Intervista impossibile 3 - Boselli

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Intervista impossibile 3 - Boselli
Bellone, Caviglia, Marcelo e Semprini
Intervista impossibile alla signora Albertina, infermiera della Prima Guerra
Mondiale
A Varazze piccola cittadina affacciata sul mar Ligure, non c’era il fronte di combattimento
durante la prima guerra mondiale, ma da qui
partì un
grande numero di soldati per andare a prestare
servizio in
una guerra della quale non sapevano neanche i
motivi,
perché tutte le guerre sono organizzate dai
potenti
che per i propri interessi mandano a morire
degli
innocenti.
Immaginiamo di intervistare una donna che,
primo conflitto mondiale, ha partecipato in
linea. Infatti bisogna ricordare una cosa
importante che spesso viene dimenticata, e
nel profondo della memoria a prendere polvere:
soldati , anche molte donne, volontarie,
al fronte come infermiere per prestare il primo
ai feriti.
durante il
prima
lasciata
oltre ai
andavano
soccorso
In una piccola frazione che si chiama Casanova, abita la signora Albertina C.
Appena arrivate davanti ad una piccola casetta sulla collina retrostante la città, ci apre la porta
una minuta ed anziana signora. La cosa che subito ci colpì di più è lo sguardo tipico di quelle
persone che hanno visto troppe cose negative ed ingiuste nella vita: uno sguardo serio, ma quasi
contento, attento e vivace, ma nello stesso tempo distaccato dalla realtà, come quello che si vede
brillare sul volto dei saggi.
Alunno: Piacere, noi siamo alcuni degli alunni della
classe 4a G dell’ istituto Pertini di Varazze.
Albertina: Felice di conoscervi io sono Albertina. So
che siete qui per intervistarmi, prego accomodatevi.
Alunno: Veniamo subito al dunque. Ci può dire come
cominciò tutto?
Albertina: La nostra vita era molto complessa e diversa rispetto a quella d’oggi, mi ricordo
ancora quando scoppiò la guerra, sopra le nostre teste incombeva una nuvola tempestosa carica
di disgrazie pronte a rovinarci addosso. Così iniziò il primo grande conflitto mondiale tra le
nazioni europee. Migliaia di uomini furono mandati al fronte, molti non tornarono più. E fu
questa la sorte che toccò a mio fratello, partito per il fronte nel maggio del 1815, e di lui non si
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seppe più nulla. Non ci diedero indietro
il corpo, non rimase più niente di lui, ed io
potevo stare con le mani in mano. Allora
decisione che era destinata a cambiarmi la
sempre. Decisi di diventare un infermiera
volontaria per aiutare al fronte chi avesse
anche solo di un sorriso, di una voce amica.
detto così sembra sciocco, ma non
pretendevo di salvare la vita a tutti i feriti,
avevo tanto entusiasmo ed entrai a far parte
Croce Rossa, e partii nel luglio 1916.
neanche
non
presi una
vita per
bisogno
So che
ma
nella
Alunno: Dove iniziò a lavorare?
Albertina: Andai con il treno fino a Trento da lì fui mandata in un ospedale militare.
Alunno: Mi può descrivere l’ospedale?
Albertina: Per quello che mi ricordo era diviso in diverse zone c’era una sezione di sanità
diretta da un capitano medico-chirurgo. Gli ospedali si trovavano nelle retrovie posti lungo gli
assi ferroviari o vicino alle grandi vie di comunicazione. Ricevevano
i convalescenti di lungo periodo, i mutilati, e tutti coloro che per
diversi motivi non sarebbero, nella grande maggioranza, più potuti
tornare al fronte.
Alunno: Qual’erano le sue impressioni?
Albertina: Mi ricordo ancora il primo giorno in cui varcai la porta
di quell’anticamera dell’inferno. Davanti ai miei occhi si apri una fila
lunghissima di letti. Vi erano molti feriti, alcuni di loro soffrivano
molto, anche a causa di una forte febbre portata delle infezioni, altri
avevano profonde ferite dalle quali sgorgava sangue e pus, altri
ancora pregavano il loro Dio non per essere salvati, ma per avere
una morte veloce e porre fine alle loro sofferenze.Nella stanza si
udivano dolorose grida disperate e strazianti dei disperati che
sapevano che la loro vita era ormai giunta al termine.
Alcuni non avevano neppure più la forza di gridare e il loro lamento era solo un
incomprensibile sibilo che rappresentava per loro l’ultimo respiro. Sul pavimento c’erano molte
macchie di sangue, nessuno aveva tempo di pulirle. L’aria era impregnata dell’odore dolciastro e
nauseabondo di sangue, di urina di disinfettante, che prendeva alla gola. In quel momento sentii
dentro di me un conato di disgusto e di rifiuto, insieme con un senso d’impotenza che
paralizzava tutto il mio corpo davanti a quello spettacolo. Solo dopo qualche giorno riuscii a
superare l’empasse iniziale e a tuffarmi nel lavoro, che non mancava di certo. I medici mi
indicavano i feriti che più avevano bisogno, oltre che di medicazioni, di una parola di conforto.
Alunno: Ha sempre lavorato nell’ospedale?
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Albertina: No. Rimasi lì
per un
anno. Ma poi mi chiesero
di andare
a prestare servizio in
trincea, e
accettai di buon grado.
Qui
c’erano gli ospedaletti da
campo,
costituiti da tende, dove il
personale
medico medicava
sommariamente,
disinfettava e mandava
verso le
retrovie i casi meno gravi,
operava i
più gravi, oppure, senza
possibilità
di intervento, assisteva
alla loro
morte. Solo per i primi
tempi
venne usata morfina per
attenuare
le sofferenze dei feriti
sottoposti
ad intervento o dei moribondi, ma ben presto le scorte vennero meno e tutto fu lasciato al caso.
Dagli Ospedaletti i sopravvissuti venivano in seguito avviati agli Ospedali da Campo, strutture
sistemate in baracche o tendopoli, che accoglievano feriti gravi.
Alunno: Si ricorda di qualche paziente in particolare?
Albertina: Oh che domanda che mi fai! Ne ho visti molti, anzi, troppi per mia sfortuna, e con
ogni tipo di ferita. Ma, adesso che ci penso, forse uno ricordo.
Era come la maggior parte dei soldati ma si distingueva per una cosa: lui aveva un’etica.
Era stato gravemente ferito perché non era stato in grado di sparare al suo nemico. Era fuori
dalla trincea nella zona neutrale, si era trovato faccia a faccia con il nemico, un giovane ragazzo
che all’incirca aveva venti anni, e non era riuscito a far fuoco. Purtroppo il suo avversario era
più che pronto. Non riuscii a salvarlo, morì perché, semplicemente, pensava che tutti
meritassero di vivere, e che non fosse giusto sparare e porre fine ad una giovane vita, per un
conflitto del quale non si sentiva parte.
Mi ricordo anche di un altro
caso. Un
giorno stavo uscendo dalla
tenda e
vidi che avevano preso come
prigioniero, un generale
austriaco,
che era sul punto di morire. Lo
ricordo
come se fosse ieri, era sporco di
fango,
aveva una lunga e profonda
ferita sul
braccio, dalla quale usciva un
enorme
quantità di sangue. Non
volevano
curarlo, ma io mi opposi con
tutta me
stessa, ed alla fine riuscii ad
ottenere
il permesso di medicarlo e
tentare di
salvargli la vita. Perché anche
se era un
prigioniero che apparteneva ad
un'altra
nazione e combatte va per
un’altra
bandiera aveva tutto il diritto
di vivere.
Alunno: Come era la vita nelle trincee?
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Albertina: La nostra vita era molto dura, io essendo un infermiera stavo di solito in seconda
linea, perché nella prima c’erano i soldati che attaccavano l’altro fronte. Si andava a riposare alla
sera senza sapere cosa sarebbe successo domani, la vita era così, correva sempre sul filo del
rasoio, era come camminare in una campo minato in ogni momento poteva esplodere qualcosa.
Nell’aria c’era sempre il suono delle canne dei fucili che sparavano, dei proiettili che si libravano
in aria, e l’odore di metallo e pietra si mescolava a quello del sangue. Non si riusciva mai a
riposare e lavoravo in continuazione anche perché chi necessitava di cure non mancava mai. Si
era sempre molto stanchi perché si
mangiava poco, considerate che il
piatto migliore della casa era una
specie di brodaglia che chiamavano
minestra, praticamente non si
dormiva, ma l’unica cosa che ti dava
energia era l’adrenalina che scorreva
nelle vene e si irradiava in tutto
l’organismo. Questa era la nostra vita:
incerta e piena.
Alunno: Come era la vostra divisa?
Albertina: Indossavamo una camicia e
sopra a questa un lungo vestito smanicato bianco con una croce rossa sul petto, sul capo
avevamo una cuffietta bianca.
Alunno: Finita la guerra cosa fece?
Albertina: Quando finì la guerra
il mio mondo, ormai non
altra vita che quella. Allora
casa con la speranza d’avene
una. Al mio ritorno casa mia era
completamente vuota, i miei
erano andati a vivere in un altro
presso una sorella, ma poi era
l’epidemia “spagnola” ed
erano morti.
finì anche
conoscevo
tornai a
ancora
lì ma era
genitori
paese,
scoppiata
entrambi
Ormai avevo toccato il fondo
della
solitudine e mi chiedevo cosa avessi fatto di male, se il destino dei miei genitori fosse una
punizione divina per tutte le vite che mi ero fatta scivolare dalle mani e non ero riuscita a
strappare via dalla morte. Furono giorni molto difficili il presente appariva a i miei occhi molto
scuro, ed i fantasmi del mio passato iniziavano a venire a galla. Ogni volta che chiudevo gli
occhi nella mia mente incominciava la macabra sfilata dei visi di tutti i soldati morti davanti a
me. Ma come amo dire, le vie del Signore sono infinite, molto spesso sono in salita, seguono un
impervio sentiero e se si è fortunati forse sulla sommità si può trovare la pace. Mi rialzai da quel
baratro di disperazione e squallore in cui ero precipitata, aiutata dai miei paesani. Per fortuna
tutto quello che si fa di bene nella vita ritorna, e non tutte le persone sono crudeli.
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Trovai lavoro nell’ospedale locale e
rimasi lì a lavorare fino a quando
non andai in pensione.
Sono contenta della mia vita, anche
se so che non è stata una vita facile,
sono soddisfatta di quello che ho
fatto e delle esperienze che ho
vissuto.
Alunno: Lei che ha vissuto la guerra
in prima persona cosa ne pensa?
Albertina: Sarebbe troppo semplice
dire che la guerra è brutta. Le
persone che usano un conflitto armato per ottenere ciò che vogliono sono persone senza una
morale, perché sono disposte a sacrificare molte vite innocenti per interessi che spesso non
combaciavano con quelli della collettività. La guerra è una limitazione ai diritti inalienabili
dell’uomo, alla libertà di parola, il diritto alla vita. Sarebbe troppo bello sperare che non ci siano
più conflitti nella vita di tutti gli uomini del mondo, ma l’indole umana è quella di combattere
per ottenere ciò che si vuole, e questa sarebbe anche una cosa buona se non si utilizzassero
mezzi amorali per realizzare i propri fini. Sin da tempi remoti ci son stati conflitti ed è difficile
sradicare queste cattive abitudini che albergano nel profondo della mente dell’uomo.
Alunno: La ringraziamo molto, per questo bellissimo ritorno al passato, e per averci fatto
regalo delle sue memorie preziose.
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