L`abito fa o non fa il monaco? Travestimento femminile ne La

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L`abito fa o non fa il monaco? Travestimento femminile ne La
L’abito fa o non fa il monaco? Travestimento
femminile ne La Calandria del Bibbiena (14701520)
Tesi di laurea
Facoltà di Lettere, RTC, MA
Università di Groninga
Giugno 2010
P.G. Bossier/ M.C. D’Angelo
Aline Wetzelaer, s1551027
Indice
Introduzione
pag. 3
Capitolo 1: Introduzione a La Calandria
1.1 Scrittore ed ‘alter papa’: la vita turbolenta di Cardinal Bibbiena
pag. 7
1.2 Dai modelli classici ad un modello nuovo: la commedia dell’Ariosto
pag. 8
1.3 La Calandria: una commedia degna del Rinascimento
pag. 12
Capitolo 2: La ricostruzione contestuale operata da Franco Ruffini e la festa ‘come
culmine della cultura’
2.1 Introduzione
pag. 16
2.2 Il meccanismo de La Calandria: la soluzione per il problema di Plauto pag. 17
2.3 Il luogo teatrale come utopia antica
pag. 19
Capitolo 3: Il soliloquio femminile
3.1 Introduzione
pag. 22
3.2 Santilla: un grido per il sesso femminile
pag. 23
3.3 Fulvia: in cerca di vantaggi personali
pag. 24
3.4 Fessenio ed il monologo maschile: un controesempio
pag. 25
Capitolo 4: Il travestimento femminile
4.1 Funzioni letterarie del travestimento femminile
pag. 29
4.2 Inganno ed astuzia: mascheramenti nel Prologo
pag. 30
4.3 Sorpassando la libertà di movimento
pag. 31
4.4 Il travestimento di Fulvia
pag. 33
4.5 Santilla: tra mascheramento costretto e volontario
pag. 35
Capitolo 5: Onore e spazio femminile
5.1 La casa: spazio della castità femminile
pag. 38
5.2 Onore femminile ne La Calandria
pag. 40
5.3 Onore e beffa femminile: il gioco di Fulvia
pag. 42
1
Conclusioni
pag. 45
Supplementi
Supplemento A: corpus
pag. 50
Supplemento B: bibliografia
pag. 63
2
Introduzione
FANNIO Sappi che Lidio mio padrone è
ermafrodito.
RUFFO E che importa questo
merdafiorito?
FANNIO Ermafrodito, dico io. Diavol! tu
se’ grosso!
RUFFO: Be’, che vuol dire?
FANNIO Tu nol sai?
RUFFO Per ciò il dimando.
FANNIO Ermafroditi sono quelli che
hanno l’uno e l’altro sesso.
RUFFO Ed è Lidio uno di quelli?
FANNIO: Sí, dico.
RUFFO Ed ha il sesso da donna e la
radice d’uomo?
FANNIO Messer sí.
RUFFO Te giuro, alle guagnele, che mi è
sempre parso che Lidio tuo abbia,
nella voce e anco ne’ modi, un poco del
feminile.
Cal., III, 17.
Un uomo che pare essere allo stesso tempo del sesso femminile: lo stupore è enorme
nella scena sovrastante, proveniente da La Calandria (1513) di Bernardo Dovizi da
Bibbiena, il nostro oggetto di studi. Questo trasecolamento dei personaggi ci porta
direttamente all’argomento principale di questa tesi di laurea, ossia il travestimento ed
in particolare il mascheramento femminile. Oggidì, in un’epoca in cui lo studio ‘gender’
nella letteratura conosce un grande successo, questo transgenderismo rinascimentale
(ossia la ricerca continua tra l’identità maschile e femminile) è particolarmente
interessante. Il travestimento era una tematica amata, e dunque spesso frequentata, sia
nella commedia dell’Antichità, che nella commedia rinascimentale. Completamente
nuovo né veduto non era quindi il modello usato dal Bibbiena, però la maniera in cui
l’autore presenta la questione era innovativa, come indica Moncallero (1953):
3
Il gusto degli scambi e dei riconoscimenti portava con sé naturalmente quello dei travestimenti. Se è vero
che essi erano già in uso presso i più antichi attori nelle stesse atellane, e, in alcuni casi, persino il titolo
ne fa testimonianza, nella Calandria essi acquistavano caratteristiche proprie del secolo e assumevano un
significato e un’importanza interamente nuovi. Presso i latini il travestimento aveva più spesso la
funzione di nascondere l’identità della persona e non il sesso, serviva per recarsi, senz’essere riconosciuti,
a convegni d’amore, o per sottrarsi al pericolo di essere scoperti in altre circostanze; invece in molte
commedie del Cinquecento (corsivo nostro), come nella Calandria, il travestimento era di uomini in
donne e viceversa e (anche se questo non era ignoto agli antichi: basterebbe ricordare il Maccus virgo),
costituiva piuttosto un mezzo facile a intrighi lubrici e ridevoli che il Cinquecento massimamente amava.1
Moncallero evidenzia che il travestimento femminile non era un argomento sconosciuto
nell’Antichità, ma lo scopo del mascheramento era diverso. In più, il Bibbiena ha creato
una trama complicata con diversi camuffamenti in cui l’autore e Cardinale gioca con la
gemellarità bisessuale dei protagonisti Lidio e Santilla, un tema che rispecchia
l’atmosfera intrinsecamente boccaccesca 2. La commedia presenta un capovolgimento
continuo, definito da Bianca Concolino Mancini Abram come una vertigine dei
travestimenti 3 oppure un gioco di specchi 4: il Bibbiena ha costruito un susseguirsi di
scene vertiginose, fatto per fingere la trappola in cui può cadere il pubblico, e proprio in
questo consiste il fascino de La Calandria.
In questo ‘perpetuum mobile’ di travestimenti salta all’occhio a maggior ragione i
mascheramenti di donne in uomini, ed il nostro argomento d’approfondimento saranno
proprio i casi della giovane ragazza greca Santilla e della ricca padrona romana Fulvia.
1
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
570.
2
Sulla relazione tra La Calandria e il capolavoro boccaccesco, Il Decamerone (1351) è stato scritto in
modo molto ampio da vari critici letterari. Il nostro scopo in questa tesi non è di trattare questa tematica
troppo ampia entro i presenti limiti, nonostante il fatto che vi accenneremo: un argomento
d’approfondimento su La Calandria non sarebbe completo senza nominare anche il legame con
Boccaccio. Per una spiegazione approfondita su questo rapporto si veda ad esempio Janet Smarr. “The
Marriage of Plautus and Boccaccio”. Università di San Diego, Heliotropia 1.1,
2003.http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/heliotropia/01-01/smarr.pdf, Stäuble, Antonio.
“Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi
della commedia rinascimentale”. Università di Losanna, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 37-47.
http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/view/143963/195663, oppure Moncallero, G.L., Il
cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del
Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953.
3
Concolino Mancini Abram, Bianca. Da Calandrino a Calandro.Variazioni sul tema della beffa.
Université de Poitiers, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 19.
http://ddd.uab.cat/pub/qdi/11359730n14p13.pdf
4
Concolino Mancini Abram, Bianca. “Tradizione e innovazione nella commedia del Cinquecento”.
Chroniques italiennes n. 65 (1/2001), pp.27-47. Pp. 34.
4
L’enfasi di questa tesi sarà sulla rappresentazione della veste femminile e la nostra
domanda principale è la seguente: come sopravvive la veste femminile in questo flusso
ininterotto di scambi sessuali? Per rendere più chiaro il termine ‘veste’, è prima di tutto
utile esaminare la sua definizione esatta. Il significato della parola e le sue
connotazioni possiamo considerare essere abbastanza ampi, se rivolgiamo l’attenzione a
Lo Zingarelli 2010:
vès-te o † vèsta [di orig. indeur. sec. XII] s.f. [pl. vesti, † vesta]
1 (gener.) abito, vestito (…).
2 (spec.al pl) il complesso degli indumenti indossati da una persona (…).
3 (est., raro) rivestimento, copertura (…).
4 (poet.) il corpo umano, rispetto all’anima.
5 (fig.) forma, aspetto esteriore, apparenza: una v. ingannevole di pudicizia, di onestà, di simpatia (...).
6 (fig.) autorità e diritto inerente a una carica, un ufficio│qualità, funzione (…).
7 (fig.) forma di espressione: dare una v. nobile, poetica, eroica alle proprie idee 5
La veste pare avere un doppio carattere e non ha solo il significato letterale di ‘vestiti’,
un fatto di cui bisogna tener conto. Bianca Concolino Mancini Abram (2002) sottolinea
nel suo saggio ancora una volta l’importanza simbolica della veste:
Il vestito diventa allora simbolo tangibile del disordine e dell’anarchia che regnano sulla scena. Può
essere il segno della sciocchezza di alcuni personaggi, l’elemento rivelatore della sfasatura tra l’idea che
il personaggio ha di sé e l’immagine che egli offre al pubblico.
6
Per rispondere alla nostra domanda chiave, la tesi verrà divisa in cinque
elementi essenziali: una prima parte sarà rivolta ad un’introduzione riguardante l’autore
e la sua opera . Nel secondo capitolo offriremo in forma sintetica l’essenziale del saggio
critico di Franco Ruffini (1986)7, il quale è, fino ad oggi, assolutamente unico per la
maniera dettagliata in cui presenta la rappresentazione e la scena de La Calandria alla
corte urbinate e la sua ricostruzione contestuale nella Urbino del secondo decennio del
‘500. Il terzo capitolo verrà dedicato alle analisi del soliloquio femminile nella nostra
5
Zingarelli, Nicola. Lo Zingarelli 2010. Vocabolario della linga italiana. Bologna, Zanichelli, 2009, p.
2522.
6
Concolino Mancini Abram, Bianca. “Il travestimento nella commedia del ‘500.” Da: Il vestito e la sua
immagine. Atti del convegno in omaggio a Cesare Vecellio nel quarto centenario della morteBelluno 2022 settembre 2001. A.c.d. Jeannine Guérin Dalle Mese. Belluno, Amministrazione Provinciale di
Belluno, 2002, pp. 244.
7
Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria » alla corte di Urbino. Bologna, Il
Mulino, 1986.
5
commedia, per poi analizzare nel quarto il processo del travestimento femminile dei
protagonisti Fulvia e Santilla. Nel quinto e ultimo capitolo esamineremo la tematica
della pudicizia legata alla casa come luogo di castità femminile ne La Calandria. Così
speriamo di riuscire a rispondere alla domanda posta, senza perderci nella trappola del
Bibbiena.
6
Capitolo 1: Introduzione a La Calandria
1.1 Scrittore ed ‘alter papa’: la vita turbolenta del cardinal Bibbiena
Prima di porre l’accento su La Calandria stessa, rivolgiamo l’attenzione al suo autore,
il cardinal Bibbiena8. Il Bibbiena nacque il 4 agosto 1470 come Bernardo Dovizi da
Bibbiena. Già presto nella sua vita nel 1488, insieme al fratello Pietro, si legò alla corte
fiorentina de’ Medici, e fu un uomo potente in un periodo turbolento per la famiglia
medicea. Quando cardinal Giovanni de’ Medici venne esiliato presso la corte urbinate
di Guidobaldo de Montefeltro, il Bibbiena lo seguì come segretario: lo scrittore è
sempre stato molto fedele alla corte medicea in questi tempi problematici, al contrario
del fratello che venne cacciato da Firenze per il suo carattere violento 9. Ad Urbino il
Bibbiena ebbe la possibilità di incontrare artisti e scrittori, come ad esempio Bembo,
Raffaello e Castiglione. Con quest’ultimo strinse amicizia e non per niente il Bibbiena
appare come uno dei personaggi principali nel capolavoro di Castiglione, Il Cortegiano
(pubblicato nel 1528). Castiglione scrisse anche un prologo per La Calandria (1513),
l’unica commedia scritta dal Bibbiena, e si prese cura della prima rappresentazione
teatrale presso la corte urbinate.10
Nel 1513 Giovanni de’ Medici venne proclamato papa, sotto il nome di Leone
X: l’elezione fu osannata dal popolo, che sperava tempi migliori e più liberali dopo i
pontificati inquieti di Alessandro VI e Giulio II. La proclamazione era stata sicuramente
influenzata dal Bibbiena 11. In cambio il nuovo papa ebbe così la possibilità di eleggere
il Bibbiena come Cardinale con Santa Maria in Portico Octaviae come cappello
cardinalizio. Questa elezione fu considerata inopportuna, riferendoci a Moncallero
(1953) proprio perché il Bibbiena avevo scritto una commedia:
8
Per una bibliografia approfondita sul Bibbiena si veda Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi
da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di
documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953. Moncallero evidenzia nella sua introduzione che oltre
alla sua biografia esiste solamente un’ altra opera completa sul Bibbiena, vale a dire Bandini, A.M., Il
Bibbiena o sia il Ministro di Stato delineato nella vita del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena dal
Dott. Angelo Maria Bandini., Livorno, 1758.
9
Ibidem, pp. 38.
10
Fossati, Paolo. Nota bio-bibliografica in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo
Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9.
11
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
341. Moncallero rimane senza dubbi sull’influenza del Bibbiena: “Noi crediamo che l’elezione di Papa
Leone fu, quasi esclusivamente, opera del Bibbiena e in ciò concordiamo con quasi tutti gli storici (…)”.
7
Gli storici moderni giudicano quasi tutti inopportuna l’elezione del Bibbiena, ma noi abbiamo già detto
che spesso il loro apprezzamento sfavorevole ha come principale motivo il fatto che il Bibbiena fu
l’autore della Calandria per la quale è ritenuto uomo mondano. Il Cavalcaselle si limita a dire: « Non era
strano il vedere innalzato alla porpora un uomo la cui fama era apparentemente fondata sulla sua
commedia indecente e immorale: la Calandra » (22). Questo giudizio che cerca trovare una attenuante
all’elezione del Bibbiena nella poca moralità del tempo è condiviso da molti storici che noi non citeremo,
limitandosi a riferire quanto scrive il Pastor: « Anche l’ultimo adornato con la porpora il 23 settembre era
indubbiamente un uomo intellettualmente di gran conto (eingeistig hochbedentender Mann), ma di
carattere così mondano che la sua elezione è parimenti da biasmare (zu tadeln ist)…12
Il cardinale restò durante il pontificato di Leone X il suo uomo di fiducia ed eseguì
alcune missioni diplomatiche in Francia per il papa, la cui politica fu filofrancese.
Il Bibbiena morì all’età di cinquanta anni, il 9 novembre 1520. La causa della
sua morte prematura rimane incerta, possiamo considerare le circostanze sospettose:
veniva vociferato che il cardinale fosse stato avvelenato perchè aveva troppa
influenza.13
1.2 Dai modelli classici ad un modello nuovo: la commedia dell’Ariosto14
Un argomento d’approfondimento che riguarda la commedia bibbienesca non sarebbe
completo senza considerare la sua origine: rivolgiamo l’attenzione brevemente ai
classici modelli plautini e terenziani e ad uno scrittore che ha sicuramente cambiato la
ricezione del genere letterario della commedia rinascimentale, Ludovico Ariosto (14741533). Quest’ultimo fu contemporaneo del Bibbiena e i due commediografi conobbero
l’opera reciproca.15
Gli scrittori classici Plauto (±250-184 a.C.) e Terenzio (185-159 a.C) marcano la
nascita della commedia latina, basandosi quindi sul modello greco di Menandro. Le loro
12
Ibidem, pp. 368.
Ibidem, pp. 499-509. Moncallero riferisce ad alcuni storici, come a.e. il Bandini che sono certi che il
Bibbiena fu avvelenato. Moncallero stesso conclude con l’affermazione seguente (pp. 507): Dopo questi
giudizi storici, la questione non può avere che una soluzione. Non si può credere alle affermazioni di
veneficio non suffragate da prove, non si può prestare fede agli scrittori che su una semplice espressione
del De’Grassis intessono un romanzo, quasi una congiura di palazzo a conclusione tragica. La morte del
Bibbiena avvenne per malattia, come scrive l’autore anonimo della Vita di Leone X: il Bibbiena
“stomachi languore absumptus est.”
14
Per questo paragrafo è stato fatto uso di informazioni inerenti alla propria tesina di laurea: Wetzelaer,
Aline. I Suppositi: viaggio tra antichità e un’illusione nuova. Università di Groninga, seguitata da
professor P. Bossier e dottoressa M.C. D’Angelo, 2008.
15
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
195-196. Non solo i due scrittori si conobbero, l’Ariosto menzionò pure in luce positiva il Bibbiena nel
canto XXVI (ottava 48) dell’Orlando Furioso (1516-1532).
13
8
opere furono scritte in versi con una metrica sempre diversa. Nuovo, rispetto alla
commedia greca, era la ‘cantica’, cioè le parti del testo che venivamo cantate. Un altro
aspetto notevole era la legge dell’unità che consiste in tre elementi:
•
l’unità di tempo, la storia si svolge in un certo tempo senza sguardi al futuro o al
passato.
•
l’unità di luogo, vale a dire che tutta la storia si svolge in un determinato posto
che nelle commedie latine normalmente è fuori di casa, spesso in una piazza.
•
l’unità d’azione: non c’è spazio per altre storie accanto a quella principale. Le
commedie latine erano sempre composte da cinque atti e un prologo.
Le commedie, similmente alla situazione greca, venivano rappresentate durante i ludi
romani, i ludi plebeii e gli Appollinares, che erano delle festività religiose e dei giochi
per il popolo. Le rappresentazioni durante questi ludi furono accessibili per tutto il
popolo: questo fatto implica che anche la comicità dovesse essere accessibile per
ognuno, e quindi essere relativamente di facile comprensione. La trama di una
commedia aveva dunque sempre più o meno la stessa base: essa trattava di una storia
d’amore in cui normalmente la donna sembrava non appartenere ad una nobile stirpe e
quindi non essere una partner adatta al marito. Alla fine invece, dopo intrighi e
capovolgimenti, la donna veniva riconosciuta come un’aristocratica. Leggermente
diverse sono le trame come quella di I Menaechmi di Plauto, ma anche lì l’ultima scena
del riconoscimento era di grande importanza.
Certe virtù morali furono sempre presente nella commedia latina: la fides (la
fedeltà), la pietas (la devozione religiosa ed il rispetto per il prossimo), la constantia (la
coerenza del comportamento), la gratia (essere grati per quello che si riceve) e infine
l’obbedienza ai genitori. Queste virtù dovevano far risaltare il comportamento richiesto
nella società romana.
La comicità della rappresentazione veniva risaltata da questi elementi scenici:
comici per il pubblico erano i personaggi fissi, come per esempio lo schiavo astuto (il
servus callidus), la cortigiana avida e spietata e la ‘matrona’ che causa problemi al
marito. Poi c’erano i capovolgimenti e gli scambi di persone, che erano ancora più
buffi per il fatto che gli attori portavano delle maschere, rendendo così la situazione più
difficile da capire. Quest’elemento comico andava di pari passo col fatto che il pubblico
9
era onnisciente rispetto ai personaggi ignoranti. Così anche il pubblico veniva coinvolto
nella storia, era un complice muto.
L’ultimo elemento comico era quello della pazzia di uno dei personaggi. Spesso
questa pazzia era finta e come nella parte sovrastante vale anche qui che l’onniscienza
del pubblico e l’ignoranza dei personaggi rendeva la situazione più buffa.
La commedia classica rimaneva per secoli il modello da seguire nell’Europa
medioevale. Anche quando nell’Umanesimo le commedie venivano tradotte in volgare
e il dialetto guadagnava d’importanza, le trame delle commedie non cambiavano e non
c’erano riferimenti alla vita quotidiana dell’Italia contemporanea. Erano semplicemente
imitazioni delle rappresentazioni precedenti. Tuttavia questo tipo di commedia aveva un
gran successo: se guardiamo per esempio a Ferrara, I Menaechmi venne messa in scena
già dieci volte alla corte estense negli ultimi vent’anni del Quattrocento e attraverso la
traduzione i modelli plautini rivivevano.
La persona che apportò una modifica in questa tradizione e che segnalava così
l’inizio della commedia italiana, fu senza dubbio l’Ariosto16 (1474-1533), lo scrittore
della prima commedia nuova, La Cassaria (1508) che venne messa in scena per la
prima volta alla corte di Ferrara. Ariosto rimane soprattutto conosciuto per il suo
capolavoro, il poema cavalleresco Orlando Furioso (1516-1532), ma scrisse dopo La
Cassaria altre quattro commedie: subito dopo nel 1509 venne pubblicata I Suppositi,
seguita da Il Negromante (1520) e La Lena (1528), tutte e due scritte prima in versi.
Prima di esalare l’ultimo respiro fece delle nuove versioni in versi de La Cassaria e I
Suppositi e scrisse la commedia Gli studenti, che rimase incompiuta.
Prima di scrivere le proprie opere, anche Ariosto utilizzò i modelli classici. Gran
cambiamento per il teatro fu quindi la prima versione in prosa di La Cassaria: era la
prima commedia che aveva un modello deittico, facendo riferimento allo spazio e al
tempo virtuale e reale. Se osserviamo lo stile, possiamo notare anche tracce
16
Riverso, Nicla. Il teatro dell’Ariosto tra la tradizione latina e la ‘commedia umana’ del
Seicento.Università di Washington, Seattle, pp. 2.
http://crisolenguas.uprrp.edu/Articles/Il%20Teatro%20dellAriosto%20tra%20la%20Tradizione%20Latin
a%20e%20la%20Commedia%20umana.pdf Un fatto interessante è, come indica Riverso, che Ariosto si
occupò anche delle rappresentazioni di commedie non sue: “A correzione di quanto detto dal de Sanctis,
bisogna osservare che nella corte degli Estensi a Ferrara egli svolse per vari anni il ruolo di praefectus ad
voluptates, cioè
di sovrintendente agli svaghi, col compito di organizzare feste e spettacoli. Quindi non
solo ebbe da curare la rappresentazione delle proprie commedie, ma anche di commedie
altrui (…).”
10
dell’elemento classico, nonostante la storia si svolga a Ferrara. Ariosto usava sempre
esempi antichi e la trama plautina era ancora ben visibile:
Anche nella teoria e nella prassi della commedia cinquecentesca scrivere una commedia nuova non
significa allontanarsi dai modelli antichi, bensì proprio trasferire le strutture ed i modi della commedia
classica nel mondo rinascimentale, adattando intrecci e personaggi alla sensibilità contemporanea e
situando la scena in una città moderna. In molte commedie cinquecentesche però l’apporto originale
rimane abbastanza scarso e limitato soltanto a dati esteriori, come l’indicazione della città in cui si svolge
l’azione ( oltre evidentemente all’uso della lingua italiana)17
Tuttavia nelle opere ariostesche c’era un’altra specie di comicità rispetto alle commedie
plautine, che possiamo considerare come più profonda e complicata. Questo è dovuto al
fatto che intanto i valori sociali erano cambiati e poi dobbiamo renderci conto che anche
la situazione attorno alla rappresentazione di una commedia era diversa. Nell’impero
romano la commedia era messa in scena durante le festività per tutto il popolo, senza
esclusione per donne e schiavi. Ariosto invece scriveva le sue opere per la corte estense,
il pubblico era quindi ben diverso e soprattutto più colto:
Ariosto scrisse le commedie non solo per divertire il pubblico ma anche per evidenziare gli aspetti
negativi della società contemporanea. Le commedie, traendo la loro legittimazione (ossia la
giustificazione del fatto di essere svincolate dalle farse e dai misteri medioevali) dai modelli classici, non
potevano sottrarsi che gradualmente ai loro schemi. La corte estense ed il resto del pubblico, che affluiva
al teatro nel Palazzo Ducale e che possedeva generalmente una cultura umanistica non trascurabile,
avrebbe giudicato male la rappresentazione di commedie non ben giustificabili per la loro impostazione.
Ariosto ebbe un compito piuttosto difficile nel conciliare i contenuti etici della tradizione classica con la
rappresentazione ironica e caricaturale di situazioni e personaggi del suo tempo e nel fondere materiale
attuale e contemporaneo in uno stampo antico ed ‘esemplare’. 18
Accanto all’approccio di Ariosto, ‘imitatio’ della commedia classica con riferimenti
deittici, possiamo vedere anche un’altra tendenza nel teatro italiano: appaiano opere che
non sono basate sui modelli classici, ma che sono delle invenzioni proprie come La
Cortigiana (1525) di Aretino. Sempre di più il teatro si italianizza e sempre di meno è
17
A. Stäuble La commedia umanistica del Quattrocento. Firenze, Istituto nazionale di studi sul
Rinascimento, 1968, pp. 219.
18
Riverso, Nicla. Il teatro dell’Ariosto tra la tradizione latina e la ‘commedia umana’ del
Seicento.Università di Washington, Seattle, pp. 3.
http://crisolenguas.uprrp.edu/Articles/Il%20Teatro%20dellAriosto%20tra%20la%20Tradizione%20Latin
a%20e%20la%20Commedia%20umana.pdf
11
importante la base antica, andando così verso un modello comico veramente italiano a
partire dalla seconda metà del Cinquecento: la commedia dell’arte.
1.3 La Calandria: una commedia degna del Rinascimento
Solo cinque anni dopo la prima rappresentazione de La Cassaria ariostesca, nel 1513,
viene messa in scena per la prima volta La Calandria del Bibbiena. Se l’Ariosto
apportò già una modifica nella tradizione di questo genere letterario, possiamo ritenere
che il Bibbiena abbia arricchito ancora di più la commedia rinascimentale con delle
nuove concezioni della realtà contemporanea: così svanisce progressivamente il
prototipo classico ed il Bibbiena costruisce un proprio modello come sostiene anche
Paolo Fossati (1967):
Se La Calandria va anche ripensata come uno dei testi che nel ‘500 fu sentito come esemplare, è perchè
subito si presenta come tale: del resto il primo critico che ne tracciò pubblicamente il profilo definitivo, in
sede letteraria, ancora il Castiglione, insiste proprio sul valore di «modello», che la commedia voleva
assumere. Un modello tutt’altro che astratto, però: e qui occore fare ogni attenzione: La Calandria non
vuole imporre la nozione fissa e astratta di una propria, più o meno alta, perfezione, non vuole cioè essere
conchiusa forma a sé stante. Al contrario, entro quel formalismo di cui si discorreva, transita una nuova
visione della realtà, e si arricchisce ed articola sempre più e sempre meglio: lo sviluppo formale che La
Calandria inscena è dinamica progressione, ciclo operosamente condotto innanzi. 19
Laddove l’Ariosto era piuttosto legato al modello latino, il Bibbiena invece creò una
commedia più dinamica scritta in un linguaggio prevalentemente boccaccesco. Anche la
trama è più complicata rispetto alle opere ariostesche che trattano lo scambio di persone
e punta soprattutto maggiormente sull’erotismo: dove l’Ariosto limita ad esempio nella
sua seconda commedia I Suppositi lo scambio di persone solo al sesso maschile, il
Bibbiena inventa una trama perspicace e piccante con travestimenti di ambedue i sessi.
Dopo i due prologhi, uno del Castiglione e uno del Bibbiena stesso che viene scoperto
molto più tardi 20, vediamo sviluppare la storia cervellotica dei due gemelli greci Lidio
19
Fossati, Paolo. Nota introduttiva in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati,
Torino, Einaudi, 1967, pp. 6.
20
Fossati, Paolo. Nota bio-bibliografica in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo
Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9. Fossati evidenzia che edizioni moderne del capolavoro contengono
anche, accanto al prologo del Castiglione, un prologo del Bibbiena stesso: “La Calandria va, nelle
edizioni moderne, accompagnata da due prologhi: uno, di mano del Castiglione, fu detto in occasione
della prima rappresentazione ad Urbino; il secondo è stato scoperto solo di recente. Ed attorno ad esso
non pochi dubbi sono sorti, non di paternità, bensí di collocazione: se cioè fosse effettivamente legato alla
Calandria.” Anche Moncallero (1953: 623) condivide questo dubbio.
12
e Santilla: senza sapere di essere gemelli, che sono già stati separati da giovani durante
una invasione turca della città Modone, adesso si trovano tutti e due a Roma. Lidio ha
passato la sua gioventù in Toscana con il suo servo furbo Fessenio, Santilla invece
rimane a Modone, vestita da maschio e chiamata da tutti Lidio, per nascondere il suo
vero sesso. Ad un certo punto il mercante fiorentino Perillo porta Santilla (credendo che
sia un uomo), la nutrice ed il servo Fannio a Roma, dove questa Lidio femmina deve
sposare la figlia di Perillo.
Lidio crede sua sorella morta, ma non smette mai la ricerca di ella, continuando
pure a Roma. Durante la sua sosta nella città eterna incontra la ricca padrona romana
Fulvia, sposata con Calandro ed i due si innamorano subito. Per andare dalla sua amata
senza impedimenti, Lidio si mette i panni femminili e si fa chiamare Santilla, cosicchè
il marito scimunito non scopre niente. Questo travestimento crea un effetto collaterale
non del tutto positivo: Calandro vede la bella ‘Santilla’ ed il servo Fessenio, per burla,
gli promette di farla conoscere. Il divertimento di Lidio e Fessenio è senza fini per
questa presa in giro di Calandro.
Intanto Fulvia, per essere sicura dell’amore di Lido, chiede l’aiuto del
negromante greco Ruffo, il quale è per caso un amico di Lidio femmina e Fannio. Ruffo
al suo posto è consapevole del fatto che potrà guadagnare tanti soldi con la faccenda, e
chiede a Lidio femmina di andare da Fulvia in forma di donna: l’ultima risponde che
non ha mai visto o conosciuto questa Fulvia. Tuttavia decide di partecipare e di
presentarsi a Fulvia, perché sembra essere un progetto molto buffo. La povera Fulvia
non sa più a che santo votarsi, perché da un momento all’altro Lidio (che in verità è
Santilla) pare non conoscerla più e chiede di nuovo l’aiuto di Ruffo. Intanto si
incontrano anche Lidio maschio e Lidio femmina, ma non capiscono ancora perché si
assomiglianio così tanto e non si riconoscono. I servi Fessenio e Fannio scoprono ben
presto che i gemelli si sono ritrovati, ma per buon rispetto tacciono.
Le ultime scene raccontano la felice riunione di Lidio e Santilla: Lido maschio è
insieme a Fulvia, quando l’adulterio viene scoperto dai fratelli di Calandro. Fessenio e
Fannio sanno mettere Lidio femmina al suo posto e fanno scappare così Lidio maschio.
Fulvia pensa che il negromante Ruffo abbia cambiato davvero il sesso di Lidio maschio,
Calandro invece deve ammettere il suo errore che sua moglie fosse insieme a una donna
e quindi non commette adulterio. I servi svelano il segreto, portando così la storia ad un
lieto fine: i gemelli sono riuniti e Lidio sposa la figlia di Perillo al posto di Santilla, e
Santilla sposa il figlio di Fulvia e Calandro.
13
La Calandria contiene degli elementi classici formali: ad esempio troviamo la presenza
del prologo, il numero degli atti è cinque ed esiste l’unità di tempo, di luogo e di azione.
Anche la trama fa pensare alle commedie dell’Antichità, ma nonostante ciò certi critici
letterari hanno un punto di vista diverso, evidenziando un linguaggio e delle tematiche
piuttosto di tipo boccaccesco come avviene in Fossati (1967):
E certo il gioco di scena dedotto da Plauto scompare o si attutisce talmente da non aver più ragioni
funzionali; l’uniformità e la coerenza del genere sono garantite ora dal Boccaccio, usato come repertorio
di soluzioni e di atteggiamenti, persino proverbiali, tanto è norma costante di comportamento; la vicenda
non solo si colloca nell’oggi più immediato ma perde la sua astrattezza di costruzione puntando tutto
sulle risorse e le reazioni dell’amore come intelligenza e furberia, capacità tecnica e linguistica di
proporsi grovigli e di scioglierli.21
Fossati respinge così l’ancoraggio con l’Antichità della commedia bibbienesca. Il
giudizio che presenta Moncallero (1953) è ancora più estremo:
La quale somiglianza, come è evidente, non è detto che sia necessariamente tratta da Plauto, potendo pur
essere invenzione di qualsiasi commediografo, anche se dei casi che nascono dallo scambio di due
personaggi simili si servì ripetutamente il commediografo Sarsina; tanto più che il Bibbiena fa bensì
simili i due «scambiati», ma uno uomo e una donna, mentre nei Menaechmi sono dello stesso sesso.
Ma tant’è: la tesi della derivazione della Calandria da Plauto è entrata nella storia della letteratura; e gli
storiografi e i critici letterari si son fatti un dovere di ripeterla a gara.22
Magari bisogna assumere un’opinione più misurata: anche se indubbiamente La
Calandria non è un pallido riflesso in volgare delle commedie classiche, non si può
negare completamente la sua forma capostipite antica. Dall’altra parte vediamo un
ingegno e un desiderio di valutare e criticare la propria società, come ha fatto anche
l’Ariosto, che è nuovo per la commedia. Né i personaggi sono più soltanto prototipi
fissi: sono a maggior ragione umani, che fanno la bandiera propria dell’intelligenza e
mostrano sia elementi positivi che negativi del loro carattere come indica Moncallero:
21
Ibidem, pp. 7.
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
545-546.
22
14
I personaggi della Calandria, e soprattutto Fulvia, Fessenio e Calandro, non sono dunque tipi
convenzionali astratti e indeterminati, ma caratteri drammatici nei quali è vivo l’elemento umano, anche
se questo risulta a volte piuttosto rilevato nelle sue passioni, soprattutto nella manifestazione del vizio.
Essi s’intonano all’ambiente sociale e locale di cui partecipano, sono espressioni di umanità in
atteggiamenti consoni allo spirito della società in cui vivono.23
Proprio questa umanità dei personaggi potrebbe essere vista come l’ancoraggio nella
novellistica boccaccesca 24, particolarmente gli elementi del vizio e della furbizia. Il
titolo del capolavoro bibbienesco è derivato dal nome Calandrino, un celeberrimo
protagonista di alcune novelle del Decamerone.
Concludendo possiamo considerare La Calandria, con il suo prendere posizione
tra antichità e realtà contemporanea, una commedia molto intelligente che è degna del
pieno Rinascimento.
23
Ibidem, pp. 540.
Ibidem, pp. 572-607. Moncallero accenna in queste pagine anche allo studio di Wendriner (1895) che
ha fatto un confrontro tra frammenti del Decamerone e La Calandria e possiamo vedere in modo più
dettagliato dove si trovano delle concordanze. Moncallero evidenzia però che La Calandria è un’opera
originale, nonostante somiglianze e non bisogna farsi accecare da esse: “Coincidenze, come è evidente,
della Commedia con le Centonovelle ed, a volte, senza dubbio, derivazioni dal Boccaccio di espressioni e
anche di qualche situazione, ma non tali e tante da pregiudicare l’originalità della creazione del Bibbiena,
sia per la condotta della trama, la quale evidentemente, non può non essere che del commediografo, sia
per la rappresentazione dei caratteri che sono espressione dello spirito e del costume del Rinascimento,
con intonazione personale propria del Cinquecentista; sicchè è ingiusto, ripetiamo, parlare della Calandria
come di «copia » del Decamerone, di « testo mosaico » e affermare che « messer Bernardo »
saccheggiava e definirlo « lavoratore d’intarsio », anche se è assai più vicino al Boccaccio che a Plauto”
(pp. 586.).
24
15
Capitolo 2: La ricostruzione contestuale operata da Franco Ruffini e la
festa ‘come culmine della cultura’
2.1 Introduzione
Chiunque studi La Calandria del Bibbiena, non può fare a meno di esaminare
Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino( 1986) di
Franco Ruffini. Questo studio si può considerare come la ricerca più profonda, ampia e
soprattutto documentata sul Bibbiena e la sua opera principale, sicuramente perché
tratta in modo estremamente dettagliato la prima rappresentazione nel 1513 de La
Calandria alla corte urbinate. Vale certamente la pena di dedicarci un capitolo intero e
di esporre la sintesi dello studio di Ruffini, prima di approfondire il nostro tema
principale del travestimento femminile.
Nella sua ricerca Ruffini studia primamente la Stufetta, la stanza da bagno del
Bibbiena nel Vaticano, decorata con dipinti e sistemata architettonicamente dal suo
amico urbinate Raffaello. Successivamente lo storico dello spettacolo si dedica al testo
de La Calandria, ma la parte principale tratta la prima rappresentazione della
commedia, dando un’attenzione molto dettagliata ed accurata al luogo teatrale, gli
intermezzi musicali e la scena, ossia a tutte le parti anche materiali della prima recita
urbinate. Ruffini rivolge in particolare l’attenzione alla nozione di scena e festa, che
vede ‘come culmine di una cultura’25:
Poi c’è la commedia della festa. Il luogo teatrale ne è la cornice primaria. Esso definisce il tempo-spazio
fittizio che compone gli elementi costitutivi e ne fonda l’unità. Gli intermezzi sono il primo di questi
elementi: perché intrecciati nella commedia, e però «separati», come ci ricorda Castiglione, «inquadrati»
già nel tempo-spazio della festa. (…) Si specchia, qui, il teatro che rappresenta, nella festa che mette in
scena la sua cornice. Essere nella festa, nella cornice, diventa infine essere in scena: essere scena.
26
Ruffini evidenzia però che la festa, come utopia ideale del Rinascimento, non deve
sostituire la vita tangibile. Sono due realtà che esistono l’una accanto all’altra, tutte e
due con lo stesso valore. A questa idea, e altre particolarità riguardando la prima
rappresentazione dell’opera principale del Bibbiene rivolgiamo l’attenzione nel terzo
25
Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna, Il
Mulino, 1986, pp. 188.
26
Ibidem, pp. 28-29.
16
paragrafo. Il secondo paragrafo si occupa nuovamente del testo de La Calandria in
generale, attraverso gli occhi di Ruffini.
2.2 Il meccanismo de La Calandria: la soluzione per il problema di Plauto
Sicuramente contributivo alla nostra ricerca potrebbe essere il capitolo Quadri, segreti e
prospettive della «Calandria», in cui Franco Ruffini ha scritto principalmente sul testo
stesso de La Calandria. Sorprendentemente Ruffini evidenzia che ‘non è il contenuto
che conta.’27 In questa luce Ruffini introduce la nozione di meccanismo:
Questo quadro è il meccanismo. La Stufetta, al suo livello pubblico, era una pinoteca; la Calandria è una
macchina. I quadri non vi sono esposti in ordine sparso: si incastrano in esatte coincidenze, iterazioni,
specularità, talché lo sguardo è attratto, più che dai singoli elementi, proprio dalla loro concatenazione.
Lo scambio ne è la modalità elettiva, il travestimento ( e non solo d’abito) l’inesauribile motore. Si
scambiano persone, ma anche caratteri e situazioni: la macchina ha le sue regole di funzionamento, ed è a
queste che obbedisce. I quadri vorticano, ed è il loro movimento autonomo che, alla fine è il quadro
complessivo della commedia.28
I protagonisti sono interscambiabili fra di loro e “ciò che viene «messo in mostra» sono
solo le possibilità combinatorie di uno schema che le consente, e le impone quasi.”29 La
storia in sé non è rilevante, invece il congegno è fondamentale. Il meccanismo della
commedia, la ‘macchina’ de La Calandria, funziona talmente bene che di conseguenza
la storia diventa imponderabile per il pubblico:
Il meccanismo è talmente ben lubrificato che, più che scorrere, scivola, deborda, afferma il proprio livello
di autonomia perfino nei riguardi del suo inventore. La «svista» del Bibbiena (che, a quanto ci risulta,
non era stata finora rilevata) ne è un sintomo chiaro. Il meccanismo non produce il prevedibile, ma la
sorpresa; le possibilità combinatorie sono elevatissime: insieme ai risultati scontati della norma possono
nascere, e nascono, impredivibili eresie.
30
Ruffini ha contribuito in questo studio anche alla discussione riguardo all’origine de La
Calandria, accennata anche nel primo capitolo: quanto l’opera bibbienesca è una
derivazione de I Menaechmi di Plauto? Ruffini tratta questo problema in modo efficace
27
Ibidem, pp. 107.
Ibidem, pp. 106.
29
Ibidem, pp. 107.
30
Ibidem, pp. 108.
28
17
e approfondito, per cui propone una soluzione certamente plausibile, che è certamente
legata alla nozione di meccanismo, appena introdotta dal ricercatore:
Se i Menaechmi non sono un modello da copiare, ma un problema da risolvere, la Calandria (e proprio
per il suo evidente riferimento ai Menaechmi) non è un calco, ma la soluzione.
31
La sua ipotesi è che Bibbiena avrebbe usato I Menaechmi come modello da migliorare,
per perfezionare la trama secondo i valori rinascimentali e risolvere il problema
plautino. Ruffini punta sul fatto che la commedia di Plauto non è funzionale, perché i
protagonisti, i due fratelli gemelli, non si possono mai incontrare in scena: questo
significherebbe un’agnizione finale precoce, laddove esiste assolutamente la necessità
del segreto. Il Bibbiena ha creato il proprio risolvimento, modificando la trama assai
senza vituperare l’intreccio plautino, come dichiara Ruffini:
Non si tratta di affermare in generale il «gioco della ragione» e quindi di costruirne un esempio: si tratta,
invece, di risolvere un problema specifico posto dalle specifiche circostanze di dovere scrivere una
commedia e di doversi misurare con la questione dell’imitazione plautina. (…) L’intercambiabilità del
sesso, del nome, il labile statuto di ogni identità e tant’altre cose ancora che pure sono nello schema
d’invenzione bibbienesco, non vi sono in quanto postulati (anche se ne sono, inevitabilmente, il riflesso)
di una «concezione del mondo», ma in quanto elementi strutturali della soluzione adottata verso il
concreto problema da risolvere.
32
Con quest’affermazione Ruffini può ritornare all’ipotesi iniziale di questo capitolo: La
Calandria è un meccanismo, non una semplice commedia prevedibile, ma una
narrazione strutturata e calcolata. Ruffini punta in questa luce sulla separazione di
funzioni strutturali. Con queste funzioni intende “l’invenzione dello schema, il piano di
personaggi e situazioni, la scrittura delle parole”33. Le funzioni nominate sono
indipendenti fra di loro, come afferma Ruffini, anche se provvedono allo stesso tempo
ad un’unità e non si possono vedere le funzioni come fatti isolati. E così, con
l’importanza del meccanismo, il concepimento bibbienesco è in grado di offrire una
nuova sfida alla commedia rinascimentale:
31
Ibidem, pp. 118.
Ibidem, pp. 120.
33
Ibidem, pp. 173.
32
18
La Calandria, offrendone la soluzione, indica il vero problema della commedia. Ideare meccanismi; non
solo narrare ma soprattutto organizzare il materiale narrativo. La vittoria della Calandria è la sfida del
futuro della commedia.
34
2.3 Il luogo teatrale come utopia antica
Anche i capitoli seguenti di Ruffini, e a maggior ragione i due che trattano il luogo
teatrale e la scena, sono particolarmente interessanti per il nostro studio, per la
dettagliata descrizione della prima rappresentazione de La Calandria. Infatti, lo
scenografo del primo spettacolo fu il contemporaneo urbinate del Bibbiena, Girolamo
Genga (1476-1551). Il filo conduttore nelle analisi di Ruffini è che la sala e la scena
decorata da Genga, non sono luoghi qualsiasi e Ruffini evidenzia che ogni parte del
decoro ha il suo ruolo distintivo:
Il Salone del Trono è il luogo della festa: non il contenitore della rappresentazione. Nella festa, come
tempo-spazio ideale, ciò che perde di consistenza sono i nessi del tempo e dello spazio reali. Si perde la
linearità del tempo e, dello spazio, si perdono i rapporti topologici e quello di maggiore a minore. La sala
reale contiene lo spettacolo, è vero, così come la scena è contenuto nello spettacolo. Però nella festa (e
non nel discorso che la parla) sala spettacolo e scena non si correlano secondo questo rapporto di
contenente a contenuto. Semplicemente si equivalgono: come elementi paritari, e ciascuno integralmente
rappresentativo.
35
Come vediamo qui evidenziato, bisogna vedere la sala come una specie di realtà36
accanto alla realtà quotidiana, sala e festa sono sullo stesso livello. Entrando nella sala,
si entra in un altro mondo e un’altra epoca:
La transizione nel tempo-spazio ideale della festa si spazializza come ingresso nella città, nell’insieme dei
valori che essa e il suo pensiero rappresentano. È la città perfetta, per definizione, radicata in un antico
senza tempo, eterna perché i dati della sua concretezza sono quelli di un modello.
37
Ed è questa l’ipotesi centrale di Ruffini: la nozione di festa costruisce l’idea di una città
antica. La sala è come la città ideale della cultura rinascimentale, in cui prevale il
34
Ibidem, pp. 172.
Ibidem, pp. 178-179.
36
Ruffini sottolinea con chiarezza l’uguaglianza delle due realtà: “La festa è un prodotto della cultura,
non viene dalla disillusione della realtà; è una proiezione progettuale che postula dei valori, non li estrae
per confronto dal vivere concreto. La festa è l’insieme di sigle e di valori in cui la cultura si riconosce (e
viene riconosciuta) in quanto tale: non una realtà sublimata ma una realtà altra.” (pp. 189)
37
Ibidem, pp. 181.
35
19
ricupero dell’antico che viene visto come utopia. Senza dubbio gli arazzi con storie di
Troia e delle iscrizioni in latino che si trovano nella sala, hanno un ruolo principale nel
rendere quest’illusione ancora più potente: funziona come una soglia verso un altro
universo, cioè un mondo utopico in cui è radicato l’antico. L’esempio ideale di una città
eterna è Roma e non senza ragione, nella scena, il legame tra Roma ed Urbino è
simbolico 38. Roma è per antonomasia la città utopica, indistruttibile e questa nozione di
utopia viene sottolineata un’altra volta da Ruffini:
Sala-città, sala-teatro: scena-città e, certamente (ma in senso molto più profondo di quanto possa ora
apparire), scena-teatro. Veramente, l’unità dell’apparato appare condotta non sul filo della ricerca formale
di un continuum, ma su quello di un’istanza ideal unificante, che è il raffronto della corte ad un passato
(l’antico) come garanzia etica e teorica per la propria modellizzazione. L’antico come utopia: cioè
l’utopia come antico.
39
Il luogo teatrale deve essere riguardato come un insieme omogeneo ed in questa unità è
coinvolto anche il pubblico, che si trova nella sala. Inerentemente il pubblico,
trovandosi nella sala, è integrato nella festa e nell’utopia e fa parte di questa armonia.
Secondo Ruffini significa che “(…) il teatro – in quanto luogo della festa – prima che
spazio entro cui guardare, è lo spazio al quale guardare.”40
La festa urbinate coinvolge quindi vari elementi ed il teatro non è solo teatro,
ma pare essere una piccola città, come Ruffini ha saputo spiegare con molta chiarezza
nella citazione sottostante:
La sala si fa teatro non per il fatto che vi si svolge lo spettacolo, ma perché la sala è intrinsecamente
luogo di celebrazione. (…) L’identificazione sala-città è solo un momento, anche se fondamentale, nella
strategia di significazione della festa urbinate. La città, simbolizzata dalla sala, apparirà nel suo
significato privilegiato, nella scena (cfr. cap. V), e verrà materialmente finta come spazio per gli
spettatori costruendo un secondo muro in mezzo alla sala, a riscontro di quello dipinto nel sottopalco.
41
38
Ruffini spiega: “Del resto, tutto l’orientamento mentale della festa è verso Roma; l’associazione con la
città eterna è evocata in ogni elemento dell’apparato; e non appare affatto improbabile che essa sia stata
sancita anche evidenziando nella scena di Roma la citazione per eccelenza del Palazzo Ducale e cioè di
Urbino. Come a dire che Urbino, legata a Roma per il suo destino (si ricordino le vicende della
successione papale), le è legata anche per I contrassegni della sua identità e della sua dignità.” (pp. 267)
39
Ibidem, pp. 184.
40
Ibidem, pp. 252.
41
Ibidem, pp. 183-184.
20
Concludendo possiamo dire che La Calandria non è una commedia da catalogare come
un’opera fra le vaste altre possibilità: anzi, sia il testo che il luogo teatrale e la scena
hanno un senso molto più profondo di quanto non pare. Con le sue analisi Ruffini
ricostruisce questa percezione e sottolinea l’importanza della nozione di festa per il
teatro rinascimentale in generale ed in specifico per la commedia bibbienesca.
21
Capitolo 3: Il soliloquio femminile
3.1 Introduzione
In questo capitolo ci concentreremo sul monologo femminile ne La Calandria del
Bibbiena, di cui questo capolavoro fornisce vari esempi, con monologhi dei nostri
personaggi principali Fulvia e Santilla. Perfino la serva di Fulvia, Samia, ha
l’opportunità di esternare qualche giudizio: il Bibbiena risulta aver affidato una voce ai
suoi personaggi femminili. Alla fine di questo capitolo rivolgeremo l’attenzione ad un
esempio del monologo maschile (di Fessenio, lo schiavo di Lidio) come una specie di
controesempio.
I frammenti citati, che contengono un soliloquio femminile, hanno un carattere, che si
può definire soprattutto come lamentevole. Questo è in contrasto con il prologo del
Bibbiena stesso, in cui viene sottolineato la tematica dell’astuzia femminile, sulla natura
della donne che è furba e gioconda: l’intelletto muliebre viene usato per beffe, allo
scopo di imbrogliare i mariti che pensano di valere di più. Al prologo dirigeremo
l’attenzione più profondamente nel terzo capitolo, nel quale sarà anche di importanza il
legame tra quest’astuzia nominata e la tematica principale della presente tesi, la veste
femminile nella commedia primocinquecentesca.
Queste lamentele sono quindi un elemento consistente ne La Calandria, ed i
personaggi femminili si possono considerare delle eroine tragiche42. Questo tipo di
monologo non è un fatto a sé stante, se ci riferiamo a Cosentino (2006):
Come dimostrano gli esempi addotti fin qui, il genere tragico diviene la sede privilegiata per la messa in
scena di un mondo animato da affetti e da passioni esasperate che tuttavia veicola un’ideologia
‘‘femminile’’ altrimenti destinata a soccombere. Concedendo spazio a quella riflessione sulla condizione
muliebre che permea molte delle opere cinquecentesche e facendo proprie le argomentazioni della
trattatistica coeva, la tragedia sembra adombrare un universo magmatico e sfuggente di cui sottolinea la
violenza recondita, spesso rivolta verso gli elementi più deboli della società: si pensi, ad esempio,
all’ottica decisamente ‘‘altra’’ attraverso la quale viene presentato il matrimonio, spesso oggetto di una
42
La nozione di ‘eroina’ è stata presa da Cosentino (2006) che considera le donne citate nello suo studio
delle vere eroine: “Dotate di una virtù femminile che implica forza e determinazione, queste donne
sembrano possedere quelle caratteristiche che in genere si attribuiscono agli uomini. L’eccezionale
energia di cui si fanno portatrici è la testimonianza di un coraggio fuori dal comune, che da virtù rischia
talvolta di trasformarsi in vizio.” Cosentino, Paola. “Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia
drammatica e trattati sul comportamento.”Italique, n. 9, 2006, pp. 69-99, pp. 71.
http://italique.revues.org/index108.html
22
satira declinata al maschile che ne mette in evidenza tutti le limitazioni e le difficoltà, sovente
determinate dai ‘‘donneschi difetti’’. Assai lontana dalla protagonista, scaltra, ardita o patetica della
commedia, la dolente moltitudine di eroine tragiche che popola il nostro teatro rinascimentale dà voce a
una lamentatio esistenziale modellata sull’elemento topico antico che tuttavia veicola contenuti nuovi,
strettamente legati alla necessità di costruire un sistema drammatico capace di enunciare le verità
dimenticate dalla storia e di dare voce, o meglio, forma a un eroismo di segno femminile.43
Il monologo femminile pare essere un fenomeno conosciuto in questo periodo, e non
solo nel teatro italiano.44 Come funziona il soliloquio femminile di preciso ne La
Calandria? Nei paragrafi seguenti cerchiamo di analizzare più profondamente tale
fenomeno discorsivo ed attorico in base ai principali personaggi femminili.
3.2 Santilla: un grido per il sesso femminile
Una vera eroina la si può considerare la ragazza greca Santilla, che mostra il suo
coraggio durante tutta la sua vita, andando per strada in abiti maschili per salvarsi dalla
morte. Il suo travestimento è anche la causa della sua infelicità, ossia non poter
mostrarsi come donna. I suoi monologhi sono caratterizzati da lamenti sulla miseria per
la sorte femminile e sulla disuguaglianza tra i due sessi. Già la prima scena in cui
appare (Cal., II,1), la ragazza si esprime in un monologo, e pare rivolgersi direttamente
al pubblico, chiedendo così commiserazione per il sesso femminile: “Ed io or vi dico
che, quando fussi maschio come son femina, sempre in tranquillo stato ci
viveremmo.”45 Secondo Santilla i suoi problemi derivano soltanto dal fatto che ella è
donna, il mercante Perillo è contentissimo con la persona che crede maschio, mentre se
fosse stata una ragazza, non l’avrebbe mai accettata. Spiega la sua situazione miserabile
in modo più profondo nella scena Cal., II, 8. Non esiste via di scampo per la povera
ragazza; non può rivelare la sua vera identità, ma non può nemmeno sposare la figlia di
Perillo, perché la famiglia scoprirebbe subito che ella li ha ingannati.
L’ultimo suo soliloquio si trova in Cal., IV, 5, ed è un esempio chiaro del
carattere tragico di Santilla, soprattutto la prima frase che si può definire come un grido
per il sesso femminile, una espressione chiara di disuguaglianza: “Oh infelice sesso
43
Ibidem, pp. 90.
Ad esempio Émile Picot ha dedicato una parte del suo studio al monologo nel teatro francese ai
‘Monologues d’amoureux’ come categoria specifica. Picot, Émile. Le monologue dramatique dans
l’ancien théatre français. Genève, Slatkine Reprints, 1970.
45
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 37.
44
23
femminile, che, non pure alle opere, ma ancora ai pensieri sottoposto sei!”46 Il Bibbiena
ha fatto una dichiarazione assai forte sullo stato femminile, usando la parola
‘sottoposto’. Forse ha voluto affermare così anche la differenza sessuale nel mondo
contemporaneo, in cui l’uguaglianza non era comune.47 Interessante è il fatto che un
altro personaggio minore de La Calandria, la serva Samia, riferisca anche con la parola
‘sottoposte’ alla condizione delle donne. Ella dichiara invece che questa sottomissione
femminile è un assoggettamento all’amore stesso e non al sesso maschile: “Oh povere e
infelici donne! a quanto male siamo noi sottoposte quando ad Amore sottoposte siamo!
Ecco, Fulvia, che già tanto prudente era, ora di costui accesa, non cognosce cosa che si
faccia.”48 Fra l’altro non troviamo più un atto di accusa da parte di Samia, dopo questa
affermazione. Trae vantaggio dell’assenza della padrona per divertirsi con l’amante
(Cal., III, 8).
3.3 Fulvia: in cerca di vantaggi personali
Una seconda analisi del soliloquio femminile è dedicata al personaggio della ricca
padrona romana Fulvia. Il suo primo vero monologo si trova nella scena Cal., III, 5, in
cui critica la sua posizione di donna e la corrispettiva libertà di manovra limitata: si
lagna della fortuna muliebre, è tutta disperata del fatto che non può uscire senza
restrizioni come sono in grado di fare gli uomini. Nonostante questo atto di accusa, il
suo grido per uguaglianza tra i sessi è molto meno forte in confronto con Santilla, i loro
monologhi hanno la stessa tematica, ma non completamente la stessa natura: il lamento
di Santilla pare essere più onesto, un’invocazione per tutto il sesso femminile, mentre
Fulvia è più furba e tiene in mente soprattutto la propria posizione. La sua infelicità
(oltre al fatto che teme di perdere il suo amante Lidio) deriva fondalmentalmente dal
suo matrimonio infelice. Questo viene chiarito ad esempio nella scena Cal., II, 10
quando Fulvia dice dopo una conversazione con Calandro fra sé e sé: “Va in pace, col
mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li frategli miei! che mi fa venire
angoscia pure a vedello.” (Cal., II, 10) 49. La tematica della moglie infelice non è un
caso particolare, se ci riferiamo a Stäuble (2009):
46
Ibidem, pp. 81.
Per una spiegazione più approfondita sul fenomeno dello stato femminile nel Rinascimento si veda
Maclean, Ian. The Renaissance notion of woman: a study in the fortunes of scholasticism and medical
science in European intellectual life. Cambridge University Press, Cambridge, 1980.
48
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 60.
49
Ibidem, pp. 51.
47
24
Il lamento di Fulvia riguarda la condizione femminile in genere, ma anche la sua personale situazione in
quanto «malmaritata» (con l’imbecille Calandro, nome chiaramente derivato da Calandrino): una
tematica cara al Medio Evo. Nelle commedie rinascimentali sono numerose le malmaritate, che
reagiscono in maniere diverse. Alcune, quando vengono sedotte con uno stratagemma o con violenza o
per circostanze casuali, si adattano e accettano (anche volentieri) la nuova situazione; fanno insomma di
necessità virtù o, per usare parole di Boccaccio, «saputo avevan pigliare il bene che Idio a casa l’aveva
mandato» (II 3, 2)50
E certo che Fulvia sa sfruttare la situazione in modo molto boccaccesco: proprio perché
è infelice del suo matrimonio, ha un motivo per ingannare il marito e divertirsi con
Lidio (giacché “Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua
giovinezza in vano.”51).
Il secondo monologo di Fulvia si presenta in Cal., III, 7: di nuovo viene espresso
il suo pensiero su come procedere nella sua ricerca d’amore. Non si tratta di un lamento
generale come nel caso di Santilla, ma viene riferita alla propria situazione. In questa
scena la padrona romana decide di fare l’ultimo passo verso il travestimento. Anche nel
soliloquio in Cal., IV, 1 ha principalmente pietà per se stessa e, per comodità
dimenticando che ella stessa truffa degli altri, lamenta: “oh ingannata e infelice Fulvia
(…)”52. Parla pure di uccidersi, perchè non potrebbe sopportare una posizione umilitata,
essendo offesa dallo Spirito.
L’ultimo monologo di Fulvia in scena Cal., V, 6, afferma l’ipotesi che questo
personaggio furbo abbia cercato soprattutto dei vantaggi personali e risulta anche averli
trovati: “E il fine del periculo presente mi porta incredibile iocundità; perché, non pur
ha salvato l’onore a me e la vita a Lidio, ma sarà cagione che con lui potrò essere più
spesso e più facilmente.”53 Trionfa l’astuzia femminile sulla sfortuna e schiocchezza del
marito. Chiaro è che i monologhi di Fulvia hanno avuto certamente un altro scopo di
quelli della onesta Santilla: bisogna sempre beneficiare se stessi.
3.4 Fessenio ed il monologo maschile: un controesempio
Come abbiamo visto, La Calandria contiene delle illustrazioni chiare del monologo
femminile di vari personaggi. Queste figure sono provenienti da diversi strati della
50
Stäuble, Antonio. “Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi
della commedia rinascimentale”. Università di Losanna, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 37-47.
http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/view/143963/195663, pp. 43.
51
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 59.
52
Ibidem, pp. 75.
53
Ibidem, pp. 92.
25
società, pure per una semplice serva il Bibbiena crea una voce, che ha la possibilità di
esprimersi sullo stato femminile. Per i personaggi maschili invece, il Bibbiena non ha
costruito queste ‘voci’ esplicite per commentare la contemporaneità, l’unico a rivelare i
suoi pensieri in veri monologhi è Fessenio, lo schiavo di Lidio, ma possiamo
considerare che questi soliloqui abbiano una diversa natura di quelli femminili.
Prima di tutto dobbiamo avere in mente quali caratteristiche possiede un
personaggio come Fessenio nella commedia cinquecentesca. Il servus callidus, ovvero
lo schiavo astuto apparteneva originariamente alla commedia greca, ma venne
introdotto da Plauto nella commedia latina. Dopo il successo nella commedia antica,
questa figura venne valutata di nuovo in modo positivo nel teatro del Cinquecento. Il
servus callidus è un personaggio soprattutto furbo e alle volte cinico, ma infine sempre
molto fedele al suo maestro. Spesso è egli ad inventare gli intrighi, ma ha anche un
ruolo chiave, portando la storia sempre alla sua soluzione. È facile riconoscere il nostro
Fessenio in questa descrizione: furbo e coraggioso (la sua parola personale si può
definire come ‘astuzia’), sa sempre creare delle scene comiche perché ha un desiderio
insaziabile di ridere e mettere in ridicolo delle persone con un intelletto minore, come
ad esempio il personaggio scimunito di Calandro. Magari è il personaggio con la
maggiore importanza, sembra essere onnipresente e onnisciente. Non sorprende quindi
che questa figura dello schiavo è l’unico dei personaggi maschili che si esprime di tanto
in tanto in soliloquio.
Fessenio appare per la prima volta nella scena iniziale del capolavoro
bibbienesco (Cal., I, 1), in cui ripresenta la trama (che viene esposta dal Bibbiena stesso
nell’Argumento) in modo più ampio. Lo schiavo dichiara nelle stesse righe la sua
centralità come figura in questa commedia: “Nessuno potette mai servire a due ed io
servo a tre: al marito, alla moglie e al proprio mio padrone; in modo che io non ho mai
uno riposo al mondo.”54 A queste tre personaggi nominati dallo schiavo, possiamo
anche aggiungere un quarto: Fessenio serve anche noi, il pubblico, al cui si rivolge
spesso direttamente, un esempio molto chiaro è Cal., III, 1: “Ecco, o spettatori, le
spoglie amorose.”55. Nella stessa scena usa di nuovo il legame diretto con il pubblico:
“Nessuno vuol le veste? no?Addio, dunque, spettatori. Andrò a congiungere il castron
con la troia. Restate in pace.”56 In varie occassioni Fessenio ha nei suoi monologhi la
54
Ibidem, pp. 24.
Ibidem, pp. 52.
56
Ibidem, pp. 52.
55
26
possibilità di dividere i suoi commenti con gli spettatori ( ad esempio in Cal., III, 11,
Cal., III, 13 e Cal., V, 11). Come nella scena inziale, anche nell’ultimo episodio della
commedia (Cal., V, 12) le parole conclusive vengono espresse dallo schiavo:
“Spettatori, le nozze si faran domane. Chi veder le vuole non si parta. Chi ‘l disagio
dell’aspettare fuggir cerca a sua post se ne vada. Qui, per ora, altro a far non se ha.
Valete e plaudite.”57 Vediamo che Fessenio sembra un’istanza narrativa che fa parte del
testo e allo stesso tempo del mondo contemporaneo.58
Con questo essere sia all’interno (come personaggio) che all’esterno del testo
(come narratore), si può ipotizzare che Fessenio funzioni come eco del Bibbiena stesso.
Anche Moncallero afferma che questo prototipo dell’intelligenza cinquecentesca
potrebbe ben rappresentare la voce personale dell’autore:
Fessenio, una delle creazioni più caratteristiche del teatro del Cinquecento nella sua indiscussa
originalità, è la figura vagheggiata dall’autore, l’incarnazione della più prepotente sua affettività, è una
parte dell’anima di Bibbiena, temperamento d’artista dalla disposizione comica la quale si manifestava
anche nelle ambascerie tra i gravi affari di stato, signore della facezia nelle corti più brillanti del secolo,
come ce lo presenta il Castiglione nel « Cortegiano », ma ancora, come Fessenio infaticabile e scaltro,
come quando era consigliere di Giulio e ministro di Leone del quale era anche il disinvolto amico.59
Concludendo possiamo porre che, anche se il Bibbiena ha creato dei monologhi per un
personaggio maschile, l’enfasi si trova sul soliloquio femminile, che ha un carattere
57
Ibidem, pp. 96.
La doppia funzione di un personaggio, l’essere all’interno ed all’esterno del testo, fa pensare a
Bossier, Philiep. “Embedded Ambivalence. The example of dynamic stock characters in Italian
Renaissance comedy”. Da: Akteure und Aktionen. Figuren und Handlungstypen in Drama der frühen
Neuzeit. A.c.d. C. Meier, B. Ramakers, H. Beyer, Münster, Rhema, 2008. In questo articolo l’autore
spiega come tre personaggi del teatro cinquecentesco, il pedante, il parassita ed il prologo, hanno una
funzione narrativa in più rispetto a quanto pare a prima vista: “An interesting focus for our attention is
some of the striking characteristics of the theatrical prototypes which are elements of this Italian text
production. Within a broad but nevertheless repetitve standard setting of characters in this new kind of
comedy, some characters seem to function between the borders of a very >elastic< outline of their
>definition-in context<. As a result, they are more flexible in their >stage<behaviour. They also seem
more difficult to encapsulate in a simple, one-dimensional interpretation of them in terms of the kind of
human being they represent on stage. Moreover, they are, to a large extent, responsible for an appeal to
the audience designed to achieve much more than a superficial, basic and exclusively linear reception of
the events represented on stage. In short, in framing a very dynamic presence, both their physical
movement on stage and between the lines of the written text, these particular prototypes can be pictured
as mirroring the various levels of interpretation being produced throughout the Italian Renaissance.” (pp.
158-159.) Non viene nominato il personaggio dello schiavo astuto, magari perché il servus callidus è una
figura della commedia antica, ma in questo contesto possiamo constatare anche questa doppiezza in
vedere Fessenio. Sarebbe veramente interessante come si è sviluppato questo personaggio, e in quanto
vale la teoria di Bossier per Fessenio.
59
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
527.
58
27
diverso di quello maschile. I monologhi di Fessenio vengono probabilmente usati per
dare un commento diretto dell’autore sugli eventi successi nella commedia e per
instaurare un rapporto più personale con il pubblico.
28
Capitolo 4: Il travestimento femminile
4.1 Funzioni letterarie del travestimento femminile
In questo capitolo il tema centrale sarà il travestimento di due figure femminili che sono
principali ne La Calandria di Bibbiena, la padrona romana Fulvia e la ragazza greca
Santilla. Analizzeremo il loro mascheramento in particolare, basandoci su alcuni
frammenti che sono stati scelti per il corpus e che forniscono un buon punto di vista per
lo sviluppo del loro travestimento.
Prima di tutto rivolgiamo l’attenzione allo studio Wenn Frauen Männerkleidung
tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und Geschichte (1997), che è ricco di
profonde intuizioni sul travestimento femminile. Gertrude Lehnert evidenzia il fatto che
il camuffamento muliebre nella letteratura non è il risultato di una crisi d’identità,
oppure la volontà di ottenere caratteristiche maschili, ma nasce a causa di una
situazione d’emergenza:
Denn die Verkleidung ist nur aus Not, nicht aus Neigung entstanden und von vornherein nicht als
dauerhafte Maskerade gedacht. (…) Diese Position ist typisch für die als Männer verkleideten Frauen in
der Literatur, zumal in der Zeit vor dem 19. Jahrhundert. Sie verkleiden sich nur dann, wenn ihnen kein
anderer Ausweg aus einer Notlage bleibt, die allerdings nicht vergleichbar ist mit jenen existentiellen
Notlagen, aus denen sich wirkliche Frauen zuweilen als Männer ausgaben. Die jungen Frauen in der
Literatur müssen entweder vor einer Gefahr fliehen, oder sie müssen einen verschollenen Liebhaber
suchen.
60
Come vedremo dopo, tutte e due le possibilità che ci offre Lehnert, (il travestimento per
fuggire da un pericolo o il travestimento per andare a trovare un amante nascosto), sono
presenti ne La Calandria. Viene chiarito che dopo il mascheramento la donna ridiventa
donna, non esiste in questo modo una perdità dell’identità femminile, ma forse un
rafforzamento della femminilità:
Man war damals der Ansicht, Frauen könnten ihr Geschlecht leichter wechseln als Männer, denn ihre
Geschlechtsidentität galt als biologisch einigermaßen fragil, da sie noch nicht zum Männlichen hin
vollendet war. Aus der Renaissamce sind mehrere Geschichten überliefert, in denen ein Mädchen sich in
einen Jungen verwandelte. Solche »Fälle« bestätigten, was man ohnehin von der menschlichen
60
Lehnert, Gertrud. Wenn Frauen Männer kleider tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und
Geschichte. München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1997, pp. 49-50.
29
Geschlechtsentwicklung »wußte«, nämlich daß »Männer aus den Frauen hervor- oder durch einen
weiblichen Zustand hindurchgehen«. Die vorgeblich relativ häufigen Geschlechtsumwandlungen von
Frauen in Männer konnten also als ganz natürlicher Entwicklungsvorgang gedeutet werden, bei dem die
eigentlichen Männlichkeit der Person, im Grunde immer schon vorhanden , sich erst verspätet entfaltet.
Somit findet keine wirkliche Geschlechtsumwandlung statt, sondern nur eine Entwicklung hin zum
»eigentlichen« Geschlecht.61
4.2 Inganno ed astuzia: mascheramenti nel Prologo
Il nostro tema principale è la veste femminile, ed il travestimento delle due protagoniste
Fulvia e Santilla è in questo caso estremamente interessante. Prima di indagare i loro
mascheramenti, osserviamo ancora una volta con attenzione il Prologo, scritto dal
Bibbiena stesso. Salta all’occhio che lo scrittore punta ripetutamente sulla veste
femminile: nonostante il fatto che la tematica principale in questo prologo, del quale
non è certo se è stato scritto per la commedia in questione62, si possa definire come
l’astuzia muliebre, il vestirsi in sé ha un ruolo importante. Lo scrittore descrive un suo
sogno in cui prende in bocca l’anello di Angelica63 per “(…) vedere tutte le donne di
Firenze quando si levano: e forse che i’ non arei potuto farlo, potendo andar per tutto
senza esser veduto!”64. Egli entra così in diverse case, dove è testimonio di situazioni
tra mariti e moglie in disuguaglianza da una parte, e dall’altra parte di momenti in cui
donne si vestono e si truccano. Lo scrittore esprime chiaramente la sua opinione sul
trasformarsi esteticamente nella speranza di essere più belli:
-Diacin ne vadia, con tanto lisciarsi!- diceva io fra me medesimo: -può egli essere che queste meschine
non si accorghino che, per voler parer più belle, si fanno maschere e si guastan la vita ed invechiano dieci
anni inanzi al tempo e diventano grinze e isdentate o vero co’ denti s’sudici e lordi che sarebbe manco
schifo a baciar loro…presso che io non dissi qualche mala parola… che baciar loro la bocca? Quante ne è
qui che, cariche di panni e del mal che Dio die loro, stanno intirizzate come statue e non si possan
61
Ibidem, pp. 69-70.
Fossati, Paolo. Note in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino,
Einaudi, 1967, pp. 100: “Seguiamo anche noi i moderni editori che dànno, accanto a quello del
Castiglione, il prologo rinvenuto da Isidoro del Lungo il secolo scorso. Nulla indica che potesse esser
legato alla Calandria, come s’è detto nella nota introduttiva: e se ne potrebbe perciò dare il testo in
appendice. Ma, tenuto conto della natura letteraria della commedia, la tematica boccacciana che il testo
esemplifica e la dichiarazione di poetica, come comportamento immaginativo, che offre sembrano una
ottima ragione per farlo precedere, come una sorta di premessa ideale.”
63
Il Bibbiena fa riferimento alla protagonista femminile dell’Orlando furioso (pubblicato in versione
definitiva nel 1532) dell’Ariosto, che possiede un anello magico che rende il proprietario invisibile.
64
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 17.
62
30
muovere, scoppiano di caldo e di affanno, per parer belle! Le s’ingannano, perché belle son tenute quelle
che né poco né molto le lor persone procurano.65
Dichiara che le donne che si truccano per avere un aspetto migliore, si ingannano: la sua
critica morale è che non sono la veste ed il trucco a rendere una persona bella.
L’inganno sembra essere la parola chiave in questo contesto: si potrebbe supporre che
esista un legame tra il mascheramento femminile (ovvero l’inganno, perché mascherarsi
è una forma di imbroglio come conferma lo scrittore) e l’astuzia muliebre. Le donne
non sono mai quello che paiono, ingannano con l’aspetto ed allo stesso tempo fregano i
loro marito con l’intelletto e l’acutezza, ad esempio nella citazione sottostante:
Il buono uomo, per non sentir quel pianto tutta notte, e non sapendo come potessi giovare al figliuolo, si
uscì di casa e dette campo franco alle moglie, più aveduta e più savia di lui.66
Lo scrittore usa più volte la parola ‘savia’ riguardo alle donne; anche quando la loro
posizione è più umile di quella del marito, infine è la donna a vincere per via della
sveltezza della mente che il Bibbiena conferma “–Oh quanto mi risi di questa astuzia da
donne!”67 Un’ipotesi possibilmente valida è che la veste femminile rappresenti un
mascheramento della vera persona e quindi anche dell’acutezza: anche se non è sempre
chiaro a occhio e croce, la donna ha la possibilità di superare l’uomo al livello di
sagacia.
4.3 Sorpassando la libertà di movimento
Per tutti e due i nostri personaggi principali femminili, Fulvia e Santilla, vale che il loro
sesso limita la loro libertà di manovra. Questo vincolo è visibile in modo migliore nella
situazione di Santilla: un’illustrazione è Cal., II, 8, in cui ella presenta le proprie
rimostranze sul travestimento costretto. Secondo l’Argumento senza mascheramento
non avrebbe potuto sopravvivere all’attentato turco a Modone68, ma ormai non può più
rivelare la sua vera identità. Il travestimento di Fulvia invece è volontario: essendo di
una classe sociale più alta rispetto a Santilla, ella ha certamente più libertà. Nonostante
ciò, fatto sta che difficilmente può uscire di casa. Afferma in Cal., III, 7 che “Io, che già
sanza compagnia a gran pena di camera uscita non sarei, or, da amor spinta, vestita da
65
Ibidem, pp. 20.
Ibidem, pp. 19.
67
Ibidem, pp. 19.
68
Ibidem, pp. 21.
66
31
uomo fuor di casa me ne vo sola.” Per andare a trovare il suo amante Lidio deve
utilizzare la veste maschile per nascondere il suo sesso. Questa limitata libertà di
manovra per le donne non è un fatto a sé stante. Lehnert (1997) chiarisce che la veste
maschile può fornire più indipendenza ed autodeterminazione:
In Männerkleidung können die Frauen sich unerkannt in die Welt hinauswagen und sich so ungehindert
und ungefährdet fortbewegen, was ihnen in Frauenkleidung und eingezwangt in die Norm züchtigen
weiblichen Verhaltens nicht möglich wäre, zumindest, wenn sie den gehobeneren sozialen Schichten
angehören. Wenn die verkleidete Frau schließlich ihr Ziel erreicht hat, legt sie erleichtert die
Männerkleidung ab und wird wieder zu Frau, ohne daß sich etwas an der jeweils herrschenden
Geschlechterordnung geändert hätte.
69
Qui si evidenzia di nuovo che questo tipo di travestimento è di breve durata, una volta
ottenuto il risultato voluto, la donna sceglie decisamente per la veste e l’identità
femminile. Nonostante ciò l’abbigliamento maschile pare conoscere una nozione di
protezione e sicurezza in generale70, mentre la veste femminile invece sembra essere
inerente ad un’identità fragile, come se l’involucro esterno rispecchiasse caratteristiche
stereotipe dell’interno di una persona.
Per questo mascheramento femminile serviva di certo un gran coraggio, come
viene indicato anche in The tradition of female transvestism in early modern Europe
(1989):
For all these women in men’s clothing, the stress caused by the fear of discovery must have been
constant. Of those who succeeded in impersonating men for a considerable period of time, we can easily
assume that they possessed strong nerves, some intelligence and possibly a talent for acting.
71
Bisogna tener conto del fatto che questo studio non parla solamente di letteratura, ma
esamina il travestimento femminile in una luce sociostorica. Il loro campo di indagine è
in particolare parte i Paesi Bassi, Inghilterra e Germania, ma nonostante ciò possiamo
69
Lehnert, Gertrud. Wenn Frauen Männer kleider tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und
Geschichte. München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1997, pp. 50.
70
Dekker, Rudolf e van der Pol, Lotte. The tradition of female transvestism in early modern Europe.
Hampshire, The Macmillan Press LTD, 1989, pp. 8. In questo studio sul travestimento femminile, i critici
evidenziano che il mascheramento di donne in generale conosceva la nozione di protezione: « There are
many examples of women who dressed as men for travelling. This was considered a safety precaution,
particularly for longer trips because a woman travelling alone, faced considerable danger in a time where
highway robbers still were common in Europe. Masculine attire was also more practical for travel than
long skirts ».
71
Ibidem, pp. 17.
32
scoprire anche qualche legame tra il travestimento reale e fittizio della commedia
bibbienesca, ad esempio questa audacia che viene evidenziata nella citazione
sovrastante. Vediamo come Santilla riesce a nascondere il suo vero essere per tutta la
vita, sebbene sappia che quando il mascheramento viene scoperto, “(…) e, da me
scornati, el padre e la madre e la figlia porriano farmi uccidere.”72. Anche Fulvia mostra
il suo coraggio andando in abbigliamento maschile per strada. Bianca Concolino (2009)
infatti afferma che proprio per quest’essere pavida, la padrona romana salta all’occhio
per poi sparire più o meno dal palcoscenico.
A parte il travestimento «centrale» dei gemelli quello di Fulvia che si traveste da uomo per ritrovare
Lidio e che si trova invece davanti Calandro è forse più interessante di quanto sembri, per il nostro
discorso. Naturalmente, lo scopo principale del travestimento di Fulvia è di essere più libera nei suoi
movimenti e di nascondere la sua vera identità. Ma bisogna comunque sottolineare che con il
travestimento maschile Fulvia acquista un coraggio e una sicurezza che le mancavano prima, nel suo
ruolo di moglie insoddisfatta di Calandro e di amante insicura di Lidio. Fessenio stesso sottolinerà questo
cambiamento di Fulvia e la sua ammirazione per la presenza di spirito di cui fa prova: «Qual altra, sanza
Amore, averia avuto tale accorgimento che di sì gran periculo escita fusse come costei?». Questo sarà del
resto l’unico momento in cui Fulvia ha un ruolo da protagonista. Alla fine della commedia dopo che i due
gemelli saranno riuniti, il personaggio di Fulvia passerà dal ruolo di amante a quello di suocera di
Santilla, e sparirà quindi dal nucleo dei personaggi principali. Anche qui il Bibbiena farà scuola, poiché
l’idea del travestimento maschile del personaggio femminile sarà ripresa e sfruttata per tutto il secolo. 73
4.4 Il travestimento di Fulvia
Adesso analizziamo più profondamente i mascheramenti delle nostre eroine,
cominciando con Fulvia. Come si sviluppa il suo travestimento e quale impatto
psicologico ha?
La prima scena in cui appare Fulvia è Cal., II, 5 ed il travestimento suo non è
ancora introdotto nel discorso. Quando questa nobildonna viene presentata per la prima
volta, si vede crescere l’angoscia in ella, perché si è resa già conto del fatto che il suo
amante Lidio vuole partire. A qualunque costo vuole impedire la decisione del ragazzo
greco del quale è ardentemente innamorata, e perciò ha chiesto aiuto al negromante
greco Ruffo, che ha promesso (in cambio di denaro) di agevolare la faccenda, usando
uno spirito. Quando Fulvia incontra lo schiavo di Lidio, Fessenio, espone subito la sua
72
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 47.
Concolino Mancini Abram, Bianca. Da Calandrino a Calandro.Variazioni sul tema della beffa.
Université de Poitiers, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 19-20.
http://ddd.uab.cat/pub/qdi/11359730n14p13.pdf
73
33
disperazione: “Spacciata sono, se tu con lui non mi aiuti. Pregalo che salvi questa vita
che è sua.”74
In prima istanza l’ansia di Fulvia non viene né risolto dallo Spirito, né da
Fessenio, mentre il suo amore per Lidio cresce: questo stato d’animo prevale soprattutto
quando incontra il suo marito ‘vezzoso’ Calandro (Cal., II, 10), per il quale sente un
forte disprezzo. Tutto questo risulta nella decisione di Fulvia di prendere le redini nella
scena Cal., III, 5, che magari possiamo considerare come la scena più importante per
questo personaggio. Dopo un lungo dialogo con la sua serva Samia (la quale per sbaglio
ha incontrato Santilla vestita da Lidio e non Lidio stesso), scopre che il suo amante
davvero non soltanto non la ama più, ma peggio ancora, pare che non riconosce
nemmeno Fulvia. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso e come una Didone
rinascimentale lamenta la sfortuna femminile ed il suo amore per un ragazzo
irraggiungibile. È qui che constatiamo il primo vero passo verso il travestimento:
Deh, cieli! perché non fate che Lidio me ami come io lui amo? o che io fugga lui come esso me fugge?
Ahi crudel! che chiedo io? Disamar e fuggir Lidio mio? Ah! certo, questo né far posso né voglio; anzi,
penso io stessa trovarlo. E perché non mi è lecito da omo vestirmi una sol volta e trovar lui, come esso da
donna vestito, spesso è venuto a trovar me? Ragionevol è. Ed egli è ben tale che merita che questa e
maggior cosa si faccia per lui. Perché far nol devo? perché non vo? perché perdo io la mia giovinezza?75
Dopo questo monologo, Fulvia ha fatto la sua scelta spavalda: solo andando da egli in
persona, ha la speranza di poterlo convincere e per questo bisogna travestirsi. Infatti è
l’unica soluzione, in veste femminile non ha la libertà di manovra per raggiungerlo.
Agisce per conto suo, perché non le sarebbe lecito fare scelte che gli uomini fanno
senza costrizioni?
Fulvia mantiene ferma senza dubbio la sua decisione, come si può leggere in
Cal., III, 7, perché infine nessuno la riconoscerà in veste maschile. Del resto nessuno
sarà a casa di Lidio, salvo forse Fessenio, al quale è nota la congiura. Non tutti
condividono la sua fermezza e spensieratezza, ad esempio la sua serva Samia esprime la
sua preoccupazione: “Non possendo aver Lidio suo, a trovarlo va vestita da omo; sanza
pensar quanti mali avvenir ne portriano, quando mai si sapesse.”76 La stessa serva però
74
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 42.
Ibidem, pp. 59.
76
Ibidem, pp. 60.
75
34
riconosce i vantaggi di questa avventura, molto buffa è la scena in cui loda l’amore e
trae in modo boccaccesco profitto della assenza della sua padrona (Cal., III, 8).
Il travestimento di Fulvia che inizialmente è la sua salvezza per via della libertà
di manovra, risulta essere anche la sua salvezza per un doppio motivo: nella scena Cal.,
III, 12 incontra per sbaglio suo marito Calandro (il quale si è recato in questa casa per
passare qualche momento con la sua amante Santilla che è in verità Lidio vestito da
donna) e il mascheramento è la sua via di scampo. La furba Fulvia ha trovato subito un
alibi per la sua presenza, pur in abiti maschili. Fa finta di sapere già che Calandro
commette adulterio ed infatti solo così ha la possibilità di coglierlo in flagrante.
Interessante è il gioco linguistico di Fulvia, che punta su inganno e fede: “E forse che
non pensavi ascosamente farmi questo inganno? Ma, per mie’ fé, tanto sa altri quanto
tu. E a questa ora, in questo abito, d’altri non fidandomi, io propria son venuta per
trovarti. E cosí ti meno, come tu sei degno, sozzo cane, per svergognarti e perché
ognuno prenda compassione di me che tanti oltraggi da te sopporto, ingrato!”77 Sarà
così chiaro a tutti che non solo Calandro inganna Fulvia e, a maggior ragione, ella
imbroglia il marito. Il mascheramento risulta aver la doppia funzione di un
capovolgimento: non solo appare la padrona in veste maschile, ma attraverso questo
primo rovesciamento della realtà, Fulvia capovolge anche il suo comportamento. Passa
dallo stato di donna infedele a quello di moglie fedelissima, degna di commiserazione.
Dopo questo scampo a malapena, il travestimento di Fulvia, e così anche il suo
ruolo principale, si conclude. Nelle prossime scene viene riferito soprattutto al
problema con Lidio, parte o meno? Pare aver capito che il suo travestimento era troppo
pericoloso, ma questo fatto non trattiene Fulvia dall’imbrogliare il marito: così trionfa
la beffa femminile.
4.5 Santilla : tra mascheramento costretto e volontario
Il travestimento della ragazza Santilla, ovvero Lidio femina, non è completamente
paragonabile al caso di Fulvia, nonostante si tratti di due donne che si mostrano al
mondo in abiti maschili. Come notato prima, si occupa di un mascheramento costretto,
che dura già da anni, mentre il travestimento di Fulvia è sicuramente volontario. La
povera Santilla si è cacciata in una situazione estremamente angosciante: vista e creduta
maschio, ella deve sposare la figlia del mercante Perillo e il travestimento sarà scoperto
77
Ibidem, pp. 63-64.
35
a causa di questa faccenda, con tutte le conseguenze che seguono. Appare per la prima
volta nell’atto secondo (Cal., II,1) e dal momento iniziale si lagna della sorte femminile.
Infatti, le sue prime parole sono “Assai è manifesto quanto sia miglior la fortuna degli
uomini che quella delle donne”78 e con questo il tono è dato. Troviamo delle scene
pleonastiche in Cal., II, 8 e Cal., IV, 5, soprattutto in quest’ultima la disperazione della
ragazza è ben visibile: “Deh misera me! Che debb’io fare? Dovunche io mi volto, dalle
angosce tanto circundata mi trovo che loco non vedo onde salvar mi possa.”79 Inerente
al suo personaggio sono le parole ‘misera’ e ‘infelice’.
Tutto questo non vuol dire che Santilla sia una figura che è soltanto triste,
nonostante il fatto che sarà senza dubbio il personaggio che suscita la maggior pietà e
compassione, con i suoi monologhi pieni di dolore. Non dimentichiamo anche l’altro
lato di Santilla, che certamente non è sfavorevole all’iniziativa farsesca del negromante
Ruffo di imbrogliare Fulvia: Santilla (da Ruffo creduta maschio) deve andare in forma
di donna dalla ricca padrona, che crederà che l’amante si sia trasformato nell’altro sesso
con l’aiuto di uno spirito magico. La ragazza condivide l’opinione del servo Fannio, che
dice a proposito di questa beffa: “Ed oltra di questo, scoprendola tu puttana, spesso da
lei beccherai danari per pagarti il silenzio tuo a non parlarne. Oltra questo, è cosa da
crepar delle risa. Tu donna sei; ella in forma di donna te adomanda; da lei anderai. Al
provar quel che cerca, troverrà quel che non vuole.”80 Infatti, questo progetto crea un
mondo del tutto capovolto, in cui niente è quello che sembra. Santilla trova ‘li panni per
vestirci’81 e così è nato questo doppio travestimento pazzesco: una ragazza, abbigliata
da anni in veste maschile, si traveste di nuovo in veste femminile, per ingannare la
romana ricca, mentre allo stesso tempo suo fratello Lidio si è mascherato da donna per
imbrogliare il marito di Fulvia. Il progetto avanza come è stato desiderato; Fulvia è
disperata quando trova l’amante davvero trasformato in donna e promette a Ruffo più
denari per sistemare questo problema e rifarlo maschio. Per evitare problemi Fannio si
veste come Santilla e così va al posto della ragazza da Fulvia. Queste scene
carnevalesche si risolvono quando infine i servi si accorgono della presenza di tutti e
dei due gemelli e sanno a malapena salvare tutti: così nelle scene finali la realtà
quotidiana ritorna ed il mondo capovolto sparisce.
78
Ibidem, pp. 37.
Ibidem, pp. 81.
80
Ibidem, pp. 41.
81
Ibidem, pp. 41
79
36
Come vediamo, il tema del travestimento viene sfruttato al massimo ne La Calandria, e
Bibbiena ha creato un nuovo esempio da seguire, soprattutto per il mascheramento di
ambedue i sessi. Travestimenti in veste maschile da parte delle donne fu un nuovo
elemento comico, ma non solo una componente ridicola, come evidenzia anche
Moncallero (1953):
Il vecchio che si lasciava irretire e abbindolare da amore poteva essere oggetto di riso: ma per gli altri, e
per le donne ancora, v’era larga comprensione e giustificazione. Era lecito a Fulvia e a Santilla di
comuffarsi in abiti maschili, come donne travestite e fuggitive di casa o di convento ci presteranno più
tardi gli Accademici Intronati di Siena.82
Questa giustificazione per il travestimento è ben comprensibile, se teniamo in mente le
esclamazioni amare di Fulvia e Santilla per la sorte femminile, suscitano pietà per un
destino così tragico. Questa tematica verrà usata nel periodo seguente, e non solo nella
commedia. Si può constatare anche delle concordanze con la novella83, in questo caso
l’esempio più importante sarebbe Bandello con le sue Novelle (1554 e, postumo, 1573).
Possiamo considerare questa rielaborazione della tematica antica, un passo geniale di
Bibbiena, che fornisce un nuovo elemento umoristico nella commedia ed altri generi
letterari del Cinquecento.
82
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
562.
83
Ibidem, pp. 570-571. Moncallero sottolinea che il mascheramento era inerente al secolo, e questa
tradizione si vedeva non solo nella commedia, ma anche nel genere letterario della novella, secondo
l’esempio del Decameron: “Il travestimento era del resto vivo nel costume del secolo, non solo di
carnevale s’intende: a Venezia ci si mascherava per sfuggire alla giustizia come a Roma le meretrici si
camuffavano per evitare lo sfratto, e dei più strani travestimenti, fecondi dei più impensati accidenti, eran
materiate le novelle come le commedie. Si possono ricordare ad esmpio la novella II, 36 del Bandello, la
8.a della Deca quinta degli Hecatommithi di Giraldi Cinthio (…).”
37
Capitolo 5: Onore e spazio femminile
5.1 La casa: spazio della castità femminile
All I could do was to offer you an
opinion about upon one minor point – a
woman must have money and a room of
her own if she is to write fiction (…).84
La citazione sovrastante di Virginia Woolf (1928) sarà il punto di partenza per questo
capitolo: nel suo saggio femminista A Room for one’s own, la Woolf esamina gli effetti
di povertà e castità sulla creatività femminile e rende chiaro che una donna può avere
libertà intellettuale soltanto attraverso ricchezza materiale, che implica una stanza per sé
stessa, dove non viene disturbata con preoccupazioni quotidiane. Nel saggio la Woolf si
chiede perché esistono così tanti autori maschili invece di femminili, ma nonostante la
sua rabbia per questa disuguaglianza sessuale, è consapevole che è una ‘tradizione’ da
molti secoli e vale anche per il nostro periodo da esaminare, il Rinascimento.Una
ragione per la posizione femminile umile potrebbe ben essere che l’educazione di
uomini e donne era diversa85 e l’immagine della donna come persona inferiore veniva
conservata dalla letteratura umanista86. King e Rabil (1997) infatti indicano che
soprattutto la visione del sesso femminile subordinato al sesso maschile, creata dagli
intellettuali (e dalla Chiesa), ha contribuito all’esclusione di un ruolo attivo per la donna
nella società:
84
Woolf, Virginia. A Room of one’s own. London, Penguin Books, 1945 (pubblicato per la prima volta
nel 1928), pp. 5-6.
85
Per una spiegazione più approfondita sul fenomeno dello stato femminile nel Rinascimento si veda ad
esempio Maclean, Ian. The Renaissance notion of woman: a study in the fortunes of scholasticism and
medical science in European intellectual life. Cambridge University Press, Cambridge, 1980 oppure
l’introduzione di Margaret L. King e Albert Rabil jr. in d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love.
A.c.d. Rinaldina Russell, The University of Chicago Press, Chicago, 1997.
86
Un’opera molto interessante per la spiegazione quanto fu grande la paura per iniziative femminili è
Shemek, Deanna. Ladies Errant. Wayward women and social order in Early Modern Italy. Durham,
Duke University Press, 1998. Shemek spiega che richiedeva tanto coraggio alle donne per fuorviarsi:
“My title is meant to evoke the explicit early modern fear that feminine initiatives, which almost by
definition lapse from the rigid forms of decorum, could lead orderly society itself astray. At the same
time, it celebrates the determined efforts of women (then a in other moments) to venture beyond the
social and cultural bounds set for them by men: errancy, in this sense, must be seen as more than a casual
or unwitting “error”; it must be understood as act of resistance.” ( pp. 2.)
38
The negative perception of women expressed in the intellectual tradition are also implicit in the actual
roles that women played in European society. Assigned to subordinate positions in the household and the
church, they were barred from significant participation in public life.87
Come risulta implicito dalla citazione sovrastante, le donne erano in generale
predestinate a vivere la loro vita all’interno della casa 88: quest’ultima era proprio un
mondo silenzioso per mantenere la loro castità e purezza e per essere anche sottomesse
agli uomini. Una delle ragioni più importanti per cui lo spazio femminile rimaneva la
casa, evidenziano King e Rabil (1997), era il problema della castità:
The requirement of chastity kept women at home, silenced them, isolated them, left them in ignorance. It
was the source of all other impediments. (…) Female chastity ensured the continuity of the male-headed
household. If a man’s wife was not chaste, he could not be sure of the legeitimacy of his offspring. If they
were not his, and they acquired his property, it was not his household, but some other man’s, that had
endured. If his daughter was not chaste, she could not be transferred to another man’s household as his
wife, and he was dishonored.
89
Sia onore corporeo che quello psicologico della donna furono un fulcro della società
rinascimentale: infatti è una tematica ricorrente nell’opera principale di questa tesi, La
Calandria del Bibbiena. La castità femminile era una norma indimenticabile nella
comunità, ed era praticamente inerente alla vita stessa come la Woolf indica:
Chastity had then, it has even now, a religious importance in a woman’s life, and has so wrapped itself
round with nerves and instincts that to cut it free and bring it to the light of day demands courage of the
rarest.90
87
d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, con un’introduzione di
Margaret L. King e Albert Rabil jr., The University of Chicago Press, Chicago, 1997, pp. 7. Anche
Shemek (1998) condivide quest’idea: “Whatever our interpretation of its individual works, the sheer
volume of this literature establishes the matter of woman’s place –and the implicit impossibility that she
might stray from it –as one of the period’s most persistent cultural questions” (pp. 3). King e Rabil jr.
evidenziano però che la tradizione misogina nella letteratura apriva delle porte per riconsiderare la
giustezza di queste idee, prese dalla filosofia antica: “Humanism was a movement led by males who
accepted the evaluation of women in ancient texts and generally shared the misogynist perceptions of
their culture. (Female humanists, as will be seen, did not.) Yet humanism also opened the door to the
critique of the misogynist tradition. By calling authors, texts, and ideas into question, it made possibile
the fundamental rereading of the whole intellectual tradition that was required in order to free women
from cultural prejudice and social subordination.” (pp. 10.)
88
Shemek parla di ‘(…) own enclosure in a shrinking domestic sphere.’ (pp. 16.)
89
d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, con un’introduzione di
Margaret L. King e Albert Rabil jr., The University of Chicago Press, Chicago, 1997, pp. 15.
90
Woolf, Virginia. A Room of one’s own. London, Penguin Books, 1945 (pubblicato per la prima volta
nel 1928), pp. 51.
39
La castità, un concetto difficile da mettere a nudo secondo la Woolf, costringeva quindi
il sesso femminile a non partecipare alla vita sociale, rimanendo a casa, che possiamo
considerare così uno spazio della verità femminile: solo in casa la pudicizia femminile
era garantita, perché in pratica nessuno era in grado di vituperare l’onore di moglie o
figlie.
5.2 Onore femminile ne La Calandria
Per verificare l’ipotesi centrale di questo capitolo, il legame tra le tematiche onore
femminile e la casa o la stanza come spazio della verità femminile, ci concentreremo sul
caso di Fulvia. L’altro personaggio femminile principale, Santilla, si mostra davanti
all’occhio del pubblico praticamente sempre in veste maschile: tutto il mondo la crede
maschio e per il suo travestimento costante non è costretta a rimanere a casa. Fulvia
invece si maschera una sola volta e si deve adattare ai valori ed alle norme di buona
educazione. La sua casa è il posto centrale de La Calandria e viene considerata,
prevalentemente da suo marito, come spazio della verità: è un posto dove il suo onore
non è vituperato, anche se in realtà Fulvia si diverte in modo non completamente casto
con l’amante Lidio.
Prima di analizzare più profondamente il caso principale di Fulvia, vale anche la pena
di dare un’occhiata a due altre situazioni ne La Calandria, nelle quali viene menzionata
la tematica dell’onore femminile. Il primo esempio si trova nel Prologo del Bibbiena
stesso. In generale, come abbiamo constatato nel terzo capitolo, la questione centrale è
l’astuzia muliebre. Si può considerare questa tematica strettamente legata a quella della
pudicizia femminile: vari esempi nel Prologo indicano che le donne fregano i loro
mariti con l’acutezza e l’inteletto, per fuggire così alla gelosia e alle regole imposte dai
mariti. Con il tema boccaccesco della beffa femminile, le donne menzionate ne La
Calandria, avevano la possibilità di scappare dalla prigione dell’onore, che le proibiva
libertà di manovra. Un chiaro esempio del Prologo ne è questo: “Ella piangeva, e voleva
pur venir alla veglia, e diceva al marito: - Se voi non volevi che io v’andassi, bisognava
dirlo prima e non mi lassar promettere. Voi volete pure che ognuno sappia chi voi sete,
che maladetto sia il punto e l’ora che io mi maritai! così poteva io farmi monaca, se non
ho mai a avere un piacere come l’altre. – Ben, be’- rispondeva il marito geloso, - veglie,
eh? veglie, eh? Se tu volessi bene al tuo marito, tu non ti cureresti d’andarvi. Tu non sai
bene quel che si fa a queste veglie. Statti, statti in casa meco; e sarà molto meglio che
40
andar notticon tutta notte.(…) Io messi mano a un legno, con animo di dargli
venticinque bastonate per fargli uscire la gelosia del capo: ma pensai poi che fusse
meglio lasciarne far la vendetta a lei, che, se sarà savia, com’io credo, lo farà esser
geloso di qualcosa.”91 Vediamo nitidamente il processo nominato: il marito possessivo
impedisce alla moglie di andare alla veglia, per ostacolare così anche il fatto di essere
disonorato. Attraverso la sua saviezza, così indica il Bibbiena, la moglie vincerà alla
fine.
Una seconda volta nella quale viene accennata la tematica dell’onore femminile si trova
in Cal., I, 2. In questa scena si assiste ad una conversazione tra il precettore presuntuoso
Polinico, Lidio ed il servo Fessenio. Polinico avverte Lidio di non innamorarsi della
bella Fulvia: secondo il precettore le donne sono mutevoli e questo è un fatto
pericoloso. Quando Lidio sostiene il contrario e afferma che non sono tutte uguali,
Polinico esprime il suo pensiero con ancora più perseveranza. Possiamo considerare che
in questo caso non difenda del tutto l’onore femminile, la sua opinione è assai
misogina: “O Lidio, leva el lume, che i volti veder non si possino, non è una differenzia
al mondo da l’una all’altra. E sappi che a donna non si può credere, etiam poi che è
morta.”92 Quest’affermazione non risponde al gusto di Lidio e Fessenio ed il servo
ribatte che il precettore è pure nemico del sesso femminile, come più persone alla corte
romana 93: “Allo essere inimico delle donne, come è quasi ognuno in questa corte. E
però ne dici male. E iniquamente fai.”94 Lidio non può fare altro di condividere questo
parere del servo: “Dice il vero Fessenio, perché laudar non si può quel che tu hai detto
di loro: per ciò che sono quanto refrigerio e quanto bene ha il mondo e sanza le quali
noi siamo disutili, inetti, duri e simili alle bestie.”95 Polinico non riesce a difendersi e si
allontana infine, amareggiato per la perdita della conversazione. Interessante è che il
Bibbiena in questa scena pare aver cercato di dare voce alla civiltà della sua epoca:
come abbiamo constatato nel primo paragrafo del presente capitolo gli intellettuali
conservarono nella letteratura umanista una visione misogina, basata su opinioni
provenienti dall’Antichità. Quasi non può essere casuale che la visione pessimista del
sesso femminile come mutevole, ingannevole e perfino pericoloso viene espressa dal
91
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 18.
Ibidem, pp. 28.
93
Paolo Fossati indica nelle note (pp. 104) che le parole di Fessenio sono un gioco linguistico che
rimanda al costume omosessuale della società rinascimentale.
94
Ibidem, pp. 28.
95
Ibidem, pp. 28.
92
41
pedagogo Polinico. Il Bibbiena assume il compito di difendere, attraverso le voci di
Lidio e Fessenio, l’onore femminile.96
5.3 Onore e beffa femminile: il gioco di Fulvia
In diverse scene de La Calandria, il Bibbiena rimanda alla tematica dell’onore
femminile, che viene conservato in un luogo preciso, la casa che possiamo considerare
come lo spazio della verità. Questo fenomeno si concentra soprattutto intorno alla
figura di Fulvia, e, per lo svolgimento della trama, l’argomento della pudicizia si trova
principalemente nelle ultime scene. Tuttavia anche prima del quinto atto troviamo dei
riferimenti alla casa di Fulvia come luogo dell’onore. Il marito Calandro praticamente
l’ha chiusa in camera, così che neanche la sua rispettabilità viene danneggiata. Un
esempio che il posto di una donna è all’interno del domicilio, mentre quello dell’uomo
è all’esterno, si trova in Cal., II, 10, quando Calandro è pronto per andare da Santilla in
segreto: la frase “Fatti alla finestra.”97 indica questa differenza, questo confine tra
‘dentro’e ‘fuori’ per ambedue i sessi.
Che la strada non è un luogo per una donna rispettabile, viene reso ancora più
chiaro nella scena Cal., III, 5. Nell’episodio precedente Fulvia decide di travestirsi per
avere così la libertà di movimento, un atto assai pericoloso per una donna. Prima di
agire Fulvia però raccomanda con intransigenza la serva Samia di non far entrare
qualcuno: “Tu, Samia, su l’uscio resta: né lassar fermarcisi alcuno, acciò che io, a
l’uscire di casa, cognosciuta non fusse.”98 Fulvia non può rischiare di incontrare
qualcuno ( e specialmente Calandro oppure i suoi fratelli) perché non solo il suo
travestimento era illecito, ma già il fatto di uscire di casa da sola era proibito: il marito
non avrebbe potuto controllare se la pudicizia della moglie fosse stata violata per strada.
Si può considerare l’onore femminile la tematica più importante dell’atto finale: in
queste scene Calandro scopre attraverso i suoi fratelli che Fulvia ha portato l’amante in
casa, il quale si maschera con i panni femminili. Per forza l’umiliato marito deve agire
contro una tale vergogna immensa e decide di ammazzare l’uomo che lo avvilisce,
96
Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).
Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.
217. Moncallero indica che l’attitudine positiva del Bibbiena verso la donna e l’amore potrebbe essere
stata influenzata dal Castiglione, scrittore de Il Cortegiano (pubblicato nel 1528) e l’atmosfera alla corte
urbinate.
97
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 50.
98
Ibidem, pp. 59.
42
come racconta la serva di Fulvia, Samia in Cal., V, 4: “Li fratelli di Calandro hanno
trovato Lidio tuo con Fulvia e mandato per Calandro e per li fratelli di lei , che
venghino a casa per svergognarla; e forse poi uccideranno Lidio.”99 I pensieri temuti
paiono diventare realtà, finalmente è stato scoperto l’inganno da Calandro. Fulvia
invece, illusa dalle parole fuorvianti del negromante Ruffo, spera che la magia possa
salvare i due amanti, come viene spiegato di nuovo da Samia, che ha il ruolo di
annunciatrice: “Perché Fulvia pensa, prima che Calandro e li fratelli di lei si trovino ed
a casa arrivino, che il negromante lo faccia di nuovo femina; e cosí levar la vergogna a
sé e il periculo a Lidio. Ove che, se esso fuggendo si salvasse, Fulvia vituperata resteria.
Però, volando, mi manda al negromante per questo conto. Addio.”100 Nella cieca
speranza che la magia abbia davvero la capacità di trasformare il sesso, Fulvia manda la
serva al negromante, la quale per fortuna incontra l’astuto Fessenio che trova la
soluzione: egli si è accorto che ambedue i gemelli si trovano a Roma, e con acutezza sa
mettere Santilla al posto di Lidio, e di conseguenza si ritrova una vera ragazza nella
stanza. Gli amanti si salvano, mentre Calandro viene umiliato per una seconda volta.
Così l’astuzia femminile vince per una beffa, il marito scimunito viene ridicolizzato
ancora di più, causa di allegria per sua moglie in Cal., V, 6: “E il fine del periculo
presente mi porta incredibile iocundità; perché, non pur ha salvato l’onore a me e la vita
a Lidio, ma sarà cagione che con lui potrò essere più spesso e più facilmente. Chi ora è
di me più lieto non deve essere mortale.”101 Allo stesso momento Calandro suppone
ancora che Fulvia abbia in camera un uomo: “E vi meno perché vediate l’onore che l’ha
fatto a voi e a me. E, poi che l’arò tutta pesta, menatela a casa il diavolo, perché non
voglio in casa questa vergogna.102 Di nuovo ci si riferisce alla casa come spazio
onorevole: per togliere la vergogna Calandro deve entrare nella stanza e per forza
uccidere l’amante e punire la moglie, cosicchè la casa è nuovamente un luogo puro. Per
l’astuzia di altre persone la faccenda fallisce, come riassume Fessenio in Cal., V, 11:
“Oh! oh! oh! bella cosa! Credevon mò, sotto abito di donna, trovare un garzone che con
Fulvia si solazzassi; e volevan uccidere lui e vituperar lei. Ma, trovato che è fanciulla,
tutti si sono rasserenati, tenendo Fulvia la piú pudica donna del mondo. Ed ella con
onore ed io con estrema letizia resto. Santilla, da loro licenziata, tutta contenta fuor ne
99
Ibidem, pp. 90.
Ibidem, pp. 90.
101
Ibidem, pp. 92.
102
Ibidem, pp. 92.
100
43
viene. Vedi anche là Lidio.”103 La beffa salva, rimandando a Boccaccio, la pudicizia
femminile e ridicolizza l’uomo: in maniera giocosa il Bibbiena tratta una tematica
contemporanea, scherzando con i valori della società senza nuocerli completamente. E
così, nell’agnizione finale, viene ritrovata la stabilità sociale ed il Bibbiena procura per
la sua commedia un lieto fine.
103
Ibidem, pp. 94.
44
Conclusioni
La nostra opera principale di questa tesi di laurea, La Calandria di Bernardo Dovizi da
Bibbiena, è costrutto in forma di ‘trompe-l'œil’, ossia una commedia vertiginosa in cui
niente non è più quello che pare. Attraverso vari travestimenti, sia maschili che
femminili, lo scrittore ci mostra un capovolgimento completo della realtà, in cui è
difficile seguire ad esempio il vero sesso dei protagonisti con il loro continuo
mascheramento. Con questo pensiero in mente abbiamo foggiato la nostra domanda
basilare, che è stata in questa sede la seguente: come sopravvive la veste femminile in
questo flusso ininterotto di scambi sessuali?
Per rispondere a questa domanda è utile, prima di prendere in considerazione le
analisi più dettagliate che riguardano le protagoniste femminili de La Calandria ed in
modo specifico Fulvia, tener conto del sostegno concesso da Franco Ruffini (1986)104:
nella sua ricerca Ruffini mostra più di una volta che l’opera del Bibbiena è un
meccanismo nel contempo euristico e conoscitivo, non una semplice commedia
prevedibile. La Calandria è la soluzione per il problema della commedia antica I
Menaechmi di Plauto, con l’introduzione del meccanismo del travestimento bisessuale
il Bibbiena ha saputo far funzionare la trama non sempre efficiente. Ruffini constata che
il contenuto ed i personaggi in sé hanno uno scarso valore rispetto al meccanismo di
base, sul quale è basato l’intreccio. Il travestimento femminile, secondo Ruffini, non è
più che un intervento del Bibbiena, infatti è in primo luogo un meccanismo culturale,
che riesce così a far funzionare il congegno ed a collegarsi allo stesso tempo con la
tematica ed il lessico de Il Decamerone (1351) boccaccesco, del resto sfondo letterario
della maggior parte della produzione comica cinquecentesca.
Nella presente tesi di laurea abbiamo guardato ai protagonisti femminili de La
Calandria: come si sviluppano e quanto contribuisce il loro mascheramento allo
sviluppo personale? Prima di tutto salta all’occhio il ruolo principale che il Bibbiena
ha assegnato al sesso muliebre nella sua opera: i personaggi femminili sono capaci di
agire in modo autonomo, nonostante la loro posizione inferiore rispetto all’uomo. La
disuguaglianza sessuale è un dato di fatto storico, che rispecchia anche l’epoca del
Bibbiena stesso. La purezza e la castità femminile è una norma con un valore
estremamente alto, la quale allo stesso tempo proibisce alla donna di partecipare al
104
Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna,
Il Mulino, 1986.
45
mondo esterno e le impone il silenzio. L’autore rende molto chiara questa differenza
tra uomo e donna, senza attribuire alla donna meramente un ruolo passivo: questa
autonomia femminile la vediamo nei diversi soliloqui, perché il Bibbiena ha creato
una voce per l’altro sesso. I monologhi di Fulvia e Santilla hanno un carattere
lamentevole, una tematica non a sé stante e già conosciuta in altre produzioni
letterarie 105, ma proprio perché durante questi soliloqui riconoscono la loro sorte
infelice, prendono la decisione di agire, che sfocia ad esempio nel travestimento in
uomo. Bisogna dire che questo vale a maggior ragione per la coraggiosa Fulvia, il cui
travestimento è volontario sì, mentre Santilla tende a reagire più pazientemente e
dunque più ad adeguarsi alle convenzioni “gender” imposte nella società
primocinquecentesca. Non ha altra scelta, perché il suo travestimento dura già da
anni, ed è costretto (in primo luogo, quando la commedia procede vediamo che anche
la ragazza sfrutta il mascheramento per trarne vantaggio e divertimento). Per tutte e
due vale che il mascheramento le provvede di una libertà di manovra che sarebbe
stata impensabile senza la veste maschile. Il Bibbiena sfrutta la tematica antica del
travestimento: infatti, puntando sul mascheramento bisessuale, crea nuove possibilità
per scene carnevalesche, che rendono la commedia originalmente di stampo antico
ancora più spiritosa e dunque più ‘moderna’. L’autore ci mostra un mondo capovolto,
ed attraverso questo rovesciamento dell’ordine quotidiano, esiste anche più spazio per
la tradizionale beffa sessuale. Proprio con il travestimento femminile il Bibbiena è in
grado di proporre l’aggancio con Boccaccio, sia per le tematiche che per il lessico. La
disuguaglianza sessuale rimane un fatto, ma nel capovolgimento continuo dei ruoli, lo
scrittore può trattare tuttavia questa tematica in maniera giocosa: ironicamente è la
donna che vince, attraverso la beffa femminile, ispirata da Il Decamerone
boccaccesco. Il travestimento è la salvazione di tutti quelli che sono coinvolto
nell’intreccio, e ridicolizza il personaggio scimunito di Calandro, l’unico a non
riconoscere i mascheramenti. Per sua moglie Fulvia, dopo la sua pericolosa avventura
in veste maschile, i vantaggi personali si sono ancora raddoppiati: il suo onore pare
rimanere rispettato, pare essere una donna pudica per il mondo esterno, ma allo stesso
tempo sa ingannare suo marito e commettere adulterio con l’amante Lidio. Si può
considerare “l’inganno” la parola chiave de La Calandria, che significa anche la
105
Come abbiamo evidenziato nel terzo capitolo la lamentatio è un elemento topico per protagonisti
femminile nel teatro rinascimentale. Cosentino, Paola. “Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia
drammatica e trattati sul comportamento.”Italique, n. 9, 2006, pp. 69-99, pp. 90.
46
salvazione della veste femminile: il sesso muliebre ha una voce autonoma nell’opera
bibbienesca. Attraverso l’inganno e l’astuzia la veste femminile sopravvive; anzi, con
il travestimento trionfa il meccanismo ironico del capovolgimento delle norme, ossia
la beffa, e così anche la donna, specchio scenico di tali potenze leggermente
sovversive nella società premoderna.
“La vittoria della Calandria è la sfida del futuro della commedia”106, così afferma
Ruffini. Ma come prosegue il futuro del teatro dopo La Calandria? Per una prossima
ricerca sarebbe interessante indagare un’opera di Niccolò Machiavelli (1469-1527), la
commedia la Mandragola (pubblicata per la prima volta nel 1524), della quale
palesiamo brevemente il contenuto in queste conclusioni. Possiamo considerare la
Mandragola una continuità dell’opera bibbienesca nel campo della moralità sessuale,
anche se bisogna tener conto del fatto che nelle due commedie esistono delle tematiche
reciproche, ma allo stesso tempo vi si trovano molte differenze. In primo luogo
vediamo che, come vale per La Calandria e viene evidenziato da Ruffini, anche la
Mandragola si fonda sull’antica tradizione plautino-terenziana, ma allo stesso tempo
non è neanche un calco puro e semplice: la base consueta del modello letterario fornisce
lo schema, ma gli scrittori ricostruiscono proprio su questa base delle commedie
moderne, con un forte ancoraggio con la situazione contemporanea. Anche Antonio
Stäuble (2004) punta su questa deviazione del teatro antico, per indicare l’esclusività
dell’opera:
La Mandragola utilizza schemi tradizionali per affermare la propria singolarità; e ciò vale non solo per la
struttura e per la trama, ma anche per i singoli protagonisti, che devono tutti qualcosa alla tradizone del
teatro plautino-terenziano ed alla novellistica medievale, ma se ne distaccano per alcuni tratti che ne
assicurano l’originalità.107
Come nella commedia del Bibbiena, viene utilizzato nella Mandragola machiavelliana
il tema del travestimento. Vediamo come il protagonista Callimaco è innamorato di
Lucrezia, moglie dello scimunito dottore in legge messer Nicia, che desidera da anni
avere figli. Aiutato dal servo Siro e dall'astuto amico Ligurio, Callimaco, travestito da
medico, riesce a convincere messer Nicia che l’unico modo per avere figli sia quello di
106
Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna,
Il Mulino, 1986, pp. 172.
107
Machiavelli, Niccolò. Mandragola, a.c.d. Antonio Stäuble, Firenze, Franco Cesati, 2004, pp. 32.
47
offrire alla moglie una pozione di mandragola, la soluzione contro la sterilità, ma il
primo che avrà rapporti con lei purtroppo morirà. Messer Nicia non vuole morire, ma
neanche lasciare giacere un altro uomo con la sua pudica Lucrezia. Ligurio riesce
tuttavia a convincerlo, e sceglierà a caso un ragazzo che deve “morire” al posto di
Nicia. Naturalmente Ligurio ha pensato all'amico Callimaco, che non vuol fare altro che
passare una notte con Lucrezia: infatti non vi sarà nessuna vittima, ma sarà lo stesso
Callimaco a travestirsi da tale. Callimaco viene portato da messer Nicia stesso a casa e
messo nel letto, per essere sicuro che non scappa. Lucrezia accetta, che nel frattempo è
stata convinta a consumare il rapporto adulterino da fra' Timoteo. Ad un certo momento
scopre l’identità di Callimaco, che le dichiara il suo amore, e Lucrezia decide alla fine
di diventare sua amante.
Il ruolo di Lucrezia sembra minore rivoluzionario rispetto a quello di Fulvia ne
La Calandria, e al contrario della ricca padrona romana, è una donna onesta e casta.
Ma, come evidenzia Stäuble108, la Mandragola è la commedia della convinzione e della
retorica, e anche Lucrezia infine cede alle parole del frate. E qui vediamo un
parallelismo con Fulvia della commedia urbinate: se anche lei è ‘malmaritata’, tutte e
due traggono nonostante tutto vantaggio dai loro mariti stupidi:
La sua metamorfosi ne fa invece, come abbiamo visto, un personaggio autonomo, una delle più
significative incarnazioni del nuovo ruolo che il teatro cinquecentesco assegnerà ai personaggi femminili;
ci sembra infatti che essa dia al topos tradizionale della ‘malmaritata’ una nuova, più sfumata
dimensione, divenendo così un’ “antenata” di figure come Oretta nell’Assiuolo di Cecchi, Jacinthia
nell’anonima Ardelia o Carubina nel Candelaio di Giordano Bruno.109
La loro situazione dà loro la possibilità di sfruttarla, di commettere adulterio senza che
Calandro o messer Nicia scoprino qualcosa. Infatti, messer Nicia è pure contento
quando vede il cambiamento nella moglie, che ha passato felicemente la notte con “un
povero conosciuto”, alias il suo amante Callimaco: “(…) per menarti in santo, perché
gli è proprio, stamane, come se tu rinascessi (Man., V, 5)”110.
Possiamo dire che il Bibbiena introdusse nella commedia rinascimentale con il
perfezionare del travestimento femminile una nuova moralità sessuale, ispirata da
Boccaccio. Questa tematica viene seguita ed adattata in altre opere teatrali, come ad
108
Ibidem, pp. 21.
Ibidem, pp. 33.
110
Ibidem, pp. 127.
109
48
esempio la Mandragola di Machiavelli: se la donna esce vittoriosa nella trama comica,
la beffa e l’inganno fanno la parte del leone, come due meccanismi narrativi nella tipica
rappresentazione, a forma di specchio comico, della società contemporanea.
49
Supplemento A: Corpus
Cal., II,1:
Lidio femina, Fannio servo e la Nutrice.
LIDIO FEMINA Assai è manifesto quanto sia miglior la fortuna degli uomini che
quella delle donne. Ed io ho più che l’altre per prova cognosciuto: per ciò che, da quel
giorno in qua che Modon nostra patria fu arsa da’ turchi, avendo sempre io vestito da
maschio e Lidio chiamatomi (che così nome avea el mio suavissimo fratello),
credendosi sempre ognun che io maschio sia, ho trovato venture tali che ben ne son stati
li fatti nostri; ove che, se io nel vestire e nel nome mi fussi mostro essere donna, come
sono in fatto, né il turco di cui eravamo schiavi ce aria venduti né Perillo riscossici, se
saputo avesse che io femina fusse, onde in miserabil servitù sempre ci conveniva stare.
Ed io or vi dico che, quando fussi maschio come son femina, sempre in tranquillo stato
ci viveremmo: per ciò che, credendosi Perillo, come sapete, che io maschio sia, e
fidelissimo nelli affarisuoi avendomi trovato sempre, me ama tanto che vuol darmi per
moglie Verginia unica figliuola sua e di tutti gli beni suoi farla erede. E, dicendomi el
nipote che Perillo vuol, doman o l’altro, io la sposi, per conferire la cosa con voi, mia
nutrice e teco, Fannio mio servo, fuora di casa me ne sono venuta; e piena di tanto
travaglio quanto io ben sento e voi pensar potete. E non so se…
FANNIO Taci, oimè! taci; a fin che costei, che afflitta verso noi viene, non attinga quel
che parliamo.
Cal., II, 5.:
Fessenio servo, Fulvia.
FESSENIO Voglio andare un poco da Fulvia, ché comparita su l’uscio la vedo, e
mostrarle che Lidio vuol partirsi per vedere come se ne risente.
FULVIA Ben venga, Fessenio caro. Dimmi: che è di Lidio mio?
FESSENIO Non mi pare quel desso.
FULVIA Eimè! Dí sú: che ha?
FESSENIO Sta pure in fantasia di partirsi per cercare Santilla sua sorella.
FULVIA Eh lassa a me! Vuol partirsi?
FESSENIO Ve è volto, in fine.
50
FULVIA Fessenio mio, se tu vuoi l’util tuo, se tu ami il ben di Lidio, se tu stimi la
salute mia, trovalo, persuadilo, pregalo, stringilo, suplicalo che per questo non si parta,
perché io farò per tutta Italia cercar di lei; e, se avvien che si ritrovi, da mò, Fessenio
mio, come t’ho detto altre fiate, li do la fede mia che io la darò per moglie a Flaminio
mio unico figliuolo.
FESSENIO Vuoi che cosí gli prometta?
FULVIA Cosí ti giuro e cosí mi obligo.
FESSENIO Son certo che volentieri l’udirà perché è cosa da piacergli.
FULVIA Spacciata sono, se tu con lui non mi aiuti. Pregalo che salvi questa vita che è
sua.
FESSENIO Farò quanto mi commetti; e per servirti vo a trovarlo a casa ove ora si
trova.
FULVIA Non men farai per te, Fessenio mio, che per me.
FESSENIO Costei sta come pò; e, per Dio, ormai è d’aver compassione di lei. Fia bene
che Lidio oggi, da donna vestito come suole, venga da lei. E cosí farà perché non meno
lo desidera che costei. Ma far prima bisogna la cosa di Calandro. Ed eccolo che già
torna. Dirogli avere ultimato il fatto suo.
Cal., II, 7.:
Samia serva, Fulvia.
SAMIA Come va il mondo! Non è ancora un mese passato che Lidio, della mia padrona
ardendo, voleva ad ogni ora esser seco; e poi che vidde lei bene accesa di lui, la stima
quanto il fango. E, se a questa cosa remedio non si pone, certo Fulvia ci farà drento
error di sorte che tutta la città ne sarà piena. E ho fantasia che li fratelli di Calandro, fin
da mò, alcuna cosa non abbino spiato, perché altro non stima, altro non pensa e d’altro
non ragiona che di Lidio. Bene è vero che chi ha amore in seno sempre ha li sproni al
fianco. Or voglia il cielo che a bene ne esca.
FULVIA Samia!
SAMIA Odila che di sopra mi chiama. Arà dalle finestre visto Lidio, ché là lo vedo
parlare con non so chi. O forse vorrà rimandarmi a Ruffo.
FULVIA Saaamia!
SAMIA Veeengo.
51
Cal., II, 8.:
Lidio femina, Fannio servo.
LIDIO FEMINA Cosí t’ha detto Tiresia?
FANNIO Sí.
LIDIO FEMINA E del parentado mio come di cosa conlusa si parla in casa?
FANNIO Cosí sta.
LIDIO FEMINA E Virginia ne è lieta?
FANNIO Non cape in sé.
LIDIO FEMINA E si preparano le nozze?
FANNIO Tutta la casa è in faccende.
LIDIO FEMINA E credeno che io ne sia contenta?
FANNIO Lo tengano per fermo.
LIDIO FEMINA Oh infelice Santilla! Quel che ad altri giova solo a me nuoce. Le
amorevolezze di Perillo e della moglie verso me mi sono acutissimi strali per non poter
fare el desiderio loro né quel che sarebbe il ben mio. Deh! me avesse Dio dato per luce
tenebre, per vita morte e per cuna sepultura allor che io del materno ventre uscii; da che,
in quel punto che io nacqui, morir dovea la ventura mia. Oh sanza fin beato, fratello
dulcissimo, se, come io credo, nella patria morto restasti! Or che farò io, meschina
Santilla? ché cosí omai chiamar mi posso, e non piú Lidio. Femina sono, e conviemmi
esser marito! Se io sposo costei, subito cognoscerà che io femina e non maschio sono;
e, da me scornati, el padre e la madre e la figlia mi porriano farmi uccidere. Negar di
sposarla non posso; e, se pur niego di farlo, sdegnati, a casa maladetta me ne
manderanno. Se paleso esser femina, io medesima a me stessa fo il danno. Tener cosí la
cosa non posso. Misera a me! ché, da uno lato, ho il precipizio; da l’altro, e’ lupi.
FANNIO Non te disperare, ché forse e’ cieli non te abbandoneranno. A me par che si
segua el parer tuo di non te lassar trovare oggi da Perillo; e lo andare da colei viene a
proposito; e io li panni da donna, per vestirti, ho in ordine. Chi scampa d’un punto ne
schiva mille.
LIDIO FEMINA Ogni cosa farò. Ma dove è quel Ruffo?
FANNIO Rimanemo che chi prima arrivava l’altro aspettassi.
LIDIO FEMINA Meglio è che Ruffo aspetti noi. Leviamoci di qui, perché colui che è là
non ci veda, se fusse alcuno che per ordine di Perillo me cercasse: se ben de’ sua non
mi pare.
52
Cal., II, 10.:
Calandro, Fulvia.
CALANDRO Fulvia! o Fulvia!
FULVIA Messer, che vuoi?
CALANDRO Fatti alla finestra.
FULVIA Che c’è?
CALANDRO Vuoi altro? Io vo insino in villa, ché Flaminio nostro non si consumi
drieto alle cacce.
FULVIA Ben fai. Quando tornerai?
CALANDRO Forse stasera. Fatti con Dio.
FULVIA Va in pace, col mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li frategli
miei! che mi fa venire angoscia pure a vedello.
Cal., III, 5.:
Samia serva, Fulvia.
SAMIA Ti so dire che la va bene! ché né da Lidio né dallo spirito porto cosa che buona
sia. Questa è la volta che Fulvia si dispera. Vedila che appare su l’uscio.
FULVIA Tu sei stata tanto a tornare!
SAMIA No ho, prima che or ora, trovato Ruffo.
FULVIA Che dice?
SAMIA Niente, pare a me.
FULVIA Pure?
SAMIA Che lo spirito gli ha risposto…. Oh! come diss’egli? Non me ne ricordo.
FULVIA Sia col malanno, cervel d’oca.
SAMIA Oh! oh! oh! Io me ne ricordo. Dice che gli ha risposto anghibuo.
FULVIA Ambiguo, vuoi dir tu.
SAMIA A quel modo, sí.
FULVIA Non dice altro?
SAMIA Che di nuovo lo pregherrà.
FULVIA Altro?
SAMIA Che, volendo servirti, verrà a dirtelo subito.
53
FULVIA Misera a me! Che non ne sarà nulla. Ma Lidio?
SAMIA FA quel conto di te che delle scarpe vecchie.
FULVIA Ha’ lo trovato?
SAMIA E parlatoli.
FULVIA Dimmi, dimmi: che c’è?
SAMIA L’arai per male?
FULVIA Oimè! che c’è? Dí sú.
SAMIA In fin, e’ par che non te cognoscessi mai.
FULVIA Che mi di’ tu?
SAMIA Cosí sta mó.
FULVIA A che il comprendesti?
SAMIA Mi rispose in modo che mi fé paura.
FULVIA Forse finse burlare teco.
SAMIA Non m’aría svillaneggiata.
FULVIA Non sapesti forse dire.
SAMIA Meglio non m’imponesti.
FULVIA Era forse accompagnato.
SAMIA Lo tirai da parte.
FULVIA Forse parlasti troppo forte.
SAMIA Quasi all’orecchio.
FULVIA In fin, che ti disse?
SAMIA Mi scacciò da sé.
FULVIA Dunque, più non mi ama?
SAMIA Né ti ama né ti stima.
FULVIA Cosí credi?
SAMIA Ne son certa.
FULVIA Lassa me! che odo io?
SAMIA Tu intendi.
FULVIA E di me non ti domandò?
SAMIA Anzi, disse non saper chi tu fussi.
FULVIA Dunque, m’ha dismenticata?
SAMIA Se non te odia pur, bene ne vai.
FULVIA Ahi cieli avversi! Certo, or cognosco lui spietato e me misera. Ahi quanto è
trista la fortuna della donna! e come è male appagato lo amore di molte nelli amanti!
54
Ahi trista me! che troppo amai. Lassa! che ad altri tanto mi diedi che non sono più mia.
Deh, cieli! perché non fate che Lidio me ami come io lui amo? o che io fugga lui come
esso me fugge? Ahi crudel! che chiedo io? Disamar e fuggir Lidio mio? Ah! certo,
questo né far posso né voglio; anzi, penso io stessa trovarlo. E perché non mi è lecito da
omo vestirmi una sol volta e trovar lui, come esso da donna vestito, spesso è venuto a
trovar me? Ragionevol è. Ed egli è ben tale che merita che questa e maggior cosa si
faccia per lui. Perché far nol devo? perché non vo? perché perdo io la mia giovinezza?
Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua giovinezza in
vano. Fresca sta chi crede, in vecchiezza, ristorarla. Quando troverrò io un amante cosí
fatto? quando arò io tempo andarlo a trovare, come al presente, che egli è in casa e che
il moi marito è di fuora? chi mel vieta? chi mi tiene? Certo, sí farò, ché ben mi accorsi
che Ruffo interamente non si confidava disporre lo spirito per me. Li ministri non
operano mai bene come colui a cui tocca; non eleggono il tempo commodo; non
mostrano lo effetto de l’amante. Se io da lui vo, vedrà le mie lacrime, sentirà e’mie’
lamenti, udirà e’mie’ preghi. Or butteromegli ai piedi, or fingerò morire, or al collo le
braccia li circunderò: e come sarà mai sí crudele che a pietà di me non si mova? Le
parole amorose, per li orecchi dal core ricevute, hanno più forza che stimar non si può e
alli amanti quasi ogni cosa è possibile. Cosí spero; cosí far voglio. Or da omo a vestir
mi vo. Tu, Samia, su l’uscio resta: né lassar fermarsici alcuno, acciò che io, a l’uscire di
casa, cognosciuta non fusse. Tutto farò subito.
Cal., III, 6.:
Samia serva, Fulvia.
SAMIA Oh povere e infelici donne! a quanto male siamo noi sottoposte quando ad
Amore sottoposte siamo! Ecco, Fulvia, che già tanto prudente era, ora di costui accesa,
non cognosce cosa che si faccia. Non possendo aver Lidio suo, a trovarlo va vestita da
omo; sanza pensar quanti mali avvenir ne potriano, quando mai si sapesse. Forse ch’ella
non è bene appagata? che ha dato a costui la robba, l’onore e la carne; ed esso tanto la
stima quanto il fango. Ben semo noi tutte sventurate. Eccola che già ne viene da omo
vestita. Parti che l’abbia fatto presto?
FULVIA Tu intendi. Vo a trovar Lidio. Tu resta qui; e tien l’uscio serrato, mentre che
io vo e torno.
SAMIA Così farò. Guardo come va!
55
Cal., III, 7.:
Fulvia sola.
FULVIA Nulla è, certo, che Amore altri a fare non costringa. Io, che già sanza
compagnia a gran pena di camera uscita non sarei, or, da amor spinta, vestita da uomo
fuor di casa me ne vo sola. Ma, se quella era timida servitù, questa è generosa libertà. A
casa sua, benché alquanto discosto sia, me ne dirizzo, ché ben so dove sta. E farò là
sentirmi, ché far lo posso; perché altri non vi è che la sua vecchiarella a forse anche
Fessenio, a’ quali tutto è noto. Nessuno mi conoscerà: onde questa cosa non si saprà già
mai; e, se pur si dovessi sapere, egli è meglio fare e pentirsi che starsi e pentirsi.
Cal., III, 8.:
Samia sola.
SAMIA Ella va a darsi piacere; e dove io la biasmava, or la scuso e laudo perché chi
amor non gusta non sa che cosa sia la dolcezza del mondo ed è una bella bestia. So ben
io che altro ben non sento, se non quando mi trovo col moi amante Lusco spenditore.
Semo in casa soli ed egli è nella corte. Meglio è che, cosí drento all’uscio serrato, ci
sollazziamo insieme. La padrona m’insegna che anch’io mi dia bel tempo. Matto è chi
non sa pigliare e’ piaceri quando può averli con ciò sia che il fastidio e la noia, sempre
che altri ne vuole, sieno apparecchiati. Luuusco!
Cal., III, 12.:
Fulvia, Calandro.
FULVIA Oh valente marito! Questa è la villa dove andar dicevi? Ah questo modo, ah?
Non hai da far tanto a casa tua che tu vai sviandoti altrove? Misera me! A chi porto io
tanto amore? a chi tanta fede servo? Or so perché, le notti passate, non mi ti sei mai
appressato: come quello che, avendo a scaricare le some altrove, volevi arrivare fresco
cavalieri in battaglia. In fede mia, non so come io mi tengo che io non ti cavi gli occhi.
E forse che non pensavi ascosamente farmi questo inganno? Ma, per mie’ fé, tanto sa
altri quanto tu. E, a questa ora, in questo abito, d’altri non fidandomi, io propria son
venuta per trovarti. E cosí ti meno, come tu sei degno, sozzo cane, per svergognarti e
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perché ognuno prenda compassione di me che tanti oltraggi da te sopporto, ingrato! E
pensi tu, dolente, se io rea femina fussi come tu reo omo sei, che modo mi mancasse da
sollazzarmi con altro come tu con altra ti sollazzi? Non credere: perché io né sí vecchia
né sí brutta sono che rifiutata fussi, se più a me stessa che alla tua gaglioffezza rispetto
non avessi avuto. Vivi sicuro che ben vendicata mi sarei contro a colei che a canto ti
trovai. Ma va pur lá. Non abbia mai cosa che mi piaccia, se non te ne pago e di lei non
mi vendico.
CALANDRO Hai finito?
FULVIA Sí.
CALANDRO Col mal anno, lassa che mi corrucci io, non tu, dispettosa! ché m’hai
cavato del paradiso mondano e toltomi ogni moi sollazzo. Fastidiosa! Tu non vali le
scarpette vecchie sue, che la mi fa più carezze e meglio mi bacia che tu non fai. Ella mi
piace più che la zuppa del vin dolce; e luce più che la stella Diana; e ha più
magnificenzia che la Quintadecima; e è più astuta che la fata Morgana. Sí che tu non te
l’aresti inghiottita, no, malvagia femina che tu sei! E se tu mai le fai male, trista a te!
FULVIA Orsú! Non più! In casa, in casa. Apri. Olà! Apri.
Cal., III, 14.:
Fulvia, Fessenio servo, Samia serva.
FULVIA Guarda, Fessenio mio, se io sgraziata sono! ché in loco di Lidio, trovai questa
bestia di mio marito, col quale mi son però salvata.
FESSENIO Tutto ho visto. Tirati più drento, ché altri in questi panni non ti veda.
FULVIA Ben ricordi. El gran disio d’esser con Lidio in modo mi accecò che più oltre
non pensai. Ma dimmi, Fessenio caro: hai trovato Lidio mio?
FESSENIO Corre il sangue ov’è la percossa. Ho.
FULVIA Sí?
FESSENIO Sí.
FULVIA Be’ Fessenio mio: che dice? Dimmi.
FESSENIO Non partirà cosí presto.
FULVIA Doh Dio! Quando potrò io parlar seco?
FESSENIO Forse anche oggi; e, quando con Calandro ti vidi, a lui me ne andavo per
disporlo a venire da te.
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FULVIA Fallo, Fessenio mio, ché buon per te! E la vita mia te raccomando.
FESSENIO Farò tutto perché a te venga; e a lui ne vo. Resta in pace.
FULVIA In pace eh? In guerra e in lamenti resterò io. Tu alla pace mia vai, ché a Lidio
vai.
FESSENIO Addio.
FULVIA Fessenio mio, torna presto.
FESSENIO Cosí farò.
FULVIA Ahi infelice Fulvia! Se io cosí troppo sto, certo io me morirò! che far devo?
SAMIA Forse lo spirito lo moverà.
FULVIA Deh! Samia, poi che il negromante sta tanto a venire, torna a ritrovarlo.
SAMIA Cosí mi pare; e non ci voglio perder tempo.
FULVIA Raccomandagli questa cosa. E torna presto.
SAMIA Subito che l’ho trovato.
Cal., III, 22.:
Fessenio servo, Fulvia.
FESSENIO Or sei tu fuor di passion, madonna mia.
FULVIA Come?
FESSENIO Lidio è per te in maggior fiamma che tu per lui. Non prima gli dissi quanto
me imponesti che in ordine si misse; e a te ne viene.
FULVIA Fessenio mio, questa è nuova da altro che da calze! e certo ben ti ristorerò.
Odi, di sopra, che Calandro domanda i panni per uscir fuori. Tira via, ché meco non te
veda. Oh che commodità! oh che piacere mi fa! Ogni cosa comincia andarmi prospera.
Lassami spingere fuora questo uccellaccio acciòche io libera resti.
FESSENIO Ti so dir che questi amani ristoreranno il tempo perso. E, se Lidio fia savio,
doverrà ben fermarla alla cosa di sua sorella, se mai si ritrovassi. Calandro non sarà in
casa. Hanno viso per grande spazio sollazzarsi insieme. Io posso andarmi a spasso. Ma
oh! oh! oh! Vedi Calandro che vien fuora. Lassami discostar di qui perché, fermandosi
a parlare qui meco, potria veder Lidio che omai deve arrivare.
Cal., IV, 1.:
Fulvia, Samia serva.
58
FULVIA Samia! o Samia!
SAMIA Madoonna!
FULVIA Vien giú presto.
SAMIA Io veengo.
FULVIA Muoviti, trista ti faccia Dio! Muoviti!
SAMIA Eccomi: che vuoi?
FULVIA Va via or ora, truova Ruffo dello spirito e digli che venga a me subito.
SAMIA Vo sú pel velo.
FULVIA che velo? Bestia! Tira via cosí; vola.
SAMIA Che diavol vuol dir tanta rabbia? E’ mi par che l’abbia il dimonio in corpo. E
pur Lidio dovverria avergliene cavato.
FULVIA Oh fraudolenti spiriti! oh sciocche umane menti! oh ingannata e infelice
Fulvia, che, non pur te sola offeso hai, ma ancor chi più che te stessa ami! Misera a me,
che ho quel che cercai e trovato quel che non volea! onde, se lo spirito remedio non ci
pone, de uccidermi sono disposta; perché manco amara è una voluntaria morte che una
angoscia vita. Ma ecco Ruffo. Presto saperrò se sperar o disperar mi debbo. Nissuno
appare. Meglio è parlarli qui perché in casa, le panche, le sedie, le casse, le finestre
stimo che abbino li orecchi.
Cal., IV, 2.:
Ruffo negromante, Fulvia.
RUFFO Che c’è, madonna?
FULVIA Le lacrime mie, assai più che le parole, mostrar ti possono la passion ch’io
sento.
RUFFO Parla: che cosa è questa? Fulvia, non pianger. Madonna, che hai?
FULVIA Io non so, Ruffo, se o della ignoranzia mia o de l’inganno vostro doler mi
devo.
RUFFO Ah madonna! Che è quel che tu di’?
FULVIA O il cielo o il peccato mio o la malignità dello spirito che stato si sia, non so;
ma, una volta, voi avete, oimè! di maschio in femina converso Lidio mio. Tutto l’ho
maneggiato e tocco; né altro del solito che la presenzia in lui.Ed io non tanto la
privazion del mio diletto piango quanto el danno suo; ché, per me, privo si trova di quel
59
che più si brama. Or hai la cagion di queste lacrime e per te comprender puoi quel che
io da te vorrei.
RUFFO Se, Fulvia, il pianto, che mal finger si può, testimonio di ciò non mi facessi, a
gran pena ti crederrei. Ma, stimando che vero sia, pensa che di te sola doler ti puoi
perché io mi ricordo che tu domandasti Lidio in forma di donna. Penso ora che lo
spirito, per più compiutamente servirti, e nel sesso e ne l’abito di donna ha mandato a te
lo amante tuo. Ma poni fine al dolor tuo perché chi femina l’ha fatto ancor maschio può
rifarlo.
FULVIA Tutta consolar mi sento, parendomi che il fatto passato sia come tu di’. Ma, se
tu Lidio mio intero mi rendi, li denari, la robba e ciò che io ho fia tuo.
RUFFO Or che so che lo spirito essser ben volto verso te, ti dico chiaramente che lo
amante tuo tornerà maschio subito. Ma, per più non equivocare, dí chiaro quel che vuoi.
FULVIA La prima cosa, che se li renda il coltel della guaina mia, intendi?
RUFFO Benissimo.
FULVIA E che in abito, non in sesso da donna torni a me.
RUFFO Se cosí staman parlavi, non seguiva questo errore: del quale ho però piacere
perché tu cognosca quanta sia la potenzia del mio spirto.
FULVIA Tra’mi presto di questa angoscia; ché, s’io nol vedo, non posso rallegrarmi.
RUFFO Non solo il vedrai, ma con mano il toccherai.
FULVIA E tornerà oggi da me?
RUFFO Sono ormai venti ore e poco teco stare potria.
FULVIA Non mi curo dello stare, pur ch’io veda che maschio sia.
RUFFO E come può non bere chi assetato si trova al fonte?
FULVIA Verrà, dunque, oggi?
RUFFO Lo spirto tel farà venire subito, se vuole. Statti, dunque, avvertente in su
l’uscio.
FULVIA Non bisogna questo, perché, venendo da donna, in presenzia d’ognuno può
mostrarsi; perché non è chi per maschio il conosca.
RUFFO Basta.
FULVIA Ruffo mio, vivi lieto, ché mai più povero sarai.
RUFFO E tu non più scontenta.
FULVIA E quanto posso aspettarlo?
RUFFO Subito che sarò in casa.
FULVIA Ti manderò drieto Samia perché tu me avvisi quel che te ne dice lo spirito.
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RUFFO Fa tu. E ricordati che anche lo amante si presenti spesso.
FULVIA Oh! oh! Non curare, ché arà denare e gioie a iosa.
RUFFO Resta in pace. Con ragione Amor si dipinge cieco perché chi ama mai il ver
non vede. Costei è per amor accecata sí ch’ella s’avvisa che uno spirito possa fare una
persona femina e maschio a posta sua: come se altro fare non bisognasse che tagliare la
radice de l’uomo e farvi un fesso, e cosí formare una donna; e riuscire la bocca da basso
e appiccare un bischero, e cosí fare un maschio. Oh! oh! oh! amatoria credulità Oh! oh!
Ecco Lidio e Fannio già spogliati.
Cal., IV, 5.:
Lidio femina sola.
LIDIO FEMINA Oh infelice sesso femminile, che, non pure alle opere, ma ancora ai
pensieri sottoposto sei! Dovendo femina mostrarmi, non sol far ma pensar cosa non so
che riuscir mi possa. Deh misera me! Che debb’io fare? Dovunche io mi volto, dalle
angosce tanto circundata mi trovo che loco non vedo onde salvar mi possa. Ma ecco di
qua la serva di Fulvia che con uno parla. Discosteromi fin che passa.
Cal., V, 6.:
Fulvia sola.
FULVIA Travaglio è certo stato per me in questo giorno; ma ringrazio il cielo che di
tutti li accidenti felicemente uscita sono. E il fine del periculo presente mi porta
incredibile iocundità; perché, non pur ha salvato l’onore a me e la vita a Lidio, ma sarà
cagione che con lui potrò essere più spesso e più facilmente. Chi ora è di me più lieto
non deve essere mortale.
Cal., V, 8.:
Calandro, Fulvia.
CALANDRO Tu sei qui, malvagia femina? ed hai animo di aspettarmici, sapiendo che
m’hai fatte le corna? Non so come io mi tenga che io non ti tragga la vita del corpo. Ma
prima voglio uccidere, a’ tua occhi veggenti, colui che tu hai in camera, ribalda! E poi,
con le mie mani, a te cavar gli occhi della testa.
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FULVIA Oimè, marito mio! Mò chr cosa è quella che te muove a fare me rea femina,
che non sono, e te crudele omo, ove fin qui non fusti mai?
CALANDRO Oh svergognata! Ancor hai ardir di parlare? Come se noi non sapessimo
che in camera hai, vestito da donna, lo amante tuo!
FULVIA Fratelli miei, costui cerca che vi faccia palese quel che io ho sempre ascoso:
cioè la pazienzia mia e li oltraggi che, tuttodí, mi fa questo fastidioso; ché non è moglie
sí fedele né peggio trattata come sono io. E che non si vergogna a dire che io li metto le
corna!
CALANDRO Sí, che gli è il vero, trista femina! E ora voglio mostrarlo a’ tuoi fratelli.
FULVIA Intrate e vedete chi io ho in camera e come questo fiero bacarozzo l’ucciderà.
Sú! venite.
62
Supplemento B: Bibliografia
Bibliografia primaria:
Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi,
1967.
Bibliografia secondaria:
d’Aragona, Tullia. Dialogue on the infinity of love. A.c.d. Rinaldina Russell, con
un’introduzione di Margaret L. King e Albert Rabil jr., The University of Chicago
Press, Chicago, 1997.
Ariosto, Ludovico. Commedie, volume primo. Milano, Biblioteca universale Rizzoli,
Rizzoli, 1962.
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