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artisti
Una piacevole ossessione tra mainstream
e soul jazz, bebop e fusion
Intervista ad Alessio Menconi
di Domenico Lobuono
Ci sono musicisti italiani che meriterebbero una
notorietà e un riconoscimento in patria molto più
ampi e adeguati al loro valore, mentre – paradossalmente – trovano all’estero un più valido riscontro. Alessio Menconi è uno di questi. Attivo nel giro
del grande jazz perlomeno dall’inizio degli anni ’90,
può vantare esperienze variegate e di prestigio, che
lo vedono al fianco di musicisti di rilievo come Enrico Rava, Paolo Fresu, Tullio De Piscopo e Billy
Cobham, passando per la collaborazione con Paolo
Conte. Oggi Menconi è semplicemente uno dei migliori esponenti del chitarrismo jazz mainstream in
circolazione. Con la sua chitarra, è capace di ripercorrere nello spazio di pochi attimi l’intera storia del
jazz, essendo allo stesso tempo originale. Enciclopedico ma mai didascalico, padrone della tecnica
ma alieno da virtuosismi fine a sé stessi, Menconi
è al contempo tecnico e melodico, e sempre godibile da ascoltare. Il suo stile si colloca grosso modo
nella scia del mainstream di matrice anni ’60 e del
soul jazz del Benson prima maniera. Anche lui,
come molti della sua generazione, rimane ‘fulminato’ in giovane età dall’ascolto di un famoso disco di
Wes Montgomery, The Wes Montgomery Trio (Riverside, 1959), in formazione organ trio, una delle
formazioni più care ai chitarristi jazz: basti pensare
che tutti i più grandi vi si sono cimentati, da Kenny Burrell a George Benson fino ai moderni epigoni
come Peter Bernstein. Oggi quella influenza è alla
base del suo ultimo lavoro: il CD, in uscita per l’etichetta Abeat, si intitola Alessio Menconi Plays Ellington and Strayhorn e vede Alessio affiancato da
due validissimi musicisti italiani, Alessandro Minetto
alla batteria e Alberto Gurrisi all’organo, formazione
attiva dal 2012. Repertorio e formazione migliore
non potevano esserci per consentire ad Alessio,
alle prese con la sua Gibson ‘Johnny Smith’ del ’64,
di esprimere il meglio del suo chitarrismo, motivo
per cui lo consigliamo caldamente a tutti gli amanti
del jazz e, in genere, della buona musica.
sicali e dischi di ogni genere. Mi sono appassionato
ai Beatles e al rock blues. Ho cominciato prima con
la batteria e, a dieci anni, sono passato alla chitarra
da autodidatta.
La prima domanda che vorrei farti riguarda
il modo in cui ti sei avvicinato al mondo della
musica: la tua era una famiglia di musicisti, o di
amanti della musica?
Mio padre era un bassista e cantante di night e di
sale da ballo, e a casa mia giravano strumenti mu-
La chitarra è uno strumento importante per il
jazz, anche se spesso si identifica questa musica con gli strumenti a fiato: cosa ti ha fatto preferire la chitarra?
Il fatto di averla a casa… e l’ascolto di Made in
Japan dei Deep Purple! Volevo assolutamente im-
Hai seguito anche un corso di studi?
Con la chitarra ho fatto quasi tutto da solo, tranne
qualche manciata di lezioni. Ho lavorato molto su
alcuni manuali introduttivi al jazz e soprattutto sullo
studio dei dischi e la trascrizione di molti assoli.
Il rock blues è stata la porta di ingresso alla
musica per molti chitarristi e musicisti in genere; come è avvenuto poi l’avvicinamento al jazz?
Un po’ attraverso il jazz rock anni ’70, nel quale
era presente il groove e il sound del rock e – allo
stesso tempo – un’improvvisazione più complessa
che mi affascinava. Questo mi ha incuriosito all’ascolto del jazz e, subito dopo, ho ascoltato Wes
Montgomery e Charlie Parker: da lì è partita una
piacevole ‘ossessione’.
Nel tuo stile si sente molto la conoscenza profonda della tradizione: ti senti di appartenere a
quella schiera di musicisti che hanno appreso
il linguaggio jazzistico direttamente dai dischi,
trascrivendo i passaggi come si faceva una volta? Te lo chiedo perché oggi sembra che il passaggio per una delle scuole di jazz sia, se non
necessario, perlomeno molto comune.
Assolutamente sì! Lo studio dei temi e assoli di
Parker mi ha portato alla conoscenza del rapporto
stretto tra armonia e fraseggio, particolarmente presente nel bebop. Il lavoro principale è stato quello:
lo studio e la comprensione di tutto ciò che mi appassionava, dal bebop alla fusion. Poi negli ultimi
anni il mio sound è diventato sempre più clean, utilizzando sempre meno effetti: in questo modo esce
maggiormente il tuo suono e ti concentri maggiormente sulle note, come se fossi un pianista.
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parare quei riff e quegli assoli.
Da un punto di vista jazzistico hai poi il vantaggio di avere uno strumento melodico e armonico, e allo stesso tempo portatile…
Esatto! Il fatto di fare gli accordi ti permette di sentire il suono su cui andrai a improvvisare e, rispetto
al piano, te la puoi portare facilmente in giro…
Ho avuto modo di intervistare Franco Cerri pochi mesi fa, e lui mi raccontava dei grandi artisti
stranieri con cui ha suonato e di come questi
contatti gli hanno permesso di crescere. Per
te quali sono stati gli artisti con cui hai avuto
modo di suonare, o che hai anche solo ascoltato, e che ti hanno fatto crescere?
Riguardo al jazz, Miles Davis, Charlie Parker, Bill
Evans, John Coltrane, Wes Montgomery, Weather
Report, Michael Brecker… Ma anche la musica brasiliana, il pop come i Beatles, Burt Bacharach, Stevie Wonder e, ovviamente, Jimi Hendrix! Quanto ai
musicisti con cui ho suonato, sono stati tutti importanti, in particolare i musicisti con cui sono cresciuto a Genova: Giampaolo Casati, Piero Leveratto,
Dado Moroni, Andrea Pozza, Aldo Zunino.
Adesso sei considerato uno dei principali
chitarristi jazz a livello perlomeno europeo, ma
quanti anni hai dovuto lavorare per arrivare a
questo livello? È stato difficile, soprattutto considerato che l’Italia non è mai stata particolarmente interessata alla musica jazz?
Guarda, io ho semplicemente continuato a studiare e a cercare di crescere, perché è ciò che mi appassiona e che mi viene naturale fare. Da lì il resto
è arrivato da solo. Difficile lo è sempre, soprattutto
trovare la propria strada ed essere ascoltati. Per
come vanno le cose in Italia posso ritenermi fortunato, ma sicuramente non è facile, per niente.
So che recentemente sei stato in Sudafrica a
suonare; riesci a proporti spesso all’estero?
Sì, fino ad ora sono stato in trenta nazioni ed è
una cosa che mi piace, perché si incontrano musicisti e persone diverse, e tutto ciò mi stimola molto…
Un aspetto che ho potuto apprezzare di te è
quello discografico: ho avuto modo di ascoltare
e anche recensire diverse cose tue anche di impronta molto diversa, dall’omaggio a Miles Davis, Sketches of Miles, ai progetti in duo come
il Live in Modena con il chitarrista di estrazione
classica Andrea Candeli. A questo punto ti chiedo: in quale ambito preferisci esprimerti, se hai
una preferenza?
Il jazz è la mia musica, ma questo modo di suonare puoi applicarlo a qualunque musica! Posso
suonare con il mio stile in un brano pop o di musica
brasiliana allo stesso modo e, anzi, è una cosa che
mi stimola parecchio; è una bella ‘sfida’. Il trio è la
formazione in cui mi sento più a mio agio.
Vuoi parlarci allora di cosa hai in cantiere
adesso? A quali progetti stai lavorando?
Con l’Hammond Trio, formato insieme all’organista Alberto Gurrisi e al batterista Alessandro Minetto, sto finendo di registrare un nuovo CD dedicato
alla musica di Duke Ellington e Billy Strayhorn, che
uscirà per la Abeat; mentre a gennaio già esce un
CD dal titolo Historias, pubblicato da Groove Master Edition e distribuito da Egea. È una produzione
impegnativa, che miscela jazz a musica latinoamericana e pop. Ci sono molti ospiti, grandi amici e
musicisti come Elio, Gegè Telesforo, Simona Bencini, Nick The Nightfly, Faso, Dado Moroni, Ney Con-
ceição, Christian Meyer, Giuseppe Milici, Gilson Silveira, Marco Fadda, Valbilene Coutinho, Federico
Malaman, Fabio Valdemarin e altri…
Interessante, farete musiche originali o riletture?
Soprattutto mie composizioni, e un paio di miei
arrangiamenti di brani storici come “Tea for Two” e
“Nature Boy”.
Come è nato il progetto e chi ha curato gli arrangiamenti?
Da sempre ho una grande passione per la musica
latinoamericana, in particolare per la musica brasiliana. Ho scritto un brano intitolato “Leblon”, che
è di natura brasiliana, e a quel punto ho pensato
di fare un intero CD su quello stile, scrivendo anche qualche brano più pop con l’ausilio di cantanti.
Gli arrangiamenti sono tutti miei, a parte un paio di
brani in cui ho avuto la collaborazione del quartetto
base, formato con Meyer, Malaman e Valdemarin.
Nella preproduzione ho registrato quasi tutto da
solo utilizzando anche strumenti MIDI, in modo da
far suonare ai musicisti le parti preregistrate così
com’erano.
I musicisti che hai elencato sono tutti di alto
livello, ma sono numerosi: è la prima volta che ti
capita di suonare su un singolo album con così
tanti musicisti? Questo ha reso più difficile la
realizzazione del progetto?
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a Genova, o anche online e via Skype. E sì, mi piace trasmettere concetti e passione per la musica e
per la chitarra.
In effetti, ormai l’insegnamento online sembra
essere molto diffuso: ho parlato con diversi artisti americani e molti di loro sono attivi in questo
campo.
E si, è il futuro, o meglio il presente… e permette
di fare cose che senza Internet non sarebbero possibili.
Quali sono i consigli che dai a un giovane studente? C’è qualche concetto in particolare che
ti preme comunicare ai tuoi allievi?
Parlando di musica in genere, consiglio di comprendere i concetti studiando i dischi, sviluppando
l’orecchio e un proprio linguaggio. Al chitarrista consiglio di non fossilizzarsi sul lato visivo che il nostro
strumento offre, ma di pensare da musicista, utilizzando più la testa e l’orecchio e meno gli occhi e le
diteggiature meccaniche che si memorizzano.
Dai anche consigli sugli ascolti? In genere i
giovani hanno bisogno di essere indirizzati anche su un percorso di questo tipo.
Partire sempre dalle origini, che sia jazz, blues o
pop! Da lì, studiare i moderni è molto più semplice.
Sì, non ho mai fatto un CD con così tanti musicisti.
E sì, la realizzazione è stata complessa e difficile,
perché è una produzione di stampo pop, cioè sono
pochi i brani in cui suoniamo tutti assieme. Abbiamo
fatto tutti assieme le basi di basso, batteria e tastiere e alcuni miei assoli, a Milano. Successivamente
ho aggiunto altre chitarre nel mio studio, mentre altri strumenti e cantanti sono stati fatti in seguito in
altri studi. Altri musicisti, come ad esempio l’amico
Ney Conceição, sono stati registrati oltreoceano e
inviati via Internet. Un lavoro lungo, e soprattutto è
stato difficile scegliere le parti e decidere quand’era
il momento di dire che tutto era OK (per me non lo
è quasi mai!)…
Vorrei adesso parlare con te della strumentazione: vedo che usi sempre degli strumenti bellissimi, in genere chitarre archtop.
Sì, ultimamente uso solo archtop. La mia preferita
è una Gibson ‘Johnny Smith’ del 1964. È uno strumento stupendo, con grande volume, attacco e un
suono ‘acustico’. Poi utilizzo anche una Gibson L-5
e una Gibson 175 del 1980, che suono anche con
qualche effetto…
In genere però non sento mai molta effettistica nelle tue incisioni, solo un po’ di riverbero, o
sbaglio?
Esatto; utilizzo un po’ di delay qualche volta. Con
il Trio Bobo, invece, suonando in una situazione più
indirizzata al jazz rock con Faso e Christian Meyer,
aggiungo ogni tanto un overdrive o qualche filtro
come il phaser e l’envelope filter.
A proposito dell’aspetto compositivo, ti piace
questa parte della tua attività, ami comporre? E
come procedi, parti da un’idea compositiva che
sviluppi, o lavori su un tema preciso come potrebbe essere ad esempio un CD dedicato a un
argomento, città o altro?
Di solito parto da un’idea qualunque, alcuni accordi o frammenti melodici, poi posso arrangiare il brano anche in modo diverso, se è possibile. Altre volte
parto da un’idea precisa: ad esempio voglio fare un
brano veloce in 3/4 o una bossa nova, e procedo.
E per quello che riguarda gli amplificatori?
Girando molto, devo spesso accontentarmi di ciò
che trovo. In ogni caso i Fender valvolari o i Roland
Jazz Chorus sono i miei preferiti, e quelli che quasi
sempre mi fanno trovare.
Per tornare all’argomento didattico di cui sopra, che ne pensi delle moderne scuole di jazz?
Ormai questa musica è nei Conservatòri, e molti
giovani si iscrivono a questi corsi per apprendere il jazz un po’ su imitazione di quanto da
tempo accade negli Stati Uniti: pensi che il jazz
possa essere realmente ‘insegnato’?
Sicuramente si possono insegnare i concetti,
come fosse la grammatica per una lingua. In seguito però deve essere l’allievo a comprenderne la
logica, perché quella non si può insegnare ma solo
far notare.
Suoni anche chitarre classiche o elettrificate
con le corde di nylon?
Sì, mi piacciono molto, anche se dal vivo preferisco quasi sempre le archtop. Ma poi, sai com’è,
appena nasce un nuovo progetto che preveda l’utilizzo di una classica, cominci a suonarla di più e
diventa il tuo strumento preferito per un periodo…
A conclusione della nostra intervista, vorrei
chiederti alcune indicazioni sulla tua discografia: quali sono le tue incisioni che ritieni più rilevanti e che ti rappresentano meglio?
Trio Bobo, Sketches of Miles e Historias.
Gli americani danno molta importanza alla
pratica sullo strumento.
E hanno ragione.
Vuoi lasciare un tuo recapito o una email per i
nostri lettori che vogliano contattarti per lezioni
o consigli?
Certo, il mio sito www.alessiomenconi.com, dove
si possono trovare i miei contatti.
A te piace l’insegnamento? Eserciti un’attività
didattica?
Insegno in conservatorio a Genova, e privatamente nella mia piccola scuola di chitarra AMG presente
Domenico Lobuono
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