Voglia di Equità

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Voglia di Equità
VOGLIA DI EQUITÀ
Ilaria Boniburini e Chiara Durante
Resoconto di un workshop sull’equità e riflessioni sul tema.. Pubblicato
n Bartolini, S. et al (a cura di) Territori di Ricerca. Ricerche di Territorio.
Atti VIII Convegno Nazionale Rete Interdottorato in Pianificazione
Urbana e Territoriale del 20092010, Firenze: Alinea.
La scelta del tema
Nell’ipotesi di lavoro sull’equità piuttosto che partire da una
definizione univoca del concetto abbiamo preferito affidarci ad
un ventaglio di parole chiave con la funzione di richiamo ad
alcune questioni cardine e di spunto per la discussione
collettiva, nonché come guida per i dottorandi nella scelta del
workshop nel quale inserirsi. Le parole che abbiamo proposto
sono state le seguenti: bene comune, costruzione sociale,
etica, egemonia, identità, ecologia, processi di pianificazione
non istituzionali, diseguaglianza urbana, diritto alla città,
empowerment, qualità, partecipazione.
Tuttavia, implicitamente, il nostro punto di partenza è stato il
concetto di equità inteso, nell’ambito della pianificazione, come
la possibilità per tutti gli abitanti di fruire dei beni che
costituiscono la città e di partecipare al suo governo,
indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali e dal
potere di ciascuno, ma in base alle differenti esigenze,
includendo tutti i soggetti, ivi compresi i gruppi più
marginalizzati. Assumere l’equità in questo senso significa
attribuire alla pianificazione un obiettivo sociale ed enfatizzare il
ruolo politico, prima ancora di quello tecnico.
Alla base del desiderio di affrontare un tema così complesso
c’è la volontà di ricostruire dei percorsi di senso in cui l’equità
diventi chiave di lettura per molte delle questioni irrisolte
dell’attualità, esplicitando il ruolo di quelle disparità e ingiustizie
sociali che tendono ad essere attenuate, se non negate, dal
paradigma interpretativo dominante.
Le diseguaglianze di reddito, di distribuzione delle risorse e dei
benefici, rafforzano gli esistenti spazi di esclusione e ne creano
di nuovi, sia a livello globale che locale. Le diseguaglianze
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aumentano in termini di sfruttamento, marginalizzazione e
segregazione su base economica, sociale e razziale, in termini
di potere decisionale e di rappresentazione, così come
emergono nuove vulnerabilità sociali sotto l’effetto dei problemi
del mondo del lavoro, delle metamorfosi della condizione
salariale, della riduzione delle garanzie sociali e più
generalmente come risultato delle trasformazioni strutturali del
sistema socio-economico attuale.
I mutamenti investono l’economia - ora globalizzata,
liberalizzata, finanziarizzata - contrassegnata sempre più da
uno stile speculativo e predatorio e soggetta a periodiche crisi;
investono l’assetto politico-istituzionale, che nella prospettiva
di uno stato più snello e più moderno che "regola ma non
gestisce" vede la progressiva riduzione dell’intervento statale
nella ridistribuzione delle risorse e dei benefici sociali e
territoriali, il trasferimento di risorse e beni dal pubblico al
privato e il supporto all’accumulazione privata attraverso
politiche e interventi a rafforzamento dei diritti individuali
(proprietà privata in primis) a discapito della tutela
dell’interesse collettivo e di quello dei gruppi deboli.
Nel contesto della società capitalistica del welfare l’obiettivo
della giustizia sociale era largamente condiviso tant’è che, a
fianco dei diritti individuali di libertà e politici, si sono affermati i
diritti sociali che esprimono la maturazione di nuove esigenze e
nuovi valori, tra cui quello dell'uguaglianza non solo astratta,
ma anche in termini di servizi e benessere. Anche in Italia negli
anni Sessanta e Settanta una serie di parole d’ordine e di lotte
(e poi di conquiste) miravano a questo obiettivo: “diritto alla
città” (PCI, 1969), “casa come servizio sociale” (Indovina,
1972), accesso ai servizi e alle attrezzature collettive utili alla
vita quotidiana individuale e sociale (Salzano, 1969, UDI, 1964)
e non ultimo la partecipazione dei cittadini al governo della
città (Della Pergola 1974) quindi giustizia sociale non solo
come una questione di distribuzione di benessere, servizi,
opportunità, ma anche in termini di democrazia partecipativa
ed eliminazione delle strutture di dominazione e segregazione.
Il richiamo all’ecologia è un riferimento sia alle riflessioni di
Murray Bookchin (1989) che mirano a unificare le tematiche
ambientali, femministe e comunitarie con quelle sociali e a
stimolare un approccio antiautoritario, che di Wolfgang Sachs
(2002) che si riferisce ad un concetto di giustizia
intergenerazionale - proiettando sull’asse temporale il principio
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dell’equità nel rapporto tra le generazioni presenti e quelle
future – oltre che intragenerazionale.
La parola egemonia vuole richiamare sia la questione del
potere in generale, che stimolare una riflessione su alcune
definizioni dominanti di equità, giustizia sociale, uguaglianza
che tendono a circoscrivere la problematica attorno alla
ridistribuzione o ancora peggio a identificare nel mercato
l’agente supremo predisposto all’allocazione più “equa” delle
risorse. In contrapposizione a questa interpretazione si può
assumere l’uguaglianza come contrario di privilegio e non
come omologazione e massificazione (Zagrebelsky 2007), dal
momento che «trattare le persone con giustizia può implicare
un trattamento tra loro difforme e, d’altro canto trattarle come
se fossero tutte uguali non significa trattarle con giustizia»
(Lummis 1998, p.416).
La “voglia di equità” sembra porsi controcorrente rispetto alle
principali tendenze che hanno contrassegnato negli ultimi
decenni l’urbanistica. Questa ha privilegiato l’obiettivo
dell’efficacia della pianificazione rispetto a quello dell’equità
(Martinelli 2002), sulla scia di una politica che ha cercato di
raggiungere la “governabilità” riducendo lo spazio della
democrazia. Infatti la ricerca di accordi con la proprietà
immobiliare (che ha caratterizzato la pianificazione a partire
dalla spinta esercitata dalle aziende proprietarie di complessi
industriali che, per effetto della ristrutturazione dell’industria
manifatturiera, divenivano obsoleti e suscettibili di diversa
“valorizzazione economica”) è diventata un obiettivo delle
politiche urbane che hanno individuato l’efficacia nello stipulare
accordi remunerativi per i proprietari, rinunciando di
conseguenza ad assegnare priorità alle esigenze dei cittadini in
quanto tali e in particolare dei gruppi sociali più deboli.
Impostazione del workshop e riflessione sull’esperienza
Sulla base delle parole chiave individuate, abbiamo raccolto
una serie di richieste di partecipazione, ciascuna
accompagnata da una domanda che si riferiva alla ricerca di
dottorato e offriva nello stesso tempo un argomento specifico
di discussione intorno al tema dell’equità.
Ad una prima lettura ai coordinatori del workshop è sembrato
che i contributi fossero riconducibili a tre articolazioni del tema:
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equità come processo (accesso ai processi decisionali: la
questione dei soggetti e delle pratiche); equità come approccio
(dinamiche localizzative e plusvalore delle risorse ambientali);
equità come esito (qualità del paesaggio e progetto dello
spazio pubblico). Questa prima lettura, aveva lo scopo di aprire
i lavori, ed è stata utilizzata per raggruppare le presentazioni
dei dottorandi nel corso delle varie sessioni del workshop.
Dopo l’introduzione alle modalità del workshop e
l’autopresentazione dei partecipanti, nella prima e nella
seconda sessione si sono susseguite le relazioni delle
dottorande (eravamo tutte donne!), che nell’illustrare la
domanda avevano lo specifico obiettivo di esplicitare la sua
connessione con il tema dell’equità; a queste si sono alternati
gli interventi dei discussant (erano tutti uomini!), a cui è
spettato il compito di avviare la riflessione critica e
accompagnare la discussione con apporti di esperienze e
conoscenze relative a visioni culturali più ampie.
Nella terza e quarta sessione si sono articolati e sviluppati gli
spunti emersi dai primi due momenti di discussione, e si è
tentato di sistematizzare i ragionamenti attraverso lo strumento
delle parole chiave e la costruzione di una mappa mentale
capace di esprimere le relazioni tra i principali concetti ed
elementi del problema. In secondo luogo si è tentato di
orientare il lavoro successivo di scrittura dei contributi da
inserire negli atti del convegno.
La natura sperimentale di questo convegno interdottorato, che
attraverso la modalità del workshop ha scelto la via
dell’innovazione e la discontinuità con i sistemi consolidati, ha
creato alcune titubanze, molte aspettative e un generale
entusiasmo.
Volendo sfruttare appieno le potenzialità della nuova modalità
adottata, non si è voluto organizzare in maniera rigida e
precostituita il dibattito, ma lasciare che dalle esperienze
personali di ricerca emergessero problematiche, questioni
aperte, domande, perplessità teoriche e operative, e costruire
un percorso comune proprio a partire dalla confusione
generata da un tema che oltre ad essere complesso pone
interrogativi di natura etica e valoriale.
Tuttavia in corso d’opera ci siamo scontrati con la difficoltà di
gestire il processo di riflessione collettiva, principalmente a
causa di una carenza riguardante l’impiego di strumenti e delle
metodologie adatte allo scopo. Infatti il tentativo di contenere e
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focalizzare la discussione sugli aspetti dell’equità inerenti la
pianificazione non è completamente riuscito, così come lo
sforzo successivo di restituire i ragionamenti e le riflessioni in
una forma compiuta e razionale: il prodotto finale portato nella
sessione plenaria non è stato la mappa mentale come
nell’ipotesi iniziale ma una filastrocca, proposta in coda ai
contributi.
Può essere in parte legato a questo aspetto il fatto che solo
poche dottorande si siano misurate nei tempi previsti con la
scrittura a quattro mani, superando le difficoltà di ripercorrere
un discorso certamente sfaccettato e ricco di spunti, ma anche
molto frammentato e spesso carente delle coordinate teoriche
e dei riferimenti alla letteratura (che avrebbero agevolato la
ricostruzione a posteriori).
Dal nostro punto di vista un risultato sicuramente positivo sta
nella passione e nella partecipazione che hanno animato il
dibattito e che testimoniano la voglia e la necessità di discutere
e confrontarsi su concetti generali, sui principi e gli obiettivi
della pianificazione, oltre che sugli aspetti prettamente tecnicooperativi disciplinari.
Il contributo dei dottorandi al dibattito
La presentazione delle ricerche e delle domande dei
partecipanti ha stimolato il dibattito della prima giornata e
inserito nel ragionamento sull’equità nella pianificazione i primi
elementi su cui confrontarci; possiamo ricondurli a tre filoni
principali che si intersecano tra di loro: nel primo ci si interroga
sull’equità nella costruzione delle scelte che riguardano il
territorio attraverso processi partecipativi; nel secondo si
indaga il ruolo del planner tra attenzione alle pratiche informali
e responsabilità tecnica; nel terzo si affronta il tema della
partecipazione e dei beni comuni da una prospettiva territoriale
e ambientale.
Per quel che riguarda il primo nodo evidenziato, Rosa
Pascarella nel suo lavoro di ricerca si pone lo scopo di
analizzare in che modo gruppi dominanti all’interno della
struttura sociale, muovendosi al limite tra il formale e
l’informale, possano influenzare le scelte territoriali. Rispetto al
quadro generale di tale analisi, finalizzata essenzialmente ad
una valutazione dell’efficacia delle pratiche di pianificazione,
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l’aspetto sottoposto alla discussione si incentra sulle scelte
urbanistiche in quanto «espressione di un esercizio di potere
che cambia le modalità di distribuzione e di accesso alle
risorse e genera nuovi equilibri (o disequilibri) sociali». Si tratta
quindi di esaminare le modalità (teorie, strumenti, pratiche) con
cui il sistema di governo del territorio si rapporta ai diversi
attori coinvolti ed alla disuguaglianza di poteri che li
caratterizza.
Questo tipo di approccio al problema sollecita una domanda:
come dare la giusta considerazione anche alla costante e non
sempre esplicita ridefinizione dei rapporti tra interessi collettivi
ed interessi individuali (esemplificati dalla questione “classica”
della rendita fondiaria) e dei rapporti tra gli interessi dei diversi
gruppi sociali?
Rimanendo nello stesso ambito di ragionamento, Costanza La
Mantia pone in termini operativi la questione della messa a
punto di procedure inclusive nell’ambito della pianificazione
strategica urbana: nel suo lavoro di ricerca infatti si occupa di
questo strumento, sempre più complementare rispetto a quelli
ordinari, come possibile ambito di sperimentazione di nuove
forme di protagonismo e di cittadinanza attiva.
Pur riconoscendo il forte rischio di strumentalizzazione a
legittimare scelte di gruppi di interesse forti attraverso la
finzione demagogica del consenso, si può pensare alla
pianificazione strategica come metodo-strumento educativo
con la duplice funzione di regolare e auto-responsabilizzare il
territorio
attraverso
forme
di
empowerment
tese
all’autogoverno? Si può attraverso pratiche argomentative e
comunicative, mirare alla costruzione di una visione realmente
condivisa, al rafforzamento del senso di collettività e bene
comune? E ancora, che differenza/distanza c’è tra equità nel
processo ed equità negli esiti?
Riflettendo sull’equità nel processo partecipativo di
pianificazione, la questione su chi sia giusto coinvolgere (e in
che modo) ribadisce la necessità di ricentrare l’obiettivo sulle
questioni di giustizia sociale piuttosto che sul perseguimento di
funzionalità/efficienza (Giusti 1995).
Passando al secondo gruppo di questioni incentrate sul ruolo
del planner, Giovanna Regalbuto nel quadro di contesti
meridionali caratterizzati da forte marginalità urbana, pone il
problema di un intervento fisico di riqualificazione che voglia
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influire nel miglioramento sociale: qual è il giusto equilibrio fra
empowerment e responsabilità tecniche?
L’approccio processuale e quello della razionalità tecnica
risultano inesorabilmente opposti, oppure la ricerca di un
principio di equità stende tra i due termini un nuovo terreno che
vale la pena esplorare alla ricerca di nuove modalità possibili di
compatibilità e integrazione?
Nel corso della discussione il ragionamento si allarga piuttosto
verso una scala più ampia, che mette in gioco il ruolo delle
istituzioni e della società civile: può il planner da solo pensare
di sopperire, con il suo lavoro sulle istanze dal basso, alle
mancanze del soggetto pubblico? Oppure sono proprio le
istituzioni ad essere chiamate in causa con forza? A scardinare
inerzie, dicotomie e prassi consolidate, sarà necessario
invocare una rivoluzione culturale?
A cavallo tra entrambe le aree tematiche fin qui delineate,
Chiara Ortolani pone il problema dello spazio pubblico nelle
città in relazione al tema del traffico, visto come una vera e
propria espropriazione subita in termini di degrado ambientale,
di restringimento fisico degli spazi dell’accessibilità e dei luoghi
dei rapporti sociali. La frantumazione dello spazio pubblico
urbano è vista non solo come negativa in sé, ma come
concausa della frantumazione e segregazione dei rapporti
sociali.
Queste problematiche vengono proposte soprattutto in
relazione alle categorie più deboli e conseguentemente più
esposte al rischio di esclusione; al tempo stesso ci si interroga
sulla partecipazione e l'autorganizzazione degli abitanti: può la
condivisione di scelte e progetti volti alla riappropriazione degli
spazi fisici riattivare la produzione di uno spazio pubblico
comune e unitario?
Passando infine alla terza area di problemi proposti attraverso
la lente dell’equità, gli ultimi tre interventi affrontano la scala
territoriale, i temi dell’ambiente, del patrimonio naturale e della
gestione e produzione di paesaggio.
Michela Emilia Giannetti declina il tema dell’equità rispetto
all’alterazione paesaggistica dovuta alla presenza di
insediamenti industriali: l’obiettivo principale della ricerca è
quello di definire i criteri per una progettazione a verde che
possa integrare nel paesaggio la frammentazione indotta dalla
presenza di aree industriali.
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A partire dai concetti di identità del luogo e di paesaggio come
bene comune, si propone quindi di indagare il rapporto stabilito
dagli abitanti con le profonde trasformazioni sociali ed
economiche che hanno connotato il territorio, al fine di
comprendere le ragioni di quella che è spesso una percezione
negativa delle aree industriali.
Più che come ricerca di regole “estetiche”, magari con intenti
mimetici, la questione centrale posta è quella dell’intervento
sulle relazioni funzionali del contesto: se la percezione negativa
è segnale di una rottura e di un conflitto reale con il paesaggio
circostante, come trattare le disuguaglianze indotte dalle
trasformazioni (discrepanza di valori, regole, culture e
prevaricazione delle une sulle altre, disparità nella distribuzione
delle esternalità), dalle quali questa conflittualità trae origine?
Una questione affine è esposta da Mina Di Marino, che si
occupa di reti ecologiche intendendole come uno strumento in
grado di declinare le scelte di trasformazione territoriale in
direzione di una maggiore sostenibilità, e di conciliare sviluppo
insediativo e politiche di protezione e valorizzazione delle aree
naturali. Ciò è ritenuto possibile soltanto all’interno di una
strategia di sviluppo spaziale a livello locale, in cui il ruolo della
partecipazione diventa centrale per una duplice finalità. Da un
lato
si
pone
una
questione
di
efficacia
legata
all’interiorizzazione del problema “salvaguardia” da parte di
cittadini e attori locali che, così come avviene in tanti processi
informali, possano riconoscere attraverso lo strumento
istituzionale della rete ecologica dei valori del territorio e
assumere un ruolo attivo (e responsabile) sia nella
manutenzione del patrimonio naturale, sia nel prendere
posizione rispetto alle scelte trasformative. D’altro canto, gli
interventi volti a preservare e potenziare la biodiversità
generano anche delle esternalità positive, conferendo un
plusvalore economico agli insediamenti in prossimità degli
ecosistemi di grande valore ecologico e benefici agli abitanti
che trarranno vantaggi dalla protezione a lungo termine delle
aree naturali.
La questione dell’equità si pone dunque in relazione alla
sequente problematica: può la rete ecologica diventare uno
strumento che in maniera condivisa si occupi di promuovere la
produzione e gestione collettiva di beni comuni?
Anche Elena Andreoni si occupa di aree protette, ed in
particolare di reversibilità delle trasformazioni che le
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riguardano, attraverso la messa a punto di strategie
perequative per la delocalizzazione delle attività incompatibili.
Rivendicando lo statuto di risorsa dell’area protetta, non più
solo porzione di territorio soggetta a limitazione nel godimento
del bene per i privati, si richiama l’attenzione proprio sui
vantaggi economici patrimoniali che la creazione di un’area
protetta può innescare: la questione che si pone allora è quella
del plusvalore generato dall’area protetta in relazione alla
possibilità di “recuperarlo” per l’interesse collettivo.
Quali sono le possibili modalità per la localizzazione delle
esternalità positive indotte? Come assoggettarle ad un regime
di controllo fiscale e di gestione con strumentazioni
perequative?
Dopo il workshop, alcune riflessioni sul tema
I quesiti posti dalle dottorande hanno espresso delle
preoccupazioni e degli interessi specifici e di tipo prettamente
tecnico-operativo, difficili da affrontare approfonditamente in
un contesto eterogeneo come quello creatosi nel workshop.
L’apporto dei discussant è stato quello di collocare le
domande all’interno del dibattito più generale, riconducendole
a problematiche di ampio respiro. Questo ci ha portato a
risalire ai concetti di base, alla pluralità e alla conflittualità degli
approcci e delle definizioni, per cui la discussione è stata molto
ampia, si è ramificata in molte direzioni, ma non si sono
formulate delle risposte o delle ricette. Risulta perciò difficile
restituire un senso generale e compiuto all’insieme degli spunti
che sono emersi; ci proponiamo qui di esprimere una serie di
considerazioni che raccolgono parte di quanto si è detto e lo
interpretano alla luce delle nostre opinioni e conoscenze.
Abbiamo scelto tre chiavi di lettura per organizzare il nostro
discorso: la prima riguarda l’equità rispetto all’oggetto, che
abbiamo declinato in termini di beni comuni, la seconda
riguarda l’equità rispetto ai soggetti, con riguardo al tema della
differenza intesa come pluralità, l’ultima è centrata su alcuni
degli strumenti disponibili per una pianificazione equa.
Equità rispetto all’oggetto: beni comuni
I termini “comune” e “individuale” non indicano due condizioni
opposte e vicendevolmente escludenti, tra di esse ci dovrebbe
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essere piuttosto la ricerca di un equilibrio e di una reciproca
utilità. Fa parte dell’individualismo pensare di poter vivere
ciascuno senza dipendere dagli altri ma questa illusione, come
sostenuto
da
Tocqueville,
paradossalmente
produce
l’atomizzazione della società in individui uniformi, il che non
implica (anzi esclude) una tendenza verso l’eguaglianza
economica (Lummis 1998). Con l’intenzione di allargare il
discorso sulla questione distributiva in una prospettiva di
giustizia sociale più strutturale, alcuni degli interventi hanno
fatto riferimento alla fruizione dei beni comuni e alla loro
individuazione e gestione nella pratica del governo del
territorio.
L’attribuzione di determinati beni localmente disponibili ai
soggetti che utilizzano un determinato territorio può
comportare la privazione di quei beni da parte di soggetti che li
utilizzerebbero in un altro spazio o in un altro tempo . La visione
di chi sceglie/decide deve perciò tener conto dell’altrove e del
futuro. A questo proposito il ruolo della pianificazione
territoriale può essere decisivo, e grande è la responsabilità dei
pianificatori nel rendere evidenti ai decisori le conseguenze
delle loro scelte.
Tra i beni comuni c’è certamente la possibilità di fruire delle
attrezzature e dei servizi necessari alla vita sociale e alle
esigenze
individuali
di
approvvigionamento,
salute,
apprendimento, cultura, ricreazione ecc., la mobilità sul
territorio, la partecipazione alle decisioni sull’organizzazione
della città, il godimento di un ambiente sano e di un paesaggio
di qualità.
Tuttavia, i beni comuni non sono definiti una volta per tutte;
essi derivano dalle disponibilità, dai bisogni, dalla cultura, dai
risultati dei conflitti.
La novità introdotta nella definizione del bene comune da parte
dell’antropologa Mary Douglas (1994) consiste nel sottolineare
come un bene pubblico non possa dipendere dal genere di
beni scambiati ma dal tipo di comunità in cui avviene lo
1
!
"Per esempio, se gli abitanti di una zona ricca di sorgenti impiegano
tutta l’acqua captata da quelle sorgenti, essi ne privano gli abitanti
delle zone a valle. Se gli abitanti del mondo di oggi utilizzano tutte le
risorse disponibili, ne privano gli abitanti del mondo di domani. L’èquità
va quindi considerata in un quadro interscalare e intertemporale."
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scambio e come uno stesso bene può essere sentito
diversamente a secondo del gruppo che ne fa uso. Riccardo
Petrella (2006) elenca una serie di criteri utili alla definizione di
beni comuni, tra cui la responsabilità collettiva, in base alla
quale un bene è comune in quanto implica un impegno
collegiale al proprio mantenimento e la necessità della
democrazia come condizione per l’esistenza dei beni stessi.
Perché un bene assuma il carattere di “comune” deve prima
essere ritenuto necessario, di “senso comune” (in questo è
rilevante la funzione dell’ideologia) e deve venir conquistato
collettivamente. Il discorso sui beni comuni e sui diritti ad essi
connessi non può che partire da una ridefinizione condivisa
delle risorse collettive, che è apertura al progetto con una
valenza fortemente politica: nelle questioni della produzione e
riproduzione di risorse ambientali, paesaggistiche o di spazio
pubblico emerge la partecipazione come chiave di accesso a
questa
prospettiva
creativa
che
parte
proprio
“dall’autodefinizione dei bisogni e degli stili di risposta”(Giusti
1995, p.60).
A questo proposito Ignacy Sachs sottolinea l’opportunità di
aprire e tenere viva una discussione generalizzata sugli stili di
vita (Sachs 1988) e sul progetto di civiltà (Sachs 1978) - e
quindi sulla stessa definizione di un orizzonte comune da parte
di ogni società (Giusti 1995) - ponendola alla base di una
pianificazione che sappia farsi «visionaria e pluridimensionale,
[…] organizzatrice del processo di apprendimento sociale»
(Sachs 1988, p.39-40).
In questa chiave, bene comune è anche, per esempio,
l’accessibilità ad un’abitazione adeguata ad un prezzo
commisurato alla capacità di spesa, nel senso che è
necessario un sistema equo di pianificazione che regoli i
meccanismi del mercato della casa. Considerare il problema
dell’abitazione in termini di diritto alla casa apre certamente la
possibilità di una rivendicazione (individuale) di tale diritto, ma
non necessariamente lo rende a tutti gli effetti attualizzabile e
non implica una ristrutturazione del sistema socio-economico
che regola il mercato della casa. Riconoscere l’accesso alla
casa in termini di bene comune potrebbe portare ad un
ribaltamento dell’approccio e creare le condizioni per cui
questo bene sia fattivamente disponibile.
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«Se per ricchezza intendiamo il surplus economico,
comunità diverse tra loro possono operare differenti scelte
circa la forma che deve assumere quel surplus. Il surplus,
ad esempio, può prendere la forma di consumo privato o
di lavori pubblici; può assumere la forma della riduzione
dell’orario di lavoro per liberare più tempo da dedicare
all’arte, all’apprendimento, ai festival o alle cerimonie.
Queste non sono ineluttabilità economiche ma scelte
politiche, se per politica intendiamo il fondamentale
processo decisionale che riguarda la distribuzione di beni
entro una comunità. Se la regola di una giusta
distribuzione è “sia dato a ciascuno ciò che gli spetta”,
occorre comprendere che nel mondo esistono comunità
che si sono organizzate per dare il dovuto alla terra, al
mare, alla foresta, ai pesci, agli uccelli e agli animali in
genere. Le comunità che si sono organizzate in modo tale
da dare alla terra ciò che le è dovuto, magari quelle
considerate le più povere, hanno effettivamente
mantenuto in questo modo un ampio “surplus” ed una
ricchezza comunemente condivisa. Dall’unione tra l’idea
antica di cosa pubblica e la concezione ora emergente (o
riemergente) di ambiente può nascere una nuova,
promettente idea di ciò che è reale “ricchezza”» (Lummies
1998, p.419-420).
Equità nelle differenze
Si è discusso sull’equità anche in riferimento ai soggetti.
L’equità comprende l’aspirazione alla soddisfazione dei bisogni
riconosciuti socialmente come tali, ma i soggetti hanno bisogni
differenti che non sono conciliabili con una definizione astratta
dell’eguaglianza (la torta divisa in fette uguali). La prima
operazione da compiere (se l’equità ha un significato operativo,
cioè è un criterio di scelta) è il riconoscimento concreto delle
differenze in termini di bisogni, desideri, condizioni, sia che
esse derivino da una diversità di carattere culturale, da vincoli e
impedimenti di natura patrimoniale, sociale, economica,
oppure ancora dalla presenza di ostacoli di tipo
discriminatorio. Probabilmente non tutti possono essere
rimossi, ma essi possono certamente essere mitigati; Infatti
Francesco Indovina da una lettura complessiva della città
stessa come un potente (potenziale) strumento di mitigazione.
La città, con il suo mettere insieme stranieri, estranei e
differenze può portare ad un nuova concezione di pubblico, in
grado di postulare tolleranza e impegno civile e il
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riconoscimento “dell’impossibile assimilazione reciproca”, che
diviene così sinonimo di civiltà e di rispetto della diversità degli
altri in tutti i loro aspetti (Young 1990).
La partecipazione di ciascun soggetto al processo di decisione
(al governo), principio che del resto è alla base della nozione di
“diritto alla città”, è condizione necessaria per il
riconoscimento delle differenze e per una visione plurale della
città, tenendo conto che la partecipazione stessa non avviene
su basi di uguaglianza intesa come assenza di disparità. Si
apre a questo proposito la questione del potere, dell’egemonia,
di chi la esercita, in nome di quali interessi. È evidente che
l’attuale distribuzione dei poteri privilegia i pochi (i più dotati, i
più ricchi…) rispetto agli altri. Questo pone il problema
(l’obiettivo) politico di dar voce e forza ai più deboli; le stesse
pratiche dell’empowerment non sono tuttavia prive di
ambiguità. Il rischio di un uso strumentale della partecipazione
è anch’esso emerso nel corso della discussione, sia nel senso
di una falsificazione del consenso, che nasconde un piegarsi
agli interessi degli attori forti, sia nel senso di una
manipolazione di attori e culture locali.
«Nessuna forma di interazione o partecipazione sociale
può caricarsi di significato ed essere liberatoria sino a che
i singoli individui coinvolti non agiscano come esseri
umani liberi ed equanimi; ed il fatto che tutte le società
sino ad oggi hanno sviluppato credenze largamente
condivise (religioni, ideologie, tradizioni, ecc.) le quali, a
loro volta, condizionano ed aiutano ad originare persone
interiormente non-libere e parziali. Il dilemma è di
difficilissima soluzione in un momento in cui le antiche
modalità di condizionamento socioculturale hanno
assunto forme nuove ed inquietanti. L’economicizzazione
della vita sotto tutti i suoi aspetti (culturali, politici e sociali)
assoggetta chi vi partecipa, in tutto il mondo, a processi di
manipolazione addizionale spesso non manifesti e di tipo
strutturale, con il risultato di portare le persone a credere
che i propri pregiudizi, i propri condizionamenti e la
propria mancanza interiore di libertà rappresentino non
solo espressioni della propria libertà, ma anche di una
libertà ancora più grande e di là da venire» (Rahnema
1998, p.134).
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Strumenti per la conquista dell’equità
L’equità non è un dato naturale della società, forse di nessuna
società, di certo – come abbiamo già detto – non di quella
attuale. Essa va conquistata, non verrà graziosamente
concessa da chi esercita il potere e dispone della maggioranza
delle risorse disponibili. È quindi essenziale il ruolo del
momento pubblico e della politica, intesa non come un’attività
specializzata riservata a pochi, ma come una dimensione
essenziale dell’uomo e della società, di cui la partecipazione è
parte integrante.
«Lo spazio civico - polis, città o quartiere - è la culla in cui
l’uomo si civilizza (letteralmente!) al di là del processo di
socializzazione in seno alla famiglia. “Civilizzare”, in
questo senso, è sinonimo di politicizzare, di trasformare
una massa in un corpo politico deliberante, razionale,
etico. La realizzazione di questo concetto di civitas
presuppone esseri umani che si aggreghino non come
monadi isolate, che comunichino, direttamente con
modalità espressive che vanno “oltre le parole”, che
dibattono razionalmente in maniera diretta, faccia a faccia,
e giungano pacificamente ad una comunicanza di opinioni
tali da rendere possibili le decisioni e coerente con i
principi democratici la loro applicazione. Formando e
facendo funzionare tale assemblee, i cittadini formano
anche se stessi, perché la politica non è nulla se non è
educativa, se la sua apertura innovativa non promuove la
formazione del carattere» (Bookchin 1993, p.32).
In questo momento storico la società civile trova espressione
attraverso la problematizzazione degli stili di vita e la
formazione di comitati che si oppongono anche radicalmente
alle posizioni della politica dei partiti, che oggi più che mai non
comprende la partecipazione come spazio del conflitto e della
contestazione. La teorizzazione della partecipazione come
possibilità di «ri-centrare il potere politico nella società civile»
(Giusti 1995, p.11) deriva in parte proprio da questa crisi della
politica, e in parte dalla parallela crisi della razionalità tecnica.
Quest’ultima è riconducibile alla scoperta della “complessità “
e dell’incertezza che connotano la condizione attuale; quindi
crisi del sapere esperto, ma anche cambiamento del concetto
di territorio, non più riducibile a spazio delle funzioni, ma luogo
complesso, vivente, individuato dall’intreccio di dimensioni
fisiche e sociali, dotato di specificità (Magnaghi 1990).
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In questo quadro la conoscenza e il progetto non sono più
delegate agli esperti, ma devono coinvolgere gli attori che sono
radicati nelle famiglie, nelle istituzioni e nei movimenti sociali
della società civile (Friedmann 1993).
La partecipazione quindi implicherebbe una rivoluzione nel
linguaggio della pianificazione, un allargamento dello spazio
della democrazia (ma anche della responsabilità), una
maggiore efficacia del piano legata al suo avvicinamento
rispetto alla molteplicità delle pratiche che si propone di
governare (Giusti 1995).
A questo punto viene spontaneo chiedersi se la “produzione”
di città e territori equi o processi trasformativi equi sia un
obiettivo raggiungibile. Nel tentare di dare una risposta
possiamo partire dal ragionamento di Giovanni Caudo che
propone di trattare l’equità come un criterio per orientare
l’azione, potremmo dire un principio guida che impronti le
singole scelte a prescindere dal risultato finale . A sostegno di
questa interpretazione viene citato il teorema dell’impossibilità
della scelta collettiva di Kenneth Arrow, secondo il quale è
impossibile decidere in maniera universalmente valida quale sia
l’interesse collettivo; da qui la necessità di riformulare la
domanda sull’equità: in base a quali parametri giudicare
l’equità delle scelte?
2
Questo ragionamento è in un qualche modo collegabile alla
contrapposizione tra valori e principi espressa da Gustav Zagrebelsky
(2008): «Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè
un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò
orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione,
in quanto funzionale al suo raggiungimento. […] Il principio, invece, è
qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di
realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si
sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che
autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima
dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo
che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. […] Tra il principio e
l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore)
che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una
necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando
cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono
combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si
dice, possono bilanciarsi».
2
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La proposta emersa è quella di un ritorno alla concretezza dei
casi e delle situazioni, raccogliendo l’invito di Albert Hirshmann
a collocare la nostra ineludibile condanna all’incertezza in una
prospettiva positiva e creativa opposta alla tesi dell’inutilità
della pianificazione. Al contrario valutare la complessità del
reale diventa uno strumento per «capire e correggere gli errori
fatti, per attuare politiche flessibili che pur non pretendendo di
predeterminare un preciso risultato, si incamminino però verso
una strada, un sentiero di crescita, una possibilità di
miglioramento. Tale cammino deve essere tale da lasciare
comunque spazio alla variabile “incertezza sociale” pur
tentando di indirizzarla verso i criteri o i valori ritenuti più
auspicabili» (Poma 1994, p.26).
Un altro elemento su cui abbiamo riflettuto e dibattuto a lungo
è il ruolo del planner. Spesso nel corso della discussione ci si è
chiesti se nei processi partecipativi il planner non rinunci alla
sua “responsabilità tecnica”, una preoccupazione a cui
vorremmo però quantomeno affiancare la preoccupazione
opposta di chi sostiene che l’intervento del professionista
produca un effetto mutilante, si pensi alla demistificazione del
ruolo dell’esperto in Ivan Illich (1978).
A questo proposito si può citare la pluralità delle figure
ipotizzate per confrontarsi, sia pure con accenti e priorità
diversi tra loro, con quello che è stato trattato come un
dilemma (nonchè origine di vari paradossi): si pensi al
pianificatore critico di Forester, evidenziatore di problemi in un
contesto comunicativo, al pianificatore radicale di Friedmann,
intento a facilitare l’espressione degli attori sociali e
perennemente in bilico tra teoria e pratica radicale, al
professionista riflessivo di Shon che costruisce conoscenza nel
corso dell’azione in un contesto conflittuale, per cui questa
consiste nella difesa del proprio punto di vista da quelli
avversari, ma anche in un continuo sforzo di comprensione.
Per una trattazione più completa del tema si rimanda al testo di
Giusti (1995), nel quale egli stesso propone una propria sintesi
3
Per una trattazione più ampia del tema si veda Hirschman A.O.
(1983), Felicità privata e felicità pubblica, Bologna, Il Mulino e
Hirschman A.O. (1987), L'economia politica come scienza morale e
sociale, (a cura di Luca Meldolesi), Napoli, Liguori Editore.
3
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critica, in cui si sottolinea la funzione del planner in quanto
«costruttore di contesti, scenari, immagini complessive di città
capaci di inquadrare in maniera verosimile l’azione locale, volti
non a prescrivere comportamenti ma a orientarne
l’azione»(Giusti 1995, p.242).
Stando agli autori sopra citati, si potrebbe affermare che più
che rinunciare alle proprie responsabilità il planner persegua
l’accesso ad una diversa responsabilità, collocata in un’ottica
in cui è centrale la problematica del rapporto tra conoscenza e
potere. Non esistono questioni esclusivamente tecniche o
esclusivamente politiche, non si opera semplicemente in un
regime di incertezza in cui sperare di scoprire “soluzioni”, ma
piuttosto si fronteggiano “ambiguità strutturali” che richiedono
l’espressione di giudizi di valore e la costruzione di “soluzioni”
(Giusti 1995).
Questo implica anche un importante componente “creativa”
del pianificare, intesa come capacità di immaginare
connessioni nuove tra elementi esistenti, di giocare con il
quotidiano per ricomporlo in una sintesi non statica, come
capacità di applicare le “regole" esistenti in maniere nuove o a
campi nuovi e di istituirne di diverse. Una componente che
comporta quindi una continua ai cambiamenti della società,
per soddisfare in maniera sempre più varia nuovi bisogni,
esprimendo una costante ricerca di nuove forme di relazioni,
nuove mutevoli modalità del vivere insieme.
Questa prospettiva trova degli interessanti echi nella
rivendicazione di David Harvey al diritto alla città (Harvey 2008)
come diritto di scegliere di diventare altro da sé, diritto ad una
socialità creativa e plurale, il diritto degli abitanti di realizzare (e
concepire) forme spaziali e sociali alternative: di fare e rifare le
nostre città. Implica la messa in discussione delle strutture
fisiche e istituzionali che il mercato ha prodotto e ci ha
imposto; un nodo da rilevare è infatti la componente distruttiva
della creatività: innovare implica necessariamente sottrarre
spazio alla tradizione, e quindi, inevitabilmente, distruggere
parte di ciò che è dato per certo.
4
Raccogliendo in questo anche l’invito di Ignacy Sachs verso una
pianificazione utopica e visionaria.
4
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Il seme della trasformazione dovrebbe emergere dalle
contraddizioni dell’organizzazione presente, basarsi sulle
possibilità esistenti ed essere capace di puntare verso
differenti traiettorie di sviluppo, raccogliendo le manifestazioni
di discontento, innovazione sociale e creatività espresse a
livello locale, pur nel loro particolarismo e limitata visione
globale e complessiva.
Della prospettiva di Harvey (1996, 2003, 2008) ci sono sembrati
stimolanti e rilevanti per il discorso che si è svolto nei due
giorni del workshop, due aspetti. Innanzitutto il voler porre
attenzione alla qualità di tutti gli ambienti – l’ambiente
costruito, sociale, politico-economico e naturale – che equivale
a porre in relazione dialettica le trasformazioni della natura con
i possibili modi di autorealizzazione di una particolare forma di
natura umana. In secondo luogo la necessità di atteggiamento
rivoluzionario (sia nel pensiero che nella politica) che riparte
dall’esplorazione e dalla costruzione di processi sociali e forme
spaziali alternative, sia di lungo termine che attraverso
movimenti e azioni locali di breve periodo, senza aspettare il
compimento di una rivoluzione politica che metta le nostre città
nella condizione di consentire a nuove e migliori relazioni
sociali e territoriali di fiorire.
Occorre una forte azione di traduzione, da parte dell’architetto
insorgente (Harvey 2003): tradurre le aspirazioni politiche nella
varietà e eterogeneità delle condizioni socio-ecologiche e
politico-economiche, mettendo insieme e relazionando
differenti costruzioni discorsive e rappresentative del mondo,
confrontandosi continuamente con le condizioni e le tendenze
attuali dello sviluppo geografico diseguale, tenendo conto di
ciò che abbiamo in comune e registrando le differenze,
difendendo i diritti (compreso quello di vivere in un ambiente
sano, di controllare collettivamente i beni comuni, di cambiare,
di produrre spazio…) riconoscendo che la loro formulazione
deriva dalla concretezza della vita sociale e che rimarranno
privi di significato se non accompagnati da un processo di
individuazione e formazione collettiva, e dal necessario
sostegno delle istituzioni.
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