Don Stefano Fontana, testi e bibliografia a cura del bibliotecario

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Don Stefano Fontana, testi e bibliografia a cura del bibliotecario
LA FAMIGLIA E IL PALAZZO SOMEDA
IN PRIMIERO
Sviluppo e decadenza
D’una famiglia, che lasciò in Primiero il ricordo della più superba e signorile dimora, che certo ebbe
nell'archivio domestico scritture molteplici e importanti, che passò come una meteora luminosa
prima, poi rapidamente oscurata e scomparsa, finora, all'infuori del nome, poco o nulla fu noto. Lo
studio presente intende raccogliere le scarse e frammentarie notizie rintracciate sul casato dei
Someda e sulle vicende, non sempre liete, del loro storico palazzo.
I Someda, termine applicato in senso estensivo anche ad altri abitanti dell’omonima frazione di
Moena e non esclusivamente alla famiglia che poi lo avrà proprio, appariscono in lontano contatto
con Primiero nell’estimo dei monti della giurisdizione, rinnovato nella casa del marzolo di Siror
Andrea Fontana nel 1504: Item aestimaverunt montem Boche sive possessiones illorum de Someta
super eodem monte de Boche tr. 14001. Su questo possesso getta maggior luce una pergamena
dell’archivio Vescovile di Feltre.
Ai 30 dicembre 1557 a Moena, nella casa del notaio Lazaro figlio di Antonio Bozeta di
quella villa, Giovanni del fu Nicolò Jacomuci di Varena vendette al sig. Pellegrino del fu Antonio
della Lena ville Submede e ora abitante super foro vallis Primerii, mercante di legnami, per
l’importo di 249 ragnesi, una parte del monte Bocche, quella posta a mattina sopra il monte di
Lusia, nella giurisdizione del castello della valle di Primiero. Egli ne possedeva già un’altra, verso
mezzogiorno, acquistata prima dal Vescovo di Feltre, che da secoli ne era padrone. Il documento
citato sopra si deve riferire a questa.
Il cognome dunque è tratto dal luogo d’origine, forse da Pellegrino stesso e forse a lui fu
applicato dal popolo e dalle autorità di Primiero e riconosciuto nel diploma di nobiltà del 1605
coll’appellativo di Chiaromonte. Domiciliatosi in Primiero poco prima del 1550 egli dovette la sua
agiatezza al traffico lucroso dei legnami, di cui la valle abbondava, anche se odiose restrizioni
fiscali ne limitavano lo sfruttamento, come numerosi atti di proteste, contestazioni, contrabbandi e
punizioni ancora lo dimostrano2. Nel 1544 godeva ascendente e primeggiava tra i colleghi di
mercatura, perché nella laboriosa divisione delle imposte entro la comunità egli intervenne a nome
suo e degli altri mercanti, protestando energicamente contro tentate, anzi decise, imposizioni e
appellando alla Cesarea Maestà, da cui avevano la concessione del taglio e traffico, coi soliti
gravami, ai quali senza il consenso di quella, non se ne potevano aggiungere di nuovi3.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
NB. - Gli ATTI NOTARILI (A.N.) citati sono conservati nel R. Archivio di Stato in Trento.
Molte notizie minute o date, di cui non è indicata la fonte, furono ricavate in massima parte da quelli e dai registri canonici di varie
parrocchie.
1ADDITIO STATUTORUM VALLIS PRIMERII (in possesso dello scrivente), pag 75
2ARCH. WELSPERG-MONGUELFO, Holzstraffen in Herrschafft Primör, Capsa 67, E 405 e altri documenti di
quell’archivio
3 ADD. STATUT. pag. 90
Coi mezzi ricavati era giunto, tra altri acquisti, a quello di monte di Bocche, nell’estimo dei
monti forensi (posseduti allora o in passato da forestieri) del 1587 ancora in possesso del figlio:
Nobilis et Magnificus dominus Ioannes Sometta possidet montem de Boche, ll. 20104.
Oltre il commercio di legnami, che si lascia notare costante nella famiglia fino nel secondo
decennio del 1600, Pellegrino e Giovanni esercitarono altre industrie, con fornire p. es. olio alle
chiese (1560-63 a Siror), calce ecc.5 : perciò il loro patrimonio coll’attività favorita dalla fortuna
s’era considerevolmente aumentato, tanto che la famiglia era diventata la più agiata di Primiero,
con cui, non contando quella dei Welsperg, a mala pena la più anziana degli Scopoli poteva
competere. Pellegrino, artefice primo del suo benessere, munifico, benemerito e compianto dai suoi
nuovi concittadini cessò di vivere a 55 anni nel 1564. Il figlio gli dedicò una lapide, la più antica
mortuaria conservata, infissa all’esterno della chiesetta di San Martino presso l’arcipretale:
p
OBIIT AN. MDLXIIII
ULTo AUG.ti IO. FILIUS FIERI CURAVIT
Ora Giovanni vedeva prosperare i suoi affari e crescere intorno la famiglia; dovette perciò sentire la
necessità e anche un po' l’ambizione d'avere un domicilio corrispondente al suo censo, al numero
dei figli, che entravano a far parte delle cure domestiche, e alle nuove famiglie che ne derivavano.
Difatti il vecchio Giovanni Battista prima del l590 aveva sposato una Cornelia, verso il 1605
Susanna dei baroni Trapp, Baldassare nel 1603 Margherita ved. di Giacomo Fiamazzo di Fiera,
Ottavio verso il 1606 Ottavia baronessa di Castelbarco e Gio. Pellegrino nel 1602 s'era laureato in
legge a Padova. Le aderenze anche per nobili di data recente, come loro, erano già cospicue.
Giovanni aveva dunque pensato a una sede dignitosa per tutti i suoi presenti e almeno
prossimi futuri discendenti, e la fissò nel centro della valle, allora luogo isolato, sebbene di facile
contatto colle ville vicine, specialmente con Fiera e colla parte di Transacqua che risuonava di
magli e d’incudini nella vecchia ferrarezza. Là nell'angolo di confluenza dei torrenti Cismon e
Canali, non arginati, capaci di servire alla difesa e all'offesa, fece gettare le fondamenta nell'ultimo
decennio del 1500. E il palazzo sorse imponente, quadrato, spazioso, ricco di pietre lavorate e di
luce, con trifore e poggioli eleganti, come la migliore rinascenza lo poteva suggerire. Nell'interno
con simmetria un ampio salone centrale affiancato da stanze, dove lo stuccatore e l'intagliatore
profusero ora ricca ora sobria bellezza. A pian terreno dopo il nobile portale d'ingresso un atrio, che
attrae anche oggi l'attenzione per la sua statica indovinata, come la trabeazione della copertura
piramidale per il compenso della gravitazione risolto in una forma del tutto caratteristica. E poi
lavori in ferro battuto, di cui Primiero abbondava, parte dorati, su porte e lunette e corrispondente
l'arredamento.
Anche le adiacenze ebbero adeguata sistemazione: un giardino cinto di mura merlate con
chioschetto in muratura, il fianco del suolo non chiuso dalle acque cordonato da un muro che finiva
in due portoni e ne formava, con un terzo nel mezzo, gli accessi. Di dentro una vasta prateria con
piantagioni d’alberi ed edificio rustico. Così lo aveva ideato Giovanni, che forse non lo vide
perfezionato del tutto, perché nel 1603 aveva raggiunto il padre nella tomba.
In quel superbo maniero ricordato nel 1610 in mezado inferiori pallatii nob. dnorum de
Sometis in Claromonte, nel 1614 in stuba maiori pallatii ecc. nel 1626 in la camera su alto del
Palazzo6 ecc. presero dimora gli eredi di Giovanni tenuti in considerazione dalle distinte famiglie
locali ed estere, che andavano a gara a prestar l’ufficio di padrini al battesimo dei figli che
aumentavano. Nel 1624 tre famiglie contavano una ventina di individui.
4 IBID., pag. 92
5 ARCH. PARR. SIROR, Conti chiesa.
6 ATTI NOTARILI DIVERSI.
Per qualche decennio sostennero con dignità la loro condizione in grazia della concordia e di
fortunate operazioni commerciali. Nel 1603 i Someda si offersero a riattivare, come soci dei
Welsperg, la miniera di ferro di Transacqua, ch'era in rovina, se fosse levato il dazio sul carbone,
ferro e acciaio7. Giovanni conchiudeva nel 1614 un buon contratto per legnami all’Avisio, che
superava i 1500 ragnesi8 e ne avrebbe fruttati a lui ben di più. Seguiva in ciò l'esempio del padre
che nel 1581, per poter fluitare il legname, supplicava il Vescovo di Trento di concedergli la facoltà
ad mundandum flumen Avisii ut rates possint decurrere.9
Tanto solida sentivano la loro base i quattro fratelli che nell’ottobre 1616 comperavano dai
baroni Trapp la giurisdizione di Caldonazzo10. Il Card. Carlo Madruzzo, a cui di diritto spettava il
feudo, diede consenso e investitura e delegò ai 23 gennaio 1617 i capitani di Levico e Pergine a dar
loro il possesso, esigendone il giuramento di fedeltà coll'intimazione ai sudditi di riconoscere i
nuovi padroni e di prestar loro giurata ubbidienza11. I Trapp avevano consegnato con gli urbari i
documenti dei diritti, che essi cedevano colla vendita. I ricchi mercanti erano divenuti dinasti.
Giovanni sperava hauer a quietamente fruire il possesso già ottenuto, quando spuntarono in
fretta le spine e proprio per gli intrighi del venditore barone Osvaldo, che cercava d'impedire il
governo con notificar alli suddeti che revochino il giuramento et si dechiarino voler essere
sottoposti alli primi padroni.12 Uno dei Trapp, Ferdinando, era persino entrato nella giurisdizione
con gente armata e là si indugiava turbando il feudatario, che invocò subito, ancor nel 1617, l’aiuto
e la difesa del Cardinale. Ai baroni e ai loro complici fu tosto ingiunto di desistere da qualunque
molestia ai Someda e ai loro ufficiali, pena la perdita d’ogni diritto e cento marchi di multa13.
Quale fine avesse quel doloroso incidente dai documenti non appare. Quel minuscolo dominio
dovette però essere assai breve, perché Osvaldo nel 1620 era tornato giurisdicente; invece il dissidio
tra le due famiglie continuò e la controversia feudale nel 1640 non era ancora appianata14.
Dopo quell’increscevole e dispendiosa parentesi i Someda restrinsero di nuovo l'attività in
Primiero, ma la loro buona stella ormai declinava. La consistenza interna accennava a sconnettersi,
la floridezza ad avvizzire, forse perché non s'incontra più in seguito accanto al loro nome quel
mercatores lignaminum, che li aveva fatti grandi, forse perché giunti rapidamente ad un’insperata
agiatezza non seppero usarne con prudente discrezione e la fortuna, che li aveva portati lassù, ne
continuava inesorabilmente il giro in discesa. E fu un vantaggio che in casa entrarono, coi
matrimoni, risorse di famiglie abbienti a rallentarla. Nel 1620 Giovanni passava ai Ceschi di Santa
Croce la metà della montagna Tognazza per 600 ragnesi15, più tardi anche l’ampio prato di
Valmesta diventa proprietà dell'ardito capitano Baldassare Poppi16, e il Melaso non era più dei
Someda come nel 1609.
Ma quando, defunti nel giro di circa trent'anni i quattro fratelli, di cui tre senza discendenza
maschile, la loro famiglia si concentrò nei figli d’Ottavio, specialmente nel più giovane Giulio
Cesare che si fece a poco a poco arbitro delle sostanze avite, le cose volsero al peggio. Rimasto
orfano di padre a tre anni, era stato avviato, col fratello Ferdinando maggiore di
dieci, alla carriera delle armi e divenne capitano militare cesareo. Ferdinando, che non appare mai
negli affari della famiglia, raggiunse il grado di colonnello. Giulio fu perciò spesso assente dalla
7 MAX VON WOLFSTRINGL - WOLFSKRON, Die Tiroler Erzbergbaue - Innsbruck 1903, pag. 349.
8 A.N. Andrea Scopoli, fasc. II, N. 65.
9 REPERTORIUM ARCH. EP. TRID., parte II, Capsa 392.
10 DES REICH, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni - Trento 1910, pag. 200.
11 ARCH. ST. TRENTO, Arch. Vescovile, Capsa 57, N. 163.
12 IBID., Capsa 57, N. 164.
13 IBID., Capsa 57, N. 165.
14 IBID., Capsa 82, N. 28.
15 ARCH. COMUN. PRIMIERO, Pergamena 1655.
16 ARCH. COMUN. PRIMIERO, Pergamena 1655.
patria e in ogni modo per educazione, e forse per carattere, non atto a reggere una casa, ad
amministrare un patrimonio, e non fu rigido custode delle sane tradizioni morali paterne .
Per mala sorte i due fratelli, avvezzi più a guidar soldati che a sfruttar industrie, si lasciarono
lusingare dall'impresa rischiosa della fabbrica di vetriolo a Caldonazzo, dove era ancor fresco
l'amaro di quel disgraziato tentativo di cercata grandezza. Ferdinando ne fece acquisto ai 22
settembre 1650, ma l'azienda fallì per difetto di mezzi. Ai 27 aprile 1654 fu investito Giulio, che
due anni dopo ne veniva privato17. Dopo tali disdette la catastrofe precipitò.
E' un sintomo della dissoluzione una frequenza crescente di vendite. Nel 1658 Giulio è
debitore a Sebastiano Tisoto di 470 troni18, nel 1659 vende
a Giorgio Althamer terreni per 439 troni19, nel 1660-61 a lui due fertili prati a Fedai per 3800
troni20, inoltre Giorgio nel 1666 si dichiara suo creditore di 3000 lire21. Nel 1660 vende due
cavalle per 280 troni22, nel 1662 terreno alla certosa di Vedana per 1234 troni23. Lo zio Pellegrino
aveva alienato nel 1658 un prato per 750 troni24 e prima 66 passi di terra alla confraternita del
Confalone. E tutto per estinguere debiti. Anche un contratto di locazione del maso di piovole a
Gosaldo con Cristoforo Bernardin, nel 1661, pare risenta la tensione della necessità. Il conduttore
darà 25 staia di frumento, 35 di segala, 10 d’orzo, 20 di formenton, 30 passi di fieno e la metà della
dorge (secondo fieno); dovrà seminar per il locator uno staio di semenza di lino, cavarlo,
desemenzarlo, metterlo in acqua, legarlo in faie e consegnarlo; consegnare metà degli strami, ogni
novembre 300 lumaci, a Natale un paro de caponi, a Pasqua 100 uova, mantener fabbriche, pagar la
metà delle angerie ordinarie25, ecc.
Così pure la parte, che ebbe il nominato notaio nob. Giorgio Althamer intorno a Giulio
Cesare in questi anni, non è lumeggiata con sicurezza. Il patto del 1666, piuttosto curioso, anche
nelle determinazioni particolari, d’unire per dieci anni i beni delle due famiglie in previsione del
matrimonio del primo con Ottavia sorella del secondo, ha un po’ del mistero26. Forse il notaio
intendeva mettere al coperto i suoi crediti e assicurarsi una buona dote, che G. Cesare, realmente
poi versò generosa in 10209 troni. La convivenza degli sposi però ebbe assai breve conforto, e
quattro anni dopo Ottavia moriva a 46 anni.
Nell'anno 1686, sei anni dopo la morte di Giulio Cesare, le inondazioni avevano recato
danni al suolo e a qualche fabbricato e per giunta s’era infiltrato come curatore dei figli un
forestiero Bernardo Bertoldi da Belluno, che contribuì a ridur nella miseria quella famiglia, che si
pasceva ancor di titoli e di illustri parentele. Per opporre un argine ai bisogni si pensò a sbarazzarsi
della cappella.
17 DES REICH, Op. cit., pagg. 200-201.
18 A.N. Giovanni Strosser, IV, 19, N. 152.
19 IB., IV, 20, N. 73.
20 IB., IV, 21, N. 35 e V, 22, N. 101.
21 IB., VI, 27, N. 90.
22 IB., V, 21, N. 83.
23 IB., IV, 22, N. 56.
24 IB., IV, 19, N. 118.
25 IB., V, 22, N. 27.
26 IB., VI, 27, N. 90.
La cappella.
Dopo aver compiuto l’edificio maggiore per gli uomini Giovanni stesso, prima di reclinare il
capo stanco, con un codicillo del 1603 aveva disposto, come legato, l’erezione d’uno di minor mole,
ma di non minore eleganza, al Signore, una cappella in Chiaromonte attigua al palazzo, dotandola
con 100 ragnesi d’entrata annuale e dodici carri di legna, estratte dai beni patrimoniali, per la
celebrazione d’una Messa quotidiana27. Per oltre trent’anni se ne scordarono gli eredi, e solo nel
1636 Giovanni suo figlio, nel testamento dei 18 febbraio, ricordò e volle soddisfatto
quell’obbligo28. Veramente, per qualche tempo almeno ( 1604 -1606-7), alla sostanza fu
soddisfatto nella parrocchiale29.
E sì che il padre suo morendo aveva largheggiato colle tre figlie di lui, dotando ciascuna con
2500 fiorini. L’anno seguente 1637 anche egli, il più attivo e premuroso dei fratelli, consigliere
arciducale, moriva, lasciando solo discendenza femminile, perché l’unico figlio che aveva varcata la
giovinezza, gli era morto in guerra. Il tempietto grazioso era eretto già nel l636 ed ebbe alle volte un
sacerdote addetto alla sua cura. In quello fu nel 1666 benedetto il matrimonio tra i già menzionati
Giorgio Althamer e Ottavia Caterina, e più tardi nel 1685 quello del distinto medico e storico di
Primiero Antonio Rachini con Margherita nob. Scopoli di Tonadico.
La sua esistenza però non ebbe lunga durata. Ai 16 luglio 1687 in casa del vicario Giovanni
Piazza il curatore Bertoldi espose come in causa delle brentane dell’anno passato hanno fatto
derocar la chiesa sive capella d’essi Signori contigua al pallazzo, come anco condotto via la mittà
e più della loro chiesura, quali l’unico loro sostentamento, col ritrovarsi l’istesso pallazzo sotto il
medesimo pericolo, oltre che il coperto di quello ritrovasi totalmente guasto, né esser essi Sig.ri in
statto di rimetter non solamente esso coperto, ma neanche la predetta capella, anci vi bisogna di
provvedergli l’allimento et vestito necessario, né sappendo ove far detta provisione con minor
danno dell’istessi Sig.ri heredi, quanto che col esito della loro campana, che già s’attrova levata
dal coperto, anci quella sia per estradarla fuori della giurisditione e mandarla alli R.R.P.P.
riformati di Cavales, ma essendogli stata ricercata dal sig. Gio. Antonio Zanona purgermaster
della Fiera per la loro chiesa della B. V. del Aggiuto, così instanti la maggior parte dei vicini, a che
esso curator maggiormente inclina, mentre anco gli vien fatto meglior conditione... prega essergli
permessa et decretata la licentia di vendere detta campana al prefato purgermaster, ecc.30.
In conclusione il vicario autorizzò la vendita e col consenso di Lucia n. Galeazzi, ora sua
consorte e già moglie del q. Someda, il Bertoldi vendette al borgomastro la campana ricavandone
659 troni31. Ma poi dagli eredi col curatore, che aveva fatta quella triste relazione sullo stato dei
Someda, si fecero richieste al Vescovo per ottener licenza d’alienare le altre suppellettili, che
possiamo ben ritenere decorose e di pregio. Il Vescovo delegò l’arciprete Cristoforo Moarsteter a
constatare la necessità e nel caso permettere la vendita, ma egli non si sentì in grado di farlo e gli
espose confidenzialmente i motivi:
1. La cappella non è diroccata dai fondamenti, ma solo la parete, dov’era l'altare.
2. Molte persone lascian capire che la vogliono restaurare (circa 50 ducati di spesa).
3. Tutto il paese mormora contro il curatore ( bandito dallo stato veneto) che s’ammogliò colla
vedova Someda e divora la sostanza dei pupilli.
27 IB., I, 5, N. 120.
28 IB., I, 5, N. 120.
29 ARCH. VESC. FELTRE, Status Cleri, pag. 648 e 668
30 A.N. Giorgio Francesco Piazza, fasc. 4, N. 96
31 A.N. Giorgio Francesco Piazza, fasc. 4, N. 96
4. Sono poveri, ma vi sono nobili persone, che pensano ai loro figli ( uno paggio in Innsbruck, un
altro in un collegio di nobili in Alemagna)32.
La chiesetta rimase com’era. Nel 1698 l’arciprete Gio. Batta Zanoni riferiva a Feltre:
L’oratorio assai bello dei Nob.i Sig.i Someda di Chiaromonte è stato rovinato dal torrente
dell’acque33. Due anni dopo esisteva ancora, ma nella relazione minuta di tutte le chiese e cappelle
spedita al Vescovo dall'arciprete Giuseppe Mosconi nel 1726 non compare più34, come è ignota la
sorte delle suppellettili, dei paramenti e dell'arredamento.
I Leporini.
Restava il palazzo in pietose condizioni, e la famiglia l’aveva abbandonato alla corrosione delle
intemperie, che lo avrebbero ridotto al crollo, dopo un secolo d’esistenza, tanto che i rappresentanti
stessi della comunità se ne risentirono. Ai 7 gennaio 1697 i marzoli (sindaci eletti il primo marzo)
radunatisi dinanzi al vicario Gio. Batta Nocher attestano come di presente il palazzo di
Chiaromonte degli heredi figli q. Giulio Ces. Someda de Chiarom. capitano è la maggior parte
senza copertura et in evidente pericolo di diroccare in brevissimo tempo, cosa che dispiace a
questo paese per perder la nobil vista che rendeva esso palazzo, et per causa di detta copertura non
può al presente esser habitato dalli medesimi, i quali devono con danno et indecenza al loro stato
habitare ulla casetta in affitto35.
Proviamo un senso di viva compassione a tali parole per le persone e per la loro avita dimora così
decadute, e insieme ci destano sincera ammirazione, ma non piena sorpresa, il sentimento artistico e
la cura dell'ambiente nei nostri prepositi in quel tempo, in cui il gusto dell’arte era tra il popolo ben
più diffuso, coltivato ed espresso che oggi. E nell’abiezione, in cui deplorevolmente era lasciato, il
palazzo trovò ancora la sua salvezza. Forse s’incontrarono sulla minacciata rovina le intenzioni del
degno curatore, presentato dall'arciprete nel suo vero profilo, che bramava disfarsene e d’un signor
che aspirava a ridargli l’onore meritato per lustro della sua famiglia. Ai 27 febbraio 1700 quel
nobile edificio abbandonato nello squallore diventava proprietà dell’ecc.mo dottor Andrea Leporini
di Primiero36.
***
Di bassa origine Giovanni Leporini da Vicenza era venuto a Trento e vi aveva esercitato
l'ufficio di maestro di grammatica tra gli anni 1571 e 1580. Suo figlio Orazio era a Pergine nello
stesso ufficio nel 158037, ma il figlio di lui Andrea s’elevò di grado: nel 1012 e 1615 era sindaco di
quella comunità, dal 1593 notaio e nel 1634 morì cittadino di Pergine, lasciando numerosa
discendenza dai suoi tre successivi matrimoni. Il suo terz’ultimo figlio Francesco continuò la via
d’ascesa, nel 1650 si laureò in legge, come il fratello Claudio, e verso il 1660 fu chiamato in
Primiero a succedere, come capitano della giurisdizione, al grande e dovizioso Baldassare Poppi di
Borgo morto due anni prima. Da allora la famiglia entrò nelle file dell'aristocrazia locale e della
nobiltà. Per cinque generazioni dimorarono i Leporini in Primiero imparentandosi coi migliori
casati.
32 ARCH. VESC. FELTRE, Materie della diocesi a p. imp. I.
33 IBID., Vol. 253, pag. 18
34 ARCH. ARCIPR. PRIMIERO, Relazione Mosconi 1726.
35 A.N. Giac. Ant. Moasteter, II, 23, N. 1.
36 IBID. Giorgio Francesco Piazza, fasc. 13, N. 16
37 STUDI TRENTINI, Anno I (1920), pag. 310.
Fu il figlio Andrea dottore, capitano e vicario, procuratore del priorato di San Martino di
Castrozza, più tardi conduttore della ferrarezza e indefesso, interessato trafficatore, che, colto il
momento opportuno, e ormai provvidenziale, acquistò per propria residenza il palazzo Someda,
abbandonando così le case che la famiglia teneva al Forno e in locazione a Fiera dal vicario
Giuseppe Ben Ceschi di Santa Croce. L’atto di compera rogato dal notaio Giorgio Francesco
Piazza, che certo conteneva informazioni e dati preziosi, non fu conservato. Alle riserve invece di
ricupero, incluse per la minorennità del figlio Ferdinando Someda, rinunciò il figlio stesso ai 10
giugno 1704 prevedendo di non poter reccuperar dette fabbriche et cose vendute, e ratificando la
vendita colla gratificazione in suo favore di 300 troni38. Due anni prima il Bertoldi aveva aggiunto
alla vendita del 1700 un prato nella chiesura di Chiaromonte dietro il muro grande per 416 troni e
poi aveva trasferito al medesimo Leporini tutte le ragioni di giare, che possedevano i sig.ri Somedi,
dalla chiesura sopra il muro grande sino su in cima e sino all’acqua delli Canali per 270 troni.
Così tutto quello che il Someda assieme col molto illustre Bertoldi di lui padrino e curatore aveva
venduto, cioè le sue Fabriche del Pallazzo, Chiesa e fenille et altro ivi contiguo, il tutto in cativo
stato e quasi dirocate, in una parola quanto era racchiuso
nel triangolo Cismon-Canali-muro, divenne possesso definitivo dei Leporini39.
Non v’è dubbio che il nuovo padrone riparò l’edificio e gli restituì l’antico decoro, forse
aggiungendone di nuovo. Ormai la famiglia s’era arricchita e continuava a comperare, come soleva
fare chi ne aveva i mezzi. Andrea, secondo e più valido promotore delle fortune familiari in
Primiero, moriva nel 1723 a 65 anni, cedendo il posto al primogenito e più splendido Ferdinando
Francesco. Costui, dottore in utroque nel 1717, fu vicario e capitano per trent’anni e fece della
ripristinata nobile dimora il palazzo del suo governo: in aedibus nostrae residentiae in pertinentiis
Transaquae è la dicitura d’una quantità di atti. Morì a 54 anni nel 1749.
Si può ricordare con onore il fratello suo Giuseppe pure dottore, nato in Chiaromonte nel
1710 e vissuto gli ultimi trent’anni a Vienna alla corte di Maria Teresa come istruttore e storiografo,
poi consigliere fiscale imperiale incaricato di commissioni importanti e delicate, uomo retto e
prudente, morto
nel 1779. Da questo momento la famiglia tende a discendere e, scossa alquanto nella sua compagine
interna, verso la fine del 1700 sparisce da Primiero. Il palazzo, che correva nuovo pericolo di essere
trascurato e danneggiato, passò a tempo in mani che ne conservarono aristocraticamente il decoro.
I Bosio.
Giovanni Bosio, da parecchi anni notaio a Canal S. Bovo, s’era trasferito quasi sessantenne a Fiera
e salito alla nobiltà e fornito di censo aveva adocchiata l’occasione di far suo quell’edificio
conveniente per lui, e lo volle. Ai 12 aprile 1780 acquistava dal nob. Francesco, ultimo figlio del
capitano Ferdinando, a quanto pare in condizioni economiche non floride, la metà che a lui spettava,
aggravata da qualche ipoteca verso Pietro Paolo Piazza, per 4533 troni. Nella specifica delle parti
cedute possono interessare: una bottega a man dritta dentro la porta maestra, parecchie porte
ferrate, fodre a intaglio, alcuni armari murati: in complesso molta pietra lavorata e molto ferro
battuto40. Quando l’altra metà del palazzo e delle adiacenze, posseduta dalla sig.a Teresa Heess
nata Leporini e dimorante a Vienna, sia passata ai Bosio, non si conosce: senza dubbio presto.
Giovanni vi pose subito domicilio e fu anche facile ricavare dall'antico nome locale di
Chiaromonte il suo titolo nobiliare di Chiarofonte, von Klarenbrunn, ricordato ancora dalla scritta
sopra l'entrata principale AEDES IN CLAROFONTE. Ma prima di scendere nella tomba egli
bramò appagare il pio desiderio d’avere un oratorio privato, come un tempo i Someda, non più
38 IBID., Giorgio Francesco Piazza, fasc. 13, N. 16
39 ATTI NOTAR. DIVERSI.
40 A.N. Celso Trotter, III, 25, N. 102.
staccato, ma entro la casa, e assegnò a questo scopo quel primo locale a destra che serviva di
bottega, facendolo ridurre e ornare con proprietà. Frattanto aveva presentato domanda,
indispensabile allora, al governo di Innsbruck e, avutone decreto di permesso, avviò le pratiche col
Vescovo supplicandolo a volermi graziosamente concedere l’indulto di avere eretta nella mia casa
in Chiarofonte una Cappella privata a beneficio della mia famiglia, domestici, ospiti e commensali
con quelle prerogative, che permissibili sono e che ricercasi dalla situazione del luogo soggetto
agli accidenti delle inondazioni41 ecc. E più tardi, ai 22 febbraio 182, lo informava che la cappella
sarebbe stata pronta per la benedizione nella prossima visita pastorale e ribadiva la necessità di
avere una cappella nel mio Pallazzo in Chiarofonte da ogni parte investito da due torrenti, che
colle inondazioni frequentemente mi tolgono la via di comunicare con questo borgo della Fiera...
La religione e la pietà sono la base della mia supplica e conseguentemente con fiducia42 ecc.
La concessione venne prima scritta e poi a voce. Difatti ai primi di giugno il Vescovo
Benedetto Ganassoni chiudeva in Primiero, ed entro l’autunno in Valsugana, le visite pastorali, che
i suoi zelanti antecessori tante volte con gaudio e profitto dei fedeli avevano compiute, ritirandosi
poi a Feltre ad attendere dall'imperatore quella dolorosa mutilazione della sua diocesi, che lo
doveva portare, l’anno stesso del provvedimento 1786, alla tomba per crepacuore ridotto quasi
piovano.
Ai 28 maggio visitò la cappella Bosio, la trovò decentemente costruita, separata da ogni uso
domestico e sulla verità dei motivi esposti concesse la celebrazione quotidiana della Messa,
eccettuate le quattro feste principali, delegando l’arciprete Cristoforo Carneri a benedirla43.
Conteneva un altare in muratura e stucco, con pala di buona fattura rappresentante
l’Immacolata, nella forma tradizionale, venerata da S. Francesco de Paola, che regge un’asta con
targhetta recante il motto CHARITAS, l’emblema dell’ordine dei Minimi da lui fondato. Sopra la
porta d’entrata si legge l'iscrizione:
D. O. M.
B. M. V. S. LABE CONCEPTAE
D. FRANC. A PAULA FAMILIAE PATRON.
SACELLUM HOC
SE AC POSTEROS INTERP.
DICAVIT
JOH. BOSIUS A KLARENBRUNN
A. D. MDCCLXXXII
La cappella vide qualche cerimonia solenne in occasione di battesimi della famiglia. Non
più usata al culto esiste ancora discretamente conservata.
Nuovo splendore e decorazioni ebbe anche il palazzo dal buon Giovanni che vi chiudeva
stanco gli occhi a 86 anni nel 1805. Lo sfarzo però toccò il colmo per opera del figlio Francesco,
che alla nobiltà paterna e della madre Angela Petricelli di Feltre, aggiunse quella dei Bilesino di
Fonzaso. Lo sfoggio di grandezza e le feste clamorose, come forse mai furono date entro quelle
pareti, sono ancor vive nella tradizione. Ma durarono poco e parve che il destino delle due famiglie
si volesse unire nella loro caduta. I Bilesino si estinguevano in quel tempo: a Fonzaso li ricorda la
piazzetta davanti al loro palazzo (ora dei nob. de Panz con loro imparentati).
Francesco sopravvisse alla moglie Francesca, nobile di quel casato, morta nel 1830 a 48
anni. Dei figli merita un cenno il medico dott. Alessandro, che trafficò per sorreggere le sorti della
casa, ma presto dovette alienare la vecchia sede e ritirarsi al di là del Cismon in una abitazione ben
più modesta (ora di C. Nicolodi), lasciando in Chiarofonte le insegne della nobiltà in due stemmi e
41 ARCH. VESC. FELTRE - fasc., Tesin e Primiero.
42 ARCH. VESC. FELTRE - fasc., Tesin e Primiero.
43 ARCH. VESC. FELTRE - fasc., Tesin e Primiero.
nella cappella il ricordo della pietà del vecchio notaio. Anche l’ameno podere di Osne, che la
famiglia aveva fornito di convenienti edifici per sollazzo e villeggiatura44, passò ad altri padroni.
Dopo la morte del medico cinquantenne nel 1865, la moglie Antonietta Barbò Soncin raccolse i figli
a Rovereto, poi anche l’ultima dimora fu venduta, e i de Bosio emigrarono da Primiero.
Il palazzo divenuto proprietà del sig. Giacomo Bonetti, detto boccele, ritenne d’allora questa
denominazione. Più tardi il figlio Angelo ne vendette una parte a Giovanni Mott e i loro discendenti
lo possiedono e abitano tuttora. In questo periodo fu levato ed esulò dalla valle il rivestimento in
legno d’una stanza al primo piano, che testimoni oculari ricordano e descrivono come un mirabile
capolavoro di disegno e d’intaglio.
I Someda dopo il 17OO.
Staccatisi da Chiaromonte i Someda abitarono a Fiera. Restava ancora un segno della loro
considerazione passata, un banco nell’arcipretale in posto distinto appo la Sacrestia, e Ferdinando
lo cedette nel 1719, a saldo di debito, al capitano dott. Gio. Francesco Gilli per 100 fiorini45.
Frattanto con sacrifici aveva avviato agli studi il figlio Giuseppe e per lui che da sei anni studiava
nel Seminario di Feltre, chiedeva nel 1731 al Vescovo il condono di venti ducati, affinché egli
povero gentilhuomo lo potesse vestire con qualche decoro46. In seguito si ritirò a Canal San Bovo
presso di lui là curato e vi morì nel 1749 dopo aver assistito al crollo economico della casa.
Il figlio maggiore Giulio Cesare, che nel 1736 nella cappella del palazzo Welsperg,
benedetto dal fratello, aveva sposato Anna Felice Giovanelli, col lutto del padre doveva appaiare
quello della moglie defunta non ancora quarantenne lo stesso anno, lasciando numerosa famiglia.
Giulio, diviso dai fratelli, s’era adoperato per migliorare la condizione ed era divenuto maestro delle
cacce del conte. In tale carica nel 1734 aveva concesso al cappellano Don Giorgio Poppi, fratello ed
eredi la licenza di potersi fare un’otia d’ucellare sopra un masierone posto nella campagna di Siror
a Longai47. E pare che abbia potuto raggiungere qualche incarico nell’azienda mineraria del ferro,
perché comprando nel 1740 dal cancelliere Francesco Piazza la casa detta Zasia, da anteriori
proprietari, nella contrada di sopra aveva convenuto di soddisfare i 3390 troni in ferro lavorato,
lama, righetta o spiazola48.
Nel 1743 Giulio Cesare era massaro dell’altare di San Giacomo e nel 1753 dell’arcipretale.
Tuttavia la situazione non dovette essere tanto fiorente, se il figlio Giovanni Nepomuceno
nel desiderio d’abbracciare lo stato ecclesiastico si vide ostacolato dal padre che da qualche tempo
lo aveva lassiato in abandono ed egli sprovisto di mezzi non aveva potuto proseguir li suoi studi49.
Nel 1764 però, vedendolo vicino alla meta, qual padre amoroso volle soccorrerlo del bisognevole
fino alla promozione al sacerdozio, ma richiese il godimento del patrimonio ecclesiastico del figlio
di 5381 troni fino al compenso delle ultime spese incontrate, e con licenza vescovile l’ottenne50.
Anche l’ufficio di daciale e di sottomaestro dei boschi che aveva due anni prima a Moena, non
aveva rialzata la sua condizione. Più tardi in due anni di dimora a Innsbruck 1767-68 per causa di
due pericolose malattie Don Giovanni contrasse nuovi debiti e fu costretto, per estinguerli, a
vendere una casa dello stesso patrimonio51.
44 ARCH. FERDIN. INNSBRUCK, Relazione di Gius. Goldwurm, 1843.
45 A.N. Cristoforo Moasteter, I, 2, N. 207.
46 ARCH. VESC. FELTRE - fasc. segnato 1730-31.
47 A.N. Francesco Piazza, VI, 65, N. 254.
48 IBID. Giorgio Am. Piazza, II, 15, N. 57.
49 IBID. Pietro Pasolli, fasc. 5, N.10
50 IBID. Pietro Pasolli, fasc. 5, N.10
51 A.N. Cristoforo Moarst, I, 7, N. 1.
Restavano i fratelli di Giulio, Don Giuseppe e Francesco Antonio che, fornitosi di
cognizioni farmaceutiche, nel 1745 dinanzi al capitano Leporini, nel palazzo dei suoi padri, dopo la
morte dello speciale Gio. Batta della Giacoma, aveva ottenuto dagli eredi in cessione per dodici
anni il negotio della speciaria et utensili della medesima con patti minutamente specificati52. Ma
sei anni dopo, in seguito a inquietudini e malcontenti sul prezzo delle medicine, la comunità col
consiglio del medico Giuseppe Rachini venne a un accordo con lui, citando il decreto di protezione
del defunto conte Giuseppe Welsperg53. I punti discussi lasciano comprendere delle odiosità nella
richiesta di pagamento, specialmente dai poveri. Nel 1753 cedette a Giulio Cesare tutta l’azienda,
che conteneva 3748 troni di medicinali54, ritirandosi a Cavalese, dove fino dal 1750 teneva
farmacia, e la diresse fino oltre il 177055.
Dopo la morte del padre tra lui e Don Giuseppe nacquero dissapori per causa della eredità,
dei medicinali a lui somministrati, del bosco delle bastie già concessogli dalla Reggenza
enipontana, e stavano per aver un epilogo doloroso in sede giudiziaria proprio nell’anno infausto
1753, in cui il curato aveva dovuto cedere il suo ufficio, quando s’accomodarono con reciproca
utilità e onoratezza. La casa sulla Rivetta restava a Francesco, il prato di Piovole ad ambedue. Don
Giuseppe avrebbe inoltre versato al fratello 2065 troni in altrettanti crediti56. E per riscuoterli era
certo più atto Francesco, che fomentava il disaccordo con l’animo piuttosto gretto, oltre il disagio
economico favorito anche dal contegno non troppo lodevole del fratello. Tuttavia seppe dare
anch’egli alla chiesa un sacerdote, Ferdinando morto curato a Transacqua nel 1793, pochi anni dopo
il padre.
Verso il principio del 1800 scomparvero da Primiero, emigrando altrove, i residui di quella
famiglia, che in più di due secoli, dopo iniziali promettenti successi, non aveva lasciata orma
importante. Un solo laureato, un capitano militare, un colonnello, due farmacisti, un daziaro e
consigliere arciducale, forse di solo titolo, tre sacerdoti rappresentano gli intellettuali. Nelle
molteplici cariche locali, ambite e gradite dalle migliori famiglie, nella comunità, nelle confraternite
e fabbricerie, negli uffici legali e direttivi non s’incontra mai un Someda. Una volta nel 1619 Gio.
Batta consigliere fu eletto procuratore della valle per la dieta d’Innsbruck e per il serenissimo
arciduca, e Giulio fu massaro.
Piuttosto, da uno sguardo d’insieme sui documenti finora potuti esaminare, non molti
davvero, si riporta un’impressione meno simpatica, quasi d'un organismo assente dal movimento e
dalla vita collettiva del popolo di Primiero. Non si comprende dunque con quale fondamento la
Guida di Primiero edita dalla Società d’abbellimento nel 1912 possa, copiando dalla Guida del
Trentino di Ottone Brentari ( parte II, pag. 219) tra gli uomini degni di menzione a pag. 18 asserire:
I fratelli Someda Ferdinando, Giulio Cesare e Ottaviano vissero ai tempi di Ferdinando III (16371657). Si distinsero nelle scienze e nelle armi, e aggiungere: Fu da essi fabbricato il palazzo
Someda di Fiera. Quasi ogni espressione è un errore storico. Solo il palazzo attesta l’idea maschia e
geniale lanciata dai fondatori del casato e dai successori fiaccamente raccolta.
Oggi il vetusto edificio, non affranto dalle tristi peripezie, prolunga impavido una robusta
vecchiaia. La fisionomia esterna è quasi intatta, ma dentro lo sciupio dell’opera umana e la forza
dissolvente del tempo lasciarono dello splendore antico solo le tracce.
Ora vede la sua vita assicurata dagli avversari più micidiali, che ridotti a disciplina gli
lambiscono innocui le piante. Vede giardini e viali ricreanti, ode il vocio innocente di bimbi
chiassosi, ma si sente contendere alle spalle suolo e respiro dalla modernità, linde e salubri villette,
che s’avanzano quasi a sospingere nei gorghi spumosi quell’importuno anacronismo ostinato.
52 A.N. Baldass. Moarst, I, 28, N. 3.
53 A.N. Giorgio Am. Piazza, II, 23, N. 98 e III.
54 A.N. Giorgio Am. Piazza, II, 23, N. 98 e III.
55 DON LORENZO FELICETTI, Memorie storiche di Cavalese ecc. - Trento 1933, pag. 97.
56 A.N. Celso Trotter, I, 7, N. 703.
Ma egli sta saldo, e pur rimpiangendo il libero dominio d’un tempo in cui s’ergeva signore
assoluto e rispettato in Chiaromonte, quando le sue sale risuonavano del fruscio delle sete, dei passi
d’aristocratici inchinati da valletti e di tripudi festivi, è deciso a campare.
Che resista ancora al peso degli anni e carico di ricordi e di secolare esperienza, nelle
generazioni che lo animarono e sparvero, ai vivi e ai posteri rammenti almeno la mutabilità della
fortuna e la caducità di ogni umana grandezza .
Appendice
L’articolo compare successivamente in Primiero di ieri ... e di oggi : raccolta di notizie storiche,
racconti, descrizioni, leggende, poesie ecc.; della Valle di Primiero, Primiero, Azienda Autonoma
di Soggiorno e Turismo, 1956, pp. 211-224. con alcune aggiunte e correzioni; ne diamo qui gli
stralci più significativi.
Nel capitolo Sviluppo e decadenza; dal secondo capoverso:
In una prima stesura di questo studio lusingato da un documento del 1557 riferivo l'origine della
famiglia a un Pellegrino venuto in Primiero da Someda. E non è da escludere che egli o discendenti
possano in qualche punto intralciare nella prima epoca l’esattezza storica di questo lavoretto.
Invece l’esame di alcune genealogie, che parrebbero essere quasi ufficiali, ma sono lacunose
e talora incerte, più consone però anche a una tradizione, assicura l'origine primierotta del casato a
un Giovanni Battista Someda, probabilmente oriundo dalla omonima frazione di Moena, che nel
1504 viveva come commerciante di legnami a Venezia, dove teneva dei possessi e così in Primiero
e nel Tirolo. Già prima di quell’anno, p. es., aveva possessioni sul monte di Bocche, accertate anche
nel 1587: Nobilis et Magnificus dominus loannes Sometta possidet montem de Boche.
Più ampio sviluppo ebbero le sue aziende per opera dei figli che maggiori tracce lasciarono in
Primiero della loro presenza e attività. Il più influente Giovanni Ba. ebbe anche alto riconoscimento
dall'arciduca Ferdinando con diploma di nobiltà nel 1575 (leone rosso e sbarra obliqua d'argento)
confermato e aumentato dall'imperatore Rodolfo II nel 1601 collo
stemma della famiglia Pilosi ( un uomo che brandisce una spada e poggia la sinistra sull’anca) della
quale egli aveva sposata l’ultima figlia di Fabiano Chiara. Fu poi insignito, nella sede di Primiero,
del predicato di Chiaromonte e nel 1604 il casato fu inserito nella matricola nobiliare tirolese.
Era suo valido cooperatore il fratello Pellegrino, che godeva ascendente e primeggiava tra i
colleghi di mercatura, tanto che nella laboriosa divisione delle imposte entro la comunità egli
intervenne nel 1554 a nome suo e degli altri mercanti, protestando energicamente contro tentate,
anzi decise, imposizioni e appellando alla Cesarea Maestà, da cui avevano la concessione di taglio e
traffico, coi soliti gravami, ai quali, senza il consenso di quella, non se ne potevano aggiungere di
nuovi.
Già nel 1550 i Someda erano grandi commercianti in Fiemme, specialmente di legname
destinato all’arsenale di Venezia. Perciò il loro patrimonio coll’attività favorita dalla fortuna s'era
considerevolmente aumentato, tanto che la famiglia era diventata la più agiata di Primiero, con cui,
non contando quella dei Welsperg, a mala pena la più anziana degli Scopoli poteva competere.
Pellegrino benemerito e compianto terminò ancor in età virile i suoi giorni nel 1564 e un
lapide, la più antica mortuaria conservata, all’esterno della chiesetta di San Martino presso
l’arcipretale lo ricorda come padre dei poveri...
e più avanti
Lo presentano invece i suoi figli, quasi consacrandolo con un solenne atto notarile di Paolo Dalla
Costa, che fa risaltare la loro compattezza e intraprendenza mercantile anche in luoghi lontani: « nel
1606 in stuba palatii de Someda Giov. Battista consigliere di S. A. Enipontana, Ottavio suo fratello,
anche a nome del fratello Pellegrino, figlio q. Giovanni di felice memoria comperano da Simone fu
Valentino Hebli da Malosco legnami da estrarre dai boschi di Fondo per 4089 Lire». È ricordato
ancora nel 1610 in mezado inferiori pallatii nob. dnorum de Sometis in Clarofonte, nel 1614 in
stuba maiori pallatii ecc. nel 1626 in la camera su alto Palazzo ecc.
CONTRIBUTO ALLA SERIE DEI MEDICI TRENTINI
I sanitari di Primiero nel 1600 e 1700
Sfogliando l'opera paziente del P. Tovazzi, il MEDICAEUM TRIDENTINUM, pubblicato
con delle aggiunte nel 1889, e le note successive del P. Marco Morizzo del 1897, restai sorpreso
dall'arido, stecchito elenco di sette soli medici di Primiero, di cui uno nulla ha che vedere con quella
valle, e gli altri sono accompagnati da nessuna o meschine o errate notizie. Il benemerito P. Marco
accennava giustamente al modo d'arrotondare la raccolta, scorrendo con un po' di diligenza i libri
canonicali, ma oggi si potrebbe additare un'altra fonte integrativa ancor più redditizia e accessibile, i
numerosi Atti notarili, che sfruttati con attenzione riuscirebbero a duplicare e triplicare certe
colonne dell'indice tovazziano e a impinguarne alquanto lo scheletro anagrafico.
Insoddisfatto appunto da quel magro drappello volli avviare delle ricerche, e ne risultò
questa collezione, che non può essere intera e definitiva. Coll'occhio fisso ad altre mete notai, lungo
il cammino, qualche gradito incontro: più d'uno passò certo inosservato. Inoltre la condizione di
certi atti logori affatto, dove appena si può rilevare che una volta portavano dello scritto, e la
mancanza d'altri, che pur dovevano esistere, producono di necessità lacune, che totalmente non
saranno purtroppo mai colmate.
***
La valle in quei secoli, come formava una comunità e una pieve unica, così anche una sola
condotta, affidata a uno o due sanitari, per lo più un medico fisico e un chirurgo, con sede in Fiera.
E non erano troppi, quando si considerino le distanze, le vie disagevoli, i veicoli primitivi, le
comunicazioni lente d'allora, mentre la condizione della riuscita tante volte consisteva, come
adesso, nella prontezza della chiamata e dell'intervento. In una regione tanto appartata dal mondo, e
pure pulsante di vita, una parte notevole dell'attività era così inutilmente e dannosamente sciupata
dalla via, se togliamo i centri abitati sul corso del Cismon. Si capisce che i pazienti, che neppure
colla fantasia più fervida avrebbero sognata la rapidità dei soccorsi, dei rimedi o delle soluzioni di
oggi, si rifugiavano naturalmente ai mezzi ordinari, empirici, magari rovinosi, e concedevano con
facile rassegnazione alla natura il suo corso, senza le benefiche deviazioni, che la scienza e la
velocità moderna tante volte possono arrecare. L'opera del medico non era in quei secoli richiesta
colla frequenza del nostro tempo. Un'attenuante questa necessaria al numero e alla vita, altrimenti
impossibile, e pur sempre di sacrificio, di quei rispettabili dottori, che contribuirono, col sapere e
colla premura, ad alleviare le miserie e i dolori umani in quello sperduto, ridente angolo di terra.
***
Chi ricerca in Primiero nomi di sanitari prima del 1600, resta deluso dalla mancanza
d'accenni a quei professionisti, che nella valle senza dubbio dovevano esercitare la propria arte,
attirati, in qualche epoca, anche dalla frequente necessità, che l'escavazione delle miniere offriva
all'opera loro. È vero, gli atti di carattere notarile si fanno, alle ricerche, più rari, ma ne resta ancora
una quantità ben più che discreta, perchè debba affacciarsi un contratto di condotta, l’intervento
d'un medico, come testimonio o parte, in qualcuno. Invece su tutti quegli anni si stende un silenzio
sepolcrale, che oggi si pena a spiegare, rotto fin'ora da due eccezioni.
Ai 5 agosto 1467 fu pronunciata una sentenza arbitrale, riguardante le tre ville superiori,
nella casa abitata da mastro FRANCESCO ciroico, forse milanese, che assisté all'atto come
testimonio57. Nel 1588 riceveva il dottorato in filosofia e medicina, a Padova, PIETRO BERNERI
da Primiero.
Dal 1600 l'oscurità si dirada, la successione, dapprima lacunosa, s'infittisce e presenta una
serie, se non negli estremi di servizio, nel numero degli individui sempre più vicina alla completa.
GIOVANNI
teutonico,chirurgo.
Nel l617 gli sopravvive la vedova Cristina58.
SILVESTRO PAPA
da Pergine, chirurgo.
Sposò a Pergine, prima del 1582, Margherita Filippi da Terlago, e nel 1589 è detto barbiero.
Nel 1610 invece è chiamato chyrurgus et habitator Mercati (Fiera). Forse morì in quell' anno,
perchè nel seguente è ricordalo il figIio59.
GIOVANNI DONATO PAPA
da Pergine, chirurgo.
Nato nel 1587 apparisce in Primiero tra gli anni 1611-162860. Sposò la nob. Maria Barbara
del fu Giovanni Althamer daziaro in Primiero. Nel 1628 essa fece testamento, legando al marito
Zuane ciruicho 200 ragnesi e lasciando erede la sorella Cecilia moglie del cancelliere Andrea
Scopoli.
HANS PODER
thodesco, medico.
Fu accordato dalla comunità qualche tempo prima del 161961.
LORENZO MOZZENGOL
da Vienna, chirurgo.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Gli ATTI NOTARILI (A. N.) citati si conservano nel R. Archivio di Stato in Trento. Notizie minute e anagrafiche,
senza indicazione di fronte, sono ricavate in gran parte da quelli e da registri canonicali.
Quanto riguarda studi o gradi universitari fu tolto da Professori scolari trentini nello studio di Padova di ARNALDO
SEGARIZZI in Archivio Trentino, annate XXII (1907) - XXVII (1912) e XXIX (1914), agli anni rispettivi.
57ARCH. CUR. TONADICO, Pergamena 1467.
58 A. N. Nicolò Fontana, I, 2 e seguenti.
59 A. N. Nicolò Fontana, I, 2 e seguenti.
60 A. N. Nicolò Fontana, I, 2 e seguenti.
61 A. N. Andrea Scopoli, fasc. 6, N. 155.
La comunità lo accordò ai 15 aprile 1619 nel palazzo del barone Welsperg alle stesse
condizioni fatte al Poder62.
ANGELO CUSTOIA
d'Agordo, chirurgo.
Al 27 gennaio 1636 era già in condotta, possedeva bestiame pecorino, che diede in locazione
alla giusta metà per tre anni a Michele Guaitarel da Siror63.
Ai 22 luglio 1639, a nome anche di sua figlia Andreana, diede in locazione, fino al 1642, a Zuane
Tisot di Transacqua un campo sotto la Giesa di Santo Giacomo per 200 troni.
Nel 1643 possedeva un campo a Tressane, a nome della defunta sua prima moglie
Margherita.
Ai 24 gennaio 1647 assisteva in Fiera a un patto di rappacificazione tra Don Domizio Poppi,
figlio del capitano Baldassare e i due figli di Cristoforo Biatel, Francesco e Pietro, da Pieve64.
Ai 19 agosto 1655 era presente a Fiera, nel palazzo minerale, alla commovente liberazione
di quattro carcerati agordini per la longa prigionia indisposti, con pocha salute et in cativo stato,
con pericolo manifesto de lasciarvi la vita65.
Ai 9 luglio 1661 Anzolo è morto. La figlia, moglie del notaio Giacomo Nami di Pieve, elesse
procuratore il marito per esigere, in Agordo, diritti e vender beni.
GIOV. ANDREA FELIX
da Pieve, chirurgo.
Nacque nel 1618 da Bortolo, monico parrocchiale e tessitore, e Domenica. Esercitò la sua
arte in Tesino. Nel 1665 in Primiero gli sopravvive la moglie con quattro figlie66.
CRISTOFORO ZANETELLO
di Antonio da Feltre, chirurgo.
Il cognome lo direbbe da Siror, dove un Antonio ebbe discendenti dal 1623, ma un
Cristoforo non risulta tra loro. La sua patria è dunque Feltre.
Era in carica nel 1660. Ai 17 gennaio l662 Domenico Franceschinel diede a lui chierurgo, in
pagamento, una pezza di terra a Mezzano, tra Doltra e val di Melai, del valore di 150 troni67. Nel
1664 comperò uno stabile a Transacqua.
Non era più in vita nel 1668 e il dott. Giorgio Althamer era stato nominato curatore dell'
eredità.
GIOVANNI ROTTA
62 A. N. Andrea Scopoli, fasc. 6, N. 155.
63 A. N. Giovanni Strosser, I, 4, N. 238.
64 IBIDEM, III, 12, N. 1.
65 IBIDEM, IV, 18, N. 45.
66 IBIDEM, V
67 A. N. Carlo Piazza, II, 10, N. 12.
da Trento, chirurgo.
n condotta nel 1666, sposò nel 1669 Maria Tiefenpocher da Fiera e dieci anni dopo s'obbligò
di nuovo a servir, per tre anni, la comunità ai patti seguenti:
Eseguirà il suo ufficio fidelmente, con ogni puntualità et dilligenza. Avrà 500 troni di stipendio, di
cui 375 in pronti contadi e 125 in tanta roba buona, di satisfattione di detto dr. Rotta in tre rate fino
al primo gennaio l682. Sarà pagato delle sue operationi et viaggi conforme alla tassa sottoscritta:
Il primo viaggio sarà gratis, salvo in Canale, San Martino e Sagron. I salassi saranno gratuiti,
ma i viaggi pagati. Le ventose gratis in casa degli infermi, ma in casa sua troni uno per cadauna
volta e persona. Le sanguete, oltre il viaggio, troni 3, soldi 10. Per tagliar posteme et huosi troni 3.
Per la fontanella et cauterio troni 3. Per ogni ponto, dove farà bisogno nelle ferite, troni 1. Per le
funzioni non tassate si rimetta ai periti.
Per i viaggi avrà:
In tutta la regola di Canale troni 4 per cibarie, tr. 1 so. 5 per giornata; per il cavallo riceverà
il fieno dai medicati. Alla Gobbera tr. 3. A San Martino tr. 5. A Sagron tr. 5. In tutte le altre ville tr.
1.
Non potrà uscire dalla giurisdizione che cinque o sei giorni, se non v'è impedimento
d'infermi, e con licenza dei superiori. Nessuno possa esercitare la chirurgia senza suo permesso,
però chi per giusti motivi vuole servirsi d'altri chirurghi, lo può fare68.
Nel 1684 Pietro Turra, ufficiale in Primiero, era nominato curatore dei quattro figli
minorenni del q. Zuane chierurgo.
nob. FRANCESCO RIZZI
da Trento, chirurgo.
Entrò al servizio della comunità, per un anno, ai 13 ottobre 1670, alle condizioni del Rotta.
Riceverà lo stipendio di 500 troni in tre rate, in pronti contanti. Per una frattura d’osso di gambe o
brazzo avrà 45 troni, per cadauna lussatione, nei tre luoghi più lontani, avrà troni sei, senza
indennizzo di via. Non è obbligato a curare persone forestiere, in ogni caso con loro non è tenuto
alle tariffe pattuite colla comunità69.
Ai 22 ottobre 1674, nella proroga della condotta di tre anni, gli fu assegnato un aumento
annuale di 70 troni in tanta biava e formaggio d’armenta di monte, buono et sufficiente, a soldi otto
la libbra, smalzo a soldi dieci tutta robba buona et sufficiente70
Ai 5 ottobre 1677 i rappresentanti della comunità soddisfatti delle sue prestazioni, gli
prolungarono la condotta di tre anni, ma ancora entro quella moriva71. La vedova Virginia Claudia,
rimasta in Primiero coi suoi tre figli, nel 1679 eleggeva Biasio Saider di Trento procuratore dei suoi
interessi in quella città, e la regola di Siror liquidava i conti pendenti versando alla sig.a medicha sei
troni72.
NICOLO' PANZONI
da Valstagna, chirurgo.
68 A N. Ugolino Scopoli, fasc. 4, N. 79.
69 A. N. Gio. Batta Scopoli, II, anni l670, 1674, 1677.
70 A. N. Gio. Batta Scopoli, II, anni l670, 1674, 1677.
71 A. N. Gio. Batta Scopoli, II, anni l670, 1674, 1677.
72 ARCH. COM. SIROR, Registro conti.
S'obbligò per un anno ai 4 febbraio 1681 alle condizioni solite di 500 troni. Saranno pagate
solo le operazioni, come cavar sangue, conzar ossa, ecc., ma non i consulti dell’operationi o
insegnamenti agli ammalatti. Dagli ammalati poveri riceva robba buona alla tassa ecc.73.
Nel 1684 s'era acquistato il taglio dei boschi di Valpiana e nel 1686 il figlio Melchiore
sposava Anna Maria di Antonio Poppi: il padre serviva ancora la comunità.
dott. ANTONIO RACHINI
da Segusino (Treviso), medico fisico.
La sua operosa attività professionale e letteraria, la partecipazione richiesta alla sua abilità in
tanti affari, nella famiglia e fuori, lo fanno presente assai spesso nei quarant'anni di condotta e
degno d'essere annoverato tra i personaggi distinti della sua patria d'adozione. Come storico
meriterebbe una trattazione onorifica a parte. IL SUCCINTO RAGGUAGLIO DELLA VALLE DI
PRIMIERO scritto nel 1723, che esiste manoscritto in diversi esemplari, coll’aggiunta di ALCUNE
MEMORIE DELL’ANTICO OSPITALE E MONASTERO DI CASTROZZA, pubblicate nel 1863
da Carlo Perini, sono i primi lodevoli tentativi di compilare una storia della valle, se tralasciamo il
manoscritto, d'indirizzo tutto particolare, di Jacopo di Castelrotto del 1565.
Ebbe la nomina di sanitario dai marzoli (sindaci eletti il primo di marzo) e dal purgermaster
di Fiera ai 26 febbraio 1685, ma vi dimorava dall'anno antecedente. Nello schema generale i patti
sono analoghi agli anteriori: d’essercitar la chirurgia nelle parti concernenti alle piaghe, fratture,
ferite, tumori e simili; non intendendo di cavar sangue, ventosare, porre sanguete, fontanelle e
servitialli, di non pretender cosa alcuna da persone indisposte che capitassero a casa sua
personalmente, nulla pretenda per istruzione e ordinazione di medicine, chi volesse
un'informazione in sunto da mandare ad altri medici, o qualche consulta metodica, debba darli un
taler74.
Gli fu prolungato il servizio nel 1689, l963 e nel 1715 gli fu concesso d'assentarsi anche 15
giorni, nel tempo delle vendemie, se non vi erano ammalati, e un aumento d'onorario da troni 900 a
1190, di cui ne verserà 525 il conduttore dcl dazio sui vini. Per Fiera servirà solo come fisico, che
essa non ha patti col chirurgo e non concorse mai al suo stipendio75. Nel 1721 fu accordato col
figlio Giuseppe e così nel 1724 fino al 1727.
Ancora nel primo anno di condotta sposò Margherita del nob. Francesco Gius. Scopoli di
Tonadico e le nozze furono benedette dall'arciprete nella cappella dei nobili Someda76. La morte
del suocero causò presto delle molestie, che lo indussero a chiedere al Vescovo persino solenne
scomunica contro i detentori di denari spettanti agli eredi77; ne seguì qualche screzio, finito in
compromesso, per la legittima della moglie, che nel 1700 d'eredità materna ebbe 1135 troni,
preceduti da 1060 da parte della sorella Caterina. Nuove differenze sorsero alla morte del fratello
don Paolo, che, appianate portarono in casa Rachini ancora 375 troni78. Una parte degli stabili
rappresentati da questi capitali giunsero presto nelle mani del dott. Andrea Leporini, col quale
Antonio nel 1695 fu eletto procuratore del Priorato di San Martino per i possessi nel Trevisano79.
73 A. N. Giac. Ant. Moarsteter, I, 3, N. 4.
74 IBIDEM, I, 8, N. 9.
75 A. N. Francesco Piazza, IV, 38, N. 9.
76 A. N. Giac. Ant. Moarsteter, I, 8, N. 33.
77 IBIDEM, I, 13, N. 1.
78 A. N. Giuseppe Mosconi, fasc. 17, N. 1.
79 A. N. Giac. Ant. Moarsteter, II, 21, N. 30.
Una seconda identica procura ebbe il medico col chierico Francesco suo figlio nel 1709 dal
canonico conte priore.
dott. GIUSEPPE ANTONIO RACHINI
da Fiera, medico fisico.
Figlio del dott. Antonio era nato nel 1693 e col padre fu nominato medico nel 1721, 1724 e
solo nel 1727 e nel 1738 per tre anni. Serviva ancora nel 1753. Sposò nel 1721 Caterina di Giovanni
Francesco Scopoli notaio.
D'animo profondamente religioso ai 4 ottobre 1740 al Vescovo Suarez, che partiva per
Roma, presentava cogli auguri questa domanda:
Deus mea vota secundet. Ill.mo e Rev.mo Signore: sono molti e molti anni che io porto
dentro di me un ardentissimo desiderio di avere una particella del legno della S.ma Croce, quale
per piccola che sia riuscirà a me il più gran tesoro di questo mondo. Dell'ardire poi che mi prendo,
incolpi il gran desiderio che nudrisco di questa e 1' inalterabile bontà di V. S. Quell' innocentissimo
Agnello che sparse tutto il suo prez.mo Sangue per il comune riscatto, sarà quello ancora che
rimunererà questa singolarissima grazia; a me resterà una memoria perpetua ed un obligo
indelebile con il quale con baciarle, umiliss.te il lembo della sacra veste, mi protesto ultra
cineres80 ecc.
Giuseppe vide il quinto dei suoi nove figli, GIUSEPPE TROIANO n. 1729, laurearsi in
filosofia e medicina a Padova, dove era stato assessore anatomico ultramontano, nel 1751; e forse
morì prima che il penultimo, GIUSEPPE ANTONIO, nato nel 1739, fosse insignito della medesima
laurea nel 1773, e l’ultimo, Sigismondo Francesco, nato nel 1742, divenisse dottore in legge nella
stessa università.
I Rachini abbandonarono, poco dopo quest'epoca, la loro seconda patria, ritirandosi
verosimilmente nella terra dei loro avi.
GIOVANNI BARPO
di Giovanni da Cividal di Belluno, chirurgo.
Fu eletto dalla comunità ai 26 maggio 1687 per un anno collo stipendio di 300 troni, al quale
concorreva Fiera con 50 troni e con altrettanti Franceseo Waiz conduttore del dazio. L'indennizzo di
via per Canale è ridotto a troni 3, per San Martino e Sagron a 4. La frattura con piaga si rimette al
giuditio e conscientia d’esso chirurgo o de' periti81. Ebbe conferma nel 1689, nel 1694 con
aumento di 80 troni, nel 1698 con stipendio di 240 troni, nel 1710 fino al 1715, ma nel 1713 morì a
50 anni.
Il dott. Don Giorgio Chinzpergher legava nel suo testamento del 1693 al sig. Zuane Barpo
ciroico alcuni capi di vestiario82.
Nel 1689 il chirurgo sposava Orsola Besser vedova di Gius. Ierli e nel 1706 in secondi voti
Cecilia di Gio. Batta Scopoli cancelliere, che gli sopravvisse.
dott. VETTOR PILLONI
80 ARCH. VESC. FELTRE, Lettere 1740-41.
81 A. N. Giac. Ant. Moarsteter, I, 10, N. 13.
82 A. N. Ugolino Scopoli, fasc. 17, N. 23.
da Cavaso (Treviso), medico fisico.
Fu assunto al servizio della valle ai 5 gennaio l694, per tre anni, con 960 troni, cioè 500 dai
marzoli, 400 da Francesco Waiz e Antonio de Luca conduttori del dazio, 60 dall'ufficio minerale83.
dott. ANDREA GUGLIELMI
da Pergine, medico fisico.
Nacque nel 1667 dal nob. Giov. Battista e Sibilla Poladra, una famiglia oriunda da Castel
Tesino, donde portava il soprannome, che diede alla borgata sei notai, vari medici e sacerdoti. Dopo
quattro anni di studio a Padova si laureò in filosofia e medicina nel 1688 e continuò lo studio del
diritto.
Agli 8 febbraio 1690 riceveva una proroga di condotta come medico fisico e chirurgo con
900 troni, nel 1695 solo come fisico per tre anni. Doveva passare però al chirurgo Barpo 60 troni
all'anno84. Nel 1698 ebbe conferma per 12 anni con 1000 troni e nel 1710 per cinque anni alle
stesse condizioni. Nel 1715 serviva ancora.
Nel 1694 sorpreso da malattia fece testamento e chiese per lettera al Vescovo, e ottenne, il
permesso d'esser sepolto nell'arcipretale di Primiero85. Abitava la casa degli eredi Althamer.
Nel 1705 passò in matrimonio con Veronica Dorotea Stozzoni de Adamoff da San Michele
all'Adige, vedova di Ferdinando Grandi da Borgo. Al secondo dei quattro figli, Francesco Gius.,
funse da padrino don Giovanni Fontana curato di Mezzano.
Durante gli anni seguenti aumentò il patrimonio con compere: nel 1706 un campo a Nolesca
dalla vedova Uliana Longo per L. 500, un pezzo di monte a Tonadico per Lire 500; nel 1708 un
campo a Imer; ma nel 1709 si dichiarava debitore di Domenico q. Stefano Fontana di troni l00086.
nob. ANTONIO BENVENUTI
di Antonio da Agordo, chirurgo.
Appare assunto in condolta la prima volta ai 21 dicembre 1713 per un anno con 240 troni.
Avrà soldi 20 per visita nei 1uoghi vicini, troni 4 per i lontani e 5 per i quattro più discosti, dove
riceverà anche la colazione o troni 187. Gli fu continuato il servizio nel 1721, 1724, 1728 con troni
400, nel 1738, 1760 coll'obbligo di ricever in suo assistente Giorgio suo figlio.
Con quest'ultimo accordo avrà: per aprir e curar il tumore d’una morsicatura di vipera tr. 5,
per salasso alla vena arteria o al fronte o sotto la lingua tr. 5, per cavar et estraer un dente dalle
gengive tr. 1 so. 10, per altri salassi, ventose, lavativi, poner e levar bisiganti, ecc. tr. 188.
Nel 1762 era ancora in attività.
Per vino buono et sufficiente avuto da Giovanni Stevani di Bassano nel 1721 gli era debitore
di 227 troni, e nel 1725 cedeva tre rate del suo onorario per compensare la segurtà a lui fatta da
83 A. N . Giac. Ant. Moarstete, II, 20, N. 1 e 9.
84 IBIDEM, II, 21, N. 11.
85 ARCH. VESC. FELTRE, Vol. 247.
86 A. N. Gio. Francesco Scopoli, I, 5, N. 24.
87 A. N. Francesco Piazza, III, 33, N. 55.
88 A. N. Baldassare Moarsteter, II, 40, N. 49.
Matteo Althamer89. Nel 1732 pose il suo domicilio a Pieve in casa di Giorgio Nami a 32 troni di
pigione e comperò un prato a Guastaia di troni 1000.
Un caso d'arbitrato per fissare la ricompensa alle sue prestazioni è ricordato nel 1734. A sua
divina Maestà ha piaciuto mortificare Maria Maddalena ved. Bucella col mandar a suo figlio
Giacomo una frattura d’osso con piaga. Tratta col chirurgo, ma non convengono sul prezzo e
rimettono la decisione a due persone non sospette, Gio. Batta Brunetto e Michele Lucian90. Così
nel 1736 fa una convenzione con Andrea Zeni detto Lot, alla cui moglie Maria era occorso un
accidente per mal caduco ed era caduta nel fuoco. Il chirurgo farà due visite al giorno e
medicazioni, preparerà i medicamenti senza ricorrere alla speziaria, e questo fino alla guarigione.
Andrea darà 120 troni oltre 119 lire di sorgo e un'armenta91. Sopravvisse alla moglie Angelina
mortagli nel 1768.
FRANCESCO BENVENUTI da Primiero, medico in Folgaria nel 1787 e seguenti, era certo
suo figlio92.
GIUSEPPE BENEDETTO PIAZZA
da Fiera, chirurgo.
Per l'impronta lasciata, l’attività esercitata, specialmente nel campo ecclesiastico e legale, i
Piazza attenderebbero giustamente una monografia. Di modesta origine Benedetto da Pergine, colla
giovane sposa Caterina Fattor di Borgo e il bimbo Antonio di tre anni, poi sacerdote distinto, nel
1619 era giunto in Primiero come agente del priorato di San Martino di Castrozza. Due altri figli,
Giov. Benedetto e Carlo, furono notai e divisi in due rami, di Fiera e d'Imer, avviarono la numerosa
discendenza al lavoro e all'agiatezza. Per quasi due secoli il nome che più risuonò tra il popolo, per
molteplicità di affari e di contatti, fu quello dei Piazza. Una quindicina di sacerdoti e religiosi, sette
notai, un capitano della giurisdizione, vicari, giudici e cancellieri diede quel casato.
La medicina vi tiene un solo rappresentante, Gius. Benedetto, nato nel 1703 dal notaio e
cancelliere Giorgio Francesco. Licenziato in chirurgia a Padova nel 1727, appena entrava
nell'esercizio professionale fu colto dalla morte a 27 anni.
dott. GIACOMO DIONISIO IERLI
da Fiera, medico fisico.
Era nato nel 1720 da famiglia d'origine tedesca (Iörl) che dal 1630 s'era domiciliata in
Primiero e aveva dato successivamente parecchi controscrivani all'ufficio minerale. Fu il primo
genito di Gio. Batta ed Elisabetta Lodovica di Carlo Ben. Giovane di buon talento s'era iscritto nel
1739 alla facoltà di medicina a Padova, l'anno seguente vi tenne il discorso inaugurale e nel 1742 ne
usciva laureato. Due anni dopo chiese la condotta di Fiera, ma fu rifiutato di fronte a Gius. Rachini
ormai in servizio da oltre vent'anni, colla motivazione che bastava uno solo93.
Nel 1746 s'era unito in matrimonio con Elisabetta del nob. Giovanni Waiz officiante cesareo
in Fiera, che gli portò in dote 5583 troni, ma l'anno seguente il giovane dottore moriva.
89 IBIDEM, I, 9, N. 20.
90 A. N. Gio. Francesco Scopoli, II, 23, N. 21.
91 A. N. Gio. Francesco Piazza, II, 6, N. 132.
92 P. MARCO MORIZZO, Correzioni ed aggiunte al Mediceo Tridentino, Trento 1897, Pag. 18, N. 774.
93 ARCH . COM. PRIMIERO, Protocolli.
dott. GIORGIO ALTHAMER
da Fiera, medico fisico
La sua famiglia abitava in Primiero dal 1570. Divenne nobile e diede titolari e impiegati
all'ufficio minerale, forestale e fiscale, tre notai, quattro sacerdoti, due religiosi. Il padre Giovanni
Domenico, farmacista a Fiera, educò onoratamente la sua numerosa figliolanza: Giacomo diventò
sacerdote, Matteo continuò la professione del padre, Giorgio fu medico.
Nacque nel 1729 e si laureò a Padova nel 1751. L’anno seguente sposò Maria Teresa
Pastorini di Fiera. Ai 18 giugno 1753 fu accordato dai marzoli per un anno. Osserverà la
professione con la dovuta e pronta diligenzia et integrità, tanto con poveri che con richi, tanto con
persone rustiche che con nobili e tanto nel tempo dell’ invernata e cattivo, che nel tempo d’estate e
buono, con anco la taciturnità in casi de mali scandalosi. Nulla riceva da chi chiede consiglio (se è
scritto, troni 1) , nulla per il recipe. Darà al chirurgo troni 30. Se lo assiste, pretenda la semplice
visita. Se adopera le mani, abbia tr. 8. Non può entrare nel campo del chirurgo, se non in caso
d'estremo bisogno. Ogni tre mesi, col collega, riveda ed esamini le speciarie, le medicine, robbe,
acque, medicamenti e proibisca i non sufficienti. Ogni 15 giorni, uno si porti a Imer e a Canale
senza pagamento; solo se fanno visite, abbiano soldi 30. Ogni tre visite alle stesse persone una sia
gratis.
Stipendio troni 400. Le visite vicine soldi 20. A Canale tr. 3, a San Martino tr. 5, a Sagron tr.
4, con colazione e fieno al cavallo94. Nel 1755 ebbe un prolungamento di tre anni e di nuovo nel
1760.
Morì nel 1766 lasciando otto figlioli: il maggiore Ascanio entrò nel sacerdozio.
dott. PAOLO ANTONIO SCOPOLI
da Tonadico, medico fisico.
La famiglia nobile più antica, che si lascia rintracciare nel 1325 in un Ugolino, nome poi
tradizionale per quattro secoli, che ebbe periodi di splendore e di vera importanza, provata dalle
vicende della fortuna, ora estesa in rami copiosi, era ridotta a pochi rampolli, tra più di dieci
laureati, cancellieri, notai numerosi, non conta, in Primiero, che questo solo medico.
Fu l'ultimo di quindici figli del notaio Giov. Francesco e Maria Elisa Lazaris, nato nel 1724
e addottorato in medicina a Padova nel 1743. Nel 1745 vive a Tonadico nella casa di famiglia.
Comparisce in attività di servizio nel 1750, con successiva nomina, contemporanea all' Althamer,
nel 175395 e 1755 e le stesse condizioni.
È in carica nel 1759.
dott. ARDREA DE SEBASTIANI
Toldino da Lavis, medico fisico.
Fu nominato dalla comunità nel 176096 e servì fino alla morte nel 1764.
dott. GIUSEPPE BROGGIO
medico fisico.
94 A. N. Baldass. Moarsteter, II, 32, N. 35.
95 A. N. Baldass. Moarsteter, II, 32, N. 35.
96 IBIDEM, II, 40, N. 48.
La comunità lo accordò nel 1764 per un anno97.
dott. BERNARDINO FONZASIO
da Feltre, medico fisico.
I suoi antenati dall’alto del castello avevano dominato nel medio evo sul territorio di
Fonzaso. Più tardi ebbero accoglienze e rifiuti nel Maggior Consiglio di Feltre, poi decaddero. Da
un ramo di Fonzaso discese Francesco Bernardino98 «Nobilis Patricius Feltrensis Philosophus ac
Medicinae Doctor Chirurgiae Professor», figlio di Giovanni, nomi consueti nella famiglia, nato nel
1739. Nel 1766 colla moglie Caterina Marzari di Padova e il figlio cinquenne Giovanni, poi
sacerdote, valicava i dorsi dello Schenèr, domiciliandosi in Primiero, assunto come medico fisico
con 900 troni di stipendio e l'obbligo di passarne 60 al chirurgo99. Fino alla morte, 1802, durò in
quell'ufficio, senza poterlo sperare continuato dal figlio.
dott. GASPARE medico fisico,
che d'un anno lo precedette nella tomba a 43 anni. Nel 1797 aveva condotto in matrimonio Caterina
de Franceschi di Fiera, lasciandola prematuramente vedova con due figlioletti, Luigi, poi distinto
teologo e successore dello zio nella cura di Transacqua, e Bernardino, padre dell'avvocato dott.
Gasperetto, morto quarantenne nel 1879, benefattore dei poveri, ultimo discendente di quest'antica
famiglia.
PIETRO CODEMO
da Cavaso, medico.
Assistè a un atto notarile in Canale nel 1770100. Pare probabile che fosse in condotta, perchè una
famiglia Codemo, venuta da Cavaso, abitava in Primiero da oltre vent'anni.
PAOLO GIOVANNI PASTORINI
da Fiera, chirurgo.
I suoi avi, nobili, immigrati da Belluno un secolo prima, avevano sviluppata nella valle una
tenace operosità. Sette benemeriti sacerdoti erano usciti, dalla famiglia. Paolo, nato nel 1755 a
Canale, dove il padre Giov. Battista s'era domiciliato verso il 1739 come farmacista, era il fratello
minore dell'ultimo, Francesco, pure nato là nel 1742, divenuto poi curato locale e decano di Levico,
morto a 91 anni. Assunto come medico chirurgo nel 1778 continuava nell'ufficio anche sette anni
dopo. Un suo figlio, FELICE, seguì la carriera del padre.
97 IBIDEM, II, 44, N. 17
98 DOTT. MARIO GAGGIA, Notizie genealogiche delle famiglie nobili di Feltre, Feltre 1936, Pag. 191 e seguenti.
99 A. N. Baldass. Moarsteter, II, 46, N. 1 e 27.
100 A. N. Celso Trotter, II, 15.
Farmacisti
L'opera del medico non si può svolgere proficua, se non è sostenuta e agevolata da un
dispensario, da una bottega farmaceutica: si richiamano e compensano a vicenda. Perciò la presenza
dell'uno esige quella dell'altra, la farmacia.
Tracciare una successione ininterrotta dei farmacisti riesce, per i motivi già detti,
impossibile: solo è dato accertarne l'esistenza e l'esercizio della professione. Un primo cenno è del
1612, in un atto steso ai 23 giugno in mercatu Primerii in publica platea ante apothecam Georgii
Paris aromatarii da Feltre. Se non esclusivamente, certo principalmente Giorgio era farmacista,
documentato anche nel 1617101.
Poi una lacuna di quasi settant'anni. Nel 1684 FRANCESCO DALLE ARMI di
Valdobbiadene (Treviso) e ANGELO suo fratello hanno concessione di spetiaria in Primiero e vi
tengono nel 1688 un sostituto, BONAGGIUNTA FRANCESCO farmacopola102. Un anno prima
ne appare un altro, MARCANTONIO FONZAGO da Capodistria spetiale, che fornisce anche le
chiese di cere103.
La farmacia portava il titolo Speciaria del Anzolo ed era collocata nella casa degli eredi del
fu Andrea della Giacoma a Fiera104. Verso il 1697 fu data in affitto a DOMENICO DEL ZIO di
Valdobbiadene e tre anni dopo fu acquistata dai fratelli DELLA GIACOMA tutta interamente, li
vasi della spetiaria, scatole, vetri, legnami et medicine, giusta all’inventario, al prezzo fatto da due
periti. I venditori cedettero tutte le ragioni, ius et prerogative ch'essi avevano dal 15 novembre
l684. I diritti che spettavano al del Zio furono mantenuti ed egli continuò nel suo ufficio fino al
1710105. D'allora la diressero ANDREA DELLA GIACOMA notaio e poi il fratello GIOVANNI
fino al 1745, in cui venne a morte. La vedova Felicita Giovanelli da Cembra, e col curatore Matteo
Althamer, la cedette per dodici anni a FRANCESCO ANTONIO SOMEDA, cugino degli eredi, che
doveva versare 150 troni annui, oltre prestazioni di favore alla famiglia106. Sei anni dopo, per
evitar litigi tra gli speciali e i loro debitori sul prezzo delle medicine, si conchiude un accordo tra la
comunità e il Someda107, che nel 1753 passò tutto al fratello GIULIO, curandosi solo della
farmacia posseduta a Cavalese.
Contemporaneamente alla prima tenevano aperta al pubblico un'altra farmacia gli
ALTHAMER, diretta dal 1715 dallo speciale GIUSEPPE108 figlio del notaio Giov. Giorgio, che
nel 1721 divenne religioso riformato, fra Petronio, e due anni dopo moriva. In quell'occasione i
fratelli rimasti divisero il ricco patrimonio familiare. Assunse la farmacia, che conteneva oltre 1000
troni di mobilia, il fratello DOMENICO e ne disimpegnò l'ufficio fino all'anno della morte 1751. La
vedova Anna, che aveva incontrate spese considerevoli negli studi di Giorgio Francesco medico e di
Giacomo avviato al sacerdozio, dichiarava d'aver estremo bisogno di denaro per tenere in piedi la
specieria a MATTEO ALTHAMER suo figlio dimorante a Feltre per rendersi abile in tal impiego.
Tra gli anni 1739 e 1755 serve il bacino di Canal San Bovo la farmacia di Giov. BATTA
PASTORINI e in Primiero abita come speciale, nel 1768, il nob. GIULIO OGNIBEN da Pergine.
101 A. N. Nicolò Fontana, I.
102 A. N. Giacomo Nami, fasc. 4, N. 30.
103 IBIDEN, fasc. 4, N. 41, e ARCH. PARR. SIROR, Conti chiesa.
104 IBIDEN, fasc. 4, N. 41, e ARCH. PARR. SIROR, Conti chiesa.
105 A. N. Giac. Ant. Moarsteter, II, 25, N. 1.
106 A. N. Baldass. Moarsteter, I, 18, N. 3.
107 A. N. Giorgio Am. Piazza, II, 23, N. 98.
108 A N. Francesco Piazza, IV, 38, N. 9.
LO SCULTORE GIORGIO MOENA IN PRIMIERO
Lo fece conoscere don Gioachino Bazzanella parroco di Castel Tesino, come costruttore
dell' altar maggiore nella parrocchiale di Pieve nell'anno 1630, dicendolo di Fiemme109.
Successivamente il conservatore Hans Schmölzer, da tre lettere incise nell'altare detto austriaco,
nell'arcipretale di Primiero, Z M F avanzò l'ipotesi d'una possibilità che fosse opera sua: Zorzo
Mogena Fecit 110. Chi più tardi attinse a queste fonti uniche ridusse arbitrariamente affermativa la
supposizione e diede Fassa come terra natale dell'artista111. Altri particolari di lui sono finora
ignoti.
Le presenti ricerche intendono portarvi qualche luce, anche se non completa.
Anzitutto il suo nome non è Mogena, ma Moena, forse dal paese donde poteva derivare la
famiglia, che a noi si presenta domiciliata a Cavalese. Là nacque Giorgio nel primo decennio del
l600112. Il padre Silvestro gli morì forse prima della sua venuta in Primiero: almeno nel 1627 non
era più in vita.
Incontriamo per la prima volta l'artista nella chiesa di Siror nel 1627 intento a scolpire la
parte lignea, la pala, del nuovo altare di S. Valentino, la sua prima opera giovanile, che gli fruttò
118 troni113. E forse da lui partì il suggerimento dato alla fabbriceria di affidare al suo conterraneo
Orazio Giovanelli l'elaborazione della tela, che ancora si conserva.
Negli anni seguenti passò a intagliare l'altar maggiore di Pieve Tesino. Di fatti, mentre si
può quasi ogni anno accertare la sua presenza e attività in Primiero, dal 1629 al 1631 manca di lui
ogni accenno.
In questo primo periodo parrebbe forse conveniente attribuirgli il rinnovamento di un’altro
altare, nella parrocchiale di Primiero, se possiamo interpretare come sua la firma in calce a una
quasi sparita iscrizione G M F (Georgius Moena Fecit), che richiama nella forma quella già citata.
È l'elegante altare di S. Caterina da Marco Sigismondo de Welsperg nell’anno 1633 decori
restitutum. Sarebbe del resto verosimile che il lavoro fosse dal capitano Baldassare Poppi che ne
curava l'esecuzione, affidato a un artista locale che aveva data buona prova di sé. In ogni caso,
qualunque parte vi abbia avuta, la nobiltà della costruzione tradisce una mano abile, che certo
dovette contribuire a ridurre a migliore forma altri altari in quella chiesa, finora rimasti opera di
anonimi.
La sua bottega doveva godere qualche credito, se nel 1634 parecchie persone notevoli
s'interessarono perchè impartisse un quinquennio d'istruzione nell'arte dello scultore e marangone
al giovane Antonio del fu Giorgio Gentile di Fiera, come egli fece con regolare contratto114.
Frattanto produce ancora per la chiesa di Siror. Nel 1640 vi scolpisce un per de anzoli, nel
1642 un parapetto dinanzi all'altar maggiore, nel l647 un altro per quello di S. Valentino, forse
quello che ora esiste nell'altare attiguo, di graziosa fattura, nel 1643 un Crocifisso, nel 1644 una
croce per il confalone115.
Ma proprio verso la metà del secolo l’ondata innovatrice, che nell’arcipretale andava
trasfornando i pochi altari vecchi e ne rizzava di nuovi, colossali, congiurò anche contro il gioiello
109 Memorie di Tesino. Feltre 1881. pag. 62.
110 Mittheilugen der Central Commission ecc., Wien 1900 pag. 70.
111 ATZ, Kunstgeschichte von Tirol und Voralberg, Innsbruck, 1909. pag. 905. - WEBER, Artisti Trentini. pag. 201,
sotto Mogena.
112 Il volume dei Registri dei Nati, che lo conteneva, andò smarrilo .
113 Siror, Conti Chiesa, alla data.
114 A.N. (Atti notarili) Paolo Costa, Il, 19 nov .1634
115 Siror, Conti Chiesa, alle date.
gotico da maestro Narciso da Bolzano nobilmente ideato e scolpito, che da oltre un secolo
troneggiava nell’abside116. Anche quello fu allontanato e dovette rifugiarsi nella vicina chiesetta di
S. Martino per cedere il posto a uno più complesso e meglio corrispondente al gusto secentesco, che
darà l’idea, anzi l’eccitamento, ad altre chiese per fare altrettanto. Quell’opera, in cui s’occuparono
più persone per qualche anno, fu affidata nel 1650 a Giorgio Moena e doveva essere di proporzioni
considerevoli, se la sola mercede stipulata collo scultore importava 3500 troni, allora un patrimonio
quasi discreto117.
L’indoratura fu dal massaro Giacomo Zanetel affidata nel 1666, con solenne contratto
conchiuso nel palazzo dei baroni Welsperg, alla presenza dello stesso scultore Moena,
coll’approvazione dei marzoli (sindaci eletti il primo marzo), col consenso dell’arciprete Nicolò
Inama, del supremo delle selve Bartolomeo Nocher e del vicario della valle dott. Giovanni Piazza,
ai fratelli Nenin e e Giov. Battista Camoli indoratori di Bassano, che si obbligarono de indorar la
palla del Altar maggior existente nella chiesa arcipretale di Primiero con ogni possibil industria et
deligentia118.
L’altare fu abbattuto e disperso nel 1861, destando l’amara sorpresa e la viva deplorazione
del capitano Giuseppe Loss, appassionato di storia locale e d’arte, oltre che di geologia e botanica,
che così lo descrive: L’altar maggiore era eretto su quattro colonne frastagliate, dorate, sostenenti
un magnifico pardiglione sorretto dai quattro Evangelisti; la mensa era corrispondente, il
tabernacolo maestoso.... Ora dopo tant’anni d’assenza trovo tali cambiamenti, non so da chi
promossi, che fanno ricrescere allo spirito del bello.... e fu distrutto l’altare maggiore, soppiantato
da uno meschino di stile toscano119.
Un’altra opera d’intaglio dev’essere ancora ricordata, la pala per la chiesa di Norcen nel
Feltrino, che fu nel 1665 dai committenti in tutto et per tutto laudata et accetata e retribuita con 124
troni120. Anche il soffitto a cassettoni nella chiesa di S. Martino, lavoro molto ordinario, fu
eseguito da lui nel 1674 121.
Qui s’arresta, per ora, la documentazione della sua produzione artistica. S’egli avesse munito del
suo nome o d'una sigla le opere, se in tutte le chiese fossero conservati i registri delle commissioni e
delle spese, potremmo aggiungere parecchio di più e forse di meglio.
In una valle ristretta e remota non poteva però esaurire nell’arte la sua attività. L'opera sua
veniva spesso richiesta in altri affari, che esigevano competenza e onestà, e fu assunto come
offitiante nell’ufficio minerale, che dirigeva lo sfruttamento delle vaste selve arciducali. In un
processo per abusi del genere nel 1653 si depone che m. Zorzi Moena usava maggior deligentia
degli altri nel far gli contamenti122. Nel 1661 è eletto arbitro in una lite penosa123. Nello stesso
anno collabora con Sigismondo Poppi, figlio del capitano Baldassare, nel disegno di una casa
signorile124. nel 1666 è desiderato come perito in una ratificazione giudiziale125.
Di frequente è ricercato il suo giudizio tecnico e prudente, mentre in una quantità notevole
di atti egli presenzia come testimonio. L’appellativo unito al suo nome, tolti alcuni casi iniziali in
cui è dello intaiador, diventa scultor fino alla morte.
116 Prof. NICOLÓ RASMO in Archivio per l’Alto Adige, a. 35, 1940, parte seconda, p. 692.
117 Archivio Arcipretale di Primiero, Conti Chiesa, Libro E, pagg. 92-93.
118 A.N. Giov. Strosser, marzo VI, N. 25
119 manoscritto di Gius. Loss, in possesso dello scrivente
120 A. N. Giovanni Strosser, V, N. 107
121 Archivio Arcip. di Primiero, Conti Chiesa, Libro F, p. 108.
122 A.N. Giov. Strosser, IV, 17, N. 44
123 Ibid., 22, N. 40.
124 A. N. Ugolino Scopoli, III, 1.
125 A.N. Giov. Strosser, VI, N. 28
Capitato da Cavalese in età giovanissima con l`unica risorsa dell’arte, in cui andava
addestrandosi, dovette pur pensare a collocarsi con qualche decoro nella nuova patria. E il modo
con cui seppe affermarsi anche in questo, attesta la sua laboriosità e insieme dimostra che l’opera
sua fu anche remunerata. Tra le prime preoccupazioni fu quella di erigersi una conveniente dimora.
E la volle proprio, là in cima alla Rivetta, via semirustica e notissima, prima che l’incendio del 1902
la distruggesse, che conteneva qualche buon edificio, la più frequentata da folle di passanti, in certe
ore vere processioni abbandonate, nel ritorno dalla chiesa, a giulive e animate conversazioni e
spesso percorsa dalle solenni liturgiche preganti. Quell’ambiente vicino alla vetusta arcipretale, alla
casa Althamer, al Palazzo minerale, alla chiesa di S. Martino era ed è, per la storia e per l'arte, il più
suggestivo di tutta la valle.
La casa, attigua al palazzo gotico, finita nel 1640 dal muratore milanese Domenico Moron,
non aveva proporzioni molto vaste, ma studiate nei particolari artistici e decorativi con buon gusto,
come attestano le clausole del contratto, che ripetono le linee del disegno126.Vi affiancò un orto
cedutogli da Michele Echer nel 1670127 e una parte di casa ottenuta da Tomaso Rasmo nel
1679128. Si curò anche della campagna, acquistandone a Transacqua negli anni 1667, 1668, 1669,
1672, 1677, più due pezzi d’orto a Pieve nel 1671129. In tal modo riuscì a formarsi una buona
sostanza patrimoniale, non limitata certamente ai pochi dati di compera , e più tardi di vendita,
accertati.
Piuttosto tardi pensò a una propria famiglia. Si ha ricordo d’una prima moglie Margherita di
Giovanni de Incau da Zorzoi nel 1645, anno in cui fa stendere il suo testamento, lasciando erede il
marito, e forse muore in quell’anno, non lasciando figli130. Un secondo matrimonio contrasse nel
1658 con Maddalena Zagonel di Tonadico e n’ebbe discendenti in tarda età. Per noi interessano
due, Giuseppe nato nel 1661 e Giovanni nel 1671.
Mori nei primi mesi del 1681. Cade perciò anche la possibilità che sia l'autore dell'altare
austriaco eretto da Barlolomeo Nocher nel 1697 e per conseguenza anche di quello di S.
Vendemiano a Ivan-Facena dallo Schmölzer giudicato indubbiamente opera della stessa mano131.
Il vecchio Giorgio lasciò nella famiglia il germe dell’arte, che non doveva svilupparsi
rigoglioso, e i due figli vi si dedicarono con una produzione, almeno come appare, assai inferiore a
quella del padre. Giuseppe coltivò la pittura e di lui si fa menzione nella chiesa di Siror, dove
dipinse S. Vito, sant’Antonio abate, rinfrescò S. Lugano e sant’Andrea e un quadro sopra la porta
della sagrestia, affrescò il capitello sotto la chiesa nel 1684132, qualche altra volta s’occupò come
pittore e più spesso come indoratore. L’unica opera certamente sua oggi resta nel grande, ma
mediocre, S. Cristoforo del 1723 sulla parete esterna meridionale e forse era suo l’affresco dei santi
Patroni sopra l’entrata principale, ora totalmente deperito133.
Giovanni eseguì qualche mobile di sagrestia, lavoretti in legno di qualche delicatezza e come
sarto fornì anche stoffe alle chiese. Pietro Antonio, figlio di Giovanni nato nel 1707, maneggiò il
pennello, ma probabilmente solo come tinteggiatore, e chiuse le manifestazioni, per quanto
modestamente si possano chiamare artistiche, della famiglia Moena.
126 A.N. Giov. Strosser, II, 6, N. 30
127 Ibid., VI, 30, N. 59
128 A. N. Giac. Antonio Moarstter, I, 1, N. 44.
129 A N. Giac. Antonio Moarstter, VI, atti diversi alle date.
130 Ibid., II, 10, N. 81
131 Sschmölzer, o. c., p. 79.
132 Siror, Conti della Chiesa, alle date.
133 Ibid.
Gli eredi invece cominciarono presto a intacccare il patrimonio, vendendo un campo con
casa a Transacqua, altri a Tonadico e nel 1727134, dopo la morte di Giuseppe e di Giovanni,
passarono a divisione di beni. Qualche discendente, emigrato dalla valle, continua tuttora.
134 A. N. Francesco Piazza, V, 59, N. 7.
LA FAMIGLIA POPPI A BORGO
E IN PRIMIERO
Linea di Borgo
Quando nella prima metà del 1500 il modesto pellicciaio BORTOLO POPO da Grigno,
dove la famiglia risiedeva almeno da un secolo135, trasferiva a Borgo l'esercizio della sua industria,
non poteva sognare lo sviluppo rapido in ascesa riservato alla sua discendenza, che seppe
raggiungere e tenere un posto onorato e distinto nell'aristocrazia borghigiana e primierotta, ma
neppure immaginava il suo pietoso tramonto, che con lo sperpero di tanti ricordi domestici lasciò
persino svanire la memoria di quel cognome una volta scritto e pronunciato con rispetto. Ora, per
rievocarne in qualche modo le vicende, nella scarsezza d'appoggi documentari siamo costretti a
ricercare e sfruttare i limitati, ma ormai preziosi rimasugli.
Bortolo uomo destro e onesto si rese presto utile nella magnifica Comunità, che lo nominava
sindaco nel 1547 e 1567, e l'importanza acquistata in seguito dalla famiglia è confermata dalla
stessa carica occupata dai Poppi dodici volte, superati da pochissime altre136. Nello stesso tempo,
coadiuvato dal fratello Don Francesco137 avviò il figlio BALDASSARE alla professione del
notariato e riuscì ad aprirgli la via alle cariche politiche in servizio del castello e della giurisdizione
di Telvana posseduta fino dal 1462 come feudo pignoratizio dai baroni Welsperg dinasti di
Primiero, alle cui dipendenze il ramo primogenito della famiglia di Baldassare sarà legato per
quattro generazioni, fino alla estinzione138.
La considerazione goduta dai Poppi e le loro vantaggiose prestazioni ebbero presto un
autorevole riconoscimento nel diploma imperiale di Massimiliano II, che il 20 maggio 1575
concedeva ai tre figli di Baldassare, LEONARDO, GIOVANNI, ANDREA il blasone di nobiltà.
Nello scudo un bambino in fasce, usato già nel segno notarile di Andrea 1567, ripetuto nel cimiero
racchiuso da sei penne di struzzo. La figura alludeva al cognome espresso in latino Popus, de Popis,
in italiano prima Popo, Popi, poi costantemente Poppi.
Baldassare fu seguito al castello dal figlio Giovanni Andrea139. In mancanza d'altri
documenti per giudicare la sua persona ci resta il testamento140 che, uscendo dalla consueta
I dati anagrafici sono tolti parte dagli Atti Notarili (A. N.) citati e conservati nell'Archivio di Stato in Trento, e
più dai Registri parrocchiali di Borgo e Primiero.
135 ARCHIVIO VESC. Dl FELTRE - Fascicolo d investiture 1425-1481: nel 1468 al conferimento della pieve di
Grigno al sac. Marino de Moscato da Bari assiste Ser Popo da Grigno, pag. 450.
136 P. MURIZIO MORIZZO - Per il solenne ingresso in Borgo Valsugana del novello arciprete-decano mons.
Zaniboni Germano - Tip. Marchetto, Borgo, 1886, nelle pagg. 17-55. - Alcuni Poppi furono Capi di decima negli anni
1574-1577.
137 Nel 1558 era pievano di Roncegno e viveva ancora nel 1567.
138 Baldassare, cancelliere di Telvana 1546-1551, nel 1552 vi fu nominato vicario, ma in quell'anno rimase
proditoriamente ucciso. Si qui accennare al fratello Antonio sindaco nel 1571 e 1584, che nel 1573 apparisce il maggior
possidente dell’Estimo comunale, ma non ebbe discendenza maschile.
Devo la durata delle cariche a Telvana e altre utili notizie di questo periodo alla cortesia dell'appassionato
raccoglitore di memorie valsuganotte sig. Emanuele Bettanini, farmacista, che vivamente ringrazio.
139 Giovanni dottore e notaio negli anni 1578-1587 fu attuario e cancelliere di Telvana, 1588-1590 primo cancelliere,
1591-1600 vice vicario, 1601-1605 vicario e capitano.
140 A. N. Paride Parisi di Borgo 1593-1607, il data 11 luglio 1605.
terminologia notarile, ci offre un ritratto del suo nobile carattere; fedele al suo signore,
profondamente religioso, tutto premura per il bene morale e materiale della famiglia lasciata ancora
in tenera età, bisognosa di sostegno e d'indirizzo: quattro figlie e quattro figli, di cui il più vecchio
appena ventenne. La moglie Antonia nob. Graziadei di Borgo ne continuò con pari sollecitudine ed
energia la direzione, ma cinque anni dopo, 1610, seguiva il marito nella tomba. Se ne curarono i
parenti, compiendo l'educazione e la collocazione di quegli orfani.
Il padre del resto aveva lavorato assiduamente ad aumentare il patrimonio, che dal notaio
Baldassare doveva essergli stato tramandato più che discreto, come può far credere anche la
concessione di nobiltà. Solo le compere accertate di terreni a Borgo e nei dintorni sommano circa
2800 ragnesi141. A queste Antonia aggiunse una casa acquistata sulla Via Maggiore142. Anche la
disposizione testamentaria che assegnava ad ognuna delle figlie 500 ragnesi e l'eredità ai figli, lascia
supporre una considerevole sostanza, accresciuta poi coll'eredità del fratello LEONARDO morto
nel 1609. Così i tre superstiti poterono essere decorosamente avviati agli studi. Due trovarono
presso il bar. Sigismondo e i prossimi successori quell'impiego e quel favore, che il padre morente
aveva invocati, adducendo la sua longam et fidelem servitutem praestitam.
BALDASSARE, laureatosi in legge nel 1606 a Padova, seguì tosto il padre nell'ufficio di
prefetto e capitano della giurisdizione fino alla morte del giurisdicente, 1613. Il fratello ANTONIO,
anche dottore, gli successe come consigliere arciducale e commissario fino al 1630. Ultimo ufficiale
politico al castello divenne il figlio omonimo, dottore, come consigliere e assessore negli anni 16431651, in nome dell'arciduchessa Claudia e del figlio Ferdinando Carlo, dopochè nel 1632 la casa
Welsperg aveva dovuto restituire quella giurisdizione143.
Il terzo fratello FRANCESCO adempì la preghiera ardente fatta dal padre sul letto di morte,
di poter contare tra i suoi figli un ecclesiastico. Anch'egli percorse parte almeno dei suoi studi
all'università di Padova dove, prossimo al sacerdozio, s'iscrisse nel 1619 nella facoltà di legge. Il 21
maggio 1621 accompagnato da illustre seguito prese possesso della parrocchia di Castelnovo e la
resse fino alla morte, 1667. Fu sepolto nel presbitero della chiesa ricostruita dal suo predecessore
Ditrico Minato da Grigno e consacrata nel 1633. Era protonotario apostolico ed ebbe la cura in
qualche tempo aggravata da difficoltà. Nel settembre 1665 vide il paese seriamente danneggiato
dalle acque del Maso, che si rovesciò sulla piazza rovinando parecchi edifici144.
A questo punto la famiglia tanto solidamente avviata comincia la discesa. Parte dei beni
erano stati alienati da Don Francesco e fratello Antonio, rimasti arbitri delle sostanze avite, per circa
1300 ragnesi, a risarcire le spese degli studi145, il resto doveva confluire in GIOVANNI, ormai
l'unico rampollo vivente del commissario Antonio, che moriva appena quarantenne, lasciando due
figlie, con cui la famiglia si spense.
La serietà dell'ambiente familiare Poppi e attestata dal medico contemporaneo Girolamo Bertondelli da Borgo,
che nel Ristretto della Valsugana, (Padova, 1665) dà notizie biografiche dell'eremita DOMENICO PELLAURO dei
Masi di Borgo, morto in concetto di santità nel 1640. Aveva passata la gioventù come famiglio in casa Poppi, dove,
sentendo spesso leggere vite di Santi Padri ed Eremiti, decise di ritirarsi dal mondo e visse nel romitaggio di San
Silvestro fino a ottant’anni.
141 A. N., Paride Parisi: molti acquisti di terreni negli anni 1593-1604.
A. N. Fiorentini Leonardo 1598-1629: quattro compere 1599 - 1600.
142 A. N. Fiorentini Leonardo: anno 1608: la casa abitata poi sempre dai Poppi.
143 MONTEBELLO - Notizie storiche ecc. della Valsugana e Primiero - Roveredo, 1793, pagg. 274-275. - Dr.
COSMO RACCHINI - Genealogia dei Conti Welsperg - Pisa, 1875, pag. 32.
144 D. ANTONIO BRUSAMOLIN, Per il solenne ingresso in Castelnovo del parroco D. Angelo Martinelli - Trento,
Scotoni e Vitti, 1893, pagg. 16-17.
145 A. N., Grandi Pietro 1621-1630: pagg. 8, 10, 19 agli anni 1621,1622 e qualche atto posteriore.
Linea di Primiero
ANDREA, terzo figlio del notaio Baldassare, assolti gli studi di medicina e proclamato
artium et medicinae doctor, servì la comunità di Borgo come medico condotto negli anni 15961610146. Da un primo matrimonio con la nob. Domenica Boninsegna era nata una unica figlia
Bona, sposata nel 1598 a Cristoforo Bertondelli. E unica erede la costituì, ammalato, nel testamento
del 1593, che rammenta anche l'esistenza della tomba di famiglia nel cimitero parrocchiale147.
Frattanto, sopravvissuto alla prova del morbo, nel 1598 era passato a seconde nozze con
Felicita Welsperg e n'ebbe due figli, DOMENICA nata nel 1601 e l'anno prima BALDASSARE, il
futuro capitano di Primiero. Anch'egli uomo prudente e stimato, come fa credere la scelta caduta su
di lui per appianare una grave dissensione tra due rispettabili contendenti riguardante la somma di
431 ragnesi di prodotti agricoli148, pagò il tributo alla terra verso la fine di febbraio 1610, nello
stesso anno della cognata Graziadei. La sua famigliola rimaneva orfana nella prima minorennità. Vi
aveva però provveduto con un secondo testamento il 20 febbraio infirmitate valde gravatus. In
quello, che accenna anche al monumento sepolcrale di famiglia nella parrocchiale, dichiarava
usufruttuaria la terza moglie Corona nob. Cavagioni di Vicenza, sposata dopo la morte immatura di
Felicita, legava a Bona 2200 ragnesi, a Domenica la legittima intera e istituiva erede universale il
figlio decenne Baldassare, sotto la tutela dell'omonimo nipote, dottore e commissario di
Telvana149.
Ma l’erede, più tardi abilissimo negoziatore d'affari, ora giovanetto inesperto, dopo la morte
del padre, veniva subito affrontato dal cognato Bertondelli, che impugnava l'istrumento dotale del
1598 e il testamento, pretendendo che tutta l'eredità di Domenica, madre di Bona, fosse a lei
devoluta. Stava per derivarne una lite disgustosa, quando persone influenti e amiche, come il bar.
Sigismondo di Welsperg, il tutore, Francesco Carrara commissario, il dott. Simone Fusio e altri
colla loro interposizione combinarono una composizione pacifica, che assegnò a Bona 4100 ragnesi
in beni e contanti, e tutto fu tacitato150.
Il capitano Baldassare
Giovane intelligente, di energica volontà, attivo, aristocratico nella parola e nel tratto
otteneva gratuitamente a Padova, il 12 aprile 1621, la laurea dottorale in legge, e tosto veniva
assegnato alla giurisdizione di Primiero non come i soliti capitani fino al suo predecessore e
compatriota dott. Francesco Carrara, ma con missione particolare, oltremodo delicata151.
L'arciduca Leopoldo ( 1619-1632), fino al 1625 luogotenente dell'imperatore Ferdinando II, poi
governatore effettivo della contea tirolese, meditava di ritirare alla famiglia Welsperg la
giurisdizione di Primiero o di limitarne le concessioni. Le lettere riversali, che le contenevano,
erano state spedite alla corte enipontana dai tutori del giovane erede Marco Sigismondo e non
venivano restituite. Quella invece vi mandava il neodottore Poppi col titolo di Commissario
146P. I. C. Tovazzi - Medicaeum Tridentinum, Tridenti 1889, N. 164 nota, dove sono errati gli estremi di servizio, e N.
582.
147 A. N., Paride Parisi, N. 30 in data 26 aprile 1593.
148 A. N., Ibidem, anno 1601.
149 A. N., Fiorentini Leonardo, N. 22 in data 20 febhraio 1610.
150 A. N., Fiorentini Leonardo, 1610.
151 Non era il primo della famiglia che varcasse le gole dello Schenér; nel 1544 il nonno omonimo vi era stato
cancelliere.
Arciducale. La sua posizione era davvero spinosa, se doveva rappresentare un padrone nuovo in
casa dei vecchi decisi a non cedere, tutti in moto per salvare e ricuperare i loro diritti.
Baldassare, pure figlio d'una Welsperg, sentiva il disagio e la difficoltà, ma superò
abilmente la prova. Resse con elevatezza di sapere, coscienza integerrima, rara oculatezza. Fedele a
chi lo aveva investito dell'autorità di commissario, prefetto, capitano, non ostile alla casa infeudata
da oltre due secoli meritò la fiducia accordatagli dall'arciduca e poi dal barone152. Del resto non era
la prima volta che i dinasti furono in lungo contrasto colle autorità arciducali. Proprio un secolo
prima ardeva un'interessata differenza per il possesso dei boschi reclamati da una parte, e
sequestrati dall'altra per uso delle miniere153.
Quando Marco Sigismondo cresciuto ebbe compita la sua istruzione a Perugia e divenne
maggiordomo dell'arciduchessa Claudia de Medici reggente del Tirolo e ciambellano dell'arcid.
Carlo Ferdinando suo figlio, si maneggiò destramente e vinse la partita nel 1649, ottenendo con
vantaggio, di fronte agli avi, nuovi diritti e privilegi154. Il Poppi fu conservato nel suo ufficio dal
signore redintregrato e vi continuò fino alla morte nel 1658.
Chi rovista documenti di quel periodo (1621-1658), s'imbatte assai di frequente nella sua
persona intervenuta in tante occasioni per dovere d'ufficio, per lo più in atti d'ordinaria
amministrazione. Nota la firma grande e solenne, accompagnata spesso dall'accenno dottorale, che
non manca nell'ovale del suo sigillo: BALDESSAR POPPVS DOCTOR.
Una circostanza deplorevole, giudicata coi criteri moderni, potrebbe gettare qualche ombra
sul suo governo, durante il quale cadde in Primiero l'epilogo di quella collettiva aberrazione
mentale, che altrove mandò al rogo tante innocenti tacciate di stregheria. A lui toccò avviare tre
processi (1647-1651), assumere lunghi e minuziosi interrogatori e pronunciare la sentenza. Tutto fu
condotto secondo l'uso e le norme del tempo, come era avvenuto, e molto peggio, in regioni
limitrofe e lontane. Il campo delle forche a Molarèn fu infamato da una vittima Apollonia
Bernardin, mentre la figlia Maria e Barbara Lucian n'andarono assolte155. Non c'entrava la sua
ordinaria autorità, ma quella di iudex et inquisitor maleficiorum impostagli per quei determinati casi
dalla corte arciducale d'Innsbruck in nome di Sua Cesarea Maestà, a cui spettava la competenza su
quei creduti delitti. E allora tutti ritennero che la giustizia dovesse essere fatta così.
Su uno di tali processi e su avvenimenti anteriori C. Falconetti appassionato di ricerche
d'archivio, abile romanziere più che fedele storico, intessè un racconto Maria della Ghetta, in cui
tratteggia a colori alquanto foschi e lontani dalla verità il capitano Baldassare e altri contemporanei,
che si prestavano alla sua trama, fantasticando sinistramente anche sulla sua gioventù, senza il
minimo suffragio di documenti156. Non mette conto curarsene. Gli si può credere però, quando da
un ritratto a olio di grandezza quasi naturale del 1648, da lui osservato in casa Sartori, e ora
scomparso, ne rilevò i lineamenti, presentandocelo alto della persona, di presenza maestosa,
tarchiato, con capelli bruni, occhi grandi, fronte elevata157.
D'un altro fatto, che si ripercosse nella festosa, legittima soddisfazione dell'intera valle, il
magnifico signore può essere riguardato come l'anima, quando a capo d'una commissione formata
dalle nobili autorità locali chiedeva, il 17 maggio 1642, nella canonica di Primiero al vescovo di
Feltre Zerbino Lugo con viva istanza l'elevazione della parrocchia ad arcipretura attenta qualitate
152 MONTEBELLO o.c., pagg. 457-58.
153 Risulta da almeno una quindicina di documenti dell’ARCHIVIO WELSPERG a Monguelfo tra gli anni 1516-1543,
in seguito ai decreti arciducali specialmente degli anni 1477 e 1479.
154 MONTEBELLO - o. c., pagg. 457-58.
155 Processi contro le streghe, manoscritto nel Ferdinandeum d'Innsbruck segnato N. 3624.
156 In Gazzetta di Trento, anno 1872, N. 79 e segg.; cap. 42 dell'estratto e altrove.
157 FALCONETTI - o. c., pag. 90-91.
ipsius loci, nobilitate personarum in dicta valle degentium, populi multitudine, ecclesiae
parochialis insigni structura e per altri motivi: e il vescovo per quelli benignamente lo esaudiva158.
Il merito del più distinto rappresentante di tutto il casato Poppi fu riconosciuto e tramandato
nell'iscrizione scolpita sulla lapide, che ne chiude il sepolcro nell'arcipretale di Primiero: 159
BALTHASSAR POPPI J. C. CLARISS. SEREN. CELS. PRIMEI CAPITANEVS ET
COMMISSARIVS, PRAEFECTVRA PER ANNOS XXXVIII FVNCTVS JVSTITIA
CONSTANS, PIETATE INSIGNIS, JVRISPRVDENTIA PRAECELLENS OMNIVM
LAVDIBVS MERVIT DECORARI; CVIVS ANIMAM CAELVM DETINET, OSSA HOC
SEPVLCHRO TEGVNTVR, MEMORIA BENE GESTORVM IN CORDIBVS CVNCTORVM
SERVATVR.
OBIIT ANNO DNI MDCLVIII AETATIS SVAE LVIII
I discendenti
Verso il 1622 Baldassare contrasse matrimonio con Cecilia figlia di Giovanni Butepaia di casato
distinto padovano, donna venerata e stimata in Primiero, ricercata dai nobili come madrina nei
battesimi, ufficio che essa prestava volentieri anche alle famiglie meno abbienti. Con traffichi
numerosi, racchiusi negli atti dei notai contemporanei, il capitano aveva piantato su solide basi
economiche la sua, composta di dieci figli, di cui quattro viventi alla sua morte. BALDASSARE
DOMIZIO, avviato al sacerdozio, di carattere alquanto focoso, era morto poco più che ventenne nel
1647. Restavano BEATRICE CECILIA moglie del cancelliere e notaio nob. Gio. Battista Scopoli,
DARIA FELICITA moglie del dott. Martino Venzoni di Fonzaso, ANTONIO BONAVENTURA e
SIGISMONDO FRANCESCO.
Nel 1647 con atto di cristiana pietà e previdenza fondava un legato di dodici Messe annuali
presso la confraternita del Confalon, molto apprezzata, per le anime dela moglie Cecilia, della
sorella Domenica e di tutta la famiglia Poppi, vivi e defunti, con duecento ragnesi160.
Il 28 aprile 1660 i due figli, padroni di un cospicuo patrimonio, con deliberazione per ora
enigmatica, ne vendettero una parte alla zia Domenica, che aveva seguito il fratello in Primiero,
ammalata e prossima alla fine: due orti, più campi, un brolo, una riva a Borgo, un bosco a Laven,
un prato a Stiozza, un campo a Tressane, parecchi capitali e mobili, in tutto 11315 troni161.
In quello stesso giorno passavano alla divisione dell'eredità paterna posseduta in Primiero e
a Borgo162. Sunteggiando il copioso inventario, citiamo la casa a Fiera d'aspetto nobile e signorile,
come anche oggi risulta nei rifacimenti posteriori, ridotta ad albergo, e detta allora la casa huobera,
con edifici annessi e adiacenze. Una casa con beni a Borgo e a Castelnovo. Una casa con prato al
Berder, un molino a Mezzano ed altri immobili, valutati complessivamente a 67,492 troni.
Gli oggetti d'oro (collane, gioielli, orecchini, anelli, braccialetti, cuori anche di grandezza
notevole) sommavano a 20 pezzi; quelli d'argento (agnus Dei, sonaglio, croce, aghi da testa, cuori
ecc.) 48 pezzi; posate d'argento 36 pezzi; sei collane di coralli, cristalli e perle.
S'aggiungano quelli d'uso: 132 peltri (tondi e piadene); 10 bronzi e olle; molti utensili di
rame; cucchiai di peltro; 38 candelieri, piatti e scodelle d'ottone. La dispensa ben provvista,
specialmente di prodotti caseari ricavati da un numero rilevante di capi di bestiame. Quattro
158 Archivio vesc. di Feltre, Vol. 145, pag. 191.
159 MONTEBELLO o. c., pag. 458, nota.
160 A. N., Giovanni Strosser, mazzo III, fasc. 12, pag. 142 in data 26 dicembre 1647.
161 A. N., Ibidem, mazzo IV, fasc. 21, pag. 18, in data 28 aprile 1660.
162 A. N., , mazzo IV, 20, N. 24 in data 28 apGiovanni Strosserr. 1660.
chitarre, nove archibugi, otto pistole. Tralascio l'enumerazione dei mobili numerosi, grandi e
piccoli, cofanetti, casse, tavole, seggioloni, certo molti di valore; biancheria, drapperia, tappezzeria,
vestiario con articoli di pregio e tutto il resto delle masserizie domestiche e rurali, che può
presentare una casa fornitissima e ricca, come il fastoso capitano l'aveva ridotta durante la sua lunga
carica di trentotto anni. I crediti importavano 11468 troni.
Per l'interesse storico e iconografico, se ci sfugge quello artistico, meritano d'essere ricordati
i quadri, che abbondavano. Una ventina d'argomento sacro, di cui sei dichiarati in tela e uno su
rame; uno profano (Ercole) e le quattro stagioni. Possiamo deplorare la perdita di vari ritratti in tela:
del dott. Andrea Poppi, del dott. Antonio, del sig. Zuane, di don Baldassare Domizio del 1648, tre
dello stesso capitano (1625, 1640, 1648), due della consorte Cecilia. Fuori della parentela: due
ritratti «delli serenissimi arciduchi d'Innsprugg», del vescovo Agostino Gradenigo (1610-1628),
l’arma del vescovo Giampaolo Savio (1628-1639) e un ritratto imprecisato. Sono dati in blocco
senza specificazione i quadri esi- stenti nella stueta e nella stua grarlde, forse con qualche capo di
valore. Solo di libri non si fa alcuna menzione.
Due giorni dopo Domenica faceva testamento, lasciando a confraternite e altari 300 ragnesi,
a diversi parenti 1000 ragnesi; il resto andò ad aumentare la sostanza dei due nipoti163, che ebbero
poi varie differenze sulla stima di certi ori, collane e sete, per cui vennero a un accomodamento
notarile nel 1662, e l'armonia ritornò.
Con queste risorse potevano affrontare impavidi l'avvenire con tranquilla sicurezza. Antonio
rimase in Primiero, curando i beni ereditati. Già alla morte del padre era accasato con Anna
Meneghetti di onorata famiglia locale, di recente immigrata da Poschiavo, e il primogenito
BALDASSARE, nome ormai tradizionale in casa Poppi, più tardi notaio e continuatore della linea,
rallegrava le pareti domestiche e il tramonto del nonno. Poi altri ne seguirono: CECILIA
DOMENICA passata sposa al nob. Giacomo Pastorini con 3516 troni di dote, ANNA MARIA a
Melchiore Panzoni di Valstagna e PIETRO ANTONIO, che non ebbe discendenti più in là dei suoi
quattro figliuoli. Di lui sappiamo che dopo la morte del fratello Baldassare, nel 1707 cedette a
Lorenzo Pastorini suo nipote «un scagno del banco delle donne» nella chiesa arcipretale, attiguo al
banco dei conti Welsperg164, ma Carlo Ant. Poppi nel 1733 contestò la cessione, perchè lo zio non
poteva farla, e lo scagno tornò a Carlo e suoi eredi165.
Il notaio invece sostenne ancora le tradizioni aristocratiche del nonno capitano; nel 1681
passò in matrimonio con Anna figlia del nob. Francesco Leporini successore a lui nel governo della
valle. Contò tra gli undici figli un sacerdote don GIORGIO FRANCESCO, che fu beneficiato dei
Welsperg in Pusteria, poi cappellano arcipretale in Primiero fino alla morte nel 1740, e CARLO
ANTONIO diventato «sottomastro cesareo e regio» delle selve a Canal di sotto. Là dimorò per
vent'anni colla moglie Chiara Caterina figlia del dott. Giacomo Baldassare Scopoli, allevando la
numerosa famiglia, che pareva assicurare copiosa discendenza, e invece la vide venir meno tutta in
giovane età. Quando nel 1765 venne a morire, gli sopravviveva un'unica figlia erede, sposa a
Francesco Scopoli 166. Tre anni prima, nel 1762, chiudeva gli occhi non ancor trentenne a Caoria il
figlio don FRANCESCO BALDASSARE là beneficiato, nel 1765 l'ultimo figlio GIORGIO e nel
1769 anche GIOVANNA ELENA SCOPOLI, dopo aver donata una parte della casa nel 1766 al
chierico Francesco Pastorini suo parente, e fondato un pio legato in suffragio del padre, rinchiuse
con sè nella tomba il nome Poppi, che per cinque generazioni aveva rappresentato un casato
potente, attivo e benefico.
163A. N., Giovanni Strosser, mazzo IV, 21, N. 20 in data 1 maggio 1660.
164A. N., Giov. Francesco Scopoli, mazzo I, 1, N. 90 in data 22 dic. 1707.
165 A. N., Baldassare Moarsteter, mazzo I, 16, N. 55 in data 4 nov. 1733.
166 A. N., Baldassare Moarsteter, mazzo II, 40, N. 46, in data 23 dic. 1765.
Linea di Primiero diramata a Borgo
Anche Sigismondo, il figlio minore del capitano Baldassare, attendeva all'economia dei suoi
beni e forse contava di rimanere nella valle natia, dove non aveva penuria di mezzi di sussistenza. A
questa conclusione dovrebbe indurre un contratto conchiuso nel 1661, nella propria casa a Fiera, col
muratore Zanetto Pacagnello di Mezzano «di fare tutte le muraglie della casa che novamente è stata
dissegnata dal sudetto Sigismondo, mediante anco il dissegno et parere di messer Giorgio Moena».
E successivamente ne stipulava un secondo con Domenico Lucian di costruire quanto comportava
la sua arte di marangone a quell'edificio per uso del committente167.
L'anno seguente però il fratello Antonio in casa del suocero Zuane Meneghetti a Fiera
concedeva una locazione triennale a Sigismondo, che appare più occupato nei beni di Valsugana
che di Primiero, di mezza casa indivisa a Borgo, dei campi, prati, broli, chiesure acquistate dal
barone Cristoforo Welsperg a Castelnovo, metà del maso Berder, due prati a Valmesta, un molino
«con due para de mole et pille» a Mezzano e qualche altro stabile per il prezzo annuale di «horne
dieci di vino buon et suffitiente a Borgo o a Castelnovo»168. Nel 1663 ambedue hanno interessi a
Innsbruck e per raggiungere la somma di 250 fior. alemanni necessaria per il disbrigo vendono un
brolo al Ceggio. Insieme devono anche compire la dote alla sorella Daria con 300 ragnesi169.
Ma l'anno successivo Sigismondo è accasato in Valsugana, vende una parte di casa a Borgo
per pagarne con 400 ragnesi una a Castelnovo, e nel 1665 permuta con vantaggio anche quella
rimanente, che altrimenti gli sarebbe stata inutile, cum habitet Castrinovi, e compera invece là un
campo dal fratello Antonio170. La sua dimora in quel villaggio però non appare nè lunga nè
assoluta, perchè i suoi figli nascono a Borgo.
In ogni caso il figlio BALDASSARE FRANCESCO abbandonò Castelnovo e dimorò nella
sede degli avi, conscio ancora della grandezza del casato, concentrato in quello e negli affari della
Comunità, che tre volte lo elesse suo sindaco. Anch'egli da una bella famiglia prosperosa attendeva
la prolungazione della stirpe, a cui il figlio maggiore FRANCESCO ANTONIO, sacerdote e
primissario a Castelnovo171, dava un saggio indirizzo continuatore delle qualità religiose e operose
dei Poppi, mentre GIROLAMO seguiva da vicino il padre nella cura del patrimonio e della
Comunità, anch'egli due volte sindaco.
Fiero e fiducioso nei rampolli, che fatalmente gli si spegnevano nei primi anni di vita,
Girolamo non prevedeva quale tristezza dovesse coglierlo nella sua lunga vecchiaia. A 57 anni
accompagnava alla tomba l'ultimo figlio trentenne GIOV. BATTISTA; a 63 perdeva l'ultimo
fratello DON SIGISMONDO morto a sessant'anni primissario a Borgo, nel 1778.
Il venerando «perillustre» e la moglie Flavia Margherita Stozzon, come due ruderi o tronchi
inariditi in mezzo alla campagna brulla, devastata dall'uragano, tra i ricordi dell'agiatezza e del fasto
passati trascinarono ancora quindici anni la loro malinconica esistenza, finchè, dopo aver assistito al
crollo totale anche del ramo primierotto, egli a 78 anni, la moglie a 76, certo oggetto di riflessione a
tanti e di cupide brame a qualcuno, opponendo al bimbo blasonare dei loro albori la decrepitezza
del tramonto, gli ultimi Poppi abbandonavano nel 1793 il loro nobile nome all'elenco degli
scomparsi e presto dimenticati.
167 A. N., Ugolino Scopoli, III, N. 4, 5 alla data 11 luglio 1661.
168 A. N., Giovanni Strosser, mazzo V, 23, N. 99 in data 25 nov. 1662.
169 A. N., Paride Perizzoni, mazzo I, pag. 14 in data 20 febbraio e 24 settembre 1663.
170 A. N., Ibidem, in data 18 maggio 1665.
171 BRUSAMOLIN, o. c., pag.17.
MAESTRI COMACINI IN PRIMIERO
L' opera semplice, elegante e talora geniale dei maestri Comacini diffusa per parecchi secoli
nel Trentino172 pareva non dovesse raggiungere questo lembo estremo tanto appartato e in ogni
caso aperto di più all'influsso artistico del mezzogiorno e, per contingenze particolari, del
settentrione nel periodo minerario, ma le loro manifestazioni, che avevano toccata in vari luoghi la
Valsugana e di punta anche Fiemme, superarono le barriere ulteriori e anche qui lasciarono tracce
non trascurabili della loro presenza.
La chiesa di Siror
Maestranze tedesche, abbattuta la chiesa romanica anteriore incapace ormai per il crescente
afflusso, avevano ultimata nel 1493173 la nuova parrocchiale di Primiero, che destò subito stupore
per 1' eleganza e 1'armonia delle linee gotiche, tanto più che in quella convergevano gli abitanti dei
dintorni come a unica pieve. La comunità di Siror non s'appagò soltanto di ammirare e con
decisione inspiegabile passò all'imitazione, trasformando in quello stile la sua chiesetta consacrata
nel 1345174, in buone condizioni statiche, in cui si continuava negli ultimi anni a introdurre
migliorie di arredamento e di arte. Non la indussero motivi di necessità, giacchè, per quanto
risulta dal documento e da scrostamenti d'assaggio, il vecchio perimetro (6 m. x 12 m.) fu
conservato; solo l'abside rotonda fu levata e sostitluta da una un po' allungata, poligonale «a pe de
oca». Il motivo fu certamente estetico, insospettato in una popolazione dedita al lavoro della terra e
alla pastorizia, che nella chiesa voleva ricavare, per così dire, una miniatura della più grande che
sfoggiava a Pieve la nuova, maestosa euritmia delle sue forme.
Questo compito i vicini affidarono a GIORGIO col figlio DOMENICO e a BELTRAMO da
Como, che impiegarono più che da muratori la loro abilità non tanto nel creare, quanto nel ridurre,
proporzionare e costruire in modo da non deludere 1'aspettazione d'un gusto popolare sensibile al
bello. L' opera cominciò subito e continuò senza interruzioni. Il registro dei più vecchi Conti
Chiesa175 rispecchia questa attività a riguardo dei tre maestri, citandoli sovente, specialmente nell'
anno 1499. Se 1'esecuzione, come dobbiamo ritenere, fu fedele al progetto, ne risultò un gioiellino
degno del suo modello, che poi in epoca di gusto decaduto, per necessità d'ampliamento, fu distrutto
e disperso nella costruzione della chiesa attuale.
Riportiamo integralmente, sopprimendo le numerose abbreviazioni, dalla difflcile grafia del
notaio Ugolino Scopoli176, il contratto-progetto177 redatto in lingua italiana, che risente della
parlata veneta propria della regione.
172Sac. Simone Weber: I Maestri Comacini a Trento in Rivista Tridentina, Anno VIII, 1908, N. 3 e i Maestri Comacini nelle valli del
Trentino, ibi, Anno- XII, 1912, N. 1.
173 Data onginale nella volta della chiesa.
174 Atto originale in pergamena nell' archivio parrocchiale di Siror.
175 Esiste nell'archivio parrocchiale di Siror.
176 Di lui si farà menzione più sotto.
177 Il contratto scritto su carta di lino è conservato nell' archivio parrocchiale di Siror in busta alla data 1498
Sii noto a tuti lezerà questa presente scritura como ser Antonio del Pont massaro et
governador dela giesia over capella de sant Andrea de Siror de consentimento de ser Zuan Zilio, ser
Andrea Fontana, ser Zuane Zanona et ser Zuane Folador vesini de essa villa de Siror e convegnudi
cum maestro Zorzi murador da Como fiol de q. maestro Zuan ( ? ) et cum maestro Beltramo de q.
maestro Zorzi etiam de Como murador de fabricar et sublevar la giesia et capella soprascripta de
sant Andrea nel modo et forma infrascripti.
Intendendo semper a tute spese de boca de li prenominadi muratori presentando ad essi
muratori per la Regola tuto lo aparatto (?) de la fabrica zoè calzina, sabion, piere, tovi, legnami et
ferramente sel farà de bisogno per affirmar armature, excepta laqua la qual essi muratori portar sia
tegnudi senza altro premio over salario et die esser comenzado a lavorar massime in romper de muri
vechy over lavorar piere over tovi avanti sant Michiel et possa a tempo novo zoè cerca el mese de
marzo dar opera cum effetto cerca essa fabrica. La qual fabrica die esser fatta a questo modo, bene
et sufficientemente prima in romper la tuba vechia de essa giesia a spese sempre de li diti muratori
et possa far li fundamenti boni et sufficienti per fin a la centa del cimiterio a sie cantoni over a pe de
ocha cum le cantonade de foravia de piera viva, et dentrovia l' archo maestro grande cum li soi archi
necessary et collone de tovi lavoradi ben et sufficientemente cum do finestre grande una per banda
del altar donde acaderà cum le sue colonette per mezzo de tovi et li orli de le finestre in forma de le
finestre de Pieve, et possa construer un altar a la tuba abele cum le sue piere et latta lavorade cum
un scalin datorno de piera lavorada segondo parerà ali visini.
Item die levar la finestra donde se pone el tabernaculo del corpus Domini cum quatro piere
lavorade in forma de quella de Mezan cum le sue cornise et incastro et poi far et construer el scalin
del arco grande maestro de piere lavorade et li archi desora sia in forma de quela de Pieve per
quello puol portar et alta et larga como se richiede. In si fata forma che sia laudada per bella, bona
et sufficiente per homeni esperti et sia da banda de fuora smaltada et dentrovia sbianchezada et ale
fondamenta de essa tuba li visini sia obligadi a dar tre overe a spese de la villa et li archi de la tuba
sian fati cum li soi colori zali segondo el color de queli de la tuba over corpo de la giesia de Pieve.
Et construta che sarà la tuba in modo et forma soprascripti possa sian obligadi levar li muri
del corpo de la giesia sie pie over più sel fara de bisogno atorno atorno cum un ochio verso la via
grande segondo porta el corpo de essa giesia cum marmori over tovi lavoradi sia honorevole cum do
finestre grande verso mezodì ai logi necessarii cum una colonetta per finestra de tovi lavoradi cum
soi straffori over rose ordenadamente.
Item die far la reza verso mezo dì de tovi bella et bastante lavorada. Item far li Revolti dela
giesia de tovi cum li soi archi lavoradi in forma de la giesia de la pieve de Livinallongo cum sie
meze collone de tovi ai logi donde bisogna da le bande et ali cantoni et sia smaltada da banda de
fuora et dentrovia sbianchezada et sia laudada per bella et bastante cum li colori circha li archi del
Revolto como de sora, et tuto construto como de sora la deta tuba et giesia debia possa conzar una
collonetta del campanil et quella affirmar in bon stado. Et questo /e/ per precio et marcado de
Raynesi cento et quindese zoè R. 115 che son a moneda bona de Maran lire cinquecento et settanta
cinque, ali qual muratori esso massaro cum conseyo de ser Zuan Zilio suo compagno a questo
constituido debia dar et consegnar tanti debitori de la giesia soprascritta in Siror che sian bastanti
per tal debito intendando confessi
El qual pagamento die esser fatto de in tempo in tempo segondo se lavorerà alla giesia
excepto che el stia in le man del massaro over debutà de la giesia R. 150 de dinari per fina tanto sarà
laudata la dita fabrica per bona et sufficiente azochè essi maestri habia più causa de far el debito suo
cerca la dita fabrica. Per le qual cose fermamente da esser atese et observade una parte a l'altra et
l'altra hano obligadi tutti i suoi beni mobili et immobili presenti et che
avegnirà, Renonciando ad ogni exceptione de ingano etc.
La qual fabrica sia cum effetto fatta da qui ad anni tre proximi che vien ala più longa. Et
questo in casa de maestro Thomaso de Angnelina hosto sul marcado de la val de Primier presente
maestro Enrigo Fauro, ser Bartolamio de Maestro not. (?), ser Zuan Nocho (?), Redolfo Los de Imer
testimoni et altri adi zoba 3 mazo (maggio) 1498.
Ugulinus Scopulus not. ad preces partium suprascriptarum
scripsi presente Andrea Zanona marzuol et instando (?).
La chiesa di San Giovanni
Ugolino Scopoli178 possedeva sul versante della Noana, lontano da centri abitati, in mezzo ad altri
proprietari, dei prati chiamati Liendri. Soffriva che specialmente al tempo della fienagione per
diverse settimane tante persone, anche dei dintorni, mancassero d'un richiamo religioso e della
possibilità di soddisfare al precetto domenicale. Per ovviare all'inconveniente pensò d' offrire
generosamente il suolo e di costruire una chiesetta in amenissima posizione. Ne fece richiesta al
vescovo di Feltre Antonio Pizamano, che la accolse con riconoscenza e concesse l' erezione il 21
agosto 1512179 sotto il titolo dei due santi Giovanni Battista ed Evangelista, che soppiantò poi l'
antica denominazione di quella località.
All'esterno della pergamena il pievano concesse la sua approvazione e il notaio tracciò una
breve e interessante cronistoria della benedizione del fondo, della rapida costruzione e della solenne
inaugurazione della chiesa, che cogli affreschi del pittore Francesco Naurizio rappresentanti i
protettori degli Scopoli doveva diventare un monumento di famiglia. In quella relazione scrive:
«Et ipsa die (29 aprile 1514) ego Ugulinus incepi erigere, construere et perficere capellam illam ad
honorem Dei... per magistrum Christophorum et magistrum Michaelem fratres de Cumis».
1514 - l5 Notandum est qualiter die sabati penultima aprilis que fuit in die sancti Petri
martiris 1514, ind. II fundum ecclesie sanctorum Joannis apostoli et evangeliste et Johannis Baptiste
benedixit Revdus dñus Johannes Baptista Pizinus monicus ord. sancti Francisci ex licentia dñi
presbiteri Francisci Cremonensis viceplebani in locum Revdi dni Michaelis Briosii de Mantua nunc
plebani Primerii, in pratis liendri. Et ipsa die ego Ugulinus incepi erigere, construere et perficere
capellam illam ad honorem Dei... per magistrum Christophorum ct magistrum Michaelem fratres de
Cumis.
Anno Dñi 1514, die dominico 7 mensis May, ad peticionem et requisitionem egregii viri
Ugolini de Scopulis notarii et canzelarii totius vallis Primerii, ego Michael Briosius de Mantua
plebanus et rector ecclesie plebis nuncupate beate Marie de Primerio has presentes ea reverentia,
qua decuit, vidi et perlegi, quas approbo et laudo ac consentio quantum in ipsis continetur. In cuius
robur has presentes breves manu mea scripsi et subscripsi
p Michael plebanus.
Fuit completa ecclesia die lune 10 iunii 1514. Notandum est qualiter die sabati 14 iunii 1514
fuit celebrata prima missa de Spiritu Sancto in dicta ecclesia per reverendum dñum Gabrielem
Nygenthamer pastorem ecclesie in Walckerspach nunc plebanum Primerii. Et fuit etiam sua prima
missa dum esset plebanus eiusdem plebis. Eo die secunda missa in eadem ecclesia de sancto Joanne
fuit celebrata per Rev.dum dñum fratrem Baptistam Pizinum bassianensem ord. sancti Francisci
sacre Theologie doctorem, ad quas vero missas inter alios interfuit spectabilis dñus Joannes Egen
capitaneus castri Primerii.
178 Della vetusta famiglia documentabile in Primiero fino dal 1282; notaio e cancelliere il personaggio più cospicuo e
rappresentativo del casato e della lunga serie dei notai locali. La sua attività si svolge tra gli anni 1477-1525 e risulta da una quantità
di atti da lui scritti e da parecchi delicati incarichi di fiducia a lui commessi dalla comunità. Tonadico gli dedicò di recente la via
principale del paese.
179 Documento originale in pergamena nell’archivio parrocchiale di Mezzano.
Notandum qualiter ecclesia de qua supra, fuit consecrata per R.mum dñum Michaelem
Jorbam ep.um arcusensem nunc suffraganeum Tridentinum ac vicarium in pontificalibus R.mi in
Christo patris dñi dñi Laurentii Campegii ep.i feltren. in partibus dominationi C. M. suppositis,
presentibus venerabili dño presbitero Luca de Compagnonibus vallis Nanie, ser Luca etiam vallis
Nanie, familiari suo, ser Benedicto eius fratre, venerabili dño presbitero Gabriele vice plebano
Primerii et duobus suis capelanis, spectabili dño Joanne Egen capitaneo Castri, Julio Zehendrertius
scriba, ser Bartolameo a Scolaribus notario, ser Paulo de Avantiis notario, ser Gasparo filio ser
Andree scriba dñi vicarii minerarum, magistro Enrico fabro de plebe, magistro Michaele Luciano de
Tonadico et aliis quampluribus. Et qualiter R.mus et Dñus plebanus erant corpulenti atque fecerunt
simul austum (dovrebbe essere haustum = spuntino, rinfresco, refezione, pranzo), saltarunt et
cucurrerunt in signum magne letitie eiusdem consecrationis die sabati quarta mensis augusti 1515
indictione tertia.
Il campanile di San Silvestro
Come vedetta della valle su un breve sperone del monte Totoga sorse una antica chiesetta in
onore di san Silvestro. Ci è nota la prima volta dal testamento180 del pievano Paolo Huber, che si
dice fondatore della cappella, forse nel senso di largitore d'una dotazione, nel 1465. Di modeste
proporzioni, come lo dimostra l'absidina ancor superstite, abbisognava di un campanile, che le fu
aggiunto nel 1618 ben sagomato e grazioso, oggi un po' sproporzionato e soffocato
dall'ampliamento posteriore della chiesa: è il più ricco di pietra lavorata che esiste nella valle. E
questa parte dell' opera fu dalla comunità di Primiero affidata con regolare e minuto contratto a
«maestro Bartolomeo del logo de Com et maestro Giorgio Lungo dell' istesso luogo speza
pietra»181.
Atti Notarili di Primiero - Notaio Andrea Scopoli, 1 mazzo 1605-l640: fasc. IV, N. 41.
Adi martedi, li 5 zugno 1618. Ind. prima in la sala del Pallazo in la Flera de Primero.
Presenti ser Redolfo q. ser Jacomo Guberto, Rodolfo q. Simon Guberto d' Imer et Zuan Pelzer de
Siror testimoni.
Ivi costituiti personalmente maestro BARTOLAMIO del logo da Com, et maestro
GIORGIO LUNGO dell'istesso luogo speza pietra hano promesso et si sono obligati di intagliare
tutte le pietre, che farano bisogno per fabricare il campanile della chiesa dedicata ad honore de
santo Silvestro in detto luogo de Primero a tutte sue spese, nel monte detto Santo Silvestro cioè de
sopra della calchera, et di darle intagliate al luogo de Buà, et in caso che nel metterle in opera non
andassero bene, sono in quel caso medemamente obligati di accomodarle, et intagliarle in modo tale
che vadino bene, et questo hano fato perchè ser Jacomo Roster et maestro Vettor Lutian massari di
detta luminaria presenti con consenso del molto Magnifico et spettabile signor Vicario presente et
delli marzolli, cioè ser Antonio Pacagnello marzol de Siror,
ser Vettor q. Pietro Turra in nome de Zanetto Lotto marzol de Tonadico presenti et col consenso
ancora delli altri marzolli come ivi fu refferto, et de ser Jacomo della Sega massaro della luminaria
de Santa Maria presente gli hano promesso dar et pagare in danari et robbe come sguita videlizet:
et primo tutta la farina, pane, formagio, smalzo ed altre robbe che gli facessero bisogno de
volta in volta secondo il loro bisogno al corrente pretio. Et il resto d'ogni Santi li doi terzi in dinari,
et 1'altro terzo in bestiame sofficiente bovino da vita in stima de comuni amici, misurate però prima
tutte le pietre, che sarano lavorate per detto... da pagarle in ragion de toni diecisette il passo,
dechiarando che li pilastri, et le colone doverano essere misurate doi volte. Et che li cantoni
180 Archivio vescovile di Feltre, Vol. 18, pag. 311.
181 Archivio di Stato-Trento: not. Andrea Scopoli, I mazz. lasc. IV, N. 41.
doverano essere almeno de longezza de piedi uno et mezzo. Cominciando a dar principio a detta
opera li primi de luglio prossimo venturo et seguitar sino all'opera flnita. Facendo bisogno spizzar o
in qual si voglia modo accomodar pontarolli o altri ferri per tal occasione essi massari siano tenuti
pagar li maestri, et bisognando farne de nuovi loro stessi li prefatti speza pietra li dovrano pagar.
Rovistando nei documenti non è punto escluso che ne compariscano degli altri182.
182Per ragione d'origine, sebbene ignoriamo la prolessione, possiamo far cenno di quel « Johannis q. ser Gregorii a Platea de Mazo
Vallis Tellinae habitatoris et sindici maloris Comunitatis Burgi Perzini » (1576) citato anche da mons. Weber dalla Raccolta Ippoliti,
ms. N. 24 della Biblioteca Comunale di Trento.
Egli compare attivo tra gli anni 1575-1586; nel 1601 è gia morto (dai Registri parrocchiali). Fu nonno di quel Benedetto
Piazza domiciliatosi nel 1619 in Primiero come agente del Priorato di S. Martino di Castrozza, da cui discese la nota famiglia,
diramata a Fiera e a Imer, tanto distinta per oltre due secoli nel campo notarile, giuridico, ecclesiastico e nel possesso fondiario. Forse
non è una pura coincidenza la cura che i discendenti posero sempre nelle costruzioni di abitazione permanente, come nei rustici
disseminati nei loro poderi, manifesta anche oggi nella solidità ed eleganza, che vorremmo chiamare di tradizione comacina.
La Chiesa Arcipretale di Primiero
Il più illustre e bel tempio della valle è un monumento dagli eruditi locali finora quasi
ignorato o conosciuto appena superficialmente. Ben di rado viene nominato in conferenze, lezioni o
pubblicazioni dai nostri cultori d'arte. Si incontrano elogiate, valutate, discusse, tra le altre, le
costruzioni sacre del card. Clesio, con forse una punta fino all'arcipretale di Pergine, ma su quella di
Primiero silenzio.
Causa ne può essere la lontananza periferica, che la sottrae all'osservazione di centri
culturali e... ignoti nulla cupido. Quella però non impedì a studiosi ben più discosti di rintracciarla e
ammirarla.
Cerca di supplire a una monografia più profonda ed esauriente, che l'opera richiede da
competenti, il presente studio, ora specialmente che la premura dell'arciprete Don Elio Scrinzi di
conoscere e apprezzare sempre meglio la sua chiesa, col contributo di intendenti e l'aiuto generoso
di comuni e offerenti, ha saputo ridarle lo splendore originale nella semplice ed elegante austerità
dello stile, per avvicinarla, svelandola, alla comprensione degli studiosi, dei valligiani e dei molti
forestieri, che accanto alle tante bellezze naturali sparse dal Creatore su quel lembo di terra gustano
anche quelle aggiunte in felice armonia dagli uomini.
Servono a questo scopo le numerose riproduzioni fotografiche inserite, che l'abilità artistica
riscaldata dalla passione per le memorie patrie del sig. Nanni Gadenz ha voluto fornire.
Alcuni brevi giudizi sull'arcipretale
Il vescovo Giacomo Rovellio nella prima visita 1585 vide e lodò la chiesa ottimamente
costruita, bene coperta, con tre porte lavorate, più finestre oblunghe e un occhio (rosone) fabbricate
con lodevole artificio ecc.
L'arciprete Giov. Battista Zanoni, 1698: La chiesa fu eretta nel secolo 1400 da minerali di
struttura Gottica assai magnifica.
Il medico Antonio Rachini, 1723: Questa chiesa è assai grande, fabbricata all’antica, ma con
bellissima struttura di volte, colonne di pietra, senza risparmio di spesa. Vi sono sette altari di
magnificenza, con un organo molto sontuoso e soave ecc.
Il capitano Giuseppe Loss, circa 1870: La chiesa è di stile gotico, di pura composizione, di
svelte arcate, di e1eganti finestre ecc.
Un corrispondente del Kunstfreund, 1888: Trovai in Primiero una splendida chiesa gotica
con uno stupendo tabernacolo ecc.
Il conservatore Hans Schmölzer, 1900, nella sua descrizione della chiesa ha frequenti rilievi
di apprezzamento e di ammirazione per le particolarità artistiche offertegli allo sguardo. Nel 1903:
La parrocchiale assai pregevole dal lato storico, artistico ecc..
Il prof. Gio.Ba. Musner (in «Italia Bella» , I913, Numero speciale) parla «dell'impressione
che si trasforma in meraviglia, d'un fascino di bellezza che si subisce prima ancora di rendersene
ragione, del magnifico rosone, dell'armonia solenne che dal suolo alle volte canta la chiesa tutta».
Alberto Dubois (in «Croquis Alpins», 1883): La chiesa, un monumento assai grazioso, è a
tre navate sostenute da due file di colonne. Le arcate della volta si intrecciano con molta armonia.
L'insieme vi colpisce soprattutto per la purezza delle linee.
Tra i motivi che la commissione guidata dal capitano Baldassare Poppi esponeva nella
canonica di Primiero, il 17 maggio 1642, al vescovo Zerbino Lugo per ottenere l'elevazione della
parrocchia ad arcipretura, uno metteva in risalto: “l'insigne struttura della chiesa”.
Il vescovo stesso la aveva ammirata tre giorni prima come di bella costruzione, capace di
molta gente, bene coperta, con ottimo volto, con tre navate, due file di colonne, due porte,
acquasantiere assai decenti.
La chiesa arcipretale di Primiero *
Visioni lontane
Da oltre 450 anni nella sua struttura maestosa e massiccia, intonata all'ambiente, in
posizione elevata la chiesa arcipretale attira gli sguardi dai punti più svariati, come una vedetta che
domina e veglia sugli abitati circostanti e sottoposti.
La aveva preceduta nel medesimo luogo un'altra di origine sperduta nel buio di tempi
lontani, forse la prima, storicamente conosciuta fino dal 1206 e poi nel 1257, 1269, 1272183 nel
qual anno si fa menzione anche del pievano Giovanni di Transacqua (1272-1275). Portava il titolo
ecclesia S. Mariae de Primeo; era ornata di un portico, sotto il quale alle volte si stendevano atti
notarili: in porticu S. Mariae Plebis Primei. Di proporzioni decorose, regolari e anche capaci a
giudicare dalla quadratura del campanile superstite, allora coperto a piramide come il suo
contemporaneo di San Martino, nel suo calmo stile romanico aveva cantata l'arte latina e la fede
disseminata dai banditori feltrini.
E chi sa quanto a lungo ancora avrebbe disimpegnato il servizio spirituale per la comunità,
se qualche aumento demografico e afflussi eccezionali di elementi forestieri non avessero deciso un
rinnovamento radicale, sopprimendo il vecchio per creare ciò che era una aspirazione propria
dell'epoca e una tendenza programmatica dei nuovi immigrati.
I costruttori della nuova chiesa
Frattanto l'imperatore Carlo IV di Lussemburgo ( 1347-1378), dopo instabili e torbide
vicende, aveva mutata la situazione politica della valle, che staccata dalle dipendenze da Feltre,
eretta in giurisdizione nel 1349 per Bonifacio de Lupis da Parma, nel 1373 era stata unita
stabilmente al Tirolo, perciò agganciata alla politica settentrionale e presto infeudata alla famiglia
tedesca dei Welsperg ( 1401).
L’arciduca Sigismondo (1439-1490) si fece padrone delle risorse minerarie, che investigate
da mani esperte affioravano di continuo con crescente rendimento, e del vasto patrimonio boschivo.
Mecenate e denaroso, come nel resto della regione aveva promosse molte costruzioni, lo fece anche
NOTE
* Scritti di qualche utilità per lo studio dell'arcipretale sono oltremodo scarsi e non esaurienti. Ne citiamo due:
a) «Mittheilungen der K. K. Central-Commission für Erforschung ecc.» - Wien u. Leipzig 1900.
Nel capitolo Kunst-Topographisches aus Süd-Tyrol III il conservatore Hans SCHMÖLZER nelle pagine 69-73
tratta chiese di Primiero. Le prime quattro contengono una succinta, minuta descrizione dell'arcipretale.
b) Giuseppe Loss (1831-1880) da Caoria, nipote dell'ingegner Luigi Negrelli, colto, intelligente e appassionato
delle memorie locali pubblicò parecchi studi geologici e geografici di regioni trentine con qualche accenno storico.
Lasciò inedito, in due quadernetti, un buon abbozzo di Guida di Primiero ricco di notizie storiche attinte a documenti,
all'opera del Montebello e al manoscritto di Antonio Rachini. Contiene anche inesattezze. Interessanti riescono le sue
osservazioni ed esperienze personali. Chi scrisse sulla valle (Brentari, Battisti, Tiepolo ecc.) tolse da lui.
183 p e r g a m e n e: le prime due dell'archivio distrettuale, la terza dell'arch. parr. di Tonadico, la quarta di quello
arcipretale.
qui mediante i suoi minatori, che in tutti i centri della loro attività lasciarono monumenti religiosi,
erigendo edifici nuovi o riformando i preesistenti. Anche il successore e cugino imperatore
Massimiliano I ( 1490-1519), secondo le minori possibilità, se ne mostrò convinto fautore.
Al loro impulso efficace è dovuta l'erezione dell'arcipretale, anzi l'Atz184, pur mitigando
cautamente la sicurezza dell'asserzione, non dubita di affermare: Anche la costruzione della bella
parrocchiale di Primiero viene in gran parte attribuita a Massimiliano. Del resto quei signori
restituivano in tal modo una parte ben esigua di quanto strappavano alle viscere e alla superficie dei
nostri monti.
Gli umili minatori contribuirono non solo con denaro e opere comuni, ma molti abilitati
come scalpellini fornivano parti più fine, lasciandovi impressi i loro segni. Di tutti presentano
qualche attestazione documentaria emblemi minerari, incisioni nella pietra, l'aquila imperiale e
tirolese, l'insegna dell'unione austriaca rintracciabili nell'edificio stesso o sul campanile. Neppure i
giurisdicenti sono da ritenere estranei, se il loro stemma non si vuole riportato per solo ossequio, nè
certo fu assente la comunità e lo scudo con la lontra nel presbiterio si potrebbe ritenere come un
tardivo riconoscimento.
Lo stile gotico
È il fiore più bello e ricco di ideale artistico medievale sbocciato dallo stile romanico, di cui
spezzò l'arco rotondo, spingendolo in alto come acuto. Spostò la gravità del peso sui pilastri
assottigliando le pareti, ampliando le finestre, introducendo una profusione di trafori, e ornati
originali. Fasci di nervature si snodano, s'intrecciano componendo disegni e prospettive mirabili per
ritornare a riposarsi su nuove basi predisposte. Lo stile ha saputo superare la natura della dura pietra
e infonderle vita. I campanili lanciati alti e acuminati nel cielo influirono persino sugli anteriori
romanici.
Sorretto da un forte entusiasmo produsse tante meraviglie al servizio della religione, opere
estetiche e insigni, in cui tutto tende all'insù con bell'armonia, comunicando a noi quell'elevazione
spirituale verso l'infinito.
Anche nelle regioni tirolesi entrò il nuovo stile favorito da ordini religiosi, vescovi, nobili e
specialmente dai minatori, che ne furono i più attivi propagatori e pratici esecutori, dotando il paese,
in quasi due secoli, d'una quantità di chiese giudicate tra i suoi monumenti migliori, segnatamente
quelle dell'ultimo periodo, del tardo gotico giunto alla perfezione e prossimo alla decadenza.
Le nostre chiese semplici e disadorne non possono certo reggere il confronto colle classiche
cattedrali, ma la fedele rispondenza alle linee stilistiche produce in noi lo stesso effetto, più pacato,
più intimo, più raccolto.
Le maestranze e i loro segni
Formano la caratteristica del lavoro specializzato medievale. Gli operai si univano in
corporazioni con statuti, capi, gradazione di classe per la formazione e l'impiego di abili tecnici.
Ogni lavoratore della pietra riceveva un segno che incideva sui pezzi da lui eseguiti.
Diverse formate tra i minatori o chiamate per lo scopo lavorarono anche nella nostra chiesa,
come dimostrano i loro segni frequenti sparsi a preferenza sulle colonne o sui portali. Dalla loro
molteplicità si può giudicare il contributo costruttivo d'una maestranza, che affiancava le
organizzazioni dei maestri muratori.
184
KARL ATZ: Kunstgeschichte von Tirol und Vorarlberg, II edizione, Innsbruck 1909, pag. 396.
L'architetto
Purtroppo resta un anonimo, che del resto non fu un creatore, un innovatore: egli applicò
rigidamente i canoni dell'arte tramandati e provati, senza vanti di apporti sconosciuti. L'arcipretale
non deve essere considerata come un prodotto isolato, ma allineata con quelle numerose, che nel
disegno e nell'impiego del materiale tradiscono un’idea e fattura comune, senza che una risulti copia
dell'altra: nulla in essa che non ritorni anche altrove; anzi scevra di elementi ornativi può sfigurare
dinanzi a più ricche e sfarzose.
In un punto però non trascurabile difficilmente essa ammette inferiorità e predica il merito
indiscusso dell'autore dovuto non alla ricerca di risorse nuove, ma al coordinamento armonico delle
vecchie ormai acquisite, la delicatezza nella stesura del disegno, la sua grande sensibilità estetica
nell'applicazione delle giuste proporzioni, il buon gusto nella scelta degli archi, capaci di tante
possibilità, in modo da creare un ambiente che non stupisca per una spinta troppo ardita verso l'alto
o deprima con un'arcuatura pesante. Tutto è pervaso da quella garbata euritmia che eleva e raccoglie
insieme, appaga l'occhio e l'animo prima ancora che se ne rendano ragione.
Quei costoloni sagomati che sgusciano delicatamente dai capitelli e s'aprono come fiori col
più naturale ed elegante sviluppo delle movenze artistiche per compor le vele romboidali della
volta, nulla hanno di duro e affaticato, di troppo esile e leggero. In qualunque posizione si miri
presenta scorci, profili, prospettive graziose senza urti irritanti o linee stonate. Per questo, non per la
grandiosità delle masse o degli spazi, tocca l'animo dei visitatori occasionali, come dei frequentatori
abituali: si sente l'opera di un artista a cui nel calcolo studiato e meditato guidò la mano una matura
abilità tecnica ravvivata da una fede profonda e da un'ardente pietà.
Il compianto patriarca card. La Fontaine, anche imbevuto della visione di insuperabili tesori
artistici romani e veneziani, non seppe sottrarsi al fascino di questa semplice chiesa rurale e volle
rimanesse interprete del sentimento provato un sonetto fioritogli spontaneo sul posto.
O di Primiero cara chiesa, angusta
Sembri all’esterno e di negletto stile.
Se pongo dentro il piè, no non t'ho a vile:
Ampia ti mostri e di decoro onusta.
Svelte le tue colonne alla vetusta
Volta guidano l'occhio, la gentile
Abside è grazia d'arte. Oh! non umile
Sacel sei tu: di Dio sei casa augusta.
La variopinta luce, che si fonde
Dagl'istoriati vetri in un sorriso
L'alme solleva a Dio, che ben risponde.
L'organo suona dolce in nuovo riso
D'arte e di pietà; d'incenso odor s'effonde.
Che pace... L'atrio è qui del Paradiso?
Primiero, 22 agosto 1931.
Epoca e fasi della costruzione
Giuseppe Loss espresse in proposito un'idea non troppo chiara: «La parrocchiale sale
all'epoca del 1400, ma compiuta nel 1493. La prima era composta della navata di mezzo fino alla
prima colonna, e secondo le croci era già consacrata prima del 1491. Questa data si riferisce a un
ingrandimento, col quale si eressero le navate laterali benedette nel 1495 li 8 settembre da Andrea
vescovo di Feltre. Si aggiunse alla vecchia chiesa che raccoglieva i primi mineralisti, i cui limiti
ancora nelle piu recenti muraglie si scorgono»185.
Dunque due fasi di costruzione. Peniamo a rappresentarci il primo edificio risultato, che non
avrebbe risolto il problema e in ogni caso poco giovato al popolo accresciuto e costretto a
trascorrere quasi un secolo con l'unica chiesa pievana insufficiente, né avrebbe consentita la
collocazione di altari, mentre quello di S. Caterina fondato verso il 1450 era conferito ancora nel
1469 e situato proprio nella chiesa, dunque nella vecchia, intorno alla quale erano certo affaccendati
operai e maestranze a preparar materiali e a lavorar pietre.
Anche tecnicamente ed economicamente appare un ripiego inverosimile e dispendioso, tanto
più che l'anteriore non si poté sfruttare e fu totalmente abbattuta per concedere, collo spostamento
di 20 gradi verso il monte, l’ampiezza necessaria all'attuale. Qualche problema potrebbe sollevare il
muro continuato sopra l'arco trionfale che nel sottotetto appare dipinto a disegni geometrici, e
qualche intendente affacciò l'idea che in un primo tempo il soffitto fosse di legno, a cui fu poi
sostituita la volta presente. Un minuto esame e uno studio accurato potrebbero forse appurare la
verità.
Sebbene le costruzioni di allora procedessero a rilento, secondo le disponibilità finanziarie, e
talvolta con lunghe interruzioni, non vi possiamo inchiudere il caso presente. Qualche minuta
differenza tra l'abside e il corpo della chiesa è spiegabile dalla sua specifica struttura, a una sola
navata, con esigenze particolari. Oggi l'intonaco su parti lapidee non permette di indagare altre
prove, ma l'emblema austriaco riferibile a Massimiliano e l'aquila imperiale nella navata mediana ci
obbligano a conchiudere che ambedue le parti furono compiute contemporaneamente durante il suo
governo e che l'opera risulta come uscita di getto, organicamente ideata, dalle mani dell'architetto
nell'ultimo trentennio del 400.
La data 1493 della volta non deve escludere lavori di rifinitura protratti almeno fino alla
consacrazione che il vescovo di Feltre Andrea Trevisano compiva solennemente 1'8 settembre
1495.186
L'esterno
La facciata chiusa da un'unica copertura, imponente, senza ornamenti, ma rotta da quattro
cordoni e due rosoni non riesce sgradevole. A sinistra del portale di buone sagome gotiche un
affresco incorniciato è indecifrabile; al basso un robusto rivestimento di pietra circonda tutto
l'edificio. Procedendo a destra sul la parete meridionale una studiata meridiana opera di Enrico
Koch, poi troviamo finalmente murato l'obbrobrio d'una porta praticata sotto la finestra verso il
1675 come surrogato a quella primitiva chiusa per far luogo a un altare interno. Nella lunetta una
Madonna con due devoti e nella curva il nome del pittore Hans Hitner 1491. La lapide dedicata alla
nonna dell'ing. Negrelli fu convenientemente applicata nel foro chiuso della porta soppressa.
185
186
G. Loss: op. cit. I pag. 25.
Piccola pergamena nell’urna d’ottone che racchiudeva le reliquie collocatevi per la consacrazione.
Quantunque ormai quasi sparito impressiona ancora l'enorme San Cristoforo tra i due
finestroni, con sopra un'aquila bianca e alle estremità due cervi rampanti. Indi la sagrestia, il
campanile, di cui a suo luogo, una lapide ricordo del cappellano Francesco Weiss (1783) e siamo al
centro dell'abside.
Chi si ritira pochi passi verso la Rivetta e vicino al severo palazzo minerale, alla chiesetta di
San Martino restaurata, alla casa natale del grande ingegnere Luigi Negrelli, alla secentesca casa
Althamer, in quella visione di masse può godere la scena storicamente e artisticamente più
suggestiva di tutta Primiero, preludio di quanto riserverà l'interno del tempio.
Lungo l'ultima parete si riscontrano tracce dell'altra porta murata per lo stesso motivo con evidenti
rimasugli di dipinti, dorature e scritture gotiche.
L'interno
Un corpo di chiesa a salone, in cui l'altezza quasi identica fonde in un unico ambiente le tre
navate, lunga coll'abside 36,52 m. e le navate larghe 4,83, 8,80, 4,35 m. divise da sei colonne
rotonde di pietra con base stretta, orlata a guscio, che si ripete sottile e rovesciata nel capitello. Alle
pareti corrispondono semicolonne e un quarto negli angoli egualmente sagomate.
Avanzando fino all'arco trionfale fissiamo nella volta le figurazioni pittoriche a cornici
sempre diverse applicate alle pietre di chiusa: S. Caterina verg. e mart. colla spada, accanto la ruota,
agli angoli quattro scudetti con stella - Madonna con lunga chioma fluente sugli omeri quasi
orlatura del manto a pieghe rigide, col Bambino in braccio, reggente il mondo, in atto di benedire L'aquila imperiale con sopra corona, falda circolare e appeso il toson d'oro - Il Redentore
benedicente, col mondo nella sinistra, nimbo attraversato da gigli stilizzati (?), corona regale e fitti
capelli inanellati racchiudenti il nobile volto barbuto. I dipinti appariscono opera della stessa mano,
ritoccati.
Negli specchi all'intorno campeggiano la data 1493 col principale segno di scalpellino,
quello del maestro lapicida costruttore della chiesa e capo della maestranza (architetto), due
emblemi minerali ripetuti poi in due scudetti sulla divergenza di costoloni all'arco trionfale e nella
stessa posizione sopra il coro.
Nell'abside continua la serie in tre tondi: lo stemma Welsperg della prima epoca (bianco nero), come nella navata sinistra, - dell'unione austriaca, - una Madonna nera con Bambino.
Le finestre
Nello stile gotico una cura particolare fu dagli architetti rivolta alla costruzione e disposizione delle
finestre, come quelle che dovevano con sapiente e studiata distribuzione di luce attraverso trafori
geniali ravvivati da una ben scelta vetratura policroma produrre un effetto ottico ed estetico gradito
e suggestivo.
A questo punto e nel ritorno verso l'entrata osserviamo le nostre, tutte a due campi, tranne le
due mediane a tre, ideate con questo intendimento a disegni nell'arco sempre variati, che possono
sfuggire a uno sguardo superficiale, ma sorprendono e stupiscono l'osservatore che segue attento la
finezza e graziosità di quei lavori.
Le tre dell'abside sono istoriate: la centrale rappresenta l'Assunzione che richiama in qualche
particolare e movenza la Coronazione del vecchio trittico. Fu donata dall'ultimo conte Enrico di
Welsperg e dalla bar. Amelia n. Moll, le cui insegne nobiliari sono riprodotte. Quella a destra
contiene i santi Gioachino e Anna, offerta dalla famiglia Ben, la sinistra i santi Giuseppe col
Bambino e Silvestro, donata dal decano Don Luigi Bertamini. Uscirono dalla fabbrica Grasmair
d'Innsbruck.
In fondo campeggia il magnifico rosone con disegno elegante e gustosi rameggi di cardi
stilizzati, pure dono del decano Don Bertamini.
Alcuni resti delle antiche vetrate policrome dell'abside convenientemente incorniciati sono
conservati nella canonica. Rappresentano una Madonna col Bambino, San Girolamo nel deserto, un
cavaliere inginocchiato e orante. Sono lavori di scuola sveva del 500.
Gli altari
In origine la chiesa aveva tre soli altari in corrispondenza alle navate. In seguito vennero
aumentati da confraternite, famiglie facoltose, fondatori di benefici o divozioni particolari.
Entro il 500, oltre il maggiore, conosciamo gli altari di S. Caterina (il più antico), di S.
Nicolò (1513), di S. Giacomo (1540), di S. Silvestro (1585), della Madonna. Dovevano essere di
modeste proporzioni, adattati al muro anche con poca estetica, senza pregiudicare le sue porte
laterali. Nessuno rimane. Il vescovo Rovellio (1581-1610) intimò demolizioni ed eliminazioni con
rifacimenti migliori.
Da allora cominciò l'erezione progressiva dei presenti, in legno, intagliati, policromati e
dorati, che in parte sfruttano anche elementi anteriori. Le ampie campate tra le semicolonne
permisero agli autori di sfoggiare con ampiezza di linee il disegno non ristretto o strozzato da
ostacoli spaziali, anzi accresciuto con un secondo ordine sovrapposto più o meno sviluppato. Ne
riuscirono esemplari magnifici con caratteri simili, ma saggiamente o capricciosamente variati.
Alcuni sono forniti di antipendi riccamente e nobilmente lavorati. Tra gli artisti sconosciuti
dobbiamo dar parte non esigua al nostro migliore Giorgio Moena morto nel 1681.
Altare dei santi Agostino e Monica
Su quattro zoccoli, due fregiati dell'aquila doppia e gli altri da stemmi di Bartolomeo Nocher
e della moglie Eva Todeschini da Pergine, racchiudenti la dedica del fondatore, s'elevano colonne
scannellate, due libere, due arretrate con capitelli e trabeazione corinzia. Le prime sostengono un
frontone angolare, le altre segmenti d'uno rotondo. Nel timpano spezzato d'uno identico, collocato
sopra un'attica terminale, troneggia il Redentore su piedistallo raggiunto dal capo dell'Angelo
Custode con ali spiegate poggiante su breve suppedaneo al culmine del frontone, che colla destra lo
addita a un bambino nimbato da lui condotto a mano: Tobiolo che porta il pesce pendente dalla
sinistra.
Sui declivi stanno semiadagiati dei santi un po' fissi nella espressione e rigidi nei
panneggiamenti, recanti su lunghi cartigli nelle mani in loro nome, e sul capo, come le altre figure,
nimbi larghi e pieni simili a cappelli: S. Nicola da Tolentino - S. Tomaso da Villanova - S.
Francesco de Paola - B. Salvatore da Eorta - S. Gaetano - S. Valentino.
I tre spazi fiancheggianti le colonne sono ornati da liste intagliate a fogliami, frutta e rosette,
come i due ricchi festoni uniti da una testina alata d'angelo all'arco centrale. La parte architettonica
offre un'impressione gradevole, anche se le molte figure ben distribuite sovraccaricano alquanto la
parte superiore. Chiudono i fianchi con piacevole effetto due ali variamente intagliate a ghirigori e
intrecciate.
La pala. La Madonna coronata sopra le nubi, contornata da testine angeliche, col Bambino
in grembo che offre il cingolo a S. Monica e a S. Agostino ai cui piedi stanno deposti la mitra e il
pastorale. Nel paesaggio in distanza sono in qualche modo riprodotti la chiesa e il castello. Vi si
legge la firma Christophorus Mayspanus F., pittore tedesco morto a Borgo nel 1671, e nella
riquadratura di mezzo la dedica:
CVLTVI
SS. AVGVSTINI ET MONICAE
HORVMQVE CAELESTIVM HANC ARAM EREXIT
BARTHOLOMAEVS NOCHER S. C. M. EXCELSAE CAMERAE
IN AVSTRIA SVPERIORE CONSILIARIVS NEC NON
SYLVARVM PRAEFECTVS ET VICARIVS MINERALIS
PRIMERY
ANNO 1697
Un'incisione sul primo zoccolo a sinistra Z M F difficilmente si può riferire a Zorzo Moena
come autore, morto 16 anni prima. La confraternita della Cintura era però eretta a quell'altare dal
1666: non si dovrebbe escludere che qualche parte più vecchia risalga a lui. Dinanzi all'altare la
tomba della famiglia Scopoli.
L'affresco di Sant'Anna
Sulla seconda colonna a sinistra, a 2,60 m. dal pavimento, per divozione dei minatori fu
dipinta in affresco (2,07 per 1,10) una scena già molto sbiadita, ora ridata allo stato primitivo.
Sant'Anna seduta con ampio mantello di color marrone, bianco all'interno e veste verde chiara, col
Bambino ricciuto in grembo che tende le mani verso la Madonna giovanile a sinistra seduta
sull'altro ginocchio della madre e racchiusa entro lo stesso mantello. Ornano le due estremità elevati
due angeli musicanti ad ali semispiegate.
Sotto il quadro una scritta tedesca a caratteri gotici ben conservati contiene una preghiera, a
cui papa Alessandro VI annesse dieci mila anni d'indulgenza per chi la recitava tre volte con
divozione: «Ave, Maria, piena di grazia; il Signore è con te, la tua grazia sia con me: tu sei
benedetta fra tutte le donne, e benedetta sia la tua santa madre Anna, da cui nacque senza peccato e
impurità il tuo corpo santo e buono, da cui è nato Gesù Cristo. Anno 1501».
Sulla parete di fronte al quadro di Sant'Anna, sotto l'intonaco, venne alla luce un affresco,
intaccato da una lapide, di tinta leggerissima e difficile a salvare nella scrostatura: una Madonna con
angeli e dei motivi architettonici. Fu giudicato un abbozzo non più oltre elaborato.
L'altare dell'Assunta
Presenta le caratteristiche generali degli altri, con elementi decorativi variati. Il primo ordine
architettonico finisce in una trabeazione di bell'impronta con sporto nel mezzo, sulla quale poggia
un secondo completo, di minor altezza e abbondanza d'ornati, sostenente due scolture adagiate sulla
buona cornice angolare al timpano, occupato dall'estremità superiore della specchiatura che
rappresenta la Coronazione, mentre quella di sotto la Assunzione del la Vergine, due efficaci
composizioni infittite di angeli e santi nella forma tradizionale.
Risale al 1670 e ha dinanzi le tombe delle famiglie Althamer e Calvi.
L'altare di S. Caterina
Il primo era stato eretto ancora nella chiesa vecchia dal pievano Paolo di Alemagna, che nel
1465 con suo testamento lo dotò di molti beni e ne affidò il patronato, la difesa e l'elezione del
beneficiato ai dinasti e alla confraternita della cappella.
Il presente nella composizione generale è intonato agli altri; mostra in fronte però due sole
colonne con architrave troncato al capitello e nel timpano, sopra la tela della santa del 1622, un
baldacchino sporgente di legno. Sul frontone in ginocchio le due figure dell'Annunciazione. Le altre
due colonne sono arretrate a muro sormontate da due santi vescovi, ornate agli zoccoli dalle insegne
Welsperg e appartengono idealmente alla nobile attica che sovrasta col Padre Eterno, portante un
nimbo triangolare, nel timpano spezzato e fregiato di due bei cornucopia. Si notino parecchi festoni
floreali dorati di buon intaglio.
Ebbe restauri dallo scultore Giorgio Moena ricordati nell'iscrizione alquanto sciupata:
AERE
MAG. D. D. MARCI SIGISMUNDI L. BARONISI
WELSPERG ET PRIMERIO
DECORI RESTITUTUM
PRAEFECTO
BALTASS. POPPO I. C.
ANNO SALUTIS 1633
G.M.F.
Davanti è ancora ben conservata la tomba della famiglia Gilli del 1727.
Il tabernacolo parietale
Risale al tempo in cui i tabernacoli da collocazioni incerte e provvisorie s'eran già fissati in
una nicchia alla parete contornata da cornice, e precisamente all'epoca in cui le doti inventive degli
scalpellini e scultori s'erano sbizzarrite a trarne piccoli edifici in forma di torre, elaborati con
sviluppi architettonici sempre più ricchi ed eleganti, chiusi con un'artistica cancellata di ferro.
Sorgevano come preforme del tabernacolo moderno, con bell'armonia tra architettura e plastica,
come anche oggi s'incontrano ammirati in tante chiese del settentrione.
Il nostro è costruito su due lati del quadrato poggiati sulla diagonale e porgenti lo spigolo.
Su due gradini semicircolari e un plinto s'eleva uno zoccolo formato da cinque protuberanze
sferiche ben disposte, da cui sorgono tre colonnine. Una forte gola profilata con rameggi gotici
conduce allo stipo o armadio. Due cancelli di ferro sono fiancheggiati da tre graziose colonnette
racchiuse, sopra gli architravi, da due archi slanciati e riuniti in alto da un ornato e armonico
sviluppo appuntito. Angeli con cartigli riempiono i due campi.
Sopra gli archi il quadrato sporge alquanto in forma turrita, indi si risolve in poligono di
legno, che in gioco mirabile di guglie snelle e leggere, nicchie, pinnacoli, archi rampanti, trafori,
aggetti floreali gotici si spinge, restringendosi, fino quasi alla volta. In ogni parte si nota una grande
finezza e acutezza di disegno e di esecuzione.
Per fortuna l'antica dipintura è in buona parte conservata nei colori saggiamente distribuiti:
rosso, verde, pietra. Nel cimiero, stanno quattro statuette egualmente policromate: le due inferiori su
colonnine, le superiori sui baldacchini di quelle. Sulla colonna centrale di base è inciso il segno
della più importante maestranza costruttrice della chiesa, riscontrato in molte parti dal basso alla
volta; un indice anche questo dell'opera continuata senza interruzioni.
L'altar maggiore gotico 187
187
Si trova depositato provvisoriamente nel Castello del Buon Consiglio.
Prima ancora che la chiesa fosse condotta a termine, era stato procurato un trittico in legno,
che ritenuto opera dello scultore Michele Pacher fu di recente attribuito a maestro Narciso da
Bolzano, dalla cui bottega uscì qualche anno dopo il 1485188.
La cassa divisa in tre sezioni longitudinali contiene nella centrale più larga e profonda, sotto
un ricco baldacchino sporgente, la coronazione della Vergine in figure libere, parte ad alto rilievo.
Il Padre col mondo, accanto al Figlio collo scettro e barba fluente e volto ieratico, sotto la
simbolica colomba, incorona la Madonna inginocchiata. Nello sfondo, più in alto, tre angeli
sostengono un tappeto d'oro, ben panneggiato e foderato in rosso. Anche il manto ampio e
strascicato della Vergine, in sottoveste azzurra, viene sollevato da due angeli. Un velo bianco le
cade sulle spalle, lasciando libera la capigliatura, che si nota, come nelle altre figure, folta e
ondulata. I movimenti sono contenuti, parlanti e veri.
Le sezioni laterali tagliate a metà in due zone portano quattro pannelli pure con baldacchino.
Nell'Annunciazione risalta lo straricco abbigliamento dell'arcangelo; nella Visitazione possono
sorprendere le maniche larghe e pesanti di S. Elisabetta che porta una ampia cuffia a mo' di
turbante. Nella Nascita la luce irradia dal Bambino sulle vesti della Madre; al di sopra tre angeli
librati nell’aria con un lungo cartiglio. La Circoncisione, la rappresentazione migliore, presenta un
sacerdote con strana copertura del capo, che offre al Sommo Sacerdote vestito d'indumenti vescovili
il Bambino in un panno bianco. Di dietro due donne con larghi veli candidi. Chiude la scena un
tappeto disegnato pendente dalla parete.
Sulle portelle con intagli più modesti sono collocati in alto due santi cavalieri in armatura e
manto, in basso due mezze figure in rilievo di sante. Lasciamo un presepio e qualche altra figura
che ornavano parti dell'ara. La conservazione dei colori originali permette una più facile e meno
incerta valutazione della composizione artistica.
Vicende posteriori
Queste due opere decorarono con ottimo effetto armonico il presbiterio per quasi un secolo,
quando nel 1585 il vescovo Rovellio che aveva osservato quel superbo esemplare «posto sopra una
colonna, con una piramide, assai elaborato, presso il muro» e «l'icone lignea scolpita e dorata con
moltissime figure», per corrispondere alle nuove direttive divenute prescrizioni durante il
pontificato di Paolo V impose delle modificazioni: il tabernacolo doveva essere collocato sull'altare,
l'altro servire di repositorio per reliquie e olii santi.
Nel 1593 procedette con disposizioni più radicali: addossare alla parete, da cui distava circa
sei passi, l'altare; ai lati praticare nel muro due,armadietti opposti e chiusi per reliquie e olii santi;
allontanare « il tabernacolo vecchio di pietra » e al suo posto di sporre dei sedili per clero e
inservienti.
Sette anni dopo nulla s'era eseguito e per l'altare si diedero più minute prescrizioni: chiudere
a muro le tre finestre, fissare alla parete l'icone, ritirare la mensa, lasciando però tanto spazio da
adattarvi un tabernacolo che permettesse di chiudere le portelle dell'icone senza molestarlo.
Certamente non tutto fu fatto e per fortuna il cimelio restò, chè oggi ne rimpiangeremmo la
perdita come la chiesa di Pergine e altre in Valsugana. Almeno la finestra centrale fu chiusa e il
trittico ebbe incavata la parte centrale più bassa, ma il resto rimase intatto. Crederemmo che un
prelato così colto e appassionato del bello avrebbe potuto conciliare con soluzione migliore le
esigenze artistiche con quelle liturgiche.
Ma anche la nobile creazione di maestro Narciso fu sacrificata alla tendenza innovatrice del
600, amante del colossale. Levato di là l'altare trovò ricovero nella chiesetta di S. Martino e al suo
188
«Archivio per l'Alto Adige », Gleno 194O. In uno studio accurato «Appunti sulla scultura bolzanina sul volgere del
Quattrocento» il prof. Nicolò RASMO, a pag. 692, assegna l’altare a maestro Narciso da Bolzano, come pure, a pag.
734, al così chiamato Maestro dei Presepi, della sua bottega il bellissimo
Crocifisso gotico esposto nella nicchia
dell'altare dell'Assunta.
posto lo scultore locale Giorgio Moena 1650 ne eresse uno macchinoso di gusto del secolo.
Conosciamo una breve descrizione laudatoria del capitano Giuseppe Loss. Esso pure venne poi
abbattuto e sostituito dal presente di pietra, del 1689, acquistato a Mantova nel 1864 da una chiesa
claustrale. Vi furono aggiunte due statue di marmo carrarese, la Fede e la Speranza, opera dello
Spazzi di Verona.
Non s'intona per lo stile all'ambiente, ma nella sobrietà della composizione e nella regolarità
delle linee non offusca la visione dell'insieme artistico e armonico di cui forma il centro.
Il grande affresco
Nella campata che contiene la porta del campanile e della sagrestia ci si affaccia la parete
più notevole storico-araldica, illuminata di luce conveniente dalla finestra opposta, che, mentre
attira subito l'attenzione, richiede schiarimenti non sempre facili a dare. È tutta affrescata dal
pavimento fino quasi alla volta, come accerta ora il recente minuto restauro.
La composizione condotta nel puro stile del rinascimento può sembrare un corpo unico, ma
è divisa in tre parti. In basso, affiancato da stipiti, un padiglione con colori e insegne RömerBrandis, dinanzi a cui stava l'inginocchiatoio del nobile capitano Gian Giacomo (1545-1560).
Sopra l’architrave ben sagomato poggia e si delinea, come in uno spaccato, il pavimento a
tavolette di pietra alternate, bianche e nere, d'una sala aperta. Uno schermo calato dall'alto in fronte
copre tutta la parte centrale del vano, lasciando due spazi laterali liberi e riducendo la larga apertura
di fondo a due finestre.
Il fastoso signore, amante delle decorazioni pittoriche, come dimostra Castel Mareccio,
seguendo esempi in uso, volle perpetuare la memoria della famiglia, nella giurisdizione da lui
governata, in atto di preghiera. Le persone in ginocchio tengono le mani giunte e lo sguardo rivolto
con devota, marcata fiducia verso un punto comune, centrale più alto. A destra la contessa Caterina
Brandis in sontuosa veste damascata, davanti le figlie secondo l'età, in linea obliqua verso l'interno;
a sinistra il capitano in armatura di ferro riprodotta con studiata accuratezza, spadone al fianco e
l'elmo piumato sul pavimento, un vero cavaliere medievale: bellissimo l'atteggiamento espressivo
del volto con barba a pizzo appuntita. Di dietro, in posizione analoga alle sorelle, due figli. Oltre le
finestre paesaggi con caseggiati.
La morte di tre figli, segnati con piccola crocetta nera sopra il capo, diede occasione al
dipinto e quel drappo steso nel centro della scena, che turba un po' la visione estetica del quadro,
forma l’aristocratica presentazione dei due casati in due stemmi pomposi e completi, e l'epitaffio in
un'iscrizione semplice in decorosi caratteri latini:
NOBILIS.D.IOANNIS.IACOPI ROMER.A.MARETSCH
PRIMERY. PREFECTI AC KATERINE.DE FAMILIA
BRANDIS. VXORIS SUE F.IO.CHRISTOPHORVS
BARBARA ET. MARIA SALOME.IACENT OB.
PATERNE DILECTIONIS. PIETATEM IN MEMORIAM
MESTISSIMVS GENITOR F.F. - M.D.L.V.
Nettamente si stacca la terza parte che ha l'aspetto d'un grande quadro con cornice
architettonica poggiata su base, due piedritti con capitelli e chiusa ad arco. La zona inferiore è
totalmente araldica, disposta con ottimo gusto. Allineate sulla soglia risaltano sei insegne nobiliari
legate da nastri bianchi graziosamente intrecciati: una bianca fascia divisionale porta il nome dei
casati.
Sopra di quella spicca il riquadro principale di doppia altezza, armonicamente dipinto. La
parete gialla a righette nere interrotte e alternate produce con mezzo facile uno sfondo gradito, atto
ad accogliere i semplici ed eleganti grotteschi rameggiati intorno a due busti simboleggianti la
gioventù e la vecchiaia, che lasciano comodo spazio a quattro scudi nobiliari.
C o n c e t t o d e l l a c o m p o s i z i o n e. Fu scritto che quegli stemmi ricordano i
costruttori, i benefattori della chiesa, i possessori o direttori delle miniere. La prima idea va esclusa,
la seconda richiede prove, l'ultima ha un fondamento di verità.
Anzitutto i due stemmi accoppiati nel centro, riuniti dagli artigli dell'aquila doppia recante
sul petto l'insegna dell'unione austriaca, hanno ragione dinastica e familiare: a sinistra quello del
governatore del Tirolo Carlo di Welsperg morto nel 1562, inquartato collo stemma della moglie
Caterina di Wolkenstein; a destra del cugino giurisdicente Cristoforo III di Welsperg morto nel
1588, unito a quello della moglie bar. Dorotea Firmian sposata nel 1547.
Se mancano gli appoggi per gli altri due stemmi e ci sfuggono le relazioni con Primiero di
Surcis 189 e Ruest, attivi sfruttatori di miniere, le troviamo nella famiglia Woesch - Botsch. Il cav.
Simone da Ora vendette ai Welsperg nel 1576 gli ultimi scavi di Transacqua, ma ne ritenne al
Canalèt gestiti dal figlio Bartolomeo canonico e priore di S. Martino, perito tragicamente nel 1565,
e dai fratelli. La loro madre Sibilla era sorella di Carlo di Welsperg già nominato.
BRANDIS: un Cristoforo sfruttò attivamente miniere in val di Non dal 1559, forse quello
stesso che fu capitano in Primiero 1538-1542. NEYGENT - NEIDECK: ricorda Veronica sorella
del P. Vescovo di Trento Giorgio, che fu nonna del giurisdicente Cristoforo.
RÖMER: Il fu capitano Gian. Giacomo ottenne verso il 1569 la proprietà della miniera di
ferro a Transacqua, che poi il fratello Luca vendette al bar. Cristoforo nel 1572.
A motivi di parentela e di contatti coi Welsperg sul terreno minerario si possono dunque
riferire parecchie di quelle insegne.
Nell'ultima zona il dipinto assume natura puramente religiosa. Di nuovo una bella cornice
con listello a rosette forma il margine a un paesaggio ricreante. In primo piano un'arca marmorea di
linee classiche con pietra tombale un po' sollevata e spezzata, su cui siede un angelo con nimbo
raggiato, capigliatura a riccioli, soave espressione, braccia allargate, panneggiamento ampio e ben
drappeggiato. Nello sfondo ricco di luce mattutina sono riprodotti i due monumenti più
rappresentativi della storia locale: a destra la chiesa parrocchiale, a sinistra il castello, come doveva
apparire prima dei lavori compiutivi nel 1565.
Il cielo è solcato da banchi di nuvole alquanto stilizzate e nel mezzo, quasi un'oasi, tra due
colonne di nubi, con stendardo bianco, crociato e mantello svolazzanti, con la destra rivolta come
indice al cielo Gesù Risorto. Dal colorito e ridotto abbigliamento somiglia, pur dignitoso ed
espressivo, piuttosto a un austero San Giovanni nel deserto e non ripete pienamente la serenità
gioiosa dell'angelo nella graziosa solennità dell'insieme.
Il banco nobile
Presso alla balaustrata, aderente alla parete, sotto il rosone, si estende fino all'arco un banco
cinquecentesco lavorato elegantemente, con quattro stalli a mo' di coro, intagliati leggermente con
varietà di disegni, coperto da un baldacchino arcuato e ben dipinto in cui campeggiano ancora degli
stemmi (il più antico dei Römer).
Serviva un tempo per i giurisdicenti e le prime autorità. Certamente era quello «degli Ill.mi
Dinasti e Ministri arciducali» eccettuato dall'ordine di allontanamento di tutti i banchi particolari del
vescovo Rovellio nel 1585. Venne poi in proprietà dei Someda che nel 1719 lo cedettero, ultimo
rimasuglio della loro passata grandezza, per necessità economiche al capitano Giov. Francesco
Gilli, che lo fregiò del suo stemma.190
189
190
Il cognome Surcis, quasi sparito, nel restauro fu sostituito con Vels.
A t t i n o t a r i l i: Giov. Francesco Piazza, Mazzo I, N. 207.
Il pulpito
Su teste scolpite sopra lo zoccolo rotondo d'un pilastrino interno poggia i piedi un gruppo di
tre figure erette, in posizione triangolare, ben delineate, opera, insieme colla colomba pendente,
dello scultore Giovanni Bartù di Badia191. Reggono a mo’ di cariatidi colle braccia il pulpito
aderente alla terza colonna, un cassone quadrato ad angoli smussati, cornici in alto e in basso, più
studiate nei tre specchi, con un baldacchino, eseguito da Tomaso Tomasini « marangone » da Canal
San Bovo. Un Valantini da Poschiavo intagliò gli eleganti fogliami e angeli negli spazi di sponibili.
Michele Costanzo da Predazzo fornì tutte le indorature.
Ma ciò che aumenta il pregio sono i tre quadri in tela applicati agli specchi e indovinati nella
scelta dei soggetti: Gesù coi fanciulli, composizione equilibrata e chiusa in sè, d’un tenero colorito
roseo - La disputa nel tempio - S. Giovanni che predica nel deserto, con efficace distribuzione di
luce. Sono dovuti al pennello di Don Martino Gabrielli di Moena192. Una scritta corrente alla base
informa che il lavoro fu compito sotto l'amministrazione del massaro Giov. Pietro Pacagnel da Siror
nel 1706, che insieme col collega Giov. d'Alberti da Mezzano si dichiarò soddisfatto per la sua
decorosa riuscita e retribuì l'autore con 165 troni.
Dinanzi sta la tomba con iscrizione del capitano Baldassare Poppi (1658).
L'altare di San Giacomo dei minatori
Maestoso nell'insieme, meno ricco d'ornati che gli altri, potrebbe dirsi una saldatura di due
altari completi concepiti con pensiero stilisco coordinato. Meriterebbe uno studio a parte.
Delle sei colonne, che porta l'inferiore, solo le due estreme aderenti alla parete reggono
l'architrave e idealmente l'intelaiatura dell'intera costruzione. Delle altre, libere e bene spaziate, le
due centrali sostengono il frontone sporgente. Tutte conservano esattamente le varie modalità della
trabeazione e servono di appoggio alle quattro superiori destinate piuttosto a fine artistico,
decorativo, e consentono un'ariosità piacevole alla vastità della mole, che riempie lo spazio della
campata con qualche sconfino, a cagione anche della minore sua larghezza (mezzo metro).
Nei vani degli intercolonni trovano sistemazione statue intere e a rilievo policromate; però
risalta subito una certa sproporzione tra la parte superiore infittita e l'inferiore sobriamente
proporzionata. (Sant'Antonio nella nicchia fu sostituito di recente alla pala dipinta). Inoltre risultano
opere più antiche dell'altare, riferibili alla seconda metà del 400. Sono probabilmente i resti del
l'altare di San Nicolò e di quello gotico, forse un trittico, che i minatori certamente eressero subito
nella nuova chiesa. Di fatti già al principio del 500 vi esisteva la loro confraternita con massari
designati dall'ufficio minerale.
E quando nei primi decenni del 600 le confraternite sorgenti andavano emulandosi nella
sontuosità degli altari, anche questa fu indotta a innovazioni più consone allo spirito del tempo e
alle sue disponibilità finanziarie. Dei due altari si sfruttò quanto potè essere inserito nel nuovo,
ideato e combinato nel di segno a questo scopo. La storia, anche laconica, dei due altari può render
verosimile la conclusione. Nel 1585 il vescovo visitatore ordinò di levare quello di S. Giacomo «dei
canopi», nel 1590 di rifarlo a nuovo e di «distruggere» quello di S. Nicolò; nel 1593 questo era già
demolito, il primo non ancora riformato, ma nel 1611 appare rifatto e consacrato.193
Ma mentre le quattro nicchie di garbata semplicità ottennero giusta collocazione, essa non
riuscì del tutto per le numerose sculture superiori, specialmente per i due tavoloni a rilievo a mala
191
A r c h i v i o A r c i p r e t a l e: Conti chiesa, Libro 1700.
Anche nella chiesa di Siror esistono due suoi piccoli dipinti.
193 A t t i V i s i t a l i F e I t r i n i: altari di S. Giacomo e S. Nicolò, come altrove, agli anni indicati sotto Primiero.
192
pena contenuti e offuscati alquanto dai due santi, che trovarono tra i piedistalli delle colonne un
posto di fortuna.
Chiude armonicamente il vertice, sorretto da un'attica un frontone con aggetto alla base, su
cui un angelo in piedi tiene un nastro colla scritta GLORIA IN EXCELSIS DEO. Capricciosa la
terminazione delle colonne laterali con un campaniletto o lucernario a cupolino, anche di epoca
anteriore, mentre sulle mediane due angeli inginocchiati accennano con una mano inclinata alla
Madonna gotica coronata, dominante nella specchiatura arcuata centrale, di mite e delicata
espressione, col Bambino sorridente in braccio, adagiata a una forte raggiera dorata «et luna sub
pedibus eius». Sotto di quella, su un breve ripiano adattato, il busto di Cristo tra i santi Pietro e
Giovanni con dietro diversi apostoli.
Spiccano sul declivio due figure in ginocchio con abito monastico e libro: un santo con
cappello giacente (Bonaventura?) e una santa con ciborio (?) in mano (Chiara?). In calmo
atteggiamento espressivo mostrano evidenti somiglianze stilistiche e tecniche relative alla loro
posizione di richiamo. Pare non appartengano agli altri gruppi.
Negli specchi a rilievo notiamo i santi Cristoforo e Rocco - Sebastiano e Antonio abate;
dinanzi, a figura intera, i santi Giacomo apostolo - Giovanni evangelista.
Anche le statue di sotto con dimensioni e nicchie identiche, separate da un margine ornato e
da due testine alate, tradiscono una stessa mano e corrispondenza di ideazione; a) giovanili: un
martire con dalmatica e palma (S. Lorenzo?) - una martire con palma e libro (S. Caterina?); b)
attempati: un santo con bastone e arnesi artigiani (Gioachino?) - S. Anna con libro e Maria bambina
alla mano.
Stanno davanti all'altare le tombe delle famiglie Nocher e Leporini.
L'altare del Rosario
La linea semplice ed elegante del disegno, abbellita da un minuto e svariato lavoro d'intaglio
che ravviva con grazia la parte superiore dai capitelli squisiti, lo rende il più armonico, anche se
nella composizione non discorda dagli altri. Due colonne mediane scannellate e dorate sostengono il
frontone alquanto sporgente, le due mezze esterne, arretrate, la trabeazione generale. I loro zoccoli
presentano un duplice ornato. Nel centro un bell'arco con fregi intagliati e testa ornativa al vertice
racchiude una buona pala attribuita a Francesco Frigimelica: la Madonna in gloria, circondata da
Angeli, tra san Domenico e santa Caterina da Siena, di sotto persone devote e oranti con aspetto di
ritratti. Negli intercolonni in serie incorniciata, separati da motivo ornamentale, dei medaglioni
contengono i 15 misteri del Rosario.
Nella spaccatura del frontone arcuato dell'attica sovrastante al l'altare e della medesima
delicata fattura l'arcangelo san Michele con bilancia, fuori di quella, in linea delle colonne, più bassi
due santi, uno con palma. Notevole l'antipendio riccamente e genialmente intagliato e dipinto, che
ricorda qualche simile lavoro in altre chiese. Due alette occupano lo spazio libero della parete.
Per rendere possibile la riapertura della porta gotica laterale l'altare nell'autunno 1956 fu
tolto di là e collocato nel posto di quello del santo Crocifisso di tendenza barocca e di scarso valore
artistico. Lo aveva eretto l'arciprete Cristoforo Moarsteter nel 1692, aggregandovi la confraternita
del Suffragio e un beneficio di famiglia. Lo ricordava l'iscrizione:
ALTARE HOC
S. S. CRUCIFIXO
DICATUM
IN ANIMARUM PURGATORII SUFFRAGIUM
PROPRIO AERE
FUNDATUM AC ERECTUM FUIT
A
CHRISTOPHORO MOARSTETER
ARCHIPRESBYTERO PRIMERII AC VIC. FORANEO
ANNO MDCLXXXXII
Dinanzi ha la tomba della famiglia Waiz.
La cantoria
Si stende sulla metà della parete di fondo, sopra l'entrata principale, in origine con linea
retta, più tardi variata a poligono nel centro, sostenuta da quattro robusti modiglioni intagliati e
decorati con testine d'angelo frontali e nella parte mediana da due colonnine di marmo troppo
candido sorgenti da acquasantiere ottagonali.
Gius. Loss deplora «l'orchestra spostata dalla sua proporzione, allargata e sporgente sopra il
popolo».194
Tutte le pareti con buona divisione a specchi portano una misurata, ma accurata
ornamentazione d'intaglio e doratura, e le cinque maggiori belle cornici barocche a volute, ravvivate
anch'esse da testine, che racchiudono fatti di contorno alla Nascita del Salvatore. Da sinistra:
l'Adorazione dei Magi, la Fuga in Egitto, l'Adorazione dei Pastori (centro), la Strage degli
Innocenti, l'Incontro di Maria con S. Elisabetta. Sono composizioni ariose a tocco leggero con
ampio sfondo di paesaggio.
Anche il sottopavimento fu trattato in egual modo con una grande figurazione pittorica
dell'Assunta affiancata da due quadretti, i santi Vittore e Corona. Questi lodatissimi per forza,
fusione di colori e accurata esecuzione insieme con l'Assunta, non sì bene riuscita, sono dallo
Schmölzer attribuiti all'autore dei dipinti del pulpito, ma le note d'archivio non ne fanno alcun
cenno.195
Il complesso del lavoro tra un ricco fregio di base e un cornicione terminale riesce gradito
per l'elegante e contenuta signorilità.
Nel silenzio dei documenti non è possibile precisare data e autori; solo qualche cenno
marginale consente delle congetture. L'erezione del primo organo fu decisa negli anni 1595-1596
e pochi anni dopo compiuta; nel 1608 aveva già il suo organista. Ora conosciamo che nel 1610
furono versati a Giovanni Battista «indorador de Chauril» troni 1653 «per aver indorato l'organo» e
che «Franzesco depentor abitante in Cividale (Belluno)» dipinse l'organo nello stesso anno per troni
1550. Somme così elevate, fissate da persone autorevoli, non si possono riferire a un cassone
d'organo di modeste dimensioni, ma senza dubbio alla cantoria, e il pittore dovrebbe identificarsi
con Francesco Frigimelica, che dal 1604 lavorò un quarantennio nel Bellunese.196 Il giudizio spetta
naturalmente ai competenti.
Sulla parete sotto la cantoria un vecchio scudo araldico contornato da fregi contiene un
cavaliere. Di fronte una lapide recente ricorda i meriti del cav. Giuseppe Terrabugio da Fiera, morto
novantenne nel 1933, alle cui costanti premure è dovuto l'organo attuale, opera pregevole della Casa
Vegezzi Bossi di Torino.
194
G. Loss: op. cit. pag. 26.
SCHMÖLZER: op. cit. pag. 71.
196 A r c h i v i o A r c i p r e t a l e : Conti chiesa, alla data.
195
Il campanile
Poggia massiccio a fianco del presbiterio su base 5,15 m (Cismon) e 4,75 (Rivetta), e 1,50 m
di spessore (1 m lato chiesa). É l'antico campanile romanico della chiesa vecchia e ne conserva il
ricordo nelle bifore romaniche ancora rintracciabili e nello spostamento di 20° dalla linea della
chiesa attuale, mentre convien ritenere che fosse allineato all'anteriore.
Fu sopraelevato, coronato di un cornicione di pietra e munito di quattro finestroni gotici alla
cella campanaria, a cui nel timpano corrispondono quattro minori. Da lì con lieve rientranza si
lancia ardita la guglia ottagonale a considerevole altezza, formandone un leggiadro compimento.
Maestoso ed elegante nella sobrietà è tra i più armonici del genere.
E vi contribuiscono gli stemmi a fresco distribuiti nella zona libera tra le due finestre e
purtroppo ormai molto deperiti. Ne daremo, dove è possibile, una spiegazione:
a) Facciata verso la canonica e verso il Cismon:
a sinistra bandiera dell'unione austriaca (3 fascie orizzontali rosso-bianco-rosso);
a destra aquila tirolese rossa su bianco;
nel centro stemma indecifrato.
b) Facciata verso la Rivetta:
a sinistra stemma imprecisato;
a destra metà superiore dello scudo band. unione austriaca, inferiore
aquila tirolese;
sotto il quadrante dell’orologio allineati gli stemmi Welsperg - Lontra Trautmannsdorf ( ?) - Welsperg. Sono di epoca posteriore al 1571.
c) Facciata verso Pieve:
a sinistra stemma complesso abbastanza chiaro: 1, 4 leone, 2, 3 quattro
fascie bianche alternate con rosse. Scudo interno: tra il resto, piccola
band.
unione austr. e nello scudetto racchiuso metà a destra aquila
tirolese;
a destra scudo unico: sopra band. un. austriaca, sotto a sinistra aquila
tirol., a destra band. un. austriaca.
L'araldica del campanile ricorda dunque a sazietà, in ogni suo lato, la pertinenza statale e
provinciale del territorio.
Per la datazione degli affreschi dobbiamo ricorrere al finestrone della parete meridionale del
campanile di San Vittore a Tonadico fiancheggiato da quattro stemmi identici e coevi di quelli
notati sul campanile arcipretale. In alto è segnata la data MD.
Dall'alto cinque campane cantano la valentia del fonditore Giuseppe Ruffini (1784),
specialmente le due maggiori (17 e 12 quintali) colla loro robusta, gradevole e commovente
sonorità.
La sagrestia
Aderente al campanile sporge la sagrestia di conveniente capacità, con soffitto a volta,
illuminata da tre finestre. Ha tutte le pareti occupate da mobili di noce di epoca e fattura diverse,
nella forma consueta senza particolari rimarchevoli. Notiamo la parte rimessa a nuovo dall'arciprete
Sigismondo Waiz, dove sui cimieri lisci, a intarsi dei tre armadietti si possono leggere la data 1741,
le sue iniziali e una combinazione di 4 lettere indecifrata. Anche il lavabo di pietra del 1732 risale a
lui. Da osservare la porta di ferro robusta ed elegante, che secondo una tradizione proverrebbe dal
castello.
Meritano una visita lo splendido ostensorio d'argento (1512), il calice bizantino di mons.
Negrelli, un apparato liturgico e una volta due buoni dipinti su tavola (un papa e un vescovo) ora
molto malandati e depositati nel Museo Diocesano.
L ' o s t e n s o r i o: E' sempre il cimelio usato più prezioso nell'arcipretale: materia, arte, storia gli
danno la palma. Costruito coll'argento dei nostri monti e lavorato da esperti orafi germanici veniva
donato nel 1512 alla chiesa. Anche un profano resta sorpreso dalla bellezza del disegno,
dall’armonia graziosa delle parti, dai trafori, dalle guglie e statuine che l'adornano e ne fanno
un'opera gustata, severa e dignitosa. Con uno sguardo sommario s'appaia per forma e disposizione
al tabernacolo laterale, ne diversifica però molto nei particolari.
Ci dà subito l'idea dello spaccato della chiesa: due navate con la Madonna e S. Giovanni,
che raffigurano gli altari, e la centrale più ampia riservata al Sacramento, sormontata da pinnacoli
fino al vertice coronato, a quasi un metro dalla base, da un Crocifisso, mentre sotto il baldacchino di
mezzo campeggia un Salvatore, che accentra il mistero della Redenzione sviluppato in due
momenti: Crocifisso ed Eucarestia.
Quando il vescovo Rovellio, zelante pastore e intelligente cultore d'arte, vide nel 1585 «quel
tabernacolo meravigliosamente elaborato, d'argento e grande, sommamente lo lodò». Anch'esso,
come ogni pregevole costruzione, attrae l'attenzione estetica dei visitatori.
Il calice di Mons. Negrelli: Si connette colla viva aspirazione dei Primierotti di vedere una
volta aperta la strada di Schenèr, per la quale a suo tempo s'era molto interessato l'ing. Luigi. Solo
verso il 1875 il progetto entrò in una fase risolutiva.
Un merito distinto spetta a mons. Negrelli che non si concesse riposo, finchè non vide il
lavoro avviato e sufficientemente finanziato. Per sollecitarlo nel novembre 1876 si recò a Roma e vi
rimase tre mesi. Fu in una visita al Pontefice Pio IX nel gennaio seguente che l'illustre prelato osò
chiedergli un dono per la chiesa della sua patria e l'ebbe nel ricco calice bizantino fregiato di smalti.
Il 27 febbraio di sera per San Martino ritornava felicemente portando seco il regalo
pontificio. «E' ammirabile per arte e per ricchezza e sarà d'ornamento e di bella memoria per la
Parrocchia Decanale » scriveva il fratello Michelangelo. Il tre giugno 1877, solennità per il
Pontefice, celebrò in chiesa col calice dalla sua premura ad essa ottenuto, mentre di fuori
rintronavano gli spari e alla sera la festa si chiudeva con fuochi e illuminazione generale.197
197
Dal Diario di famiglia scritto dal consigliere Michelangelo NEGRELLI.
SUL TOPONIMO SIROR
Nel n. 2 di questa rivista, anno 1961, a pag. 166 e segg. l'amico carissimo ing. Franco
Taufer, appassionato e diligente ricercatore di memorie nostrane, pubblicava diversi appunti
Sull'origine di alcuni toponimi della Valle di Primiero. La redazione dichiarava in nota che l'autore
prevedeva e consentiva con un sottinteso di gradimento qualche voce diversa “che non nuocerebbe
se con critica costruttiva”. Aderisco all'accogliente offerta con queste osservazioni anche se
riusciranno piuttosto demolitrici.
Mi limito solo al toponimo Siror che egli tenta di derivare con analisi glottologica dalla
parola Silber. Di fatti il loro accostamento esterno parrebbe invitante, trovandosi inoltre il paese
vicino a un largo declivio, in parte boscoso, traforato e frugato un tempo da minatori tedeschi che vi
estraevano quel metallo. Il magnifico ostensorio gotico dell'arcipretale, del 1512, si ritiene lavorato
appunto coll'argento ricavato là.
Però l'indagine scientifica sull'argomento, perchè dia un risultato convincente, mi pare debba
essere condotta con criterio più rigoroso su due campi strettamente uniti, linguistico e storico.
Dobbiamo cioè riportare il toponimo alla sua forma più antica, applicando ai due termini il doppio
«strumento» che segnerà la loro possibile connessione o incompatibilità; avvicinare la sua prima
dicitura alla parola che l'avrebbe creato per studiarne i caratteri... somatici e confermarne o
rigettarne la paternità. La fisionomia di famiglia infatti, in un primissimo tempo almeno, dovrebbe
apparire perfetta.
Escludiamo citazioni posteriori frequentissime, le più esatte, ma anche non poche errate, male ridate
da inesperti e in fine male stampate.
Ora le risultanze certe nei riguardi del toponimo, dal 1200 al 1300, contenute in documenti
non numerosi, ma sufficienti, indicati anche dall'autore, danno la sua prima struttura tematica,
trascurando la desinenza che presenta qualche variante, in Sivror: 1206 in 4 documenti in copia,
1237 in copia, 1272 otto volte in documento originale steso in porticu sancte Marie plebis Primei.
Verso la seconda metà dello stesso secolo, con processo non raro nello sviluppo delle lingue,
va delineandosi la sostituzione della spirante V colla media B dapprima con promiscuità d'uso, poi
concentrato stabilmente sulla seconda, Sibror: documenti originali 1269 e 1272, 1275 undici volte,
1288 in due diversi.
Di questo scambio spigoliamo qualche esempio dalla parlata primierotta: vacillar, bazilar; vampa,
bampa; vespa, bespa, bespèr; vespro, bespio; volpe, bolp; ovatta, bata.
Alla prima e più antica di queste due forme dobbiamo affiancare il termine Silber, e nella
dicitura naturale, non aulica e latinizzata in Silbrar(ius); i minatori, non dotti, davano al luogo la
loro espressione usuale, non camuffata. E qui ci si presentano subito due sorprese:
1) Come mai la lettera L, non punto ingombrante alla pronuncia, nella parola tedesca è
sempre rigidamente conservata attraverso i secoli, mentre è del tutto assente fino dai primissimi
esemplari nella denominazione locale?
2) Non è poi spiegabile come Silber non diede subito il suo robusto B al toponimo, come era
da attendersi, e per decenni lo lasciò correre con un V che non possedeva. E' vero che più tardi il B
compare e s'impone, ma non proviene punto dal B tedesco, bensì dallo svolgimento linguistico
accennato del V in B.
Per questi due motivi già in fase genetica, all’albore della vita, il toponimo Sivror rigetta la
dipendenza da Silber.
Una breve osservazione merita ancora la voce terminale E, che difficilmente sarebbe caduta
lasciando un troncone monosillabico, nè è probabile la sostituzione o aggiunta di un O che non era
consona al carattere di quella lingua. E ora qualche riflessione storica.
La comunità di Primiero dovette formare nel suo primo sorgere un ente unico composto
delle ville o frazioni che nel decorso del tempo divennero regole indipendenti nell'ambito della
stessa comunità. Ciò avvenne quando esse rappresentarono un nucleo numericamente capace di
amministrarsi da sè. Al principio del 1200 la comunità era organizzata così, come poi sempre nella
storia. Quando il re Corrado III (1138-1152) nel 1142 (Verci - Storia della Marca Trivigiana,
docum. XV) conferma al vescovo feltrino i beni concessigli dai suoi antecessori «cum omni censu
seu reditu qui exire solet usque in hodiernum diem de Primeia, cum decimis et quartis ecc.», ci sta
davanti una comunità costituita ed efficiente che stende le sue radici ben più lontano, oltre il 1100.
Un elenco antico dei partecipanti feltrini alla I crociata (1096) contiene Corrado (castellano) di
Primiero. Non posteriore a quest’epoca dobbiamo collocare anche la villa, certo minuscola, di Siror.
Possiamo noi dimostrare che allora nel Bedolè vi fossero miniere in attività? E gestite da
chi? Signore della regione era il vescovo fino al 1376, quando ne fu spodestato dalla prepotenza del
duca Leopoldo in favore di Federico di Greifenstein. Dallo Srbik, che forse più degli altri studiosi
approfondì le ricerche sull'attività mineraria antica, ci attenderemmo cenni più specificati, con
qualche data meglio precisata che non sia quella vaga del secolo con indicazione di località e
materiale estratto, tra cui nulla che faccia al caso nostro (Bergbau in Tirol und Vorarlberg in
Vergangenheit und Gegenwart, Innsbruck 1929).
Naturalmente nulla ci dice della nazionalità degli scavatori che noi, data la pertinenza dei
luoghi, riterremmo veneti. E quei nove (parecchi nobili) che esercitavano miniere in Primiero e ne
furono privati dagli arciducali nel 1487 con generale sequestro e reintegrati con tutte le indennità
pochi mesi dopo [I Libri Commemoriali della Rep. di Venezia, Tomo V, Instrumenti 138 (13 nov.
1487), 143, 144, 145] sono forse una tardiva propaggine di impresari connazionali anteriori.
Il Wolfstrigl-Wolfskron (Die Tiroler Erzbergbaue, Innsbruck 1903) che ci dà notizie più
concrete non sa cominciare che nell'ultimo quarto del sec. 15°, in cui il lavorio minerale non doveva
essere insignificante, con un documento del 1477; forse perchè gli scavi anterori erano condotti, in
prevalenza almeno, fuori dell'ingerenza arciducale?
Risulta poi alquanto strano che in una dichiarazione ufficiale del 12 aprile 1557 Cristoforo
Rodt vicario delle miniere in Primiero e perciò in possesso di buoni appoggi archivistici, si esprima
così: Faciamo piena et indubitata fede, qualmente nell'anno 1468 furono trovate et venero le
miniere d'argento et altri metali in luce nella valle de Primier, e non risalga più oltre. (Cfr. Voci di
Primiero, anno 1950, n. 7).
Allora, mentre elementi sporadici entrarono in Primiero dopo l'aggrega zione della valle al
Tirolo (1376) e successiva infeudazione ai Welsperg (1401), possiamo riportare l'afflusso minerale
tedesco al principio del 1400. Il chiaro prof. Arturo Galanti in uno studio molto accurato e
meritamente premiato (I Tedeschi sul versante meridionale delle Alpi, Roma 1885) scrive a pag.
100: Nella Valle Primiero si concentrò nel secolo XV una popolazione di minatori tedeschi, i quali
formavano un proprio comune con borgomastro liberamente scelto e con preti tedeschi.
Aggiungiamo in fine qualche brevissima nota marginale. Se i minatori fondarono il villaggio
e lo abitarono, l'avrebbero però piantato più vicino al campo del lavoro. Dobbiamo invece riflettere
“che i minerari formavano una popolazione avventizia, che emigrò totalmente quando le miniere
furono esaurite” (G. B. Trener, Le antiche miniere di Trento, 1899). Essi rizzavano sul posto le loro
baracche durante la permanenza.
Delle località circostanti nessuna porta nomi tedeschi. (Il maso Pergher, che si chiamava de
Canadia, ricevette quel nome dal possessore mulattiere Cristel Pergher verso il 1514, posteriore è il
maso Tauferi; invece resta qualche toponimo italiano che ricorda il lavorio fusorio nello stesso
circuito: Giare rosse (per le scorie rossastre), Fosina, Fusinella.
Siror, all'infuori di qualche raro importato assai tardi da persone ormai italiane, fu sempre
immune da cognomi tedeschi, e il dialetto, come in tutta la valle, è dei più schiettamente veneti.
Una questione che ha solleticato storici e nazionalisti d'oltralpe è appunto quella dei
cognomi tedeschi ancor vivi nella valle (i più sono tramontati), che una volta formavano una
discreta percentualità, e la fecero riguardare come un'isola tedesca, e si parlò di una Verwelschung
Primörs. Chi studia a fondo il problema (e sarebbe interessante), troverà una montatura gonfiata da
superficiali o fanatici; vero è questo: cognomi tedeschi sì, ma di gente già italiana.
E ora, per conchiudere il nostro argomento, le risultanze, almeno soggettive, sono queste:
anche sul campo storico i due termini messi a raffronto riescono inconciliabili. Quando la parola
Silber risuonò per la prima volta in Primiero sulla bocca di minatori, Siror esisteva e portava il suo
nome da almeno due secoli.
Bibliografia198
Il vescovo di Feltre Giacomo Rovellio a Trento - Per il XXV anno di episcopato di Mons. Endrici ,
Trento, s.n., 1929.
Il lago delle streghe, ST, 1930, pp. 97-99.
Un'apparizione clamorosa a San Martino di Castrozza, ST, 1931, pp. 35-37.
Un furto sacrilego impedito a Predazzo, ST, 1933, pp. 55-57.
Centenario d’un medico, ST, 1936, pp. 20-21.
Delitto e perdono, ST, 1937, pp. 33-34.
La famiglia e il palazzo Someda in Primiero, STSS, 19 (1938), pp. 229-247; con 1 ill. e I tav.).
Contributi alla serie dei medici trentini - I sanitari di Primiero nel 1600 e 1700, STSS, 20 (1939),
pp. 201-218.
Progetto d’una certosa a San Martino di Castrozza, ST, 1939, pp. 93-95.
L’Istituto Arcivescovile di via Madruzzo nel settantesimo di vita, ST, 1940, pp. 93-96.
Una memorabile caccia all’orso in Caoria, ST, 1935, pp. 111-113.
Il medico Angelo Guadagnini nel cinquantenario della sua morte, «Trentino», 1941, pp. 243-245.
La cavalcata di Carlo di Lussemburgo attraverso Fiemme e Primiero, ST, 1941, pp. 38-39.
Una nipote di S. Carlo Borromeo signora di castel Telvana e Primiero, ST, 1942, pp. 37-38.
Un vescovo di Bressanone socio d’un azienda mineraria trentina, ST, 1943, pp. 67-68
La biblioteca del Seminario Minore durante l'ultima guerra e Il Museo Diocesano durante l’ultima
guerra, STSS, 25 (1946), pag. 81.
Lo scultore Giorgio Moena in Primiero, STSS, 26 (1947), pp. 44-49.
La parrocchia di Strigno divenuta... cattedrale, ST, 1949, pp. 31-32.
Vigilio Prof. Zanolini (Necrologio e bibliografia), STSS, 29 (1950), pp. 152-158.
Luigi Negrelli : (1799-1858), ST, 1950, pp. 59-60.
Critica situazione della Cattedrale di Trento al principio del 1400, ST, 1951, pp. 33-34.
198Sono usate le seguenti abbreviazioni: ST = Strenna trentina; STSS Studi trentini di scienze storiche; CA = Cultura
atesina; VA = Voci amiche
Una peste a Trento poco conosciuta, ST, 1951, p. 43.
La famiglia Poppi a Borgo e in Primiero, STSS, 30, 1951, pp. 362-373.
Maestri Comacini in Primiero , CA, 1951, n. 1-4, pp. 140-143.
Padri e sacerdoti, ST, 1953, pp. 35-37.
Il progresso e la leggenda del mazzaròl, ST, 1954, pp. 65-66.
Antonio Rosmini nelle lettere scritte da don Luigi Sonn a don Simon Michele Tevini (1811-1857),
STSS, 34 (1955), pp. 458-487.
Un episodio della guerra del 1866, ST, 1955, pp. 61-63.
L'Altare Maggiore gotico, nell'Arcipretale in Primiero di ieri ... e di oggi : raccolta di notizie
storiche, racconti, descrizioni, leggende, poesie ecc; della Valle di Primiero, Primiero, Azienda
Autonoma di Soggiorno e Turismo, 1956, pp. 302-303.
Chiara di Welsperg, pronipote di Pio IV, Nipote di San Carlo, signora di Telvana, VA, maggio
1959, pag. 10.
La chiesa arcipretale di Primiero Trento, Temi, 1959 - Estr. STSS, 38 (1959), fasc. 2 con 2 ill. e 13
tav.
La chiesa dell’Assunta a Fiera di Primiero (1400-1493), STSS, 38 (1959), pp. 111-141, con 2 ill. e
13 tavv. f.t.
Strascichi di guerra nell’Altipiano di Pinè, ST, 1956, pp. 61-62.
Delitto e perdono in Primiero di ieri ... e di oggi, 1956, pp. 191-193.
La famiglia e il palazzo Someda in Primiero di ieri ... e di oggi, 1956, pp. 211-224.
Il lago delle streghe in Primiero di ieri ... e di oggi , 1956, pp. 72-75.
Una memorabile caccia all'orso in Caoria in Primiero di ieri ... e di oggi, 1956, pp. 244-246.
Il vecchio campanone del Duomo, ST, 1956, p. 33.
Siror in Primiero di ieri ... e di oggi, 1956, pp. 81-83.
Il Cardinale Cristoforo Madruzzo governatore a Milano : 8 (1555-1557), ST, 1957, pp. 55-56.
Il convento di San Marco a Trento e le invasioni francesi, ST, 1960, pp. 51-52.
Ebrei a Pergine, ST, 1961, pp. 81-82.
Sul toponimo Siror, STSS, 40 (1961), pp. 273-275.
Centenario del vescovo Cristoforo Sizzo : 1763-1773, ST, 1963, pp. 43-45.
Primiero nell’alluvione del 4 novembre 1966, Rovereto, Manfrini, 1966.
Notizie Ecclesiastiche di Siror , s.n., 1966.
Don Antonio Calvi decano di Cles : a cent’anni dalla morte, ST, 1967, pp. 87-88.
Il Cismon, ST, 1968, pp. 75-76.
Una memorabile caccia all'orso in Caoria, ST, 1971, pp. 89-91.
Ultima visita del vescovo di Feltre in Primiero e Valsugana, ST, 1986, pp. 43-45.
VOCI DI PRIMIERO
Primiero: brevi cenni geologici, 1 (1941), n. 2, p. 4
La comunità di Primiero, 1 (1941), n. 3, p. 4
Il periodo barbarico, 1 (1941), n. 4, p. 4
I primi abitatori, 1 (1941), n. 6, p. 4
San Giovanni, 1 (1941), n. 7, p. 4
Guelfi e Ghibellini, 1 (1941), n. 9, p. 4
Confini, 1 (1941), n. 11, p. 4
Confini tra Calaita e L’Arzon, 2 (1942), n. 2, p. 4
L’Arcipretura di Primiero, 2 (1942), n. 5, p. 2
Confini tra Agordo e Primiero, 2 (1942), n. 6, p. 2
Sguardo storico alla Valle di Primiero, 2 (1942), n. 6, p. 4
I pievani di Primiero, 2 (1942), n. 7, p. 3
L’arcipretale di Primiero, 2 (1942), n. 7, p. 4
Parole rivolte al nuovo decano dal prof. don Stefano Fontana, 2 (1942), n. 8, p. 4
Alleanza con Fassa e Fiemme, 2 (1942), n. 9, p. 4; 3 (1943), n. 3, p. 4
I sacerdoti in Primiero, 2 (1942), n. 2, pp. 1-2; 2 (1942), n. 12, p. 2; 3 (1943), n. 1, p. 2
Santa Romina, 2 (1942), n. 11, p. 4; 2 (1942), n. 12, p. 4
La chiesa di San Silvestro, 3 (1943), n. 5, pp. 1-2;
Il custode della Valle, 3 (1943), n. 5, p. 3
Luci ombre voti attorno a San Silvestro, 3 (1943), n. 5, p. 4
Le visite pastorali nella valle di Primiero, 3 (1943), n. 8, pp. 1-2; 3 (1943), n. 9, p. 2
Il castello della Pietra , 5 (1947), n. 3, p. 4; 5 (1947), n. 4, p. 4
S. Martino di Castrozza, 6 (1948), n. 1, p. 6; 6 (1948), n. 2, p. 6; 6 (1948), n. 3, p. 4; 6 (1948), n. 6,
p. 3; 6 (1948), n. 9, p. 6; 6 (1948), n. 10, p. 4; 6 (1948), n. 11, p. 4; 6 (1948), n. 12, p. 4
Il tabernacolo, 6(1948), n. 5, p. 2
Confraternite del Santissimo nel decanato, 6 (1948), n. 5, p. 1
L’ostensorio dell’arcipretale, 6 (1948), n. 5, p. 3
S. Lucano in Primiero, 6 (1948), n. 8, pp. 5-6
199Il Trecento, 7 (1949), n. 1, p. 4
Federico di Greifenstein. La battaglia di Sempach. Sigismondo di Starkenberg, 7 (1949), n. 2, p. 4
Gli statuti, 7 (1949), n. 3, p. 4; 7 (1949), n. 4, p. 4; 7 (1949), n. 5, p. 4; 7 (1949), n. 6, p. 4
Ricordando Luigi Negrelli, 7 (1949), n. 7, pp. 1-2
Le chiese, 7 (1949), n. 7, p. 4
Un avvenimento importante, 7 (1949), n. 8, p. 4
La famiglia Welsperg, 7 (1949), n. 9, p. 4
Stemma Welsperg. Serie dei giurisdicenti, 7 (1949), n. 10, p. 4
1400 - introduzione. Sentenza della Stimaria , 1420, 7 (1949), n. 11, p. 4
I pioveghi 1440. Possessori e non possessori di pecore 1470, 8 (1950), n. 1, p. 4
Insistenza dei non possessori. I saltari. Un caso di danneggiamento, 8 (1950), n. 3, p. 4
I Fuganti, 8 (1950), n. 4, pp. 1-2
Aggiunte. I boschi. L’assalto, 8 (1950), n. 4, p. 4
Nuovi contrasti. Richieste dei marzoli. Concessioni dei dinasti, 8 (1950), n. 5, p. 4
Il capitello della peste, 8 (1950), n. 6, p. 1; 8 (1950), n. 7, p. 2
Le miniere, 8 (1950), n. 6, p. 4.; 8 (1950), n. 7, p. 4; 8 (1950), n. 8, p. 4; 8 (1950), n. 9, p. 4
La guerra contro Venezia, 8 (1950), n. 10, p. 4
Le miniere di Siror, 8 (1950), n. 11, p. 4
La frana di “Rore” e il voto dell’Addolorata, 8 (1950), n. 12, p. 7
Le miniere di Caoria, 8 (1950), n. 12, p. 4
Orrori di guerre, 9 (1951), n. 1, p. 4
199 da questo numero del periodico e fino al n. 8 del 1954 la maggior parte degli articoli compare sotto il titolo Notizie
storiche di Primiero.
Il Convegno di Vedana, 9 (1951), n. 2, p. 4
L’arciprete don Sigismondo Waiz, 9 (1951), n. 1, pp. 1-2
Il provveditore Dolfin, 9 (1951), n. 3, p. 4
Storia del disastro del Rebrut, 9 (1951), n. 4, p. 3; 9 (1951), n. 5, pp. 3-4; 9 (1951), n. 11, p. 3
Il caso Sottler, 9 (1951), n. 4, p. 4
L’arciprete Cristoforo Carneri, 9 (1951), n. 5, p. 4; 9 (1951), n. 6, p. 4; 9 (1951), n. 7, p. 4
Il nuovo Capitello della peste a Pieve, 9 (1951), n. 6, p. 2
Le miniere di ferro, 9 (1951), n. 8, p. 4; 9 (1951), n. 9, p. 4
Strade, 9 (1951), n. 10, p. 4; 9 (1951), n. 11, p. 4; 9 (1951), n. 11, p. 4; 9 (1951), n. 12, p. 4
La Fiera, 10 (1952), n. 1, p. 4; 10 (1952), n. 2, p. 4; 10 (1952), n. 3, p. 4; 10 (1952), n. 4, p. 4
A 50 anni dall’incendio di Fiera, 10 (1952), n. 4, pp. 2-3
Vecchie campane in Primiero, 10 (1952), n. 4, p. 3
Il vescovo Michele Iorba, 10 (1952), n. 5, p. 4
Condizioni religiose, 10 (1952), n. 6, p. 4; 10 (1952), n. 7, p. 4; 10 (1952), n. 8, p. 4; 10 (1952), n. 9,
p. 4; 10 (1952), n. 10, p. 4; 10 (1952), n. 11, p. 4; 10 (1952), n. 12, p. 4
La chiesa di Canale nei canti di don Nicola Negrelli, 10 (1952), n. , p. ??
La nuova chiesa [Canale], 10 (1952), n. 10, pp. 3-4 ??
Le campane di Canale, 10 (1952), n. 12, pp. 4-5 ??
Gli Scopoli, 11 (1953), n. 1, p. 4; 11 (1953), n. 2, p. 4; 11 (1953), n. 3, p. 4
La guglia, 11 (1953), n. 2, p. 1
Orsi e lupi, 11 (1953), n. 3, p. 4
La famiglia Altamer, 11 (1953), n. 4, p. 4; 11 (1953), n. 5, p. 4
Fermezza dei vecchi, 11 (1953), n. 6, p. 4
Streghe, 11 (1953), n. 7, p. 4; 11 (1953), n. 8, p. 4; 11 (1953), n. 9, p. 4; 11 (1953), n. 10, p. 4; 11
(1953), n. 11, p. 4; 11 (1953), n. 12, p. 4; 12 (1954), n. 1, p. 4; 12 (1954), n. 2, p. 4
Il decano don Giuseppe Sartori , 11 (1953), n. 9, pp. 1-2; 11 (1953), n. 10, pp. 1-2
Il prete di Fedai, 11 (1953), n. 11, p. 2
Un maestro singolare, 12 (1954), n. 1, p. 1 ??
Centenari, 12 (1954), n. 2, p. 1 ??
Apparizioni a S. Martino, 12(1954), n. 3, p. 4; 12 (1954), n. 3, p. 4; 12 (1954), n. 8, p. 4
Cimeli eucaristici nell’arcipretale di Primiero,12 (1954), n. 5, pp. 1-2
Le visite pastorali di Tomaso Campegio 1520-1559, 12 (1954), n. 10, p. 2
La visita pastorale dell’ultimo vescovo feltrino, 12 (1954), n. 11, pp. 3-4
Mons. Pietro Grossi, 12 (1954), n. 11, p. 4 ??
Centenario don Domenico Bettega, 12 (1954), n. 12, p. 1 ??
Centenario don Gio. Ba. Gubert, 13 (1955), n. 1, p. 1
??
Relazioni tra il dinasta e la comunità : pioveghi, 13 (1955), n. 2, p. 4
200I marzoli e le cause giudiziarie, 13 (1955), n. 3, p. 4; 13 (1955), n. 4, p. 4
Nuove proposte, 13 (1955), n. 5, p. 4
La famiglia Longo, 13 (1955), n. 6, p. 2
Un nuovo aggravio, 13 (1955), n. 6, p. 4
Anche il priorato di San Martino. Lamenti e ricorsi. Reazione dinastica, 13 (1955), n. 7, p. 4
Il sequestro della Veniggia. Intesa, 13 (1955), n. 8, p. 4
Relazioni coi dinasti, 13 (1955), n. 9, p. 4
Un mancato arciprete Welsperg, 13 (1955), n. 10, p. 4
Possibilità di stagione, 13 (1955), n. 11, p. 4
Saper tacere, 13 (1955), n. 12, p. 4
Per i macellai 1664, 14 (1956), n. 1, p. 4
Organisti fino al 1800, 14 (1956), n. 2, p. 4
Arnesi casalinghi, 14 (1956), n. 3, p. 4; 14 (1956), n. 4, p. 4
200
da questo numero il titolo viene modificato in Notizie storiche; e successivamente ( dal n. 10, 1955) in Spigolature
storiche.
Leonardo Campochiesa : pittore; nel cinquantenario dalla morte 28 aprile 1906, 14 (1956), n. 4,
pp. 1-2; 14 (1956), n. 5, p. 2
La strada di Schenèr, 14 (1956), n. 5, p. 4
Molto rev.do sig. Arciprete, 14 (1956), n. 6, p. 2
La cura d’anime a Siror 14 (1956), n. 6, p. 2
P. Vitale Meneghetti, 14 (1956), n. 7, p. 2 ??
Preoccupazioni vecchie e nuove, 14 (1956), n. 7, pp. 2-3 ??
Luigi Negrelli e Suez, 14 (1956), n. 9, p. 2
P. Giuseppe Pastorini, 14 (1956), n. 10, p. 2 ??
Antonio Prospero, 14 (1956), n. 11, p. 2; 14 (1956), n. 12, p. 2
Primiero in armi nel 1616, 15 (1957), n. 1, p. 4
L’arciprete don Cristoforo Tisotti, 15 (1957), n. 2, pp. 1-2; 15 (1957), n. 3, p. 2
Giuseppe Leporini, 15 (1957), n. 4, p. 2
Un memorabile incendio a Mezzano nel 1708, 15 (1957), n. 5, p. 4
Spigolature... leggendarie. Transacqua e Venezia, 15 (1957), n. 6, p. 4
Spigolature... antistoriche, 15 (1957), n. 8, p. 4
Don Candido Althamer, 15 (1957), n. 9, p. 2
Intorno al castello, 15 (1957), n. 9, p. 4; 15 (1957), n. 12, p. 4
La famiglia Nocher, 16 (1958), n. 1, p. 2
Passaggi di truppe, 16 (1958), n. , p. 4
Triste e luminoso tramonto, 16 (1958), n. 3, p. 4
Le campane di Ruffini, 16 (1958), n. 4, p. 3
Ricordi sacri, 16 (1958), n. 4, p. 2
La famiglia Nocher, 16 (1958), n. 1, p. 2
Le campane di Tonadico, 16 (1958), n. 5, p. 2
La prima chiesa di Caoria, 16 (1958), n. 6, p. 2
Aggravi militari, 16 (1958), n. 7, p. 4
Dalla nostra unione sta la forza,16 (1958), n. 8, p. 2 ??
Un pensiero devoto e riconoscente a Luigi Negrelli, 16 (1958), n. 9, p. 1
Baldassare Poppi, 16 (1958), n. 10, p. 2
Don Domenico Fontana, 16 (1958), n. 10, p. 2
Arresto e fuga, 16 (1958), n. 10, p. 4; 16 (1958), n. 11, p. 4; 16 (1958), n. 12, p. 4
Un costruttore, 16 (1958), n. 11, p. 2
Dott. don Augusto Zanetelli, 16 (1958), n. 12, p. 2
Un episodio tragico, 17 (1959), n. 1, p. 4
Sagron e la prima cura d’anime, 17 (1959), n. 2, p. 4; 17 (1959), n. 3, p. 4
La cappella del castello, 17 (1959), n. 4, p. 4
Il tabernacolo nelle diverse chiese di Canale, 17 (1959), n. 5, p. 2
La chiesetta di San Giovanni, 17 (1959), n. 6, p. 2
La Fontane, 17 (1959), n. 6, p. 6
Un calvinista convertito, 17 (1959), n. 7, p. 4
La famiglia Trotter, 17 (1959), n. 8, p. 2
La famiglia Orsingher, 17 (1959), n. 9, p. 2
Il cav. Giovanni Segat, 17 (1959), n. , p. 2 ??
Campane a Imer, 17 (1959), n. 10, p. 4
Una sentenza capitale e un caso giuridico, 17 (1959), n. 11, p. 4
Il giubileo del decano Gio. Battista Braito, 17 (1959), n. 11, p. 4
Contro la prepotennza, 17 (1959), n. 12, p. 4
Usanze e tradizioni di Primiero, 18 (1960), n. 3, p. 4
??
Tradizioni e leggende di Primiero, 18 (1960), n. 4, p. 4
??
La meridiana sul Palazzo del Dazio, 19 (1961), n. 2, p. 2
Sacerdoti defunti di Tonadico, 19 (1961), n. 2, p. 3
Decorazione della chiesa di S. Silvestro, 19 (1961), n. 4, p. 2
Relazione tra minatori e popolazione, 19 (1961), n. 4, p. 2; 19 (1961), n. 6, p. 4; 19 (1961), n. 7, p.
4; 19 (1961), n. 8, p. 4
Nota redazionale a Vece storie, 19 (1961), n. 4, p. 4
Sacerdoti defunti di Transacqua, 19 (1961), n. 6, p. 2
Sacerdoti defunti di Siror, 19 (1961), n. 7, p. 3
Teresa Sartori da Molarèn apostolo della famiglia, 19 (1961), n. 8, p. 2; 19 (1961), n. 9, p. 2
??
Sacerdoti defunti di Canale, 19 (1961), n. 8, p. 4
Sacerdoti defunti di Imèr, 20 (1962), n. 1, p. 4
S. Gregorio Barbarigo e la nostra terra, 20 (1962), n. 3, p. 2
Sacerdoti defunti di Ronco Cainari (di Prade; di altri paesi), 20 (1962), n. 4, p. 4
Evasioni fiscali, 20 (1962), n. 4, p. 4
L’arciprete don Giuseppe Mosconi (La famiglia), 20 (1962), n. 6, p. 2; 20 (1962), n. 7, pp. 1-2; 20
(1962), n. 8, p. 2; 20 (1962), n. 9, p. 2
Cinque secoli fa [Comunità e origini di Siror], 20 (1962), n. 6, p. 4; 20 (1962), n. 7, p. 4; 20 (1962),
n. 8, p. 4
La famiglia Strosser, 20 (1962), n. 10, p. 2
Per un lupo, 20 (1962), n. 10, p. 4
Saggezza antica, 20 (1962), n. 11, p. 4
La famiglia Grizzer, 20 (1962), n. 12, p. 2
Sacerdoti defunti di Fiera, 20 (1962), n. 12, p. 3; 21 (1963), n. 1, p. 3; 21 (1963), n. 2, p. 4; 21
(1963), n. 4, p. 3; 21 (1963), n. 5, p. 1; 21 (1963), n. 6, p. 3; 21 (1963), n. 8, pp. 3-4
Un centenario storico, 21 (1963), n. 4, p. 4
L’orologio [Fiera], 21 (1963), n. 6, p. 4
Le tre chiesette alpine, 21 (1963), n. 8, p. 4
Le “nosele”, 21 (1963), n. 8, p. 4
??
Cari compatriotti, ..., 21 (1963), n. 10, pp. 2-3
Il masso di Castel Pietra, 21 (1963), n. 12, p. 3
Per l’onestà nel commercio, 22 (1964), n. 1, p. 4
Le nostre cime nel ricordo di un papa, 22 (1964), n. 1, p. 4 ??
L’Arcipretura di Primiero in Numero speciale per il venticinquesimo di sacerdozio di don Elio
Scrinzi ..., Suppl., 23 (1965), n. 3, pp. 6-7
Precisazione [sul Numero speciale per il venticinquesimo ...], 23 (1965), n. 4, p. 4
Immigrati svizzeri in Primiero, 23 (1965), n. 5, p. 4
Una guida, 23 (1965), n. 10, p. 2
Un centenario, 24 (1966), n. 3, p. 2 ??
Come vede le nostre Dolomiti e il nostro bacino un convalligiano, 24 (1966), n. 6, pp. 6-7; 24
(1966), n. 6, pp. 6-7
Come un patriarca di Aquileia friulano diventò... primierotto, 25 (1967), n. 1, p. 8
Visitando il vecchio Palazzo Someda, 25 (1967), n. 1, p. 8
Una pagina di storia economica, 25 (1967), n. 1, pp. 11-12
I vecchi insegnano, 25 (1967), n. 2, p. 2
Don Aurelio Guadagnini, 25 (1967), n. 2, p. 9
Mons. Augusto Guadagnini, 27 (1969), n. 9, p. 4
Fine deplorevole di un Priore a San Martino, 28 (1970), n. 12, pp. 11-12 (f.to)
Una conversione, 29 (1971), n. 1, p. 5 (f.to)
La Calaita, 29 (1971), n. 2, p. 2
(f.to)
Primiero nella penna di uno scrittore francese, 31 (1971), n. 12, p. 8
I dendrofori, 32 (1972), n. 1, p. 3
(f.to) 201
(f.to)
I passi della Serenissima, 32 (1972), n. 2, p. 11
(f.to)
Una sgradita visita perturbatrice, 32 (1972), n. 5, p. 3
(f.to)
L’organo di Siror, 32 (1972), n. 7-8, p. 9; 32 (1972), n. 9, p. 7; 32 (1972), n. 10, p. 3; 32 (1972), n.
11, p. 6
201 Con il n. 3 del marzo 1971 il numero di annata XXIX (29) viene erroneamente modificato in XXXI (31);
l’indicazione delle annate proseguirà con questa nuova numerazione.
Tentativi giovanili di versione dal latino in dialetto primierotto : Virgilio - Elegia IX (Esametri), 32
(1972), n. 5, p. 3
(f.to)
Su don Stefano Fontana
Un giubileo, 17 (1959), n. 12, p. 2
Sessant’anni di sacerdozio, 27 (1969), n. 12, p. 3
E’ morto il più grande amico di “Voci di Primiero”, 32 (1972), n. 5, pp. 2-3
Qualche ricordo di don Fontana, 32 (1972), n. 5, p. 3
Un sacerdote che amava Feltre, 32 (1972), n. 5, p. 3
Così ripenso a Don Stefano..., 32 (1972), n. 7-8, p. 11
Doveroso anniversario, 33 (1973), n. 4, p. 5
Il 1° anniversario della morte di Mons. Stefano Fontana, 33 (1973), n. 5, p. 5