Indirizzo di saluto del rappresentante degli Studenti, Roberto Rizzo

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Indirizzo di saluto del rappresentante degli Studenti, Roberto Rizzo
Indirizzo di saluto del rappresentante degli Studenti, Roberto Rizzo
Magnifico Rettore, Gentili Ospiti,
vi porgo il saluto degli studenti in qualità di loro rappresentante in Senato Accademico e
spero di riuscire a farmi portatore del sentimento diffuso e condiviso dalla comunità
studentesca del Politecnico di Torino.
Viviamo un momento storico permeato da una crisi economica devastante.
L’Europa, lacerata nella prima metà del XX secolo dai conflitti bellici, si costituisce sulla
scorta degli ideali e sul lume dei suoi padri fondatori. Quella stessa Europa, oggi
scricchiola sotto i colpi delle agenzie di rating e si dimostra incapace di ridare slancio vitale
a quel progetto originale che sino ad oggi aveva garantito pace sociale e benessere
diffuso.
L’Italia è un Paese che vive da 20 anni un profondo smarrimento, sia economico che
culturale, un po' fisiologico dopo la scomparsa delle ideologie che avevano caratterizzato il
Novecento, e per buona parte dovuto all’incapacità di una classe dirigente, politica ma
anche
industriale,
che
ha
mostrato
grande
debolezza
e
irresponsabilità.
Drammaticamente, è stato evaso l’impegno verso quelle riforme strutturali di cui il Paese
necessitava e che avrebbero dovuto garantire una crescita
solidale, che guardasse
all’interesse collettivo e alla sostenibilità sia economica che ambientale.
Questo è il quadro in cui si è inserita una riforma universitaria, la Riforma Gelmini, che si
è poggiata su una rappresentazione caricaturale dell’università italiana. Descrivendo
l’Università pubblica
come malata e mediamente con un basso livello didattico e
scientifico, si è cercato di mascherare, con una inadeguata riforma di governance, l’effetto
di manovre finanziarie che hanno utilizzato le risorse della formazione per fare cassa.
Eppure, per capire a fondo quali siano i mali cronici della nostra Università, basterebbe
uno sguardo (anche distratto) alla classifica OCSE 2011 sugli investimenti e sullo stato di
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salute del sistema della Formazione nei paesi più industrializzati nel mondo, dove l’Italia
occupa le ultime posizioni.
Ricordiamoci che il nostro paese: (1) spende per l’istruzione solo il 9% del totale della
spesa pubblica mentre la media dei paesi industrializzati si attesta al 13%, è penultima al
31° posto su 32, (2) durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la spesa in formazione
cresceva, solo l’Estonia ha ridotto le spese più dell’Italia; (3) le tasse universitarie sono tra
le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi Bassi e Portogallo e (4) il
diritto allo studio si sta riducendo ad una presa in giro in un paese in cui gli aventi diritto
non ottengono la borsa di studio e non ricevono i servizi necessari per poter studiare: uno
su tutti il tema della residenzialità universitaria, che ci vede tra gli ultimi posti in Europa.
Se questo è il panorama, appare prioritario un confronto nazionale di carattere strategico
sul tema della quantità e della qualità della spesa pubblica da orientare in materia di
«Istruzione, Università e Ricerca».
Noi, come studenti, stiamo ribadendo a più riprese un concetto fondamentale: aspirare ad
essere una società moderna significa aspirare ad essere una società libera, democratica
e inclusiva, il cui centro di gravità deve essere imprescindibilmente la Conoscenza.
A nostro avviso, occorre con immediatezza una riforma del sistema della formazione che
deve rivoluzionare il tempo e il concetto stesso di formazione. Siamo convinti che il
percorso di formazione debba durare tutto il corso della vita della persona. Questo
obiettivo è il riconoscimento che la democrazia, se non si alimenta costantemente di
conoscenza e sapere critico, non può dirsi tale.
In questo quadro, Scuola e Università Pubblica devono tornare ad occupare il ruolo che
meritano, quello di beni pubblici essenziali, sia in quanto strumenti di arricchimento
culturale e di innovazione scientifica e tecnologica, sia in quanto motori di mobilità e
trasformazione sociale.
Non si cerca un ritorno al passato: l’università pre-Gelmini non era certamente un modello
a cui tendere con le sue oligarchie dominanti. Anzi, senza retorica, possiamo ben dire che
le cause che hanno scatenato la perdita del ruolo centrale dell'Università sono anche da
ricercarsi in scelte sbagliate all’interno del mondo universitario, il quale, abusando della
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propria autonomia e mosso dalla volontà di conservare poteri, tanto vecchi quanto nuovi,
ha tutelato interessi fin troppo di parte.
Purtroppo, gli errori commessi hanno contribuito a creare una visione distorta e viziata del
mondo Universitario che ha favorito la proposta di “ricette” sbagliate. Il rischio è che si
continui ad abusare della stessa retorica-del-merito di gelminiana memoria; una formuletta
semplice e buona per tutte le stagioni: competizione, merito ed eccellenza.
Ma come si può da un lato porre il tema del merito, se dall'altro si sta smantellando il
sistema già carente del Diritto allo Studio?
Nonostante l'oramai endemica carenza di fondi nazionali, colpisce l’emergenza della
vicenda EDìSU Piemonte, divenuta tristemente nota tanto da poter essere considerata un
caso nazionale.
Pur tenendo in considerazione i gravi problemi che tutti gli enti locali stanno vivendo a
causa della crisi, risulta inquietante che la regione Piemonte abbia più che dimezzato i
fondi per il diritto allo studio riducendo, nell’arco di dodici mesi, l’erogazione delle borse di
studio dal l00% di copertura, scelta che aveva reso l’EDìSU un ente virtuoso per oltre 10
anni, ad un misero 30% del 2011. E ad oggi, la prospettiva pare ancora buia. Mi sento,
inoltre, di dover esprimere il mio disaccordo relativamente alla presunta meritocrazia che
dovrebbe inspirare i nuovi criteri per l'assegnazione delle borse di studio. Il nuovo bando,
infatti, prevede che uno studente oltre al conseguimento dei relativi crediti, abbia acquisito
la media del 25, non contemplando alcuna forma di normalizzazione rispetto al corso di
studi di provenienza. Tale scelta, palesemente, va a penalizzare gli studenti dei corsi
oggettivamente più impegnativi, come lo sono molti di quelli erogati dal Politecnico. Il
nuovo meccanismo, dunque, non premia, il merito, criterio, invece ampiamente utilizzato
nel vecchio sistema di assegnazione delle borse, ma rappresenta solo un miope
escamotage per mascherare i pesanti tagli al diritto allo studio universitario e ridurre, così,
la platea degli aventi diritto.
Questo è il terreno, su cui il cattivo federalismo è andato a speculare sulla materia del
Diritto allo Studio.
Noi, invece, proponiamo, così come avviene in paesi molto più federali del nostro, la
Germania ad esempio, un meccanismo che da un lato garantisca su un piano nazionale
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livelli essenziali di prestazione, e dall’altro stimoli una sana competizione verso l’alto tra le
regioni; tutto ciò per evitare che il diritto allo studio sia suscettibile della sensibilità delle
amministrazioni locali che naturalmente si avvicendano.
Ricordiamo che a livello legislativo, tali standard essenziali esistono e sono noti come
LEP; purtroppo non sono mai stati definiti dai governi che si sono succeduti negli ultimi
10 anni.
Se veramente vogliamo essere coerenti con le politiche dell’Unione Europea, allora
prendiamoci l’impegno di andare ben oltre gli attuali livelli di finanziamento, cercando di
individuare mirati ed efficaci investimenti, necessari per cancellare quello spread che ci
allontana sempre di più dai paesi che vantano ben altri standard di attenzione nei confronti
del Diritto allo Studio.
Ci tengo a precisare, inoltre, che chi si ostina a voler dare una risposta alla carenza di
finanziamenti attraverso l’utilizzo di strumenti alternativi, quali i prestiti d’onore, dimostra
scarsa visione politica.
Dai dati raccolti sull’intero territorio nazionale
in merito all’elargizione di prestiti agli
universitari, emerge che il ricorso al prestito è determinato dal bisogno economico: vi si
accede per necessità. Difatti, il prestito è richiesto principalmente da coloro che versano in
condizioni economiche maggiormente disagiate, dagli studenti fuori sede che hanno più
elevate spese di mantenimento e dagli studenti stranieri. Il prestito non è un intervento
“appetibile” per lo studente in condizioni agiate semplicemente perché non gli occorre,
essendo sostenuto economicamente dalla famiglia.
Ciò, è indice del fatto che la sostituzione di politiche di Diritto allo Studio Pubblico con un
modello privatistico di stile anglosassone, porterebbe il ceto medio-basso a subirne le
conseguenze più pesanti, soprattutto, in termini di indebitamento.
In aggiunta, sono vari anni che un folto gruppo di economisti agitando slogan del tipo “dare
ai poveri un’università gratis ma di pessima qualità è una truffa”, continua ad insistere sulla
necessità di liberalizzare le tasse universitarie. L’anno scorso è stata presentata una
interrogazione ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione che proponeva di sperimentare in
Italia il modello Browne, ampiamente contestato in Inghilterra tanto dalla comunità
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accademica quanto dagli studenti, che alzava a 11.000 euro la retta universitaria annua
per studente, proponendo agli studenti meno abbienti di pagarne i costi avvalendosi di
mutui bancari con interessi al 2,2/3%.
Questa proposta non consiste affatto nel far pagare l’università di più ai ricchi e di farla
pagare di meno ai poveri. Quello che succederebbe è di escludere non solo i ceti meno
abbienti ma anche quelli medi dall’istruzione universitaria bloccando così uno dei maggiori
veicoli di mobilità sociale, introducendo inaccettabili disparità territoriali e condizionando
anche la scelta del percorso di studi. Se l’istruzione è un investimento, all’accorto
studente-investitore converrà optare per gli studi potenzialmente più remunerativi.
Al contrario, un modello positivo a cui la legge nazionale potrebbe fare riferimento, è
quello proposto negli Atenei torinesi, ottenuto tra l’altro con un continuo e costruttivo
confronto con gli studenti, modello che garantisce una chiara progressività nel pagamento
delle tasse. Ciò significa che le tasse hanno una incidenza inferiore sui i redditi più bassi e
maggiore su quelli più alti.
Avvicinandomi alla fine del mio intervento, colgo l’occasione per riconoscere la
lungimiranza del Politecnico di Torino nell’investire sul tema dell’internazionalizzazione,
investimento che l’ha reso uno degli Atenei più virtuosi del paese.
Gli studenti stranieri, come i fuorisede in generale, sono una ricchezza inestimabile sia per
le istituzioni universitarie che per il territorio. Io stesso condividendo l’alloggio con due
studenti della Repubblica Popolare Cinese iscritti al Politecnico vivo un’esperienza che mi
arricchisce sia culturalmente che umanamente. Purtroppo, questa opportunità potrebbe
irrimediabilmente svanire a causa di sventurate politiche locali che si fondano su slogan
come lo sconfortante “Prima i piemontesi”.
In più, vorrei ricordare che mentre noi siamo qui a celebrare l’inizio dell’a.a. di una
istituzione universitaria che vanta un così alto livello di internazionalizzazione, un folto
gruppo di studenti pakistani, proprio in virtù della media del 25 richiesta attualmente,
nonostante abbiano sostenuto in due anni la quasi totalità degli esami, sono ora senza un
alloggio, privati di qualsiasi forma di sostentamento e destinati o a tornare a casa a pochi
esami dal traguardo della laurea o a ricorrere a soluzioni non propriamente legali. Invito,
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quindi, tutti noi ad interrogarci sul futuro dell’internazionalizzazione sia a livello nazionale
che locale.
Mi si consenta, una battuta finale sulle forme di selezione nell'accesso ai corsi di studio
universitari. L'Italia ha solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34esimo posto su 37 nazioni, e una percentuale pari al 20,3% di persone fra 30 e 34 anni
che hanno conseguito il titolo di studio universitario (dati OCSE 2011). In più, il nostro
paese vanta un tasso di abbandono scolastico pari al 18,8% della popolazione fra i 18 e i
24 anni. Una percentuale che ci pone a quasi 9 punti di distanza dall’obiettivo del 10% di
tasso di abbandono scolastico stabilito nella Strategia Europa 2020 e anche a una discreta
distanza dall’attuale media europea del 14,4%.
Vista la situazione italiana, siamo certi che la ricetta dell’esclusione attraverso i numeri
chiusi, ricetta che si adegua alla carenza di risorse finanziarie e soprattutto umane, possa
colmare questo gap storico?
A mio avviso l'Università pubblica deve continuare ad essere accessibile a tutti, fornendo
una formazione alta senza perciò penalizzare le eccellenze e senza sottrarsi al dovere di
selezionare i migliori, i più volenterosi e i più capaci.
Il problema è, semmai, capire come agevolare il diritto all’accesso all’istruzione superiore
e come eliminare l'annoso peso del blocco del turn-over favorendo il ricambio
generazionale del corpo docente; forse, solo così, saremmo in grado di raddoppiare in
meno di dieci anni il numero di laureati.
Chiudo il mio intervento con un auspicio:
i giovani devono riprendersi il loro spazio e la voglia di diventare di nuovo lo spirito critico
della società; devono smuovere le acque e agitare gli animi, per obbligare chi governa e
chi dirige a mettersi continuamente in gioco; perché, come scrive Bauman: "L'indifferenza
e l'ignoranza producono la paralisi della volontà [...] Abbiamo bisogno della formazione per
darci un'alternativa, ma ne abbiamo bisogno ancora di più per salvare le condizioni che ci
rendono disponibile, e in nostro potere, quell'alternativa".
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