intrecciati nella commedia, e però «separati», come ci ricorda Castiglione, «inquadrati» già nel tempo-spazio della festa. (…) Si specchia, qui, il teatro che rappresenta, nella festa che mette in scena la sua cornice. Essere nella festa, nella cornice, diventa infine essere in scena: essere scena. 26 Ruffini evidenzia però che la festa, come utopia ideale del Rinascimento, non deve sostituire la vita tangibile. Sono due realtà che esistono l’una accanto all’altra, tutte e due con lo stesso valore. A questa idea, e altre particolarità riguardando la prima rappresentazione dell’opera principale del Bibbiene rivolgiamo l’attenzione nel terzo 25 Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 188. 26 Ibidem, pp. 28-29. 16 paragrafo. Il secondo paragrafo si occupa nuovamente del testo de La Calandria in generale, attraverso gli occhi di Ruffini. 2.2 Il meccanismo de La Calandria: la soluzione per il problema di Plauto Sicuramente contributivo alla nostra ricerca potrebbe essere il capitolo Quadri, segreti e prospettive della «Calandria», in cui Franco Ruffini ha scritto principalmente sul testo stesso de La Calandria. Sorprendentemente Ruffini evidenzia che ‘non è il contenuto che conta.’27 In questa luce Ruffini introduce la nozione di meccanismo: Questo quadro è il meccanismo. La Stufetta, al suo livello pubblico, era una pinoteca; la Calandria è una macchina. I quadri non vi sono esposti in ordine sparso: si incastrano in esatte coincidenze, iterazioni, specularità, talché lo sguardo è attratto, più che dai singoli elementi, proprio dalla loro concatenazione. Lo scambio ne è la modalità elettiva, il travestimento ( e non solo d’abito) l’inesauribile motore. Si scambiano persone, ma anche caratteri e situazioni: la macchina ha le sue regole di funzionamento, ed è a queste che obbedisce. I quadri vorticano, ed è il loro movimento autonomo che, alla fine è il quadro complessivo della commedia.28 I protagonisti sono interscambiabili fra di loro e “ciò che viene «messo in mostra» sono solo le possibilità combinatorie di uno schema che le consente, e le impone quasi.”29 La storia in sé non è rilevante, invece il congegno è fondamentale. Il meccanismo della commedia, la ‘macchina’ de La Calandria, funziona talmente bene che di conseguenza la storia diventa imponderabile per il pubblico: Il meccanismo è talmente ben lubrificato che, più che scorrere, scivola, deborda, afferma il proprio livello di autonomia perfino nei riguardi del suo inventore. La «svista» del Bibbiena (che, a quanto ci risulta, non era stata finora rilevata) ne è un sintomo chiaro. Il meccanismo non produce il prevedibile, ma la sorpresa; le possibilità combinatorie sono elevatissime: insieme ai risultati scontati della norma possono nascere, e nascono, impredivibili eresie. 30 Ruffini ha contribuito in questo studio anche alla discussione riguardo all’origine de La Calandria, accennata anche nel primo capitolo: quanto l’opera bibbienesca è una derivazione de I Menaechmi di Plauto? Ruffini tratta questo problema in modo efficace 27 Ibidem, pp. 107. Ibidem, pp. 106. 29 Ibidem, pp. 107. 30 Ibidem, pp. 108. 28 17 e approfondito, per cui propone una soluzione certamente plausibile, che è certamente legata alla nozione di meccanismo, appena introdotta dal ricercatore: Se i Menaechmi non sono un modello da copiare, ma un problema da risolvere, la Calandria (e proprio per il suo evidente riferimento ai Menaechmi) non è un calco, ma la soluzione. 31 La sua ipotesi è che Bibbiena avrebbe usato I Menaechmi come modello da migliorare, per perfezionare la trama secondo i valori rinascimentali e risolvere il problema plautino. Ruffini punta sul fatto che la commedia di Plauto non è funzionale, perché i protagonisti, i due fratelli gemelli, non si possono mai incontrare in scena: questo significherebbe un’agnizione finale precoce, laddove esiste assolutamente la necessità del segreto. Il Bibbiena ha creato il proprio risolvimento, modificando la trama assai senza vituperare l’intreccio plautino, come dichiara Ruffini: Non si tratta di affermare in generale il «gioco della ragione» e quindi di costruirne un esempio: si tratta, invece, di risolvere un problema specifico posto dalle specifiche circostanze di dovere scrivere una commedia e di doversi misurare con la questione dell’imitazione plautina. (…) L’intercambiabilità del sesso, del nome, il labile statuto di ogni identità e tant’altre cose ancora che pure sono nello schema d’invenzione bibbienesco, non vi sono in quanto postulati (anche se ne sono, inevitabilmente, il riflesso) di una «concezione del mondo», ma in quanto elementi strutturali della soluzione adottata verso il concreto problema da risolvere. 32 Con quest’affermazione Ruffini può ritornare all’ipotesi iniziale di questo capitolo: La Calandria è un meccanismo, non una semplice commedia prevedibile, ma una narrazione strutturata e calcolata. Ruffini punta in questa luce sulla separazione di funzioni strutturali. Con queste funzioni intende “l’invenzione dello schema, il piano di personaggi e situazioni, la scrittura delle parole”33. Le funzioni nominate sono indipendenti fra di loro, come afferma Ruffini, anche se provvedono allo stesso tempo ad un’unità e non si possono vedere le funzioni come fatti isolati. E così, con l’importanza del meccanismo, il concepimento bibbienesco è in grado di offrire una nuova sfida alla commedia rinascimentale: 31 Ibidem, pp. 118. Ibidem, pp. 120. 33 Ibidem, pp. 173. 32 18 La Calandria, offrendone la soluzione, indica il vero problema della commedia. Ideare meccanismi; non solo narrare ma soprattutto organizzare il materiale narrativo. La vittoria della Calandria è la sfida del futuro della commedia. 34 2.3 Il luogo teatrale come utopia antica Anche i capitoli seguenti di Ruffini, e a maggior ragione i due che trattano il luogo teatrale e la scena, sono particolarmente interessanti per il nostro studio, per la dettagliata descrizione della prima rappresentazione de La Calandria. Infatti, lo scenografo del primo spettacolo fu il contemporaneo urbinate del Bibbiena, Girolamo Genga (1476-1551). Il filo conduttore nelle analisi di Ruffini è che la sala e la scena decorata da Genga, non sono luoghi qualsiasi e Ruffini evidenzia che ogni parte del decoro ha il suo ruolo distintivo: Il Salone del Trono è il luogo della festa: non il contenitore della rappresentazione. Nella festa, come tempo-spazio ideale, ciò che perde di consistenza sono i nessi del tempo e dello spazio reali. Si perde la linearità del tempo e, dello spazio, si perdono i rapporti topologici e quello di maggiore a minore. La sala reale contiene lo spettacolo, è vero, così come la scena è contenuto nello spettacolo. Però nella festa (e non nel discorso che la parla) sala spettacolo e scena non si correlano secondo questo rapporto di contenente a contenuto. Semplicemente si equivalgono: come elementi paritari, e ciascuno integralmente rappresentativo. 35 Come vediamo qui evidenziato, bisogna vedere la sala come una specie di realtà36 accanto alla realtà quotidiana, sala e festa sono sullo stesso livello. Entrando nella sala, si entra in un altro mondo e un’altra epoca: La transizione nel tempo-spazio ideale della festa si spazializza come ingresso nella città, nell’insieme dei valori che essa e il suo pensiero rappresentano. È la città perfetta, per definizione, radicata in un antico senza tempo, eterna perché i dati della sua concretezza sono quelli di un modello. 37 Ed è questa l’ipotesi centrale di Ruffini: la nozione di festa costruisce l’idea di una città antica. La sala è come la città ideale della cultura rinascimentale, in cui prevale il 34 Ibidem, pp. 172. Ibidem, pp. 178-179. 36 Ruffini sottolinea con chiarezza l’uguaglianza delle due realtà: “La festa è un prodotto della cultura, non viene dalla disillusione della realtà; è una proiezione progettuale che postula dei valori, non li estrae per confronto dal vivere concreto. La festa è l’insieme di sigle e di valori in cui la cultura si riconosce (e viene riconosciuta) in quanto tale: non una realtà sublimata ma una realtà altra.” (pp. 189) 37 Ibidem, pp. 181. 35 19 ricupero dell’antico che viene visto come utopia. Senza dubbio gli arazzi con storie di Troia e delle iscrizioni in latino che si trovano nella sala, hanno un ruolo principale nel rendere quest’illusione ancora più potente: funziona come una soglia verso un altro universo, cioè un mondo utopico in cui è radicato l’antico. L’esempio ideale di una città eterna è Roma e non senza ragione, nella scena, il legame tra Roma ed Urbino è simbolico 38. Roma è per antonomasia la città utopica, indistruttibile e questa nozione di utopia viene sottolineata un’altra volta da Ruffini: Sala-città, sala-teatro: scena-città e, certamente (ma in senso molto più profondo di quanto possa ora apparire), scena-teatro. Veramente, l’unità dell’apparato appare condotta non sul filo della ricerca formale di un continuum, ma su quello di un’istanza ideal unificante, che è il raffronto della corte ad un passato (l’antico) come garanzia etica e teorica per la propria modellizzazione. L’antico come utopia: cioè l’utopia come antico. 39 Il luogo teatrale deve essere riguardato come un insieme omogeneo ed in questa unità è coinvolto anche il pubblico, che si trova nella sala. Inerentemente il pubblico, trovandosi nella sala, è integrato nella festa e nell’utopia e fa parte di questa armonia. Secondo Ruffini significa che “(…) il teatro – in quanto luogo della festa – prima che spazio entro cui guardare, è lo spazio al quale guardare.”40 La festa urbinate coinvolge quindi vari elementi ed il teatro non è solo teatro, ma pare essere una piccola città, come Ruffini ha saputo spiegare con molta chiarezza nella citazione sottostante: La sala si fa teatro non per il fatto che vi si svolge lo spettacolo, ma perché la sala è intrinsecamente luogo di celebrazione. (…) L’identificazione sala-città è solo un momento, anche se fondamentale, nella strategia di significazione della festa urbinate. La città, simbolizzata dalla sala, apparirà nel suo significato privilegiato, nella scena (cfr. cap. V), e verrà materialmente finta come spazio per gli spettatori costruendo un secondo muro in mezzo alla sala, a riscontro di quello dipinto nel sottopalco. 41 38 Ruffini spiega: “Del resto, tutto l’orientamento mentale della festa è verso Roma; l’associazione con la città eterna è evocata in ogni elemento dell’apparato; e non appare affatto improbabile che essa sia stata sancita anche evidenziando nella scena di Roma la citazione per eccelenza del Palazzo Ducale e cioè di Urbino. Come a dire che Urbino, legata a Roma per il suo destino (si ricordino le vicende della successione papale), le è legata anche per I contrassegni della sua identità e della sua dignità.” (pp. 267) 39 Ibidem, pp. 184. 40 Ibidem, pp. 252. 41 Ibidem, pp. 183-184. 20 Concludendo possiamo dire che La Calandria non è una commedia da catalogare come un’opera fra le vaste altre possibilità: anzi, sia il testo che il luogo teatrale e la scena hanno un senso molto più profondo di quanto non pare. Con le sue analisi Ruffini ricostruisce questa percezione e sottolinea l’importanza della nozione di festa per il teatro rinascimentale in generale ed in specifico per la commedia bibbienesca. 21 Capitolo 3: Il soliloquio femminile 3.1 Introduzione In questo capitolo ci concentreremo sul monologo femminile ne La Calandria del Bibbiena, di cui questo capolavoro fornisce vari esempi, con monologhi dei nostri personaggi principali Fulvia e Santilla. Perfino la serva di Fulvia, Samia, ha l’opportunità di esternare qualche giudizio: il Bibbiena risulta aver affidato una voce ai suoi personaggi femminili. Alla fine di questo capitolo rivolgeremo l’attenzione ad un esempio del monologo maschile (di Fessenio, lo schiavo di Lidio) come una specie di controesempio. I frammenti citati, che contengono un soliloquio femminile, hanno un carattere, che si può definire soprattutto come lamentevole. Questo è in contrasto con il prologo del Bibbiena stesso, in cui viene sottolineato la tematica dell’astuzia femminile, sulla natura della donne che è furba e gioconda: l’intelletto muliebre viene usato per beffe, allo scopo di imbrogliare i mariti che pensano di valere di più. Al prologo dirigeremo l’attenzione più profondamente nel terzo capitolo, nel quale sarà anche di importanza il legame tra quest’astuzia nominata e la tematica principale della presente tesi, la veste femminile nella commedia primocinquecentesca. Queste lamentele sono quindi un elemento consistente ne La Calandria, ed i personaggi femminili si possono considerare delle eroine tragiche42. Questo tipo di monologo non è un fatto a sé stante, se ci riferiamo a Cosentino (2006): Come dimostrano gli esempi addotti fin qui, il genere tragico diviene la sede privilegiata per la messa in scena di un mondo animato da affetti e da passioni esasperate che tuttavia veicola un’ideologia ‘‘femminile’’ altrimenti destinata a soccombere. Concedendo spazio a quella riflessione sulla condizione muliebre che permea molte delle opere cinquecentesche e facendo proprie le argomentazioni della trattatistica coeva, la tragedia sembra adombrare un universo magmatico e sfuggente di cui sottolinea la violenza recondita, spesso rivolta verso gli elementi più deboli della società: si pensi, ad esempio, all’ottica decisamente ‘‘altra’’ attraverso la quale viene presentato il matrimonio, spesso oggetto di una 42 La nozione di ‘eroina’ è stata presa da Cosentino (2006) che considera le donne citate nello suo studio delle vere eroine: “Dotate di una virtù femminile che implica forza e determinazione, queste donne sembrano possedere quelle caratteristiche che in genere si attribuiscono agli uomini. L’eccezionale energia di cui si fanno portatrici è la testimonianza di un coraggio fuori dal comune, che da virtù rischia talvolta di trasformarsi in vizio.” Cosentino, Paola. “Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento.”Italique, n. 9, 2006, pp. 69-99, pp. 71. http://italique.revues.org/index108.html 22 satira declinata al maschile che ne mette in evidenza tutti le limitazioni e le difficoltà, sovente determinate dai ‘‘donneschi difetti’’. Assai lontana dalla protagonista, scaltra, ardita o patetica della commedia, la dolente moltitudine di eroine tragiche che popola il nostro teatro rinascimentale dà voce a una lamentatio esistenziale modellata sull’elemento topico antico che tuttavia veicola contenuti nuovi, strettamente legati alla necessità di costruire un sistema drammatico capace di enunciare le verità dimenticate dalla storia e di dare voce, o meglio, forma a un eroismo di segno femminile.43 Il monologo femminile pare essere un fenomeno conosciuto in questo periodo, e non solo nel teatro italiano.44 Come funziona il soliloquio femminile di preciso ne La Calandria? Nei paragrafi seguenti cerchiamo di analizzare più profondamente tale fenomeno discorsivo ed attorico in base ai principali personaggi femminili. 3.2 Santilla: un grido per il sesso femminile Una vera eroina la si può considerare la ragazza greca Santilla, che mostra il suo coraggio durante tutta la sua vita, andando per strada in abiti maschili per salvarsi dalla morte. Il suo travestimento è anche la causa della sua infelicità, ossia non poter mostrarsi come donna. I suoi monologhi sono caratterizzati da lamenti sulla miseria per la sorte femminile e sulla disuguaglianza tra i due sessi. Già la prima scena in cui appare (Cal., II,1), la ragazza si esprime in un monologo, e pare rivolgersi direttamente al pubblico, chiedendo così commiserazione per il sesso femminile: “Ed io or vi dico che, quando fussi maschio come son femina, sempre in tranquillo stato ci viveremmo.”45 Secondo Santilla i suoi problemi derivano soltanto dal fatto che ella è donna, il mercante Perillo è contentissimo con la persona che crede maschio, mentre se fosse stata una ragazza, non l’avrebbe mai accettata. Spiega la sua situazione miserabile in modo più profondo nella scena Cal., II, 8. Non esiste via di scampo per la povera ragazza; non può rivelare la sua vera identità, ma non può nemmeno sposare la figlia di Perillo, perché la famiglia scoprirebbe subito che ella li ha ingannati. L’ultimo suo soliloquio si trova in Cal., IV, 5, ed è un esempio chiaro del carattere tragico di Santilla, soprattutto la prima frase che si può definire come un grido per il sesso femminile, una espressione chiara di disuguaglianza: “Oh infelice sesso 43 Ibidem, pp. 90. Ad esempio Émile Picot ha dedicato una parte del suo studio al monologo nel teatro francese ai ‘Monologues d’amoureux’ come categoria specifica. Picot, Émile. Le monologue dramatique dans l’ancien théatre français. Genève, Slatkine Reprints, 1970. 45 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 37. 44 23 femminile, che, non pure alle opere, ma ancora ai pensieri sottoposto sei!”46 Il Bibbiena ha fatto una dichiarazione assai forte sullo stato femminile, usando la parola ‘sottoposto’. Forse ha voluto affermare così anche la differenza sessuale nel mondo contemporaneo, in cui l’uguaglianza non era comune.47 Interessante è il fatto che un altro personaggio minore de La Calandria, la serva Samia, riferisca anche con la parola ‘sottoposte’ alla condizione delle donne. Ella dichiara invece che questa sottomissione femminile è un assoggettamento all’amore stesso e non al sesso maschile: “Oh povere e infelici donne! a quanto male siamo noi sottoposte quando ad Amore sottoposte siamo! Ecco, Fulvia, che già tanto prudente era, ora di costui accesa, non cognosce cosa che si faccia.”48 Fra l’altro non troviamo più un atto di accusa da parte di Samia, dopo questa affermazione. Trae vantaggio dell’assenza della padrona per divertirsi con l’amante (Cal., III, 8). 3.3 Fulvia: in cerca di vantaggi personali Una seconda analisi del soliloquio femminile è dedicata al personaggio della ricca padrona romana Fulvia. Il suo primo vero monologo si trova nella scena Cal., III, 5, in cui critica la sua posizione di donna e la corrispettiva libertà di manovra limitata: si lagna della fortuna muliebre, è tutta disperata del fatto che non può uscire senza restrizioni come sono in grado di fare gli uomini. Nonostante questo atto di accusa, il suo grido per uguaglianza tra i sessi è molto meno forte in confronto con Santilla, i loro monologhi hanno la stessa tematica, ma non completamente la stessa natura: il lamento di Santilla pare essere più onesto, un’invocazione per tutto il sesso femminile, mentre Fulvia è più furba e tiene in mente soprattutto la propria posizione. La sua infelicità (oltre al fatto che teme di perdere il suo amante Lidio) deriva fondalmentalmente dal suo matrimonio infelice. Questo viene chiarito ad esempio nella scena Cal., II, 10 quando Fulvia dice dopo una conversazione con Calandro fra sé e sé: “Va in pace, col mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li frategli miei! che mi fa venire angoscia pure a vedello.” (Cal., II, 10) 49. La tematica della moglie infelice non è un caso particolare, se ci riferiamo a Stäuble (2009): 46 Ibidem, pp. 81. Per una spiegazione più approfondita sul fenomeno dello stato femminile nel Rinascimento si veda Maclean, Ian. The Renaissance notion of woman: a study in the fortunes of scholasticism and medical science in European intellectual life. Cambridge University Press, Cambridge, 1980. 48 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 60. 49 Ibidem, pp. 51. 47 24 Il lamento di Fulvia riguarda la condizione femminile in genere, ma anche la sua personale situazione in quanto «malmaritata» (con l’imbecille Calandro, nome chiaramente derivato da Calandrino): una tematica cara al Medio Evo. Nelle commedie rinascimentali sono numerose le malmaritate, che reagiscono in maniere diverse. Alcune, quando vengono sedotte con uno stratagemma o con violenza o per circostanze casuali, si adattano e accettano (anche volentieri) la nuova situazione; fanno insomma di necessità virtù o, per usare parole di Boccaccio, «saputo avevan pigliare il bene che Idio a casa l’aveva mandato» (II 3, 2)50 E certo che Fulvia sa sfruttare la situazione in modo molto boccaccesco: proprio perché è infelice del suo matrimonio, ha un motivo per ingannare il marito e divertirsi con Lidio (giacché “Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua giovinezza in vano.”51). Il secondo monologo di Fulvia si presenta in Cal., III, 7: di nuovo viene espresso il suo pensiero su come procedere nella sua ricerca d’amore. Non si tratta di un lamento generale come nel caso di Santilla, ma viene riferita alla propria situazione. In questa scena la padrona romana decide di fare l’ultimo passo verso il travestimento. Anche nel soliloquio in Cal., IV, 1 ha principalmente pietà per se stessa e, per comodità dimenticando che ella stessa truffa degli altri, lamenta: “oh ingannata e infelice Fulvia (…)”52. Parla pure di uccidersi, perchè non potrebbe sopportare una posizione umilitata, essendo offesa dallo Spirito. L’ultimo monologo di Fulvia in scena Cal., V, 6, afferma l’ipotesi che questo personaggio furbo abbia cercato soprattutto dei vantaggi personali e risulta anche averli trovati: “E il fine del periculo presente mi porta incredibile iocundità; perché, non pur ha salvato l’onore a me e la vita a Lidio, ma sarà cagione che con lui potrò essere più spesso e più facilmente.”53 Trionfa l’astuzia femminile sulla sfortuna e schiocchezza del marito. Chiaro è che i monologhi di Fulvia hanno avuto certamente un altro scopo di quelli della onesta Santilla: bisogna sempre beneficiare se stessi. 3.4 Fessenio ed il monologo maschile: un controesempio Come abbiamo visto, La Calandria contiene delle illustrazioni chiare del monologo femminile di vari personaggi. Queste figure sono provenienti da diversi strati della 50 Stäuble, Antonio. “Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi della commedia rinascimentale”. Università di Losanna, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 37-47. http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/view/143963/195663, pp. 43. 51 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 59. 52 Ibidem, pp. 75. 53 Ibidem, pp. 92. 25 società, pure per una semplice serva il Bibbiena crea una voce, che ha la possibilità di esprimersi sullo stato femminile. Per i personaggi maschili invece, il Bibbiena non ha costruito queste ‘voci’ esplicite per commentare la contemporaneità, l’unico a rivelare i suoi pensieri in veri monologhi è Fessenio, lo schiavo di Lidio, ma possiamo considerare che questi soliloqui abbiano una diversa natura di quelli femminili. Prima di tutto dobbiamo avere in mente quali caratteristiche possiede un personaggio come Fessenio nella commedia cinquecentesca. Il servus callidus, ovvero lo schiavo astuto apparteneva originariamente alla commedia greca, ma venne introdotto da Plauto nella commedia latina. Dopo il successo nella commedia antica, questa figura venne valutata di nuovo in modo positivo nel teatro del Cinquecento. Il servus callidus è un personaggio soprattutto furbo e alle volte cinico, ma infine sempre molto fedele al suo maestro. Spesso è egli ad inventare gli intrighi, ma ha anche un ruolo chiave, portando la storia sempre alla sua soluzione. È facile riconoscere il nostro Fessenio in questa descrizione: furbo e coraggioso (la sua parola personale si può definire come ‘astuzia’), sa sempre creare delle scene comiche perché ha un desiderio insaziabile di ridere e mettere in ridicolo delle persone con un intelletto minore, come ad esempio il personaggio scimunito di Calandro. Magari è il personaggio con la maggiore importanza, sembra essere onnipresente e onnisciente. Non sorprende quindi che questa figura dello schiavo è l’unico dei personaggi maschili che si esprime di tanto in tanto in soliloquio. Fessenio appare per la prima volta nella scena iniziale del capolavoro bibbienesco (Cal., I, 1), in cui ripresenta la trama (che viene esposta dal Bibbiena stesso nell’Argumento) in modo più ampio. Lo schiavo dichiara nelle stesse righe la sua centralità come figura in questa commedia: “Nessuno potette mai servire a due ed io servo a tre: al marito, alla moglie e al proprio mio padrone; in modo che io non ho mai uno riposo al mondo.”54 A queste tre personaggi nominati dallo schiavo, possiamo anche aggiungere un quarto: Fessenio serve anche noi, il pubblico, al cui si rivolge spesso direttamente, un esempio molto chiaro è Cal., III, 1: “Ecco, o spettatori, le spoglie amorose.”55. Nella stessa scena usa di nuovo il legame diretto con il pubblico: “Nessuno vuol le veste? no?Addio, dunque, spettatori. Andrò a congiungere il castron con la troia. Restate in pace.”56 In varie occassioni Fessenio ha nei suoi monologhi la 54 Ibidem, pp. 24. Ibidem, pp. 52. 56 Ibidem, pp. 52. 55 26 possibilità di dividere i suoi commenti con gli spettatori ( ad esempio in Cal., III, 11, Cal., III, 13 e Cal., V, 11). Come nella scena inziale, anche nell’ultimo episodio della commedia (Cal., V, 12) le parole conclusive vengono espresse dallo schiavo: “Spettatori, le nozze si faran domane. Chi veder le vuole non si parta. Chi ‘l disagio dell’aspettare fuggir cerca a sua post se ne vada. Qui, per ora, altro a far non se ha. Valete e plaudite.”57 Vediamo che Fessenio sembra un’istanza narrativa che fa parte del testo e allo stesso tempo del mondo contemporaneo.58 Con questo essere sia all’interno (come personaggio) che all’esterno del testo (come narratore), si può ipotizzare che Fessenio funzioni come eco del Bibbiena stesso. Anche Moncallero afferma che questo prototipo dell’intelligenza cinquecentesca potrebbe ben rappresentare la voce personale dell’autore: Fessenio, una delle creazioni più caratteristiche del teatro del Cinquecento nella sua indiscussa originalità, è la figura vagheggiata dall’autore, l’incarnazione della più prepotente sua affettività, è una parte dell’anima di Bibbiena, temperamento d’artista dalla disposizione comica la quale si manifestava anche nelle ambascerie tra i gravi affari di stato, signore della facezia nelle corti più brillanti del secolo, come ce lo presenta il Castiglione nel « Cortegiano », ma ancora, come Fessenio infaticabile e scaltro, come quando era consigliere di Giulio e ministro di Leone del quale era anche il disinvolto amico.59 Concludendo possiamo porre che, anche se il Bibbiena ha creato dei monologhi per un personaggio maschile, l’enfasi si trova sul soliloquio femminile, che ha un carattere 57 Ibidem, pp. 96. La doppia funzione di un personaggio, l’essere all’interno ed all’esterno del testo, fa pensare a Bossier, Philiep. “Embedded Ambivalence. The example of dynamic stock characters in Italian Renaissance comedy”. Da: Akteure und Aktionen. Figuren und Handlungstypen in Drama der frühen Neuzeit. A.c.d. C. Meier, B. Ramakers, H. Beyer, Münster, Rhema, 2008. In questo articolo l’autore spiega come tre personaggi del teatro cinquecentesco, il pedante, il parassita ed il prologo, hanno una funzione narrativa in più rispetto a quanto pare a prima vista: “An interesting focus for our attention is some of the striking characteristics of the theatrical prototypes which are elements of this Italian text production. Within a broad but nevertheless repetitve standard setting of characters in this new kind of comedy, some characters seem to function between the borders of a very >elastic< outline of their >definition-in context<. As a result, they are more flexible in their >stage<behaviour. They also seem more difficult to encapsulate in a simple, one-dimensional interpretation of them in terms of the kind of human being they represent on stage. Moreover, they are, to a large extent, responsible for an appeal to the audience designed to achieve much more than a superficial, basic and exclusively linear reception of the events represented on stage. In short, in framing a very dynamic presence, both their physical movement on stage and between the lines of the written text, these particular prototypes can be pictured as mirroring the various levels of interpretation being produced throughout the Italian Renaissance.” (pp. 158-159.) Non viene nominato il personaggio dello schiavo astuto, magari perché il servus callidus è una figura della commedia antica, ma in questo contesto possiamo constatare anche questa doppiezza in vedere Fessenio. Sarebbe veramente interessante come si è sviluppato questo personaggio, e in quanto vale la teoria di Bossier per Fessenio. 59 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 527. 58 27 diverso di quello maschile. I monologhi di Fessenio vengono probabilmente usati per dare un commento diretto dell’autore sugli eventi successi nella commedia e per instaurare un rapporto più personale con il pubblico. 28 Capitolo 4: Il travestimento femminile 4.1 Funzioni letterarie del travestimento femminile In questo capitolo il tema centrale sarà il travestimento di due figure femminili che sono principali ne La Calandria di Bibbiena, la padrona romana Fulvia e la ragazza greca Santilla. Analizzeremo il loro mascheramento in particolare, basandoci su alcuni frammenti che sono stati scelti per il corpus e che forniscono un buon punto di vista per lo sviluppo del loro travestimento. Prima di tutto rivolgiamo l’attenzione allo studio Wenn Frauen Männerkleidung tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und Geschichte (1997), che è ricco di profonde intuizioni sul travestimento femminile. Gertrude Lehnert evidenzia il fatto che il camuffamento muliebre nella letteratura non è il risultato di una crisi d’identità, oppure la volontà di ottenere caratteristiche maschili, ma nasce a causa di una situazione d’emergenza: Denn die Verkleidung ist nur aus Not, nicht aus Neigung entstanden und von vornherein nicht als dauerhafte Maskerade gedacht. (…) Diese Position ist typisch für die als Männer verkleideten Frauen in der Literatur, zumal in der Zeit vor dem 19. Jahrhundert. Sie verkleiden sich nur dann, wenn ihnen kein anderer Ausweg aus einer Notlage bleibt, die allerdings nicht vergleichbar ist mit jenen existentiellen Notlagen, aus denen sich wirkliche Frauen zuweilen als Männer ausgaben. Die jungen Frauen in der Literatur müssen entweder vor einer Gefahr fliehen, oder sie müssen einen verschollenen Liebhaber suchen. 60 Come vedremo dopo, tutte e due le possibilità che ci offre Lehnert, (il travestimento per fuggire da un pericolo o il travestimento per andare a trovare un amante nascosto), sono presenti ne La Calandria. Viene chiarito che dopo il mascheramento la donna ridiventa donna, non esiste in questo modo una perdità dell’identità femminile, ma forse un rafforzamento della femminilità: Man war damals der Ansicht, Frauen könnten ihr Geschlecht leichter wechseln als Männer, denn ihre Geschlechtsidentität galt als biologisch einigermaßen fragil, da sie noch nicht zum Männlichen hin vollendet war. Aus der Renaissamce sind mehrere Geschichten überliefert, in denen ein Mädchen sich in einen Jungen verwandelte. Solche »Fälle« bestätigten, was man ohnehin von der menschlichen 60 Lehnert, Gertrud. Wenn Frauen Männer kleider tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und Geschichte. München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1997, pp. 49-50. 29 Geschlechtsentwicklung »wußte«, nämlich daß »Männer aus den Frauen hervor- oder durch einen weiblichen Zustand hindurchgehen«. Die vorgeblich relativ häufigen Geschlechtsumwandlungen von Frauen in Männer konnten also als ganz natürlicher Entwicklungsvorgang gedeutet werden, bei dem die eigentlichen Männlichkeit der Person, im Grunde immer schon vorhanden , sich erst verspätet entfaltet. Somit findet keine wirkliche Geschlechtsumwandlung statt, sondern nur eine Entwicklung hin zum »eigentlichen« Geschlecht.61 4.2 Inganno ed astuzia: mascheramenti nel Prologo Il nostro tema principale è la veste femminile, ed il travestimento delle due protagoniste Fulvia e Santilla è in questo caso estremamente interessante. Prima di indagare i loro mascheramenti, osserviamo ancora una volta con attenzione il Prologo, scritto dal Bibbiena stesso. Salta all’occhio che lo scrittore punta ripetutamente sulla veste femminile: nonostante il fatto che la tematica principale in questo prologo, del quale non è certo se è stato scritto per la commedia in questione62, si possa definire come l’astuzia muliebre, il vestirsi in sé ha un ruolo importante. Lo scrittore descrive un suo sogno in cui prende in bocca l’anello di Angelica63 per “(…) vedere tutte le donne di Firenze quando si levano: e forse che i’ non arei potuto farlo, potendo andar per tutto senza esser veduto!”64. Egli entra così in diverse case, dove è testimonio di situazioni tra mariti e moglie in disuguaglianza da una parte, e dall’altra parte di momenti in cui donne si vestono e si truccano. Lo scrittore esprime chiaramente la sua opinione sul trasformarsi esteticamente nella speranza di essere più belli: -Diacin ne vadia, con tanto lisciarsi!- diceva io fra me medesimo: -può egli essere che queste meschine non si accorghino che, per voler parer più belle, si fanno maschere e si guastan la vita ed invechiano dieci anni inanzi al tempo e diventano grinze e isdentate o vero co’ denti s’sudici e lordi che sarebbe manco schifo a baciar loro…presso che io non dissi qualche mala parola… che baciar loro la bocca? Quante ne è qui che, cariche di panni e del mal che Dio die loro, stanno intirizzate come statue e non si possan 61 Ibidem, pp. 69-70. Fossati, Paolo. Note in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 100: “Seguiamo anche noi i moderni editori che dànno, accanto a quello del Castiglione, il prologo rinvenuto da Isidoro del Lungo il secolo scorso. Nulla indica che potesse esser legato alla Calandria, come s’è detto nella nota introduttiva: e se ne potrebbe perciò dare il testo in appendice. Ma, tenuto conto della natura letteraria della commedia, la tematica boccacciana che il testo esemplifica e la dichiarazione di poetica, come comportamento immaginativo, che offre sembrano una ottima ragione per farlo precedere, come una sorta di premessa ideale.” 63 Il Bibbiena fa riferimento alla protagonista femminile dell’Orlando furioso (pubblicato in versione definitiva nel 1532) dell’Ariosto, che possiede un anello magico che rende il proprietario invisibile. 64 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 17. 62 30 muovere, scoppiano di caldo e di affanno, per parer belle! Le s’ingannano, perché belle son tenute quelle che né poco né molto le lor persone procurano.65 Dichiara che le donne che si truccano per avere un aspetto migliore, si ingannano: la sua critica morale è che non sono la veste ed il trucco a rendere una persona bella. L’inganno sembra essere la parola chiave in questo contesto: si potrebbe supporre che esista un legame tra il mascheramento femminile (ovvero l’inganno, perché mascherarsi è una forma di imbroglio come conferma lo scrittore) e l’astuzia muliebre. Le donne non sono mai quello che paiono, ingannano con l’aspetto ed allo stesso tempo fregano i loro marito con l’intelletto e l’acutezza, ad esempio nella citazione sottostante: Il buono uomo, per non sentir quel pianto tutta notte, e non sapendo come potessi giovare al figliuolo, si uscì di casa e dette campo franco alle moglie, più aveduta e più savia di lui.66 Lo scrittore usa più volte la parola ‘savia’ riguardo alle donne; anche quando la loro posizione è più umile di quella del marito, infine è la donna a vincere per via della sveltezza della mente che il Bibbiena conferma “–Oh quanto mi risi di questa astuzia da donne!”67 Un’ipotesi possibilmente valida è che la veste femminile rappresenti un mascheramento della vera persona e quindi anche dell’acutezza: anche se non è sempre chiaro a occhio e croce, la donna ha la possibilità di superare l’uomo al livello di sagacia. 4.3 Sorpassando la libertà di movimento Per tutti e due i nostri personaggi principali femminili, Fulvia e Santilla, vale che il loro sesso limita la loro libertà di manovra. Questo vincolo è visibile in modo migliore nella situazione di Santilla: un’illustrazione è Cal., II, 8, in cui ella presenta le proprie rimostranze sul travestimento costretto. Secondo l’Argumento senza mascheramento non avrebbe potuto sopravvivere all’attentato turco a Modone68, ma ormai non può più rivelare la sua vera identità. Il travestimento di Fulvia invece è volontario: essendo di una classe sociale più alta rispetto a Santilla, ella ha certamente più libertà. Nonostante ciò, fatto sta che difficilmente può uscire di casa. Afferma in Cal., III, 7 che “Io, che già sanza compagnia a gran pena di camera uscita non sarei, or, da amor spinta, vestita da 65 Ibidem, pp. 20. Ibidem, pp. 19. 67 Ibidem, pp. 19. 68 Ibidem, pp. 21. 66 31 uomo fuor di casa me ne vo sola.” Per andare a trovare il suo amante Lidio deve utilizzare la veste maschile per nascondere il suo sesso. Questa limitata libertà di manovra per le donne non è un fatto a sé stante. Lehnert (1997) chiarisce che la veste maschile può fornire più indipendenza ed autodeterminazione: In Männerkleidung können die Frauen sich unerkannt in die Welt hinauswagen und sich so ungehindert und ungefährdet fortbewegen, was ihnen in Frauenkleidung und eingezwangt in die Norm züchtigen weiblichen Verhaltens nicht möglich wäre, zumindest, wenn sie den gehobeneren sozialen Schichten angehören. Wenn die verkleidete Frau schließlich ihr Ziel erreicht hat, legt sie erleichtert die Männerkleidung ab und wird wieder zu Frau, ohne daß sich etwas an der jeweils herrschenden Geschlechterordnung geändert hätte. 69 Qui si evidenzia di nuovo che questo tipo di travestimento è di breve durata, una volta ottenuto il risultato voluto, la donna sceglie decisamente per la veste e l’identità femminile. Nonostante ciò l’abbigliamento maschile pare conoscere una nozione di protezione e sicurezza in generale70, mentre la veste femminile invece sembra essere inerente ad un’identità fragile, come se l’involucro esterno rispecchiasse caratteristiche stereotipe dell’interno di una persona. Per questo mascheramento femminile serviva di certo un gran coraggio, come viene indicato anche in The tradition of female transvestism in early modern Europe (1989): For all these women in men’s clothing, the stress caused by the fear of discovery must have been constant. Of those who succeeded in impersonating men for a considerable period of time, we can easily assume that they possessed strong nerves, some intelligence and possibly a talent for acting. 71 Bisogna tener conto del fatto che questo studio non parla solamente di letteratura, ma esamina il travestimento femminile in una luce sociostorica. Il loro campo di indagine è in particolare parte i Paesi Bassi, Inghilterra e Germania, ma nonostante ciò possiamo 69 Lehnert, Gertrud. Wenn Frauen Männer kleider tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und Geschichte. München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1997, pp. 50. 70 Dekker, Rudolf e van der Pol, Lotte. The tradition of female transvestism in early modern Europe. Hampshire, The Macmillan Press LTD, 1989, pp. 8. In questo studio sul travestimento femminile, i critici evidenziano che il mascheramento di donne in generale conosceva la nozione di protezione: « There are many examples of women who dressed as men for travelling. This was considered a safety precaution, particularly for longer trips because a woman travelling alone, faced considerable danger in a time where highway robbers still were common in Europe. Masculine attire was also more practical for travel than long skirts ». 71 Ibidem, pp. 17. 32 scoprire anche qualche legame tra il travestimento reale e fittizio della commedia bibbienesca, ad esempio questa audacia che viene evidenziata nella citazione sovrastante. Vediamo come Santilla riesce a nascondere il suo vero essere per tutta la vita, sebbene sappia che quando il mascheramento viene scoperto, “(…) e, da me scornati, el padre e la madre e la figlia porriano farmi uccidere.”72. Anche Fulvia mostra il suo coraggio andando in abbigliamento maschile per strada. Bianca Concolino (2009) infatti afferma che proprio per quest’essere pavida, la padrona romana salta all’occhio per poi sparire più o meno dal palcoscenico. A parte il travestimento «centrale» dei gemelli quello di Fulvia che si traveste da uomo per ritrovare Lidio e che si trova invece davanti Calandro è forse più interessante di quanto sembri, per il nostro discorso. Naturalmente, lo scopo principale del travestimento di Fulvia è di essere più libera nei suoi movimenti e di nascondere la sua vera identità. Ma bisogna comunque sottolineare che con il travestimento maschile Fulvia acquista un coraggio e una sicurezza che le mancavano prima, nel suo ruolo di moglie insoddisfatta di Calandro e di amante insicura di Lidio. Fessenio stesso sottolinerà questo cambiamento di Fulvia e la sua ammirazione per la presenza di spirito di cui fa prova: «Qual altra, sanza Amore, averia avuto tale accorgimento che di sì gran periculo escita fusse come costei?». Questo sarà del resto l’unico momento in cui Fulvia ha un ruolo da protagonista. Alla fine della commedia dopo che i due gemelli saranno riuniti, il personaggio di Fulvia passerà dal ruolo di amante a quello di suocera di Santilla, e sparirà quindi dal nucleo dei personaggi principali. Anche qui il Bibbiena farà scuola, poiché l’idea del travestimento maschile del personaggio femminile sarà ripresa e sfruttata per tutto il secolo. 73 4.4 Il travestimento di Fulvia Adesso analizziamo più profondamente i mascheramenti delle nostre eroine, cominciando con Fulvia. Come si sviluppa il suo travestimento e quale impatto psicologico ha? La prima scena in cui appare Fulvia è Cal., II, 5 ed il travestimento suo non è ancora introdotto nel discorso. Quando questa nobildonna viene presentata per la prima volta, si vede crescere l’angoscia in ella, perché si è resa già conto del fatto che il suo amante Lidio vuole partire. A qualunque costo vuole impedire la decisione del ragazzo greco del quale è ardentemente innamorata, e perciò ha chiesto aiuto al negromante greco Ruffo, che ha promesso (in cambio di denaro) di agevolare la faccenda, usando uno spirito. Quando Fulvia incontra lo schiavo di Lidio, Fessenio, espone subito la sua 72 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 47. Concolino Mancini Abram, Bianca. Da Calandrino a Calandro.Variazioni sul tema della beffa. Université de Poitiers, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 19-20. http://ddd.uab.cat/pub/qdi/11359730n14p13.pdf 73 33 disperazione: “Spacciata sono, se tu con lui non mi aiuti. Pregalo che salvi questa vita che è sua.”74 In prima istanza l’ansia di Fulvia non viene né risolto dallo Spirito, né da Fessenio, mentre il suo amore per Lidio cresce: questo stato d’animo prevale soprattutto quando incontra il suo marito ‘vezzoso’ Calandro (Cal., II, 10), per il quale sente un forte disprezzo. Tutto questo risulta nella decisione di Fulvia di prendere le redini nella scena Cal., III, 5, che magari possiamo considerare come la scena più importante per questo personaggio. Dopo un lungo dialogo con la sua serva Samia (la quale per sbaglio ha incontrato Santilla vestita da Lidio e non Lidio stesso), scopre che il suo amante davvero non soltanto non la ama più, ma peggio ancora, pare che non riconosce nemmeno Fulvia. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso e come una Didone rinascimentale lamenta la sfortuna femminile ed il suo amore per un ragazzo irraggiungibile. È qui che constatiamo il primo vero passo verso il travestimento: Deh, cieli! perché non fate che Lidio me ami come io lui amo? o che io fugga lui come esso me fugge? Ahi crudel! che chiedo io? Disamar e fuggir Lidio mio? Ah! certo, questo né far posso né voglio; anzi, penso io stessa trovarlo. E perché non mi è lecito da omo vestirmi una sol volta e trovar lui, come esso da donna vestito, spesso è venuto a trovar me? Ragionevol è. Ed egli è ben tale che merita che questa e maggior cosa si faccia per lui. Perché far nol devo? perché non vo? perché perdo io la mia giovinezza?75 Dopo questo monologo, Fulvia ha fatto la sua scelta spavalda: solo andando da egli in persona, ha la speranza di poterlo convincere e per questo bisogna travestirsi. Infatti è l’unica soluzione, in veste femminile non ha la libertà di manovra per raggiungerlo. Agisce per conto suo, perché non le sarebbe lecito fare scelte che gli uomini fanno senza costrizioni? Fulvia mantiene ferma senza dubbio la sua decisione, come si può leggere in Cal., III, 7, perché infine nessuno la riconoscerà in veste maschile. Del resto nessuno sarà a casa di Lidio, salvo forse Fessenio, al quale è nota la congiura. Non tutti condividono la sua fermezza e spensieratezza, ad esempio la sua serva Samia esprime la sua preoccupazione: “Non possendo aver Lidio suo, a trovarlo va vestita da omo; sanza pensar quanti mali avvenir ne portriano, quando mai si sapesse.”76 La stessa serva però 74 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 42. Ibidem, pp. 59. 76 Ibidem, pp. 60. 75 34 riconosce i vantaggi di questa avventura, molto buffa è la scena in cui loda l’amore e trae in modo boccaccesco profitto della assenza della sua padrona (Cal., III, 8). Il travestimento di Fulvia che inizialmente è la sua salvezza per via della libertà di manovra, risulta essere anche la sua salvezza per un doppio motivo: nella scena Cal., III, 12 incontra per sbaglio suo marito Calandro (il quale si è recato in questa casa per passare qualche momento con la sua amante Santilla che è in verità Lidio vestito da donna) e il mascheramento è la sua via di scampo. La furba Fulvia ha trovato subito un alibi per la sua presenza, pur in abiti maschili. Fa finta di sapere già che Calandro commette adulterio ed infatti solo così ha la possibilità di coglierlo in flagrante. Interessante è il gioco linguistico di Fulvia, che punta su inganno e fede: “E forse che non pensavi ascosamente farmi questo inganno? Ma, per mie’ fé, tanto sa altri quanto tu. E a questa ora, in questo abito, d’altri non fidandomi, io propria son venuta per trovarti. E cosí ti meno, come tu sei degno, sozzo cane, per svergognarti e perché ognuno prenda compassione di me che tanti oltraggi da te sopporto, ingrato!”77 Sarà così chiaro a tutti che non solo Calandro inganna Fulvia e, a maggior ragione, ella imbroglia il marito. Il mascheramento risulta aver la doppia funzione di un capovolgimento: non solo appare la padrona in veste maschile, ma attraverso questo primo rovesciamento della realtà, Fulvia capovolge anche il suo comportamento. Passa dallo stato di donna infedele a quello di moglie fedelissima, degna di commiserazione. Dopo questo scampo a malapena, il travestimento di Fulvia, e così anche il suo ruolo principale, si conclude. Nelle prossime scene viene riferito soprattutto al problema con Lidio, parte o meno? Pare aver capito che il suo travestimento era troppo pericoloso, ma questo fatto non trattiene Fulvia dall’imbrogliare il marito: così trionfa la beffa femminile. 4.5 Santilla : tra mascheramento costretto e volontario Il travestimento della ragazza Santilla, ovvero Lidio femina, non è completamente paragonabile al caso di Fulvia, nonostante si tratti di due donne che si mostrano al mondo in abiti maschili. Come notato prima, si occupa di un mascheramento costretto, che dura già da anni, mentre il travestimento di Fulvia è sicuramente volontario. La povera Santilla si è cacciata in una situazione estremamente angosciante: vista e creduta maschio, ella deve sposare la figlia del mercante Perillo e il travestimento sarà scoperto 77 Ibidem, pp. 63-64. 35 a causa di questa faccenda, con tutte le conseguenze che seguono. Appare per la prima volta nell’atto secondo (Cal., II,1) e dal momento iniziale si lagna della sorte femminile. Infatti, le sue prime parole sono “Assai è manifesto quanto sia miglior la fortuna degli uomini che quella delle donne”78 e con questo il tono è dato. Troviamo delle scene pleonastiche in Cal., II, 8 e Cal., IV, 5, soprattutto in quest’ultima la disperazione della ragazza è ben visibile: “Deh misera me! Che debb’io fare? Dovunche io mi volto, dalle angosce tanto circundata mi trovo che loco non vedo onde salvar mi possa.”79 Inerente al suo personaggio sono le parole ‘misera’ e ‘infelice’. Tutto questo non vuol dire che Santilla sia una figura che è soltanto triste, nonostante il fatto che sarà senza dubbio il personaggio che suscita la maggior pietà e compassione, con i suoi monologhi pieni di dolore. Non dimentichiamo anche l’altro lato di Santilla, che certamente non è sfavorevole all’iniziativa farsesca del negromante Ruffo di imbrogliare Fulvia: Santilla (da Ruffo creduta maschio) deve andare in forma di donna dalla ricca padrona, che crederà che l’amante si sia trasformato nell’altro sesso con l’aiuto di uno spirito magico. La ragazza condivide l’opinione del servo Fannio, che dice a proposito di questa beffa: “Ed oltra di questo, scoprendola tu puttana, spesso da lei beccherai danari per pagarti il silenzio tuo a non parlarne. Oltra questo, è cosa da crepar delle risa. Tu donna sei; ella in forma di donna te adomanda; da lei anderai. Al provar quel che cerca, troverrà quel che non vuole.”80 Infatti, questo progetto crea un mondo del tutto capovolto, in cui niente è quello che sembra. Santilla trova ‘li panni per vestirci’81 e così è nato questo doppio travestimento pazzesco: una ragazza, abbigliata da anni in veste maschile, si traveste di nuovo in veste femminile, per ingannare la romana ricca, mentre allo stesso tempo suo fratello Lidio si è mascherato da donna per imbrogliare il marito di Fulvia. Il progetto avanza come è stato desiderato; Fulvia è disperata quando trova l’amante davvero trasformato in donna e promette a Ruffo più denari per sistemare questo problema e rifarlo maschio. Per evitare problemi Fannio si veste come Santilla e così va al posto della ragazza da Fulvia. Queste scene carnevalesche si risolvono quando infine i servi si accorgono della presenza di tutti e dei due gemelli e sanno a malapena salvare tutti: così nelle scene finali la realtà quotidiana ritorna ed il mondo capovolto sparisce. 78 Ibidem, pp. 37. Ibidem, pp. 81. 80 Ibidem, pp. 41. 81 Ibidem, pp. 41 79 36 Come vediamo, il tema del travestimento viene sfruttato al massimo ne La Calandria, e Bibbiena ha creato un nuovo esempio da seguire, soprattutto per il mascheramento di ambedue i sessi. Travestimenti in veste maschile da parte delle donne fu un nuovo elemento comico, ma non solo una componente ridicola, come evidenzia anche Moncallero (1953): Il vecchio che si lasciava irretire e abbindolare da amore poteva essere oggetto di riso: ma per gli altri, e per le donne ancora, v’era larga comprensione e giustificazione. Era lecito a Fulvia e a Santilla di comuffarsi in abiti maschili, come donne travestite e fuggitive di casa o di convento ci presteranno più tardi gli Accademici Intronati di Siena.82 Questa giustificazione per il travestimento è ben comprensibile, se teniamo in mente le esclamazioni amare di Fulvia e Santilla per la sorte femminile, suscitano pietà per un destino così tragico. Questa tematica verrà usata nel periodo seguente, e non solo nella commedia. Si può constatare anche delle concordanze con la novella83, in questo caso l’esempio più importante sarebbe Bandello con le sue Novelle (1554 e, postumo, 1573). Possiamo considerare questa rielaborazione della tematica antica, un passo geniale di Bibbiena, che fornisce un nuovo elemento umoristico nella commedia ed altri generi letterari del Cinquecento. 82 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 562. 83 Ibidem, pp. 570-571. Moncallero sottolinea che il mascheramento era inerente al secolo, e questa tradizione si vedeva non solo nella commedia, ma anche nel genere letterario della novella, secondo l’esempio del Decameron: “Il travestimento era del resto vivo nel costume del secolo, non solo di carnevale s’intende: a Venezia ci si mascherava per sfuggire alla giustizia come a Roma le meretrici si camuffavano per evitare lo sfratto, e dei più strani travestimenti, fecondi dei più impensati accidenti, eran materiate le novelle come le commedie. Si possono ricordare ad esmpio la novella II, 36 del Bandello, la 8.a della Deca quinta degli Hecatommithi di Giraldi Cinthio (…).” 37 Capitolo 5: Onore e spazio femminile 5.1 La casa: spazio della castità femminile All I could do was to offer you an opinion about upon one minor point – a woman must have money and a room of her own if she is to write fiction (…).84 La citazione sovrastante di Virginia Woolf (1928) sarà il punto di partenza per questo capitolo: nel suo saggio femminista A Room for one’s own, la Woolf esamina gli effetti di povertà e castità sulla creatività femminile e rende chiaro che una donna può avere libertà intellettuale soltanto attraverso ricchezza materiale, che implica una stanza per sé stessa, dove non viene disturbata con preoccupazioni quotidiane. Nel saggio la Woolf si chiede perché esistono così tanti autori maschili invece di femminili, ma nonostante la sua rabbia per questa disuguaglianza sessuale, è consapevole che è una ‘tradizione’ da molti secoli e vale anche per il nostro periodo da esaminare, il Rinascimento.Una ragione per la posizione femminile umile potrebbe ben essere che l’educazione di uomini e donne era diversa85 e l’immagine della donna come persona inferiore veniva conservata dalla letteratura umanista86. King e Rabil (1997) infatti indicano che soprattutto la visione del sesso femminile subordinato al sesso maschile, creata dagli intellettuali (e dalla Chiesa), ha contribuito all’esclusione di un ruolo attivo per la donna nella società: 84 Woolf, Virginia. A Room of one’s own. London, Penguin Books, 1945 (pubblicato per la prima volta nel 1928), pp. 5-6. 85 Per una spiegazione più approfondita sul fenomeno dello stato femminile nel Rinascimento si veda ad esempio Maclean, Ian. The Renaissance notion of woman: a study in the fortunes of scholasticism and medical science in European intellectual life. Cambridge University Press, Cambridge, 1980 oppure l’introduzione di Margaret L. King e Albert Rabil jr. in d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, The University of Chicago Press, Chicago, 1997. 86 Un’opera molto interessante per la spiegazione quanto fu grande la paura per iniziative femminili è Shemek, Deanna. Ladies Errant. Wayward women and social order in Early Modern Italy. Durham, Duke University Press, 1998. Shemek spiega che richiedeva tanto coraggio alle donne per fuorviarsi: “My title is meant to evoke the explicit early modern fear that feminine initiatives, which almost by definition lapse from the rigid forms of decorum, could lead orderly society itself astray. At the same time, it celebrates the determined efforts of women (then a in other moments) to venture beyond the social and cultural bounds set for them by men: errancy, in this sense, must be seen as more than a casual or unwitting “error”; it must be understood as act of resistance.” ( pp. 2.) 38 The negative perception of women expressed in the intellectual tradition are also implicit in the actual roles that women played in European society. Assigned to subordinate positions in the household and the church, they were barred from significant participation in public life.87 Come risulta implicito dalla citazione sovrastante, le donne erano in generale predestinate a vivere la loro vita all’interno della casa 88: quest’ultima era proprio un mondo silenzioso per mantenere la loro castità e purezza e per essere anche sottomesse agli uomini. Una delle ragioni più importanti per cui lo spazio femminile rimaneva la casa, evidenziano King e Rabil (1997), era il problema della castità: The requirement of chastity kept women at home, silenced them, isolated them, left them in ignorance. It was the source of all other impediments. (…) Female chastity ensured the continuity of the male-headed household. If a man’s wife was not chaste, he could not be sure of the legeitimacy of his offspring. If they were not his, and they acquired his property, it was not his household, but some other man’s, that had endured. If his daughter was not chaste, she could not be transferred to another man’s household as his wife, and he was dishonored. 89 Sia onore corporeo che quello psicologico della donna furono un fulcro della società rinascimentale: infatti è una tematica ricorrente nell’opera principale di questa tesi, La Calandria del Bibbiena. La castità femminile era una norma indimenticabile nella comunità, ed era praticamente inerente alla vita stessa come la Woolf indica: Chastity had then, it has even now, a religious importance in a woman’s life, and has so wrapped itself round with nerves and instincts that to cut it free and bring it to the light of day demands courage of the rarest.90 87 d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, con un’introduzione di Margaret L. King e Albert Rabil jr., The University of Chicago Press, Chicago, 1997, pp. 7. Anche Shemek (1998) condivide quest’idea: “Whatever our interpretation of its individual works, the sheer volume of this literature establishes the matter of woman’s place –and the implicit impossibility that she might stray from it –as one of the period’s most persistent cultural questions” (pp. 3). King e Rabil jr. evidenziano però che la tradizione misogina nella letteratura apriva delle porte per riconsiderare la giustezza di queste idee, prese dalla filosofia antica: “Humanism was a movement led by males who accepted the evaluation of women in ancient texts and generally shared the misogynist perceptions of their culture. (Female humanists, as will be seen, did not.) Yet humanism also opened the door to the critique of the misogynist tradition. By calling authors, texts, and ideas into question, it made possibile the fundamental rereading of the whole intellectual tradition that was required in order to free women from cultural prejudice and social subordination.” (pp. 10.) 88 Shemek parla di ‘(…) own enclosure in a shrinking domestic sphere.’ (pp. 16.) 89 d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, con un’introduzione di Margaret L. King e Albert Rabil jr., The University of Chicago Press, Chicago, 1997, pp. 15. 90 Woolf, Virginia. A Room of one’s own. London, Penguin Books, 1945 (pubblicato per la prima volta nel 1928), pp. 51. 39 La castità, un concetto difficile da mettere a nudo secondo la Woolf, costringeva quindi il sesso femminile a non partecipare alla vita sociale, rimanendo a casa, che possiamo considerare così uno spazio della verità femminile: solo in casa la pudicizia femminile era garantita, perché in pratica nessuno era in grado di vituperare l’onore di moglie o figlie. 5.2 Onore femminile ne La Calandria Per verificare l’ipotesi centrale di questo capitolo, il legame tra le tematiche onore femminile e la casa o la stanza come spazio della verità femminile, ci concentreremo sul caso di Fulvia. L’altro personaggio femminile principale, Santilla, si mostra davanti all’occhio del pubblico praticamente sempre in veste maschile: tutto il mondo la crede maschio e per il suo travestimento costante non è costretta a rimanere a casa. Fulvia invece si maschera una sola volta e si deve adattare ai valori ed alle norme di buona educazione. La sua casa è il posto centrale de La Calandria e viene considerata, prevalentemente da suo marito, come spazio della verità: è un posto dove il suo onore non è vituperato, anche se in realtà Fulvia si diverte in modo non completamente casto con l’amante Lidio. Prima di analizzare più profondamente il caso principale di Fulvia, vale anche la pena di dare un’occhiata a due altre situazioni ne La Calandria, nelle quali viene menzionata la tematica dell’onore femminile. Il primo esempio si trova nel Prologo del Bibbiena stesso. In generale, come abbiamo constatato nel terzo capitolo, la questione centrale è l’astuzia muliebre. Si può considerare questa tematica strettamente legata a quella della pudicizia femminile: vari esempi nel Prologo indicano che le donne fregano i loro mariti con l’acutezza e l’inteletto, per fuggire così alla gelosia e alle regole imposte dai mariti. Con il tema boccaccesco della beffa femminile, le donne menzionate ne La Calandria, avevano la possibilità di scappare dalla prigione dell’onore, che le proibiva libertà di manovra. Un chiaro esempio del Prologo ne è questo: “Ella piangeva, e voleva pur venir alla veglia, e diceva al marito: - Se voi non volevi che io v’andassi, bisognava dirlo prima e non mi lassar promettere. Voi volete pure che ognuno sappia chi voi sete, che maladetto sia il punto e l’ora che io mi maritai! così poteva io farmi monaca, se non ho mai a avere un piacere come l’altre. – Ben, be’- rispondeva il marito geloso, - veglie, eh? veglie, eh? Se tu volessi bene al tuo marito, tu non ti cureresti d’andarvi. Tu non sai bene quel che si fa a queste veglie. Statti, statti in casa meco; e sarà molto meglio che 40 andar notticon tutta notte.(…) Io messi mano a un legno, con animo di dargli venticinque bastonate per fargli uscire la gelosia del capo: ma pensai poi che fusse meglio lasciarne far la vendetta a lei, che, se sarà savia, com’io credo, lo farà esser geloso di qualcosa.”91 Vediamo nitidamente il processo nominato: il marito possessivo impedisce alla moglie di andare alla veglia, per ostacolare così anche il fatto di essere disonorato. Attraverso la sua saviezza, così indica il Bibbiena, la moglie vincerà alla fine. Una seconda volta nella quale viene accennata la tematica dell’onore femminile si trova in Cal., I, 2. In questa scena si assiste ad una conversazione tra il precettore presuntuoso Polinico, Lidio ed il servo Fessenio. Polinico avverte Lidio di non innamorarsi della bella Fulvia: secondo il precettore le donne sono mutevoli e questo è un fatto pericoloso. Quando Lidio sostiene il contrario e afferma che non sono tutte uguali, Polinico esprime il suo pensiero con ancora più perseveranza. Possiamo considerare che in questo caso non difenda del tutto l’onore femminile, la sua opinione è assai misogina: “O Lidio, leva el lume, che i volti veder non si possino, non è una differenzia al mondo da l’una all’altra. E sappi che a donna non si può credere, etiam poi che è morta.”92 Quest’affermazione non risponde al gusto di Lidio e Fessenio ed il servo ribatte che il precettore è pure nemico del sesso femminile, come più persone alla corte romana 93: “Allo essere inimico delle donne, come è quasi ognuno in questa corte. E però ne dici male. E iniquamente fai.”94 Lidio non può fare altro di condividere questo parere del servo: “Dice il vero Fessenio, perché laudar non si può quel che tu hai detto di loro: per ciò che sono quanto refrigerio e quanto bene ha il mondo e sanza le quali noi siamo disutili, inetti, duri e simili alle bestie.”95 Polinico non riesce a difendersi e si allontana infine, amareggiato per la perdita della conversazione. Interessante è che il Bibbiena in questa scena pare aver cercato di dare voce alla civiltà della sua epoca: come abbiamo constatato nel primo paragrafo del presente capitolo gli intellettuali conservarono nella letteratura umanista una visione misogina, basata su opinioni provenienti dall’Antichità. Quasi non può essere casuale che la visione pessimista del sesso femminile come mutevole, ingannevole e perfino pericoloso viene espressa dal 91 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 18. Ibidem, pp. 28. 93 Paolo Fossati indica nelle note (pp. 104) che le parole di Fessenio sono un gioco linguistico che rimanda al costume omosessuale della società rinascimentale. 94 Ibidem, pp. 28. 95 Ibidem, pp. 28. 92 41 pedagogo Polinico. Il Bibbiena assume il compito di difendere, attraverso le voci di Lidio e Fessenio, l’onore femminile.96 5.3 Onore e beffa femminile: il gioco di Fulvia In diverse scene de La Calandria, il Bibbiena rimanda alla tematica dell’onore femminile, che viene conservato in un luogo preciso, la casa che possiamo considerare come lo spazio della verità. Questo fenomeno si concentra soprattutto intorno alla figura di Fulvia, e, per lo svolgimento della trama, l’argomento della pudicizia si trova principalemente nelle ultime scene. Tuttavia anche prima del quinto atto troviamo dei riferimenti alla casa di Fulvia come luogo dell’onore. Il marito Calandro praticamente l’ha chiusa in camera, così che neanche la sua rispettabilità viene danneggiata. Un esempio che il posto di una donna è all’interno del domicilio, mentre quello dell’uomo è all’esterno, si trova in Cal., II, 10, quando Calandro è pronto per andare da Santilla in segreto: la frase “Fatti alla finestra.”97 indica questa differenza, questo confine tra ‘dentro’e ‘fuori’ per ambedue i sessi. Che la strada non è un luogo per una donna rispettabile, viene reso ancora più chiaro nella scena Cal., III, 5. Nell’episodio precedente Fulvia decide di travestirsi per avere così la libertà di movimento, un atto assai pericoloso per una donna. Prima di agire Fulvia però raccomanda con intransigenza la serva Samia di non far entrare qualcuno: “Tu, Samia, su l’uscio resta: né lassar fermarcisi alcuno, acciò che io, a l’uscire di casa, cognosciuta non fusse.”98 Fulvia non può rischiare di incontrare qualcuno ( e specialmente Calandro oppure i suoi fratelli) perché non solo il suo travestimento era illecito, ma già il fatto di uscire di casa da sola era proibito: il marito non avrebbe potuto controllare se la pudicizia della moglie fosse stata violata per strada. Si può considerare l’onore femminile la tematica più importante dell’atto finale: in queste scene Calandro scopre attraverso i suoi fratelli che Fulvia ha portato l’amante in casa, il quale si maschera con i panni femminili. Per forza l’umiliato marito deve agire contro una tale vergogna immensa e decide di ammazzare l’uomo che lo avvilisce, 96 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp. 217. Moncallero indica che l’attitudine positiva del Bibbiena verso la donna e l’amore potrebbe essere stata influenzata dal Castiglione, scrittore de Il Cortegiano (pubblicato nel 1528) e l’atmosfera alla corte urbinate. 97 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 50. 98 Ibidem, pp. 59. 42 come racconta la serva di Fulvia, Samia in Cal., V, 4: “Li fratelli di Calandro hanno trovato Lidio tuo con Fulvia e mandato per Calandro e per li fratelli di lei , che venghino a casa per svergognarla; e forse poi uccideranno Lidio.”99 I pensieri temuti paiono diventare realtà, finalmente è stato scoperto l’inganno da Calandro. Fulvia invece, illusa dalle parole fuorvianti del negromante Ruffo, spera che la magia possa salvare i due amanti, come viene spiegato di nuovo da Samia, che ha il ruolo di annunciatrice: “Perché Fulvia pensa, prima che Calandro e li fratelli di lei si trovino ed a casa arrivino, che il negromante lo faccia di nuovo femina; e cosí levar la vergogna a sé e il periculo a Lidio. Ove che, se esso fuggendo si salvasse, Fulvia vituperata resteria. Però, volando, mi manda al negromante per questo conto. Addio.”100 Nella cieca speranza che la magia abbia davvero la capacità di trasformare il sesso, Fulvia manda la serva al negromante, la quale per fortuna incontra l’astuto Fessenio che trova la soluzione: egli si è accorto che ambedue i gemelli si trovano a Roma, e con acutezza sa mettere Santilla al posto di Lidio, e di conseguenza si ritrova una vera ragazza nella stanza. Gli amanti si salvano, mentre Calandro viene umiliato per una seconda volta. Così l’astuzia femminile vince per una beffa, il marito scimunito viene ridicolizzato ancora di più, causa di allegria per sua moglie in Cal., V, 6: “E il fine del periculo presente mi porta incredibile iocundità; perché, non pur ha salvato l’onore a me e la vita a Lidio, ma sarà cagione che con lui potrò essere più spesso e più facilmente. Chi ora è di me più lieto non deve essere mortale.”101 Allo stesso momento Calandro suppone ancora che Fulvia abbia in camera un uomo: “E vi meno perché vediate l’onore che l’ha fatto a voi e a me. E, poi che l’arò tutta pesta, menatela a casa il diavolo, perché non voglio in casa questa vergogna.102 Di nuovo ci si riferisce alla casa come spazio onorevole: per togliere la vergogna Calandro deve entrare nella stanza e per forza uccidere l’amante e punire la moglie, cosicchè la casa è nuovamente un luogo puro. Per l’astuzia di altre persone la faccenda fallisce, come riassume Fessenio in Cal., V, 11: “Oh! oh! oh! bella cosa! Credevon mò, sotto abito di donna, trovare un garzone che con Fulvia si solazzassi; e volevan uccidere lui e vituperar lei. Ma, trovato che è fanciulla, tutti si sono rasserenati, tenendo Fulvia la piú pudica donna del mondo. Ed ella con onore ed io con estrema letizia resto. Santilla, da loro licenziata, tutta contenta fuor ne 99 Ibidem, pp. 90. Ibidem, pp. 90. 101 Ibidem, pp. 92. 102 Ibidem, pp. 92. 100 43 viene. Vedi anche là Lidio.”103 La beffa salva, rimandando a Boccaccio, la pudicizia femminile e ridicolizza l’uomo: in maniera giocosa il Bibbiena tratta una tematica contemporanea, scherzando con i valori della società senza nuocerli completamente. E così, nell’agnizione finale, viene ritrovata la stabilità sociale ed il Bibbiena procura per la sua commedia un lieto fine. 103 Ibidem, pp. 94. 44 Conclusioni La nostra opera principale di questa tesi di laurea, La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, è costrutto in forma di ‘trompe-l'œil’, ossia una commedia vertiginosa in cui niente non è più quello che pare. Attraverso vari travestimenti, sia maschili che femminili, lo scrittore ci mostra un capovolgimento completo della realtà, in cui è difficile seguire ad esempio il vero sesso dei protagonisti con il loro continuo mascheramento. Con questo pensiero in mente abbiamo foggiato la nostra domanda basilare, che è stata in questa sede la seguente: come sopravvive la veste femminile in questo flusso ininterotto di scambi sessuali? Per rispondere a questa domanda è utile, prima di prendere in considerazione le analisi più dettagliate che riguardano le protagoniste femminili de La Calandria ed in modo specifico Fulvia, tener conto del sostegno concesso da Franco Ruffini (1986)104: nella sua ricerca Ruffini mostra più di una volta che l’opera del Bibbiena è un meccanismo nel contempo euristico e conoscitivo, non una semplice commedia prevedibile. La Calandria è la soluzione per il problema della commedia antica I Menaechmi di Plauto, con l’introduzione del meccanismo del travestimento bisessuale il Bibbiena ha saputo far funzionare la trama non sempre efficiente. Ruffini constata che il contenuto ed i personaggi in sé hanno uno scarso valore rispetto al meccanismo di base, sul quale è basato l’intreccio. Il travestimento femminile, secondo Ruffini, non è più che un intervento del Bibbiena, infatti è in primo luogo un meccanismo culturale, che riesce così a far funzionare il congegno ed a collegarsi allo stesso tempo con la tematica ed il lessico de Il Decamerone (1351) boccaccesco, del resto sfondo letterario della maggior parte della produzione comica cinquecentesca. Nella presente tesi di laurea abbiamo guardato ai protagonisti femminili de La Calandria: come si sviluppano e quanto contribuisce il loro mascheramento allo sviluppo personale? Prima di tutto salta all’occhio il ruolo principale che il Bibbiena ha assegnato al sesso muliebre nella sua opera: i personaggi femminili sono capaci di agire in modo autonomo, nonostante la loro posizione inferiore rispetto all’uomo. La disuguaglianza sessuale è un dato di fatto storico, che rispecchia anche l’epoca del Bibbiena stesso. La purezza e la castità femminile è una norma con un valore estremamente alto, la quale allo stesso tempo proibisce alla donna di partecipare al 104 Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna, Il Mulino, 1986. 45 mondo esterno e le impone il silenzio. L’autore rende molto chiara questa differenza tra uomo e donna, senza attribuire alla donna meramente un ruolo passivo: questa autonomia femminile la vediamo nei diversi soliloqui, perché il Bibbiena ha creato una voce per l’altro sesso. I monologhi di Fulvia e Santilla hanno un carattere lamentevole, una tematica non a sé stante e già conosciuta in altre produzioni letterarie 105, ma proprio perché durante questi soliloqui riconoscono la loro sorte infelice, prendono la decisione di agire, che sfocia ad esempio nel travestimento in uomo. Bisogna dire che questo vale a maggior ragione per la coraggiosa Fulvia, il cui travestimento è volontario sì, mentre Santilla tende a reagire più pazientemente e dunque più ad adeguarsi alle convenzioni “gender” imposte nella società primocinquecentesca. Non ha altra scelta, perché il suo travestimento dura già da anni, ed è costretto (in primo luogo, quando la commedia procede vediamo che anche la ragazza sfrutta il mascheramento per trarne vantaggio e divertimento). Per tutte e due vale che il mascheramento le provvede di una libertà di manovra che sarebbe stata impensabile senza la veste maschile. Il Bibbiena sfrutta la tematica antica del travestimento: infatti, puntando sul mascheramento bisessuale, crea nuove possibilità per scene carnevalesche, che rendono la commedia originalmente di stampo antico ancora più spiritosa e dunque più ‘moderna’. L’autore ci mostra un mondo capovolto, ed attraverso questo rovesciamento dell’ordine quotidiano, esiste anche più spazio per la tradizionale beffa sessuale. Proprio con il travestimento femminile il Bibbiena è in grado di proporre l’aggancio con Boccaccio, sia per le tematiche che per il lessico. La disuguaglianza sessuale rimane un fatto, ma nel capovolgimento continuo dei ruoli, lo scrittore può trattare tuttavia questa tematica in maniera giocosa: ironicamente è la donna che vince, attraverso la beffa femminile, ispirata da Il Decamerone boccaccesco. Il travestimento è la salvazione di tutti quelli che sono coinvolto nell’intreccio, e ridicolizza il personaggio scimunito di Calandro, l’unico a non riconoscere i mascheramenti. Per sua moglie Fulvia, dopo la sua pericolosa avventura in veste maschile, i vantaggi personali si sono ancora raddoppiati: il suo onore pare rimanere rispettato, pare essere una donna pudica per il mondo esterno, ma allo stesso tempo sa ingannare suo marito e commettere adulterio con l’amante Lidio. Si può considerare “l’inganno” la parola chiave de La Calandria, che significa anche la 105 Come abbiamo evidenziato nel terzo capitolo la lamentatio è un elemento topico per protagonisti femminile nel teatro rinascimentale. Cosentino, Paola. “Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento.”Italique, n. 9, 2006, pp. 69-99, pp. 90. 46 salvazione della veste femminile: il sesso muliebre ha una voce autonoma nell’opera bibbienesca. Attraverso l’inganno e l’astuzia la veste femminile sopravvive; anzi, con il travestimento trionfa il meccanismo ironico del capovolgimento delle norme, ossia la beffa, e così anche la donna, specchio scenico di tali potenze leggermente sovversive nella società premoderna. “La vittoria della Calandria è la sfida del futuro della commedia”106, così afferma Ruffini. Ma come prosegue il futuro del teatro dopo La Calandria? Per una prossima ricerca sarebbe interessante indagare un’opera di Niccolò Machiavelli (1469-1527), la commedia la Mandragola (pubblicata per la prima volta nel 1524), della quale palesiamo brevemente il contenuto in queste conclusioni. Possiamo considerare la Mandragola una continuità dell’opera bibbienesca nel campo della moralità sessuale, anche se bisogna tener conto del fatto che nelle due commedie esistono delle tematiche reciproche, ma allo stesso tempo vi si trovano molte differenze. In primo luogo vediamo che, come vale per La Calandria e viene evidenziato da Ruffini, anche la Mandragola si fonda sull’antica tradizione plautino-terenziana, ma allo stesso tempo non è neanche un calco puro e semplice: la base consueta del modello letterario fornisce lo schema, ma gli scrittori ricostruiscono proprio su questa base delle commedie moderne, con un forte ancoraggio con la situazione contemporanea. Anche Antonio Stäuble (2004) punta su questa deviazione del teatro antico, per indicare l’esclusività dell’opera: La Mandragola utilizza schemi tradizionali per affermare la propria singolarità; e ciò vale non solo per la struttura e per la trama, ma anche per i singoli protagonisti, che devono tutti qualcosa alla tradizone del teatro plautino-terenziano ed alla novellistica medievale, ma se ne distaccano per alcuni tratti che ne assicurano l’originalità.107 Come nella commedia del Bibbiena, viene utilizzato nella Mandragola machiavelliana il tema del travestimento. Vediamo come il protagonista Callimaco è innamorato di Lucrezia, moglie dello scimunito dottore in legge messer Nicia, che desidera da anni avere figli. Aiutato dal servo Siro e dall'astuto amico Ligurio, Callimaco, travestito da medico, riesce a convincere messer Nicia che l’unico modo per avere figli sia quello di 106 Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 172. 107 Machiavelli, Niccolò. Mandragola, a.c.d. Antonio Stäuble, Firenze, Franco Cesati, 2004, pp. 32. 47 offrire alla moglie una pozione di mandragola, la soluzione contro la sterilità, ma il primo che avrà rapporti con lei purtroppo morirà. Messer Nicia non vuole morire, ma neanche lasciare giacere un altro uomo con la sua pudica Lucrezia. Ligurio riesce tuttavia a convincerlo, e sceglierà a caso un ragazzo che deve “morire” al posto di Nicia. Naturalmente Ligurio ha pensato all'amico Callimaco, che non vuol fare altro che passare una notte con Lucrezia: infatti non vi sarà nessuna vittima, ma sarà lo stesso Callimaco a travestirsi da tale. Callimaco viene portato da messer Nicia stesso a casa e messo nel letto, per essere sicuro che non scappa. Lucrezia accetta, che nel frattempo è stata convinta a consumare il rapporto adulterino da fra' Timoteo. Ad un certo momento scopre l’identità di Callimaco, che le dichiara il suo amore, e Lucrezia decide alla fine di diventare sua amante. Il ruolo di Lucrezia sembra minore rivoluzionario rispetto a quello di Fulvia ne La Calandria, e al contrario della ricca padrona romana, è una donna onesta e casta. Ma, come evidenzia Stäuble108, la Mandragola è la commedia della convinzione e della retorica, e anche Lucrezia infine cede alle parole del frate. E qui vediamo un parallelismo con Fulvia della commedia urbinate: se anche lei è ‘malmaritata’, tutte e due traggono nonostante tutto vantaggio dai loro mariti stupidi: La sua metamorfosi ne fa invece, come abbiamo visto, un personaggio autonomo, una delle più significative incarnazioni del nuovo ruolo che il teatro cinquecentesco assegnerà ai personaggi femminili; ci sembra infatti che essa dia al topos tradizionale della ‘malmaritata’ una nuova, più sfumata dimensione, divenendo così un’ “antenata” di figure come Oretta nell’Assiuolo di Cecchi, Jacinthia nell’anonima Ardelia o Carubina nel Candelaio di Giordano Bruno.109 La loro situazione dà loro la possibilità di sfruttarla, di commettere adulterio senza che Calandro o messer Nicia scoprino qualcosa. Infatti, messer Nicia è pure contento quando vede il cambiamento nella moglie, che ha passato felicemente la notte con “un povero conosciuto”, alias il suo amante Callimaco: “(…) per menarti in santo, perché gli è proprio, stamane, come se tu rinascessi (Man., V, 5)”110. Possiamo dire che il Bibbiena introdusse nella commedia rinascimentale con il perfezionare del travestimento femminile una nuova moralità sessuale, ispirata da Boccaccio. Questa tematica viene seguita ed adattata in altre opere teatrali, come ad 108 Ibidem, pp. 21. Ibidem, pp. 33. 110 Ibidem, pp. 127. 109 48 esempio la Mandragola di Machiavelli: se la donna esce vittoriosa nella trama comica, la beffa e l’inganno fanno la parte del leone, come due meccanismi narrativi nella tipica rappresentazione, a forma di specchio comico, della società contemporanea. 49 Supplemento A: Corpus Cal., II,1: Lidio femina, Fannio servo e la Nutrice. LIDIO FEMINA Assai è manifesto quanto sia miglior la fortuna degli uomini che quella delle donne. Ed io ho più che l’altre per prova cognosciuto: per ciò che, da quel giorno in qua che Modon nostra patria fu arsa da’ turchi, avendo sempre io vestito da maschio e Lidio chiamatomi (che così nome avea el mio suavissimo fratello), credendosi sempre ognun che io maschio sia, ho trovato venture tali che ben ne son stati li fatti nostri; ove che, se io nel vestire e nel nome mi fussi mostro essere donna, come sono in fatto, né il turco di cui eravamo schiavi ce aria venduti né Perillo riscossici, se saputo avesse che io femina fusse, onde in miserabil servitù sempre ci conveniva stare. Ed io or vi dico che, quando fussi maschio come son femina, sempre in tranquillo stato ci viveremmo: per ciò che, credendosi Perillo, come sapete, che io maschio sia, e fidelissimo nelli affarisuoi avendomi trovato sempre, me ama tanto che vuol darmi per moglie Verginia unica figliuola sua e di tutti gli beni suoi farla erede. E, dicendomi el nipote che Perillo vuol, doman o l’altro, io la sposi, per conferire la cosa con voi, mia nutrice e teco, Fannio mio servo, fuora di casa me ne sono venuta; e piena di tanto travaglio quanto io ben sento e voi pensar potete. E non so se… FANNIO Taci, oimè! taci; a fin che costei, che afflitta verso noi viene, non attinga quel che parliamo. Cal., II, 5.: Fessenio servo, Fulvia. FESSENIO Voglio andare un poco da Fulvia, ché comparita su l’uscio la vedo, e mostrarle che Lidio vuol partirsi per vedere come se ne risente. FULVIA Ben venga, Fessenio caro. Dimmi: che è di Lidio mio? FESSENIO Non mi pare quel desso. FULVIA Eimè! Dí sú: che ha? FESSENIO Sta pure in fantasia di partirsi per cercare Santilla sua sorella. FULVIA Eh lassa a me! Vuol partirsi? FESSENIO Ve è volto, in fine. 50 FULVIA Fessenio mio, se tu vuoi l’util tuo, se tu ami il ben di Lidio, se tu stimi la salute mia, trovalo, persuadilo, pregalo, stringilo, suplicalo che per questo non si parta, perché io farò per tutta Italia cercar di lei; e, se avvien che si ritrovi, da mò, Fessenio mio, come t’ho detto altre fiate, li do la fede mia che io la darò per moglie a Flaminio mio unico figliuolo. FESSENIO Vuoi che cosí gli prometta? FULVIA Cosí ti giuro e cosí mi obligo. FESSENIO Son certo che volentieri l’udirà perché è cosa da piacergli. FULVIA Spacciata sono, se tu con lui non mi aiuti. Pregalo che salvi questa vita che è sua. FESSENIO Farò quanto mi commetti; e per servirti vo a trovarlo a casa ove ora si trova. FULVIA Non men farai per te, Fessenio mio, che per me. FESSENIO Costei sta come pò; e, per Dio, ormai è d’aver compassione di lei. Fia bene che Lidio oggi, da donna vestito come suole, venga da lei. E cosí farà perché non meno lo desidera che costei. Ma far prima bisogna la cosa di Calandro. Ed eccolo che già torna. Dirogli avere ultimato il fatto suo. Cal., II, 7.: Samia serva, Fulvia. SAMIA Come va il mondo! Non è ancora un mese passato che Lidio, della mia padrona ardendo, voleva ad ogni ora esser seco; e poi che vidde lei bene accesa di lui, la stima quanto il fango. E, se a questa cosa remedio non si pone, certo Fulvia ci farà drento error di sorte che tutta la città ne sarà piena. E ho fantasia che li fratelli di Calandro, fin da mò, alcuna cosa non abbino spiato, perché altro non stima, altro non pensa e d’altro non ragiona che di Lidio. Bene è vero che chi ha amore in seno sempre ha li sproni al fianco. Or voglia il cielo che a bene ne esca. FULVIA Samia! SAMIA Odila che di sopra mi chiama. Arà dalle finestre visto Lidio, ché là lo vedo parlare con non so chi. O forse vorrà rimandarmi a Ruffo. FULVIA Saaamia! SAMIA Veeengo. 51 Cal., II, 8.: Lidio femina, Fannio servo. LIDIO FEMINA Cosí t’ha detto Tiresia? FANNIO Sí. LIDIO FEMINA E del parentado mio come di cosa conlusa si parla in casa? FANNIO Cosí sta. LIDIO FEMINA E Virginia ne è lieta? FANNIO Non cape in sé. LIDIO FEMINA E si preparano le nozze? FANNIO Tutta la casa è in faccende. LIDIO FEMINA E credeno che io ne sia contenta? FANNIO Lo tengano per fermo. LIDIO FEMINA Oh infelice Santilla! Quel che ad altri giova solo a me nuoce. Le amorevolezze di Perillo e della moglie verso me mi sono acutissimi strali per non poter fare el desiderio loro né quel che sarebbe il ben mio. Deh! me avesse Dio dato per luce tenebre, per vita morte e per cuna sepultura allor che io del materno ventre uscii; da che, in quel punto che io nacqui, morir dovea la ventura mia. Oh sanza fin beato, fratello dulcissimo, se, come io credo, nella patria morto restasti! Or che farò io, meschina Santilla? ché cosí omai chiamar mi posso, e non piú Lidio. Femina sono, e conviemmi esser marito! Se io sposo costei, subito cognoscerà che io femina e non maschio sono; e, da me scornati, el padre e la madre e la figlia mi porriano farmi uccidere. Negar di sposarla non posso; e, se pur niego di farlo, sdegnati, a casa maladetta me ne manderanno. Se paleso esser femina, io medesima a me stessa fo il danno. Tener cosí la cosa non posso. Misera a me! ché, da uno lato, ho il precipizio; da l’altro, e’ lupi. FANNIO Non te disperare, ché forse e’ cieli non te abbandoneranno. A me par che si segua el parer tuo di non te lassar trovare oggi da Perillo; e lo andare da colei viene a proposito; e io li panni da donna, per vestirti, ho in ordine. Chi scampa d’un punto ne schiva mille. LIDIO FEMINA Ogni cosa farò. Ma dove è quel Ruffo? FANNIO Rimanemo che chi prima arrivava l’altro aspettassi. LIDIO FEMINA Meglio è che Ruffo aspetti noi. Leviamoci di qui, perché colui che è là non ci veda, se fusse alcuno che per ordine di Perillo me cercasse: se ben de’ sua non mi pare. 52 Cal., II, 10.: Calandro, Fulvia. CALANDRO Fulvia! o Fulvia! FULVIA Messer, che vuoi? CALANDRO Fatti alla finestra. FULVIA Che c’è? CALANDRO Vuoi altro? Io vo insino in villa, ché Flaminio nostro non si consumi drieto alle cacce. FULVIA Ben fai. Quando tornerai? CALANDRO Forse stasera. Fatti con Dio. FULVIA Va in pace, col mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li frategli miei! che mi fa venire angoscia pure a vedello. Cal., III, 5.: Samia serva, Fulvia. SAMIA Ti so dire che la va bene! ché né da Lidio né dallo spirito porto cosa che buona sia. Questa è la volta che Fulvia si dispera. Vedila che appare su l’uscio. FULVIA Tu sei stata tanto a tornare! SAMIA No ho, prima che or ora, trovato Ruffo. FULVIA Che dice? SAMIA Niente, pare a me. FULVIA Pure? SAMIA Che lo spirito gli ha risposto…. Oh! come diss’egli? Non me ne ricordo. FULVIA Sia col malanno, cervel d’oca. SAMIA Oh! oh! oh! Io me ne ricordo. Dice che gli ha risposto anghibuo. FULVIA Ambiguo, vuoi dir tu. SAMIA A quel modo, sí. FULVIA Non dice altro? SAMIA Che di nuovo lo pregherrà. FULVIA Altro? SAMIA Che, volendo servirti, verrà a dirtelo subito. 53 FULVIA Misera a me! Che non ne sarà nulla. Ma Lidio? SAMIA FA quel conto di te che delle scarpe vecchie. FULVIA Ha’ lo trovato? SAMIA E parlatoli. FULVIA Dimmi, dimmi: che c’è? SAMIA L’arai per male? FULVIA Oimè! che c’è? Dí sú. SAMIA In fin, e’ par che non te cognoscessi mai. FULVIA Che mi di’ tu? SAMIA Cosí sta mó. FULVIA A che il comprendesti? SAMIA Mi rispose in modo che mi fé paura. FULVIA Forse finse burlare teco. SAMIA Non m’aría svillaneggiata. FULVIA Non sapesti forse dire. SAMIA Meglio non m’imponesti. FULVIA Era forse accompagnato. SAMIA Lo tirai da parte. FULVIA Forse parlasti troppo forte. SAMIA Quasi all’orecchio. FULVIA In fin, che ti disse? SAMIA Mi scacciò da sé. FULVIA Dunque, più non mi ama? SAMIA Né ti ama né ti stima. FULVIA Cosí credi? SAMIA Ne son certa. FULVIA Lassa me! che odo io? SAMIA Tu intendi. FULVIA E di me non ti domandò? SAMIA Anzi, disse non saper chi tu fussi. FULVIA Dunque, m’ha dismenticata? SAMIA Se non te odia pur, bene ne vai. FULVIA Ahi cieli avversi! Certo, or cognosco lui spietato e me misera. Ahi quanto è trista la fortuna della donna! e come è male appagato lo amore di molte nelli amanti! 54 Ahi trista me! che troppo amai. Lassa! che ad altri tanto mi diedi che non sono più mia. Deh, cieli! perché non fate che Lidio me ami come io lui amo? o che io fugga lui come esso me fugge? Ahi crudel! che chiedo io? Disamar e fuggir Lidio mio? Ah! certo, questo né far posso né voglio; anzi, penso io stessa trovarlo. E perché non mi è lecito da omo vestirmi una sol volta e trovar lui, come esso da donna vestito, spesso è venuto a trovar me? Ragionevol è. Ed egli è ben tale che merita che questa e maggior cosa si faccia per lui. Perché far nol devo? perché non vo? perché perdo io la mia giovinezza? Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua giovinezza in vano. Fresca sta chi crede, in vecchiezza, ristorarla. Quando troverrò io un amante cosí fatto? quando arò io tempo andarlo a trovare, come al presente, che egli è in casa e che il moi marito è di fuora? chi mel vieta? chi mi tiene? Certo, sí farò, ché ben mi accorsi che Ruffo interamente non si confidava disporre lo spirito per me. Li ministri non operano mai bene come colui a cui tocca; non eleggono il tempo commodo; non mostrano lo effetto de l’amante. Se io da lui vo, vedrà le mie lacrime, sentirà e’mie’ lamenti, udirà e’mie’ preghi. Or butteromegli ai piedi, or fingerò morire, or al collo le braccia li circunderò: e come sarà mai sí crudele che a pietà di me non si mova? Le parole amorose, per li orecchi dal core ricevute, hanno più forza che stimar non si può e alli amanti quasi ogni cosa è possibile. Cosí spero; cosí far voglio. Or da omo a vestir mi vo. Tu, Samia, su l’uscio resta: né lassar fermarsici alcuno, acciò che io, a l’uscire di casa, cognosciuta non fusse. Tutto farò subito. Cal., III, 6.: Samia serva, Fulvia. SAMIA Oh povere e infelici donne! a quanto male siamo noi sottoposte quando ad Amore sottoposte siamo! Ecco, Fulvia, che già tanto prudente era, ora di costui accesa, non cognosce cosa che si faccia. Non possendo aver Lidio suo, a trovarlo va vestita da omo; sanza pensar quanti mali avvenir ne potriano, quando mai si sapesse. Forse ch’ella non è bene appagata? che ha dato a costui la robba, l’onore e la carne; ed esso tanto la stima quanto il fango. Ben semo noi tutte sventurate. Eccola che già ne viene da omo vestita. Parti che l’abbia fatto presto? FULVIA Tu intendi. Vo a trovar Lidio. Tu resta qui; e tien l’uscio serrato, mentre che io vo e torno. SAMIA Così farò. Guardo come va! 55 Cal., III, 7.: Fulvia sola. FULVIA Nulla è, certo, che Amore altri a fare non costringa. Io, che già sanza compagnia a gran pena di camera uscita non sarei, or, da amor spinta, vestita da uomo fuor di casa me ne vo sola. Ma, se quella era timida servitù, questa è generosa libertà. A casa sua, benché alquanto discosto sia, me ne dirizzo, ché ben so dove sta. E farò là sentirmi, ché far lo posso; perché altri non vi è che la sua vecchiarella a forse anche Fessenio, a’ quali tutto è noto. Nessuno mi conoscerà: onde questa cosa non si saprà già mai; e, se pur si dovessi sapere, egli è meglio fare e pentirsi che starsi e pentirsi. Cal., III, 8.: Samia sola. SAMIA Ella va a darsi piacere; e dove io la biasmava, or la scuso e laudo perché chi amor non gusta non sa che cosa sia la dolcezza del mondo ed è una bella bestia. So ben io che altro ben non sento, se non quando mi trovo col moi amante Lusco spenditore. Semo in casa soli ed egli è nella corte. Meglio è che, cosí drento all’uscio serrato, ci sollazziamo insieme. La padrona m’insegna che anch’io mi dia bel tempo. Matto è chi non sa pigliare e’ piaceri quando può averli con ciò sia che il fastidio e la noia, sempre che altri ne vuole, sieno apparecchiati. Luuusco! Cal., III, 12.: Fulvia, Calandro. FULVIA Oh valente marito! Questa è la villa dove andar dicevi? Ah questo modo, ah? Non hai da far tanto a casa tua che tu vai sviandoti altrove? Misera me! A chi porto io tanto amore? a chi tanta fede servo? Or so perché, le notti passate, non mi ti sei mai appressato: come quello che, avendo a scaricare le some altrove, volevi arrivare fresco cavalieri in battaglia. In fede mia, non so come io mi tengo che io non ti cavi gli occhi. E forse che non pensavi ascosamente farmi questo inganno? Ma, per mie’ fé, tanto sa altri quanto tu. E, a questa ora, in questo abito, d’altri non fidandomi, io propria son venuta per trovarti. E cosí ti meno, come tu sei degno, sozzo cane, per svergognarti e 56 perché ognuno prenda compassione di me che tanti oltraggi da te sopporto, ingrato! E pensi tu, dolente, se io rea femina fussi come tu reo omo sei, che modo mi mancasse da sollazzarmi con altro come tu con altra ti sollazzi? Non credere: perché io né sí vecchia né sí brutta sono che rifiutata fussi, se più a me stessa che alla tua gaglioffezza rispetto non avessi avuto. Vivi sicuro che ben vendicata mi sarei contro a colei che a canto ti trovai. Ma va pur lá. Non abbia mai cosa che mi piaccia, se non te ne pago e di lei non mi vendico. CALANDRO Hai finito? FULVIA Sí. CALANDRO Col mal anno, lassa che mi corrucci io, non tu, dispettosa! ché m’hai cavato del paradiso mondano e toltomi ogni moi sollazzo. Fastidiosa! Tu non vali le scarpette vecchie sue, che la mi fa più carezze e meglio mi bacia che tu non fai. Ella mi piace più che la zuppa del vin dolce; e luce più che la stella Diana; e ha più magnificenzia che la Quintadecima; e è più astuta che la fata Morgana. Sí che tu non te l’aresti inghiottita, no, malvagia femina che tu sei! E se tu mai le fai male, trista a te! FULVIA Orsú! Non più! In casa, in casa. Apri. Olà! Apri. Cal., III, 14.: Fulvia, Fessenio servo, Samia serva. FULVIA Guarda, Fessenio mio, se io sgraziata sono! ché in loco di Lidio, trovai questa bestia di mio marito, col quale mi son però salvata. FESSENIO Tutto ho visto. Tirati più drento, ché altri in questi panni non ti veda. FULVIA Ben ricordi. El gran disio d’esser con Lidio in modo mi accecò che più oltre non pensai. Ma dimmi, Fessenio caro: hai trovato Lidio mio? FESSENIO Corre il sangue ov’è la percossa. Ho. FULVIA Sí? FESSENIO Sí. FULVIA Be’ Fessenio mio: che dice? Dimmi. FESSENIO Non partirà cosí presto. FULVIA Doh Dio! Quando potrò io parlar seco? FESSENIO Forse anche oggi; e, quando con Calandro ti vidi, a lui me ne andavo per disporlo a venire da te. 57 FULVIA Fallo, Fessenio mio, ché buon per te! E la vita mia te raccomando. FESSENIO Farò tutto perché a te venga; e a lui ne vo. Resta in pace. FULVIA In pace eh? In guerra e in lamenti resterò io. Tu alla pace mia vai, ché a Lidio vai. FESSENIO Addio. FULVIA Fessenio mio, torna presto. FESSENIO Cosí farò. FULVIA Ahi infelice Fulvia! Se io cosí troppo sto, certo io me morirò! che far devo? SAMIA Forse lo spirito lo moverà. FULVIA Deh! Samia, poi che il negromante sta tanto a venire, torna a ritrovarlo. SAMIA Cosí mi pare; e non ci voglio perder tempo. FULVIA Raccomandagli questa cosa. E torna presto. SAMIA Subito che l’ho trovato. Cal., III, 22.: Fessenio servo, Fulvia. FESSENIO Or sei tu fuor di passion, madonna mia. FULVIA Come? FESSENIO Lidio è per te in maggior fiamma che tu per lui. Non prima gli dissi quanto me imponesti che in ordine si misse; e a te ne viene. FULVIA Fessenio mio, questa è nuova da altro che da calze! e certo ben ti ristorerò. Odi, di sopra, che Calandro domanda i panni per uscir fuori. Tira via, ché meco non te veda. Oh che commodità! oh che piacere mi fa! Ogni cosa comincia andarmi prospera. Lassami spingere fuora questo uccellaccio acciòche io libera resti. FESSENIO Ti so dir che questi amani ristoreranno il tempo perso. E, se Lidio fia savio, doverrà ben fermarla alla cosa di sua sorella, se mai si ritrovassi. Calandro non sarà in casa. Hanno viso per grande spazio sollazzarsi insieme. Io posso andarmi a spasso. Ma oh! oh! oh! Vedi Calandro che vien fuora. Lassami discostar di qui perché, fermandosi a parlare qui meco, potria veder Lidio che omai deve arrivare. Cal., IV, 1.: Fulvia, Samia serva. 58 FULVIA Samia! o Samia! SAMIA Madoonna! FULVIA Vien giú presto. SAMIA Io veengo. FULVIA Muoviti, trista ti faccia Dio! Muoviti! SAMIA Eccomi: che vuoi? FULVIA Va via or ora, truova Ruffo dello spirito e digli che venga a me subito. SAMIA Vo sú pel velo. FULVIA che velo? Bestia! Tira via cosí; vola. SAMIA Che diavol vuol dir tanta rabbia? E’ mi par che l’abbia il dimonio in corpo. E pur Lidio dovverria avergliene cavato. FULVIA Oh fraudolenti spiriti! oh sciocche umane menti! oh ingannata e infelice Fulvia, che, non pur te sola offeso hai, ma ancor chi più che te stessa ami! Misera a me, che ho quel che cercai e trovato quel che non volea! onde, se lo spirito remedio non ci pone, de uccidermi sono disposta; perché manco amara è una voluntaria morte che una angoscia vita. Ma ecco Ruffo. Presto saperrò se sperar o disperar mi debbo. Nissuno appare. Meglio è parlarli qui perché in casa, le panche, le sedie, le casse, le finestre stimo che abbino li orecchi. Cal., IV, 2.: Ruffo negromante, Fulvia. RUFFO Che c’è, madonna? FULVIA Le lacrime mie, assai più che le parole, mostrar ti possono la passion ch’io sento. RUFFO Parla: che cosa è questa? Fulvia, non pianger. Madonna, che hai? FULVIA Io non so, Ruffo, se o della ignoranzia mia o de l’inganno vostro doler mi devo. RUFFO Ah madonna! Che è quel che tu di’? FULVIA O il cielo o il peccato mio o la malignità dello spirito che stato si sia, non so; ma, una volta, voi avete, oimè! di maschio in femina converso Lidio mio. Tutto l’ho maneggiato e tocco; né altro del solito che la presenzia in lui.Ed io non tanto la privazion del mio diletto piango quanto el danno suo; ché, per me, privo si trova di quel 59 che più si brama. Or hai la cagion di queste lacrime e per te comprender puoi quel che io da te vorrei. RUFFO Se, Fulvia, il pianto, che mal finger si può, testimonio di ciò non mi facessi, a gran pena ti crederrei. Ma, stimando che vero sia, pensa che di te sola doler ti puoi perché io mi ricordo che tu domandasti Lidio in forma di donna. Penso ora che lo spirito, per più compiutamente servirti, e nel sesso e ne l’abito di donna ha mandato a te lo amante tuo. Ma poni fine al dolor tuo perché chi femina l’ha fatto ancor maschio può rifarlo. FULVIA Tutta consolar mi sento, parendomi che il fatto passato sia come tu di’. Ma, se tu Lidio mio intero mi rendi, li denari, la robba e ciò che io ho fia tuo. RUFFO Or che so che lo spirito essser ben volto verso te, ti dico chiaramente che lo amante tuo tornerà maschio subito. Ma, per più non equivocare, dí chiaro quel che vuoi. FULVIA La prima cosa, che se li renda il coltel della guaina mia, intendi? RUFFO Benissimo. FULVIA E che in abito, non in sesso da donna torni a me. RUFFO Se cosí staman parlavi, non seguiva questo errore: del quale ho però piacere perché tu cognosca quanta sia la potenzia del mio spirto. FULVIA Tra’mi presto di questa angoscia; ché, s’io nol vedo, non posso rallegrarmi. RUFFO Non solo il vedrai, ma con mano il toccherai. FULVIA E tornerà oggi da me? RUFFO Sono ormai venti ore e poco teco stare potria. FULVIA Non mi curo dello stare, pur ch’io veda che maschio sia. RUFFO E come può non bere chi assetato si trova al fonte? FULVIA Verrà, dunque, oggi? RUFFO Lo spirto tel farà venire subito, se vuole. Statti, dunque, avvertente in su l’uscio. FULVIA Non bisogna questo, perché, venendo da donna, in presenzia d’ognuno può mostrarsi; perché non è chi per maschio il conosca. RUFFO Basta. FULVIA Ruffo mio, vivi lieto, ché mai più povero sarai. RUFFO E tu non più scontenta. FULVIA E quanto posso aspettarlo? RUFFO Subito che sarò in casa. FULVIA Ti manderò drieto Samia perché tu me avvisi quel che te ne dice lo spirito. 60 RUFFO Fa tu. E ricordati che anche lo amante si presenti spesso. FULVIA Oh! oh! Non curare, ché arà denare e gioie a iosa. RUFFO Resta in pace. Con ragione Amor si dipinge cieco perché chi ama mai il ver non vede. Costei è per amor accecata sí ch’ella s’avvisa che uno spirito possa fare una persona femina e maschio a posta sua: come se altro fare non bisognasse che tagliare la radice de l’uomo e farvi un fesso, e cosí formare una donna; e riuscire la bocca da basso e appiccare un bischero, e cosí fare un maschio. Oh! oh! oh! amatoria credulità Oh! oh! Ecco Lidio e Fannio già spogliati. Cal., IV, 5.: Lidio femina sola. LIDIO FEMINA Oh infelice sesso femminile, che, non pure alle opere, ma ancora ai pensieri sottoposto sei! Dovendo femina mostrarmi, non sol far ma pensar cosa non so che riuscir mi possa. Deh misera me! Che debb’io fare? Dovunche io mi volto, dalle angosce tanto circundata mi trovo che loco non vedo onde salvar mi possa. Ma ecco di qua la serva di Fulvia che con uno parla. Discosteromi fin che passa. Cal., V, 6.: Fulvia sola. FULVIA Travaglio è certo stato per me in questo giorno; ma ringrazio il cielo che di tutti li accidenti felicemente uscita sono. E il fine del periculo presente mi porta incredibile iocundità; perché, non pur ha salvato l’onore a me e la vita a Lidio, ma sarà cagione che con lui potrò essere più spesso e più facilmente. Chi ora è di me più lieto non deve essere mortale. Cal., V, 8.: Calandro, Fulvia. CALANDRO Tu sei qui, malvagia femina? ed hai animo di aspettarmici, sapiendo che m’hai fatte le corna? Non so come io mi tenga che io non ti tragga la vita del corpo. Ma prima voglio uccidere, a’ tua occhi veggenti, colui che tu hai in camera, ribalda! E poi, con le mie mani, a te cavar gli occhi della testa. 61 FULVIA Oimè, marito mio! Mò chr cosa è quella che te muove a fare me rea femina, che non sono, e te crudele omo, ove fin qui non fusti mai? CALANDRO Oh svergognata! Ancor hai ardir di parlare? Come se noi non sapessimo che in camera hai, vestito da donna, lo amante tuo! FULVIA Fratelli miei, costui cerca che vi faccia palese quel che io ho sempre ascoso: cioè la pazienzia mia e li oltraggi che, tuttodí, mi fa questo fastidioso; ché non è moglie sí fedele né peggio trattata come sono io. E che non si vergogna a dire che io li metto le corna! CALANDRO Sí, che gli è il vero, trista femina! E ora voglio mostrarlo a’ tuoi fratelli. FULVIA Intrate e vedete chi io ho in camera e come questo fiero bacarozzo l’ucciderà. Sú! venite. 62 Supplemento B: Bibliografia Bibliografia primaria: Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967. Bibliografia secondaria: d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, con un’introduzione di Margaret L. King e Albert Rabil jr., The University of Chicago Press, Chicago, 1997. Ariosto, Ludovico. Commedie, volume primo. Milano, Biblioteca universale Rizzoli, Rizzoli, 1962. Ariosto, Ludovico. I Suppositi. A.c.d. C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954. Bossier, Philiep. “Ambasciatore della risa” La commedia dell’arte nel secondo Cinquecento (1545-1590). Firenze, Francesco Cesati, 2004. Bossier, Philiep. “Embedded Ambivalence. The example of dynamic stock characters in Italian Renaissance comedy”. Da: Akteure und Aktionen. Figuren und Handlungstypen in Drama der frühen Neuzeit. A.c.d. C. Meier, B. Ramakers, H. Beyer, Münster, Rhema, 2008, pp. 157-170. Coluccia, Giuseppe. L’esperienza teatrale di Ludovico Ariosto. Lecce, Marmi, 2001. Concolino Mancini Abram, Bianca. “Da Calandrino a Calandro.Variazioni sul tema della beffa”. Université de Poitiers, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp.13-21. http://ddd.uab.cat/pub/qdi/11359730n14p13.pdf Ultima data di consultazione: marzo 2010. Concolino Mancini Abram, Bianca. “Il travestimento nella commedia del ‘500.” Da: Il vestito e la sua immagine. Atti del convegno in omaggio a Cesare Vecellio nel quarto 63 centenario della morteBelluno 20-22 settembre 2001. A.c.d. Jeannine Guérin Dalle Mese. Belluno, Amministrazione Provinciale di Belluno, 2002. Concolino Mancini Abram, Bianca. “Tradizione e innovazione nella commedia del Cinquecento”. Chroniques italiennes n. 65 (1/2001), pp.27-47. http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/PDF/65/Concolino.pdf Ultima data di consultazione: marzo 2010. Cosentino, Paola. “Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento.”Italique, n.9, 2006, pp. 69-99. http://italique.revues.org/index108.html Ultima data di consultazione: marzo 2010. Dekker, Rudolf e van der Pol, Lotte. The tradition of female transvestism in early modern Europe. Hampshire, The Macmillan Press LTD, 1989. Dovizi da Bibbiena, Bernardo. Epistolario di Bernardo Dovizi da Bibbiena. Vol. I (1490-1513). A.c.d. G.L. Moncallero, Firenze, Leo S. Olschki, 1955. Ferrone, Siro. “Il teatro” (capitolo XIII).Da: Storia della letteratura italiana, volume IV. Il primo Cinquecento, dir. da E. Malato, Roma, Salerno, 1996, pp. 909-1009. 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