Materiali lez. 1 File - Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche
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Materiali lez. 1 File - Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche
Marco Aime Eccessi di culture Einaudi I. Eccessi di culture Vidi che non c’è Natura, che la Natura non esiste, che ci sono monti, valli, pianure, che ci sono piante, fiori, erbe, che ci sono fiumi e pietre, ma che non c’è un tutto a cui questo appartenga, che un insieme reale e vero è una malattia delle nostre idee. La Natura è parti senza un tutto. Questo è forse quel tale mistero di cui parlano. F. Pessoa, Il guardiano di greggi Babbo Natale e i crocifissi. Ottobre 2001. A Ceva, tranquilla cittadina in provincia di Cuneo, il preside di una scuola decide di fissare uno dei giorni di vacanza facoltativi alla data di inizio del Ramadan. La decisione, presa collegialmente con gli insegnanti, scatena immediatamente reazioni di protesta di chi accusa la scuola di piegarsi alle esigenze dei musulmani. Dicembre 2001. A Drezzo, paese di mille abitanti in provincia di Como, al confine con la Svizzera, il sindaco si presenta nella scuola elementare vestito da Babbo Natale per portare doni ai bambini. Nulla di strano, si potrebbe pensare; ma le maestre chiedono al primo cittadino di allontanarsi, sostenendo che l’iniziativa potrebbe urtare la sensibilità dei cinque piccoli alunni musulmani che frequentano la scuola. Babbo Natale, secondo le insegnanti, sarebbe politicamente scorretto in quanto, nel corso di una riunione tra genitori e insegnanti, si era concordato che la festa dovesse avere un carattere laico, anche grazie a una scelta di brani da far cantare ai piccoli alunni e selezionati tra quelli della tradizione, ma privi di connotazioni «confessionali» 1. All’accaduto seguono le proteste della Lega, alla quale il sindaco appartiene, e l’immancabile minaccia di un’interrogazione parlamentare da parte dei deputati «padani». Questi episodi sono solo un esempio di come sia cresciuta in questi ultimi anni l’attenzione per le culture altre e per la loro diversità. Sia chi considera questa molteplicità culturale come una ricchezza sia chi, invece, la teme e la osteggia, mette in evidenza il fatto che esistono delle differenze e che vanno prese in considerazione. L’accento è sempre posto sulla diversità, quasi mai sugli elementi comuni, che invece sono dati per scontati, taciuti, non considerati o ignorati. La diversità fa eccezione, quindi fa notizia. Tali episodi, forse, non avrebbero varcato i confini della provincia italiana se non fossero accaduti poco dopo l’attentato dell’11 settembre – un evento che ha acuito, e talvolta generato, le tensioni tra gli occidentali e il cosiddetto mondo islamico dando vita, soprattutto a livello mediatico, alle prove di quello scontro fra civiltà profetizzato da Samuel Huntington 2 . Ma Babbo Natale è davvero un simbolo cristiano tale da offendere la presunta religiosità di un bambino islamico? Anzitutto Babbo Natale non rientra nella tradizione cattolica italiana ma, come scrive Maria Laura Rodotà, è una figura diventata popolare e poi irrinunciabile dopo la seconda guerra mondiale; che ha americanamente cambiato la cultura del festeggiamento e dei consumi, come il piano Marshall se ci si pensa. E ora è una figura interreligiosa: nelle vere cattedrali Usa, i centri commerciali, in questi giorni migliaia di Babbi Natale intrattengono bambini cristiani, ebrei, musulmani, buddisti e non potrebbe essere che cosí 3 . Babbo Natale non appartiene pertanto alla nostra «tradizione», se con questo termine intendiamo ciò che percepisce la maggior parte di coloro che fanno appello alle tradizioni per difendere la propria identità. Babbo Natale, o Santa Claus, è arrivato sino a noi dagli Stati Uniti ma, come afferma Claude Lévi-Strauss, i diversi nomi dati al personaggio che ha il compito di distribuire i giocattoli ai bambini […] dimostrano che si tratta di un fenomeno di convergenza e non di un prototipo antico conservato ovunque […]. La forma americana non è che la piú moderna di tali trasformazioni 4 . Insomma, Babbo Natale è globalizzato e globalizzante. È un vecchio vestito di rosso, con la barba bianca, che viaggia su una slitta trainata da renne, animali pressoché sconosciuti ai nostri bambini, e che porta doni. Quanto c’è di religioso in tutto questo? Quando ero piccolo e la cultura made in Usa non era ancora cosí pervasiva, a portare i doni era Gesú Bambino, lui sí legato alla tradizione cattolica. Ma per noi bambini c’erano due piccoli Gesú: uno era quello rappresentato dalla statuina nel presepe, che rimandava la nostra immaginazione a un’idea di religione che forse non eravamo in grado di decifrare, l’altro una figura misteriosa che attendevamo con ansia per vedere i regali che ci avrebbe portato. Sempre nell’ottobre 2001, in una scuola media di La Spezia, la professoressa di lettere fa staccare il crocifisso dalla parete della classe per favorire l’integrazione di un bambino islamico, figlio di una famiglia di nomadi accampati nella zona. Reazioni di alcuni genitori, e anche in questo caso polemiche immediate e altrettanto immediate prese di posizione piú o meno strumentali dei politici locali 5 . Pochi mesi dopo, nel maggio 2002, il deputato leghista Federico Bricolo, insieme ad altri parlamentari del suo partito, presenta una proposta di legge che prevede l’affissione del crocifisso in tutte le aule scolastiche, e piú in generale negli uffici della pubblica amministrazione. Questo perché, sostiene Bricolo, Il Crocifisso è un elemento irrinunciabile del patrimonio storico e culturale del nostro paese. Le recenti polemiche relative alla presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche portate avanti in nome di una pretestuosa libertà di culto, hanno invece profondamente ferito questo nostro valore 6 . Nel settembre dello stesso anno Letizia Brichetto Moratti, ministro dell’Istruzione, riprende la proposta di Bricolo in quanto «sembra doveroso assicurare che il crocifisso venga esposto nelle aule scolastiche a testimonianza della profonda radice cristiana del nostro paese e di tutta l’Europa» 7. Le fa eco Gianni Baget Bozzo affermando che il crocifisso «è il simbolo di tutti, senza distinzioni». Colpisce, in queste dichiarazioni, la volontà di appropriarsi in modo strumentale di un simbolo religioso, piegandone il significato a uso politico. Bricolo sostiene che il Cristo in croce è una sorta di simbolo dell’identità nazionale, ma questa affermazione è assolutamente contraria al significato universale, e quindi implicitamente transnazionale, espresso dal messaggio cristiano. Proprio per il suo universalismo, la religione cristiana è incompatibile con un progetto nazionale 8 . Peraltro Bricolo è un esponente della Lega, e nel proporre l’obbligo di quanto, secondo lui, rappresenta un simbolo nazionale contraddice in pieno le continue e spesso eccessive manifestazioni antinazionali esplicitate dal suo partito: come, per esempio, il braccio di ferro sostenuto con gli alleati di governo per abolire l’espressione «interesse nazionale» nella legge sulla devolution. Anche l’affermazione che il crocifisso esprima la radice cristiana dell’Italia e dell’Europa rappresenta un’altra forzatura: non tutti gli europei, cosí come non tutti gli italiani, professano tale religione. Inoltre la raffigurazione della morte di Cristo non è condivisa dai protestanti i quali, seppur cristiani, non ne contemplano l’esposizione. Il crocifisso non è affatto il simbolo di tutti, senza distinzioni, è il simbolo di una scelta di fede ben precisa. Perché allora volerlo imporre a tutti, magari per legge, e trasformarlo in simbolo esclusivo di una nazione, un fondamento di identità? Questo vale sia per chi vuole tradurre un segno di fede in strumento di chiusura e di rivendicazione identitaria sia per chi, in nome di un marcato relativismo e della laicità della scuola, vede in quel crocifisso l’espressione di una religione che può divenire pericolosa per chi non la professa. Nell’ottobre 2003 ha fatto scalpore la sentenza emessa dal tribunale dell’Aquila che rendeva ragione ad Adel Smith, presidente dell’Unione musulmani italiani, il quale aveva richiesto la rimozione del crocifisso dalla scuola di Ofena, frequentata dai suoi figli. Questa volta le reazioni sono state diverse: pochi hanno difeso quella sentenza, e anche molte associazioni di islamici in Italia ne hanno preso le distanze. Premesso che la Costituzione italiana proclama la laicità dello Stato e pertanto della scuola pubblica, chiedere la rimozione del crocifisso facendo appello a tale imparziale laicità è profondamente diverso dall’avanzare la stessa richiesta in nome di un altro credo antagonista. Lo stesso Smith, noto per le sue posizioni estremiste e la vocazione alla provocazione, in precedenza aveva chiesto – e per un certo periodo ottenuto – di far affiggere nell’aula della scuola la sura del Corano, che sostiene l’unicità di Allah. A differenza dei politeismi, piú aperti e tolleranti, i monoteismi, come afferma Francesco Remotti, distinguono nettamente «noi» dagli «altri», anziché collocare noi tra gli altri 9, risultando in tal modo esclusivi ed escludenti: ma davvero dietro la polemica del crocifisso possiamo leggere un’incompatibilità religiosa, se non uno scontro tra culture? Tutti noi ricordiamo le aule di scuola con il crocifisso appeso al muro, alle spalle della maestra, spesso affiancato dalla fotografia del presidente della Repubblica. Oggi, da adulti, possiamo dire che percepiamo quelle due immagini come i simboli della religione e dello Stato; ma allora, da bambini e da ragazzini, che cosa rappresentavano per noi? Anche il piú laico degli italiani non può dirsi estraneo all’educazione cattolica, ma l’acquisizione di uno spirito cattolico non passava certo attraverso la semplice affissione di crocifissi sui muri delle aule scolastiche: se mai era dovuto alla continua azione evangelizzatrice portata avanti dalla Chiesa a partire dalle lezioni di catechismo e dalle frequentazioni degli oratori. Scrive Umberto Eco: almeno due generazioni di italiani hanno passato l’infanzia in aule in cui c’era il crocifisso in mezzo al ritratto del re e quello del duce, e sui trenta alunni di ciascuna classe parte sono diventati atei, altri hanno fatto la Resistenza, altri ancora, credo la maggioranza, hanno votato per la Repubblica. Sono tutti aneddoti, se volete, ma di portata storica, e ci dicono che l’esibizione di simboli sacri nelle scuole non determina l’evoluzione spirituale degli alunni 10 . Quel crocifisso come quel re o quel presidente sono simboli – importanti, ma simboli. Da un lato, quindi, appare vano il tentativo di rafforzare il senso di appartenenza a una religione imponendo agli scolari i suoi simboli cosí come quello di laicizzare la scuola abolendoli, dall’altro sembra eccessiva l’importanza attribuita a quegli stessi simboli. Perché se è vero che non c’è potere che non determini un suo ordine simbolico è altrettanto vero che non basta infrangerne l’ordine simbolico per spezzare quel potere 11. In un’epoca mediatica come quella che stiamo vivendo, sicuramente colpiscono piú certi appelli lanciati dal papa o le azioni promosse da religiosi come Alex Zanotelli o Luigi Ciotti che l’esposizione del crocifisso. Senza dubbio in buona fede, le insegnanti di quella scuola hanno voluto salvare il bambino islamico dalla contaminazione cristiana, cosí come in buona fede il sindaco di Drezzo voleva solo allietare i bambini. Di fatto, ponendo un eccessivo accento sulle diversità culturali, si rischia di costruire barriere, proiettando sugli «altri» differenze che, forse, potrebbero essere superate, attenuate o ignorate. Porre in primo piano la diversità significa accentuare una presunta impermeabilità delle culture di cui gli individui sono portatori. Vale la pena di ricordare le parole dello storico e scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ, una delle figure piú belle della storia africana contemporanea. Un personaggio dotato di grande carica umana e spirituale e di un raro senso di tolleranza. Ecco il suo commento dopo aver pregato sul Monte Sion, nel 1961, per la pace nel mondo – lui, musulmano, con un prete cattolico e un rabbino ebreo Non c’è che una sola cima in punta a una montagna, ma i sentieri per raggiungerla possono essere diversi. Considero il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islam come tre fratelli di una famiglia poligama, dove c’è un solo padre, ma dove ogni madre ha cresciuto suo figlio secondo i propri costumi. Ogni moglie parla del marito e del figlio secondo la propria concezione 12 . Paradossalmente, e in piena buona fede, per tutelare la laicità si è giunti quasi a professare, specularmente a chi vuole imporre i crocifissi, una sorta di fondamentalismo laico, simile a quello che Verena Stolcke, in un articolo su confini e retoriche d’esclusione nell’Europa contemporanea, ha brillantemente definito «fondamentalismo culturale». Secondo questo approccio gli esseri umani sono per natura portatori di cultura, le culture sono distinte e incommensurabili, i rapporti fra portatori di culture differenti sono intrinsecamente conflittuali 13 . Il sociologo Zygmunt Bauman – citando le parole di Julius Evola, guida spirituale del neofascismo italiano, che afferma: «Il razzista riconosce la differenza e vuole la differenza» – fa notare come questa frase non perderebbe nulla della sua forza persuasiva se il termine «razzista» fosse sostituito da «progressista» o «liberale» oppure «socialista». E conclude: oggi non siamo forse tutti sostenitori della differenza? Multiculturalisti? Pluralisti 14? L’identità europea. Il dibattito sull’immigrazione, fattosi piú aspro con la vittoria elettorale del centrodestra e la promulgazione delle legge Bossi-Fini, e indubbiamente condizionato dai fatti dell’11 settembre, ha visto spostarsi via via l’accento dal piano sociale e politico a quello religioso e culturale. Nel descrivere e paventare una cospirazione islamica contro la cristiana Europa, i media filogovernativi sembrano utilizzare la stessa formula e la stessa ossessione messe in atto per avviare la pulizia etnica in Bosnia. Queste costruzioni ideologiche finiscono poi per diventare opinioni diffuse e condivise, poiché i mezzi di comunicazione tendono spesso a descrivere come culturali, etnici o tribali conflitti che sono, invece, esclusivamente politici. Pensiamo alla guerra del Kosovo, dove si sono scontrate due tradizioni politiche diverse, con un’inversione di ruolo da parte dei rispettivi detentori di tali tradizioni. Dall’epoca del consolidamento degli stati-nazione l’Occidente privilegia lo Stato all’etnia, la cittadinanza all’etnicità. Il punto di riferimento per le politiche dei governi occidentali è quindi un territorio, delimitato da confini precisi, frutto di negoziazione o di conflitti con gli stati limitrofi, all’interno del quale i cittadini sono sottoposti a uguale regime giuridico. Esistono certamente eccezioni – rappresentate da minoranze «etniche» caratterizzate da una storia particolare, alle quali vengono talvolta riconosciuti statuti speciali – ma si tratta appunto di eccezioni, e i diritti di queste enclave sono limitati normalmente a questioni fiscali e linguistiche. Dall’altra parte della barricata il presidente di una nazione, Slobodan Milošević, aveva avviato da anni una politica «etnica», finalizzata all’espulsione (e al massacro) degli abitanti del Kosovo di origine albanese. Il paradosso risiede nel fatto che Milošević – lasciando ad altre sedi ogni giudizio sui metodi, indubbiamente criminali, adottati – esercitava un’azione contro un’etnia, difendendo in tal modo il concetto di sovranità territoriale dello Stato, caratteristico del mondo occidentale. L’Occidente (rappresentato in gran parte dalla Nato) si trovava invece a condurre, con il pretesto universalistico di difendere i diritti umani, una campagna militare in difesa di un’etnia e a preparare il terreno per la creazione di uno stato etnico albanese. Il paradosso sembra non avere tregua: proprio chi sostiene che gli immigrati, in particolare quelli di fede islamica, sono portatori di valori diversi da quelli europei, non dice quali sarebbero i valori europei. Possiamo affermare che esiste una cultura europea? Cosí come possiamo affermare che ne esiste una islamica condivisa da tutti i fedeli di Allah? La questione sembra ricalcare quella relativa alla razza: se ci limitiamo a uno sguardo superficiale, possiamo facilmente giungere alla conclusione che l’umanità è divisa in gruppi somaticamente affini. Se proviamo ad acuire lo sguardo ci accorgiamo che, anche all’interno di ogni gruppo, esistono variazioni somatiche notevoli e quegli elementi che ci apparivano comuni lo erano solo se visti da lontano. Guardiamoci intorno: tra noi bianchi, italiani o padani, ci sono biondi, bruni, ricci, alti, bassi, con occhi azzurri o neri, pelle chiara, bruna e via dicendo. Se poi il nostro occhio si trasformasse in quello di uno scienziato che penetra i meandri della genetica, allora avremmo un’ulteriore conferma di come le differenze genetiche tra popolazioni diverse, anche vicine, sono insignificanti rispetto alle distanze genetiche che comunque si riscontrano tra gli individui di una stessa popolazione. Tali da consentire ai genetisti di affermare oggi con sicurezza che una razza è costituita da un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri 15 . Sebbene i genetisti del periodo nazista si siano impegnati nella ricerca della razza pura, oggi, per fortuna, sappiamo che è stato uno sforzo vano. Altrettanto vano sarebbe cercare di individuare una purezza originale nelle culture, che sono somma e sottrazione di tutti gli elementi che le hanno attraversate nel tempo. Se questo accade è solo perché ci fermiamo allo sguardo superficiale che ci porta ad affermare che alcuni di noi sono simili, e pertanto sono esponenti di una cultura specifica e diversa da quella degli altri. Quali «noi» e quali «altri» dipende da scelte piú o meno arbitrarie, perché, come scrive Francesco Remotti, «l’identità è un fatto di decisioni» 16 . Un elemento comune agli stati che aderiscono all’Unione Europea è la partecipazione al cosiddetto stato di diritto, che potrebbe rappresentare una sorta di minimo comune denominatore per definire un’aria di famiglia tra gli stati dell’Unione Europea. Ma sono proprio i leader nazionalpopulisti – coloro che profetizzano l’invasione islamica – i primi a tentare di indebolire se non a negare questo stato. L’Unione si fonda sui valori del rispetto, della dignità umana, di libertà e democrazia, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti dell’uomo. Essa mira a essere una società pacifica che pratica la tolleranza, la giustizia, la solidarietà. Questo era il passo della prima bozza della Costituzione europea, redatta dall’ex presidente francese Valery Giscard D’Estaing, contestato dal Vaticano e dai principali giornali cattolici che hanno denunciato l’assenza di riferimenti ai valori cristiani (successivamente richiamati nella versione definitiva). Alle proteste della Santa Sede hanno subito fatto eco le dichiarazioni di alcuni politici italiani. Umberto Bossi e Gianfranco Fini hanno affermato che «ci vuole un richiamo alla cristianità che è la nostra storia». Che esista una determinante componente cristiana nella formazione culturale dell’Europa è fuor di dubbio. È però altrettanto vero che in nome di quella stessa cristianità gli europei si sono trovati piú volte, nel corso della loro storia, su un campo di battaglia a suonarsele di santa ragione. Oppure a essere esecutori e vittime di persecuzioni religiose. Cristiani erano gli Ugonotti, cosí come i loro massacratori; cristiani sono gli irlandesi del nord che da oltre quattro secoli lottano contro altri cristiani per ottenere un’indipendenza mai concessa; cristiana era la Spagna delle garrote franchiste. Come sostiene Guido Rampoldi: Se il cristianesimo è lo Spirito che si fa storia, allora dovremmo attribuire “radici cristiane” tanto all’Europa del 2002 quanto all’Europa del 1939, dunque anche a regimi che erano all’opposto dello stato di diritto, come la cristianissima Spagna di Franco o l’Italia di Mussolini. In altre parole quella “cristianità” che avrebbe formato l’Europa è, come “confucianesimo” o “islam”, una categoria storica che contiene tutto e il contrario di tutto e cioè non è una categoria utilizzabile per definire le identità europee 17 . Inoltre, menzionare nella carta costituzionale solo il cristianesimo equivarrebbe a presentarlo come religione ufficiale dell’Unione Europea, senza ricalcare l’esperienza storica dell’Europa che si rifà anche a filoni di pensiero ed esperienze che non si possono ricondurre a questa religione. «Concetti chiave quali l’uguaglianza, la fraternità si sono affermati con la Rivoluzione francese, non grazie alle Chiese, dunque, bensí fuori e contro di loro», scrive Claudio Rinaldi, e prosegue affermando che un conto è rifarsi ai valori cristiani, un altro alle radici, e non sempre i primi traggono alimento dalle seconde 18 . Ha fatto molto discutere la domanda di ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Il dibattito che ne è seguito nel dicembre 2002 e le remore manifestate da vari esponenti politici del nostro continente sono stati presentati dalla maggior parte dei media come una questione di carattere religioso. Che cosa accadrebbe se nel club euro-cristiano entrasse uno stato islamico? Questo sembrava essere il problema. Molto minore è stata l’enfasi posta sul fatto che la Turchia, con i suoi 67 milioni di abitanti, risulterebbe il paese piú popoloso dell’Unione e pertanto avrebbe diritto a un elevato numero di deputati nel Parlamento europeo. Tenendo conto che dal punto di vista politico Ankara è molto vicina agli Stati Uniti, i dubbi di Chirac, Schroeder e altri nascono forse dal timore di un’ingerenza americana indiretta piú che di una contaminazione religiosa. Io è davvero l’altro. Spostando il dibattito da un piano politico a un piano culturale, da un lato si rimuovono le cause sociali che stanno alla base di tensioni e conflitti, sottraendo in questo modo al giudizio della gente la possibilità di riconoscere quegli elementi che invece potrebbero essere condivisi con gli stranieri (non tutti hanno rimosso il nostro passato di emigranti). Dall’altro, basandosi su concetti quali cultura o identità come fossero elementi immutabili, ascritti e inamovibili, si riformula il problema ponendolo come una questione di fede e come tale non suscettibile di mediazioni. Quella dello scontro culturale è una maschera che nasconde le radici della questione presentandoci invece, con l’esasperazione talvolta caricaturale delle maschere, i tratti piú estremi di quanto vuole rappresentare. Nasconde l’universalità di molti elementi culturali, patrimonio di popoli e fedi diverse, per dare voce solo alle possibili risposte, che sono umane e pertanto non «naturali», non assolute. Se è vero quanto afferma Clifford Geertz, che «i problemi, essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse» 19, è anche vero che ogni individuo non dispone di una sola opzione culturale da esercitare. Come sostiene Eric Wolf: È un errore considerare l’emigrante come il portatore o il protagonista di una cultura omogeneamente integrata che egli può mantenere o rifiutare nel suo complesso […]. Non è piú difficile per uno zulú o per un hawaiano imparare o disimparare una cultura di quanto non lo sia per un abitante della Pomerania o della Cina 20 . Il mito del multiculturalismo finisce allora per essere una riproposizione, in chiave non conflittuale, della diversità culturale, e finisce per porre ancora una volta l’accento sulla differenza piuttosto che sul fatto che ogni cultura è già di per sé multiculturale. Come afferma Davide Zoletto, il multiculturalismo è un assunto che si basa quantomeno su un doppio errore: che un individuo sia per cosí dire completamente o ampiamente sovradeterminato da una cultura, e che le nostre società fossero (o che le società in generale possano mai essere) monoculturali prima dell’arrivo dei migranti 21 . Tzvetan Todorov, nella sua critica a Lévi-Strauss, mette in luce la contraddizione esposta dall’etnologo francese, che non sembra troppo ottimista circa un dialogo tra culture diverse 22. È vero che la comunicazione è fonte di progresso, ma lo scambio è causa di distruzione: se non comunicate, non potete guadagnare; se comunicate, andate verso la vostra rovina. Questo sembra sostenere Lévi-Strauss, che nel suo saggio Razza e cultura invita a scegliere il minore dei due mali e si pone in tal modo contro lo scambio e la comunicazione interculturale 23. «È vero che la comunicazione comporta l’omogeneità e che l’omogeneità comporta la morte?», si chiede Todorov perplesso 24. Accettare tale posizione significherebbe ammettere che le differenze nascono solo da una reciproca ignoranza, mentre la storia ci dimostra il contrario. Vale la pena di rileggere la celebre parodia che Ralph Linton era solito proporre ai suoi studenti nella prima lezione di antropologia culturale: Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del diciassettesimo secolo. […] Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. […] Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano 25 . Veneti e veneziani. Da qualche anno la Regione Veneto ha istituito un assessorato alle Politiche per la cultura e l’identità veneta 26, mentre il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si è pronunciato piú volte sull’idea di realizzare un museo dell’identità italiana. Due tendenze solo apparentemente contrapposte: il locale contro il nazionale, ma in realtà fondate sullo stesso presupposto – una concezione «istituzionale» dell’identità. Come se quest’ultima fosse un elemento strutturale, in grado di essere gestito e organizzato dall’alto come scuola, industria, sanità, e non un valore che dovrebbe nascere dal basso ed essere continuamente rinegoziato. Perché non istituire un assessorato alla generosità? O un museo alla bontà d’animo, all’amicizia? Anche questi sono valori condivisi e condivisibili, ma non certamente passibili delle politiche di un assessore o di un presidente della Repubblica. Le identità, infatti, scrive Zygmunt Bauman, sono un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica: ci si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora 27 . Nel sito della Regione Veneto si legge: LA CULTURA DEI VENETI. Tra gli aspetti che caratterizzano la nostra cultura vi è senz’altro l’eccezionale capacità di relazionarsi con il resto del mondo in maniera chiara e determinante. Molte volte si ritrova, nella storia antica e moderna dei veneti, la volontà di proporsi al resto del mondo in modo interlocutorio alla ricerca di un bene comune. Il pensiero corre alla Serenissima che, egemone nei commerci, sapeva esportare la propria cultura ma anche far proprio quanto il mondo poteva offrire 28 . Queste poche righe di presentazione rivelano l’idea di una cultura che accomunerebbe tutti i veneti. In una raffinata analisi della genealogia di questa identità veneta, Alessandro Casellato rileva che nell’agosto del 2001 l’assessorato pubblica un manuale per le scuole intitolato Noi Veneti. Viaggi nella storia e nella cultura veneta, dove si esprime un concetto di identità veneta «declinabile alla prima persona plurale e a lettere maiuscole (“Noi Veneti”), come segno di appartenenza ad una storia, una lingua, una cultura, un territorio e ad alcune caratteristiche morali comuni» 29 . Conosciamo tutti l’immagine, alla base di tanti luoghi comuni, del veneto lavoratore sintetizzato nell’espressione popolare faso tuto mi; ma sia Cortina d’Ampezzo sia Chioggia sono in Veneto e ci sarebbe da chiedersi quanto le loro rispettive «culture» abbiano in comune: dolomitici a un passo dal Tirolo gli uni, adriatici affacciati sull’Oriente gli altri. Se l’idea di fondo, comune a molti discorsi della Lega, è quella di rivendicare identità locali in opposizione all’identità nazionale, bollata come egemone e oppressiva nei confronti dei «popoli del Nord», occorre anche specificare a quale livello di locale si fa riferimento. Perché opporre ai confini nazionali quelli di un’altra entità amministrativa come la regione, frutto anch’essa di eventi storici e politici e non certo fondata sulla base di comunità culturalmente omogenee? Visto che spesso è proprio la Lega a vedere nell’Unione Europea, composta da stati, una minaccia all’Europa dei popoli, perché radunare i popoli in un’unità identitaria che di diverso dalla nazione avrebbe solamente le dimensioni? Lo sbandierato richiamo all’autodeterminazione dei popoli finisce per riprodurre, nei progetti della Lega, gli stessi processi politici e le stesse istituzioni che danno vita a quegli stati che, secondo i seguaci di Bossi, negano ai popoli identità e libertà di scelta. Il problema del livello a cui fissare l’identità non è affatto scontato. In Friuli, regione autonoma, è passata una legge secondo la quale nelle scuole si sarebbe dovuta tenere parte delle lezioni in dialetto. Si è subito posta una questione: quale dialetto? Non esiste un dialetto friulano «ufficiale», come non esistono un piemontese, un romagnolo, un calabrese ufficiali. Nel sito della Regione Veneto citato si fa riferimento alla Serenissima quale simbolo esemplare della cultura veneta, ma nel testo si sottolinea come la città sapesse «far proprio quanto il mondo poteva offrire». Venezia, come molti centri urbani dell’antichità – le cui strade erano percorse da mercanti e viaggiatori d’ogni credo, lingua e colore della pelle – ospitava numerose comunità di stranieri. Peraltro, tornando ai tempi nostri, nel parlare comune della gente delle altre province i veneziani costituiscono un’eccezione. Gli eredi della Serenissima sono visti come gran ciacolon, chiacchieroni, poco inclini alla fatica, un po’ fanfaroni: insomma tutto il contrario dell’opinione diffusa sul veneto gran lavoratore. Inoltre, nel voler esaltare il locale in contrapposizione al nazionale si finisce per perdere di vista che quella del Veneto attuale, o perlomeno di alcune sue province, è una realtà tutt’altro che chinata a scrutare l’ombelico del proprio territorio. Da Treviso partono settimanalmente voli per Kiev e Timisoara, località dove numerosi imprenditori veneti aprono con grande frequenza imprese di produzione esportando un modello di globalizzazione che, paradossalmente, parte proprio da quel locale che qualcuno vorrebbe difendere dalla globalizzazione, definendolo spesso con toni romantici e nostalgici da mondo perduto. In realtà, oggi, fa notare Ulf Hannerz, «il locale piú che primordiale è proteiforme» 30 ed è fuorviante pensarlo come limitato a una percezione territoriale. I flussi attuali permeano i molti locali del mondo di elementi globali innescando un processo dialettico continuo. L’identità nel museo. Per quanto riguarda l’idea del museo dedicato all’identità italiana, da realizzarsi al Vittoriano, la questione si fa ancora piú complessa. Da un lato emerge il forte e piú volte dichiarato desiderio del presidente Ciampi di dare maggiore visibilità agli elementi che mettono in luce l’idea di nazione, come, per esempio, il rilancio dell’inno nazionale nelle manifestazioni ufficiali e sportive 31 . Eric Hobsbawm e Thomas Ranger ci hanno brillantemente mostrato come le tradizioni non sempre affondano le loro radici in tempi remoti, ma per radicarsi e diventare – appunto – «tradizioni» devono dare risposta a qualche bisogno sentito dalla comunità che le farà proprie. Non a caso Hobsbawm sostiene che certi fenomeni sportivi, come il Giro ciclistico d’Italia o il Tour de France, nati spontaneamente o su spinte commerciali ma non politiche, abbiano esplicitato, all’inizio del XX secolo, in modo esemplare i legami che tenevano insieme gli abitanti dello Stato 32 . Aldo Schiavone ha sintetizzato molto bene alcune tra le cause del nostro debole senso di identità nazionale. Cause che vanno ricercate nella storia del nostro paese: vero e proprio inno al campanilismo a partire dal Medioevo, e poi caleidoscopio di stati e staterelli autonomi sino alla fine del XIX secolo. Il Novecento è stato il primo e unico secolo che l’Italia ha vissuto per intero in forma congiunta dopo una divisione di 1400 anni. A una unificazione realizzata dall’alto, che sarebbe meglio definire un’occupazione sabauda, è seguita la tragica esperienza del ventennio fascista, che tuttavia mitizzava la «razza» italiana rifacendosi ai fasti dell’Impero romano (peraltro fortemente composito). Dopo il 1945 l’Italia è stata segnata da due tendenze di pensiero e di politica, cattolicesimo e comunismo, che si rifanno a ideali universalisti e cosmopoliti e non etnici o patriottici. Il cattolicesimo abbraccia tutti i fedeli al di là della loro provenienza, mentre il comunista italiano si sente piú vicino alle lotte del proletariato mondiale che al dirimpettaio democristiano. Stati Uniti, Unione Sovietica e Vaticano hanno giocato nel nostro giovane paese una pesante partita che non ha certo favorito la nascita di uno spirito nazionale 33 . Dopo la strage di Nassiriya, il presidente della Repubblica e altre alte cariche dello Stato avevano invitato a esporre il tricolore per ricordare la memoria di quei diciannove militari caduti nell’attentato del 12 novembre 2003. È curioso rilevare come un italiano su quattro, cioè il 25 per cento, abbia esposto il vessillo nazionale, ma uno su tre, e quindi il 33 per cento, abbia riappeso al balcone la bandiera arcobaleno della pace 34. Molti gli italiani che avevano in casa le bandiere multicolori fin dall’inizio dell’anno, in seguito all’attacco dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, con le quali avevano tappezzato i palazzi delle nostre città; meno numerosi coloro che possiedono una bandiera tricolore. Non è un dato statistico, ma il segnale di una tendenza quanto mai viva. Le due scelte non sono in contrapposizione, ma colpisce che tra le due opzioni abbia prevalso quella dell’adesione a un valore universale come la pace su quella legata a uno spirito di appartenenza nazionale. Ciò che maggiormente preoccupa è l’idea di affidare a un museo il compito di rappresentare un’identità. Il dibattito apertosi negli ultimi anni intorno all’idea di museo ha condotto a una concezione sempre piú dinamica rispetto alla visione che avevamo in passato di questa istituzione. Il rischio però è dietro l’angolo. Per quanto dinamico possa essere un museo (e i dubbi che questo museo lo sia sono molti, vista la sua profonda valenza politica) finisce per fissare dei concetti nello spazio e nel tempo. «Diciamo spesso museo per dire cosa morta», afferma Alberto Mario Cirese. I musei hanno soprattutto il compito di sottrarre gli oggetti alla distruzione del tempo, ma proprio per questo – continua Cirese – «l’equivalenza museo-morte ha un senso […]. Giacché sempre e in ogni caso i musei sono diversi dalla vita» 35 . Sembra fargli eco Giovanni De Luna quando scrive: «Spesso l’idea di un museo nasconde una perdita, esorcizza un’assenza», mettendo in luce come i musei contadini nascono quando scompare il mondo contadino, e che se oggi si parla sempre piú spesso di musei della Resistenza è, forse, perché la Resistenza sta perdendo quella spinta ideologica che ne faceva uno dei valori fondanti della nostra democrazia 36. Stesso concetto espresso da Adorno, il quale sottolinea come l’espressione «da museo» indica «oggetti con i quali l’osservatore non ha piú un rapporto vivo e diretto, e che già per conto loro vanno morendo» 37. Al contrario, l’identità, o meglio le identità, possono entrare nella vita degli individui solo come un compito non ancora realizzato, non compiuto, come un appello, come un dovere e un incitamento ad agire 38 . Proporre un museo dell’unità nazionale equivarrebbe quasi ad ammettere che questa unità sta scomparendo e che va conservata come ricordo di un’epoca passata. Un’ipotesi che andrebbe nella direzione opposta a quanto auspicato dal presidente della Repubblica. Inoltre un museo finisce per fornire, inevitabilmente, un punto di vista se non unico non certo molteplice. Quale identità italiana verrebbe allora rappresentata? La notizia dell’ipotesi di realizzazione del museo ha suscitato su «La Stampa» un interessante dibattito. Ha aperto la discussione Maurizio Viroli, sostenendo che tema principale del museo dovrebbe essere il Risorgimento che, a suo parere, costituí un processo di unificazione nazionale senza nazionalismo, per «rendere visibile il processo storico che ha portato alla realizzazione dell’unità della Patria e la sua emancipazione dal dominio straniero» 39. Per mettersi al riparo dalle critiche di una visione troppo parziale della storia, Viroli afferma di non intendere una rappresentazione del Risorgimento come un processo che affonda le radici in una civiltà italiana antica, ma di voler attribuire al museo un ruolo pedagogico che metta in evidenza le diverse posizioni dei maggiori protagonisti di quel periodo storico, da Garibaldi a Cavour, da Mazzini a Pio IX. Questa proposta rivelerebbe il ritorno della storia politica, sostiene Giuseppe Berta, che cita le parole di Croce sulla storia sempre intesa come storia contemporanea. Appaiono tramontati i tempi in cui era di moda guardare al periodo unitario piuttosto attraverso la lente dei problemi sociali che affliggevano la gran massa degli italiani, toccati dalla precarietà delle loro condizioni di vita piú che da preoccupazioni patriottiche che erano soprattutto appannaggio di intellettuali. Si finirebbe cosí per riproporre le biografie degli uomini illustri del Risorgimento, trascurando invece il processo di unificazione materiale del paese avvenuto attraverso dimensioni fondamentali come quelle del lavoro, delle migrazioni interne, della mobilità sociale 40 . L’idea di fare del Vittoriano la sede del museo «fa emergere, quasi spietatamente, gli apparati ideologici che ogni storia mette necessariamente in campo», sostiene Carlo Olmo, sottolineando come anche la denominazione del museo non sarebbe priva di implicazioni politiche 41. Ha forse ragione Hannerz quando scrive: C’è da preoccuparsi quando lo stato, pur con intenzioni benevole, propone la cultura come categoria amministrativa, trasformando esperienze e interazioni in parole e regole 42 . Di celti, padani e altre invenzioni. Nel corso di questi ultimi anni la Lega Nord ha avviato una forte azione di costruzione dell’identità. «Padania», «popolo lombardo», «autodeterminazione dei popoli», «miracolo del Nord-Est»: la nuova geografia delle ambizioni produce ogni giorno patrie nuove, fondate su principî, che mutano di volta in volta spinte da interessi e aspirazioni diverse 43. Interessi e aspirazioni spesso camuffati da ideali nazionalisti veri e propri: «La Padania è una nazione con una propria identità», ebbe a dire Roberto Maroni qualche tempo fa in una trasmissione televisiva. I primi appelli della Lega erano rivolti ai «popoli dell’Italia», accompagnati da motivazioni come «ridare dignità alle culture», «rispetto ed elogio della diversità»; in seguito si sono via via trasformati nell’idea di una sedicente Padania, i cui confini conferiscono al Po un incredibile potere di condizionamento culturale, tale da raggiungere talvolta le Marche, e con l’ammissione sempre piú esplicita di una volontà di autodeterminazione economica. A tale proposito occorre chiedersi se e fino a che punto molti italiani del Nord vi si identificano in quanto appartenenti a un’«etnia padana», o se invece è stata l’immagine di un Sud che – secondo loro – li penalizza sul piano economico a farli votare in una certa direzione. Ciò che colpisce nell’operazione Padania non è tanto il desiderio di gestire la propria ricchezza – sentimento casomai legittimo quanto tutti gli altri che stanno alla base di ogni patto sociale – ma la manipolazione e la strumentalizzazione del fattore cultura, e di conseguenza l’adozione di una prospettiva fortemente culturalista, finalizzata a legittimare la realtà sociale nascente. Pensiamo al richiamo continuo alla presunta discendenza dai celti, funzionale a legittimare e a nobilitare un’unità storico-culturale evidentemente negata dai fatti recenti. Ma perché noi veneti ci sentiamo distinti da altri popoli, o se vogliamo, altri popoli d’Italia si sentono diversi dai veneti? [scrive Feliciano Benvenuti]. Ci deve essere una qualche ragione profonda. Trovo questa ragione nell’antico ceppo, la trovo nel fatto che non siamo Galli, non siamo Longobardi, siamo né Gallo-boi, Galli bolognesi, né Galli Liguri, ma siamo questi Celti che hanno conservato qualche cosa della primitiva natura 44 . In un numero dei «Quaderni Padani», si arriva a sostenere che i celti erano federalisti: Semplicemente i celti non ritenevano necessaria la presenza di un centro di potere che potesse disporre della vita e della morte dei cittadini […]. In pratica l’antica società celtica era strutturata secondo un modello autenticamente federale 45 . A questi tentativi (anche maldestri) di trovare in un passato lontano la legittimazione del presente, si potrebbe opporre la lucida ironia di Umberto Eco a proposito di chi, per contestare le affermazioni sulla superiorità occidentale, si rifà al luminoso passato del mondo islamico: Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare cosí si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per piú di centocinquant’anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l’intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci 46 . Riguardo ai celti, piú che di fronte a una manipolazione ci troviamo a fare i conti con una vera e propria invenzione. I celti, cosí come li concepiamo oggi [sostiene lo storico delle religioni Paolo Taviani in un’intervista] sono un’invenzione della storiografia europea settecentesca. Le popolazioni antiche che chiamiamo con questo nome non erano affatto consapevoli di essere celti: non ebbero mai un’organizzazione politica che li riunisse – un regno, un impero, uno Stato – non ebbero mai un culto comune né mai combatterono un nemico comune. E soprattutto mai si sentirono un popolo 47 . Termini di ampia portata come celti, germani, sciti, fa notare lo storico medievista Walter Pohl, non furono il risultato di metodi analitici, ma categorie a priori, riempite con dati empirici dove sembrava possibile 48 . Il servirsi dei celti da parte della Lega si basa tuttavia su qualcosa di fondato. Infatti questo popolo venne «inventato» nel XVIII secolo da intellettuali scozzesi, irlandesi, gallesi e bretoni proprio per tentare di costruire le rispettive identità nazionali in contrapposizione con quelle dominanti di Inghilterra e Francia. Di realmente storico, quindi, non sono i celti, ma è il loro utilizzo (fatte le debite proporzioni) in chiave indipendentista. Del resto, a rendere autorevole e venerabile una tradizione è la convinzione che essa affondi le sue radici in un passato lontano e che proceda dall’antico verso il moderno. Non si pensa [sostiene invece Maurizio Bettini] che molto spesso la tradizione procede al contrario, proiettando nel passato immagini o bisogni che appartengono in realtà al presente 49 . Si tratta di quel processo che Gerard Lenclud chiama filiazione inversa, secondo la quale non sono i padri a generare i figli, ma i figli che generano i propri padri. Non è il passato a produrre il presente, ma il presente che modella il suo passato. La tradizione è un processo di riconoscimento di paternità 50 . Per rafforzare l’ideale celtico si è poi fatto ricorso a un forte aspetto rituale. Mi riferisco alla raccolta dell’acqua alle sorgenti del Po, con la famosa ampolla di Bossi che avrebbe percorso l’intero cammino del fiume per simboleggiare l’unità dei padani (fra l’altro, tale rituale pare essere stato ideato ed elaborato da un antropologo nepalese che opera come consulente di enti e aziende italiane e anche della Lega Nord). Per quanto banalizzati e irrisi da molti, tali gesti, cosí come numerosi discorsi dei leader leghisti, finiscono per produrre un’influenza su quelle persone che in fondo attendono proprio quel tipo di messaggio. Nonostante molti esponenti leghisti lo ripetano ossessivamente e i media ne amplifichino l’effetto – mentendo anche sull’entità numerica dei dati – non è poi cosí vero che l’Italia sia stata invasa dagli stranieri, e che questa sia la causa della crescita della violenza e della crisi di lavoro. Sono affermazioni generiche e incontrollabili, in sostanza non vere [scrive Alessandro Dal Lago]. Ma sarebbe sbagliato pensare che siano vanificate una volta contestata la loro insensatezza. Sono socialmente “vere” in quanto vanno di pari passo con l’elaborazione di identità reattiva da parte di chi le usa 51 . Come afferma Marco D’Eramo: Di alcuni atti linguistici non va valutata la verità o la falsità, ma per esempio, l’efficacia. Cosí le scommesse, le dichiarazioni d’amore, le dichiarazioni di guerra, le promesse. In questo senso, per esempio, l’esistenza della Padania assomiglia piú a una scommessa che a un’asserzione descrittiva. E se la scommessa è vinta, la Padania esiste 52 . Cosa tanto piú vera in un’epoca mediatica come la nostra, in cui spesso esiste solo ciò che appare in televisione. Si cercano radici, si ritagliano confini, si creano nuovi miti dell’origine magari affermando, a proposito di una terra tra le piú industrializzate e globalizzate d’Europa che i Padani da millenni vivono secondo le antiche consuetudini, tramandate tacitamente di padre in figlio, conservate gelosamente dalle comunità e dai nuclei umani […] che ci permettono di dire che la Padania è oggi il vero baluardo celtico e libertario nell’Europa dei cittadini europei e non dei vecchi stati nazionali 53 . Si può anche giungere a ipotizzare un popolo senza che nella lingua, nella cultura o addirittura nella discendenza, nel “sangue” degli uomini, sia cambiato qualcosa. Soltanto una cosa è cambiata: la storia, o piú precisamente l’immagine che gli uomini si costruiscono della loro storia 54 . Tracciar confini. Affermare che molte forme di identità collettive sono prive di fondamenti storici reali, frutto di tradizioni inventate, e che pertanto non costituiscono dati essenziali inscritti nel carattere degli individui, può avere un valore all’interno dei dibattiti accademici, ma non ne attenua gli effetti pratici. I richiami alle origini e alla purezza sono in realtà proiezioni all’indietro di aspirazioni quanto mai attuali (richieste di autonomia, interessi locali, ambizioni di certi leader, ecc.). Per dirla con Jean Pouillon sono delle «retro-proiezioni camuffate», e lo stesso autore sostiene inoltre: Le società che si dicono moderne non sono società che si disfano del loro passato, esse lo manipolano in funzione dei loro bisogni presenti 55 . Quanta interazione e ibridità, quanta mescolanza e unione possono essere contenute da un determinato insieme di convenzioni e filiazioni senza che si perda la capacità di affermare l’integrità di una tradizione distinta? – si chiede James Clifford. Apparentemente una quantità considerevole, poiché i limiti pratici imposti all’«invenzione» sono di carattere politico (che cosa serve per convincere se stessi e gli altri?) o morale (è questa la vera tradizione?) 56 . Ciò che spesso viene chiamato tradizione è in realtà «tradizionalismo», cioè la rappresentazione cosciente di un’eredità culturale piú o meno autentica. Questo tradizionalismo però, a dispetto delle sue aspirazioni, si rivela non tanto come la teoria di un modo di vita in perfetta armonia con quello dei nostri padri, ma come uno strumento utile a influenzare le decisioni politiche concernenti l’avvenire 57 . Sebbene una certa antropologia postmoderna tenda a privilegiare l’aspetto della rappresentazione come chiave di analisi dei diversi eventi sociali, rischiando di relegare le identità nel cielo delle costruzioni mentali, se si passa sul versante operativo ci si accorge come il prodotto di tali identità sia quanto mai efficace. Anche Bauman avverte questo pericolo quando afferma che le identità fluttuano nell’aria, alcune per propria scelta, altre gonfiate e lanciate da chi sta intorno, e che occorre rimanere costantemente in allerta per difendere le prime contro le seconde 58 . A volte si adottano categorie fornite dalle scienze – sociali e biologiche – per legittimare azioni politiche. Israele prepara la bomba batteriologica. Il Sunday Times: è in grado di uccidere solo gli arabi: questo preoccupante titolo, comparso su «La Stampa» il 16 novembre 1998, non corrisponde probabilmente a una realtà di fatto (o almeno cosí si vuole sperare...), ma forse riflette ipotesi in fase di elaborazione o comunque una dichiarazione di principio dai lineamenti terrificanti. La “bomba etnica”, allestita in un laboratorio di Tel Aviv, può essere diffusa [si spiega nell’articolo] nell’aria come nell’acqua. Conterrebbe sostanze in grado di identificare l’impronta genetica di alcune popolazioni arabe, in particolare quelle dell’Iraq. La principale difficoltà, avrebbe spiegato uno degli scienziati del centro di ricerca Ness Ziona, coinvolto nell’indagine, è data dal fatto che il patrimonio genetico di arabi ed ebrei è molto simile in quanto entrambi appartengono al gruppo semitico. Si potranno pure smentire, sotto il profilo scientifico, le affermazioni in questione, ma ciò che sta alla base dell’utilizzo di categorie non solo culturali, ma anche biologiche, per fini di epurazione è il prodotto di un pensiero classificatorio che insiste (alimentato da chi può trarne vantaggi) nell’incasellare i diversi gruppi tracciando confini di vario genere. L’ossessione per le origini, che spinge a voltare la testa verso il passato, allungando il collo fino a scorgerne gli angoli piú remoti e quindi piú facilmente manipolabili, è il segnale di una volontà di assolutizzare le culture, eliminando le esperienze storiche e politiche degli individui e delle comunità. Come nel 1984 orwelliano si manipola il passato in funzione del presente, ma per farlo occorre utilizzare un apparato di condizionamento che Benedict Anderson individua nella tecnologia della stampa per quanto riguarda il passato e, nel presente, nella sempre maggiore influenza dei media di generi diversi 59. Ecco allora imporsi una visione comune, calata dall’alto, che legittima gli schemi desiderati da chi emana tale forma di pensiero, richiamandosi a un passato lontano, a un’origine unica. «Il pensiero in termini d’origine, sia essa una o multipla, ha come effetto di essenzializzare gli elementi che essa dovrebbe relativizzare o decostruire», sostiene Jean-Loup Amselle 60. Infatti, ricercando questa presunta origine, da un lato si ipotizza un punto di partenza in cui una «cultura» sarebbe nata: come se le società sprizzassero fuori dalla terra improvvisamente e iniziassero a irrigare il territorio circostante; dal lato opposto, si compie un’altra operazione quanto mai discrezionale, sfrondando tutte le vicende intercorse a partire da quel punto (ipotetico), che in molti casi avrebbero potuto trasformare in modo anche determinante le caratteristiche originarie di un popolo. Nella sua critica alla tendenza classificatoria della «ragione etnologica» e del pensiero occidentale in genere, Amselle ha messo in luce diversi casi, in Africa occidentale, nei quali gruppi e individui sono spesso slittati da una condizione sociale e culturale a un’altra se non addirittura da un’etnia all’altra 61 . Franco La Cecla, nel suo libro dedicato al malinteso, sottolinea la differenza, che la lingua italiana non aiuta a cogliere, tra «confine» e «frontiera»: il primo indicherebbe un limite da non valicare, mentre la frontiera richiama non una linea, ma una fascia di territorio dove due diversità «si fanno fronte», si incontrano. Il confine è rigido, la frontiera fluttuante. Le frontiere sono il “faccia a faccia” tra due compagini, due culture, due paesi […]. Le frontiere dovrebbero essere il luogo dove il confronto sostituisce lo scontro, dove la relazione può essere appagata nella indifferenza della terra di nessuno o nella differenza delle demarcazioni oltre le quali si trova l’altro, lo straniero a noi 62 . Una foto mossa, un po’ sfocata. Sono molti i problemi che sorgono nel momento in cui si intende definire, fissare, rendere tangibile l’identità di un gruppo. È come voler fotografare una classe di bambini che non stanno mai fermi, che si scambiano continuamente di posto. E magari a scattare la foto è un fotografo anch’egli inquieto e continuamente in movimento. Tutti i ragazzi appartengono a quella classe, ma qualcuno è arrivato da un’altra sezione, ci sono femmine e maschi, bambini di diverse regioni e, sempre piú frequentemente, di paesi diversi. C’è chi va d’accordo e chi si detesta e si picchia. A volte l’intera classe è solidale, molto piú spesso si creano gruppetti di amiconi per la pelle. Si stringono nuove amicizie e di tanto in tanto qualcuno «non fa piú amico» qualcun altro. La foto di quei bambini irrequieti risulterà probabilmente mossa, ma forse quell’immagine dai contorni confusi risulterebbe la piú fedele alla nozione di identità espressa da quella classe. Poi gli alunni crescono, e ognuno prenderà strade diverse. Rimarrà la foto, seppure un po’ mossa, a fissare quel gruppo di compagni in un certo periodo della loro vita. In un certo periodo, appunto. Istituire un museo dell’identità italiana, per esempio, sarebbe come fare un’istantanea a 56 milioni di persone che si muovono. Possiamo usare un tempo rapido e ottenere un’immagine ferma, con i contorni definiti, ma sarebbe comunque l’immagine di quel momento: c’è sempre un prima e ci sarà sempre un dopo. Il problema dell’identità ci pone inevitabilmente una domanda: esiste un momento in cui essa si forma? Se cosí fosse dovremmo allora risalire all’origine dell’identità. È davvero possibile? Nella maggior parte dei casi non lo è, anche se è evidentemente possibile inventare tale momento. Con l’acume che ha contraddistinto tutta la sua opera, George Orwell in 1984 dipingeva un mondo dominato dal Grande Fratello in cui esisteva un Ministero che riscriveva la storia, per legittimare di volta in volta chi deteneva il potere. Fingendo di scrivere di fantascienza, Orwell finisce per mettere in luce una pratica quanto mai attuale, ai suoi tempi come ai nostri. La storia viene spesso manipolata dalle élite, e l’identità evocata da chi sta al potere si fonda spesso sulla storia, o meglio su una storia, quella storia. Perché, come afferma Ernest Renan a proposito della nazione, per costruire un’identità occorre una forte dose di memoria, ma anche un’altrettanto forte dose di oblio: L’oblio, e dirò persino l’errore storico costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione […]. Ora l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose. Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud 63 . Dobbiamo minimizzare, se non scordare, ciò che ci unisce ed enfatizzare quanto invece, del nostro passato, ci divide. Oppure accettare, come sostengono Julian S. Huxley e Alfred C. Haddon che «una nazione è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini» 64 . 1 Cfr. M. Cavallanti, Como, il sindaco si era travestito per distribuire regali. Le maestre non hanno gradito l’iniziativa e l’hanno respinto, in «La Stampa», 17 dicembre 2001. 2 S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000. 3 M. L. Rodotà, Divinità bipartisan, in «La Stampa», 18 dicembre 2001. 4 C. Lévi-Strauss, Babbo Natale giustiziato, Sellerio, Palermo 1995, pp. 55-56. 5 Cfr. R. Cri, Musulmano in aula tolto il crocefisso, in «La Stampa», 30 ottobre 2001. 6 Crocefissi negli uffici?, in «il manifesto», 15 maggio 2002. 7 O. La Rocca, La campagna della Moratti. “Riporterò i crocifissi a scuola”, in «la Repubblica», 19 settembre 2002. 8 Cfr. T. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Torino 1991, p. 212. 9 F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 45. 10 U. Eco, Essere laici in un mondo interculturale, in «la Repubblica», 29 ottobre 2003. 11 Cfr. R. Rossanda, Il punto cruciale resta il lavoro, in «il mani-festo», 11 luglio 2000. 12 A. Hampâté Bâ, Sur les traces d’Amkoullel, l’enfant peul, Actes Sud, Arles 1998, p. 143. 13 Cfr. V. Stolcke, Talking Culture: New Boundaries, New Rethorics for Exclusion in Europe, in «Current Anthropology», n. 36 (1995), pp. 1-13. 14 Z. Bauman, La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna 1999, pp. 74-75. 15 Cfr. L. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli, lingue, Adelphi, Milano 1996, p. 52. 16 F. Remotti, Contro l’identità cit., p. 5. 17 G. Rampoldi, Il “nemico” musulmano e il finto patriottismo, in «la Repubblica», 5 giugno 2002. 18 C. Rinaldi, La UE, il cristianesimo e le radici dell’Europa, ivi, 9 settembre 2003. 19 C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987, p. 342. 20 E. Wolf, L’Europa e i popoli senza storia, il Mulino, Bologna 1990, p. 502. 21 D. Zoletto, Gli equivoci del multiculturalismo, in «aut aut», n. 312 (2002), p. 8. 22 Cfr. T. Todorov, Noi e gli altri cit., p. 85. 23 C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Id., Lo sguardo da lon-tano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, Einaudi, Torino 1984. 24 Cfr. T. Todorov, Noi e gli altri cit., p. 86. 25 R. Linton, Lo studio dell’uomo, il Mulino, Bologna 1973, pp. 359-60. 26 Anche la Regione Piemonte ha istituito nel 2004 un assessorato analogo. 27 Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 13. 28 http://www.regione.veneto.it/cultura/assessore/serraiotto.htm 29 A. Casellato, “Identità veneta”. Appunti per una genealogia, in A. Casellato e L. Vanzetto, United Colors of Noaltri, Istresco, Treviso 2003, p. 11. 30 U. Hannerz, La diversità culturale, il Mulino, Bologna 2001, p. 36. 31 Ironiche e provocatorie, ma quanto mai realistiche, le parole di Giorgio Gaber: «Mi scusi Presidente | non sento un gran bisogno | dell’inno nazionale | di cui un po’ mi vergogno. | In quanto ai calciatori | non voglio giudicare | i nostri non lo sanno | o hanno piú pudore» (Io non mi sento italiano). 32 Cfr. E. J. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987, p. 289. 33 A. Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Einaudi, Torino 1998. 34 Cfr. I. Diamanti, Italiani, l’identità timida, in «la Repubblica», 23 novembre 2003. 35 A. M. Cirese, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Einaudi, Torino 2002, pp. 37-40; 1ª ed. 1977. 36 G. De Luna, Vittoriano, purché non sia un monumento, in «La Stampa», 22 marzo 2002. 37 Th. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, citato in F. Dei, Beethoven e le mondine, Meltemi, Roma 2002, p. 91. 38 Cfr. Z. Bauman, Intervista sull’identità cit., pp. 19-20. 39 M. Viroli, Vittoriano, per la Patria e la Repubblica, in «La Stampa», 19 marzo 2002. 40 G. Berta, Patria, non solo uomini illustri, ivi, 26 marzo 2002. 41 C. Olmo, Perché la Patria non diventi una noia, ivi, 23 marzo 2002. 42 U. Hannerz, La diversità culturale cit., p. 44. 43. tale proposito si veda A. Albarello, Non nelle mie contrade. Un’etnografia padana per un’antropologia delle società complesse, in P. Sacchi e P. P. Viazzo (a cura di), Piú di un Sud. Studi antropologici sull’immigrazione a Torino, Franco Angeli, Milano 2003. 44 F. Benvenuti, Caratteri peculiari della cultura veneta, in AA.VV., Valori ed equivoci della cultura veneta, Edizioni del Rezzara, Vicenza 1984, p. 33. 45 G. Ciola, L’unità etno-culturale della Padania, in «Quaderni Padani», n. 12 (1997), p. 5, citato in M. Mormone, I celti tra Lega e New Age, tesi di laurea, Università di Genova, Facoltà di lettere, ottobre 2001. 46 U. Eco, Le guerre sante passione e ragione, in «la Repubblica», 5 ottobre 2001. 47 A. Giordano, I celti? Un’invenzione (e non di bassa Lega), in «il Venerdí di Repubblica», 30 agosto 2002, p. 40 48 W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa, Viella, Roma 2000, p. 24. 49 M. Bettini, Siamo vittime della tradizione?, in «la Repubblica», 6 gennaio 2001. 50 G. Lenclud, La tradizione non è piú quella di un tempo, in P. Clemente e F. Mugnaini, Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Carocci, Roma 2001, p. 131. 51 A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999, p. 12. 52 M. D’Eramo, Lo sciamano in elicottero, Feltrinelli, Milano 1999, p. 177. 53 A. Storti, Note sull’antica società celtica, in «Quaderni Padani», n. 17 (1998), p. 50. 54 W. Pohl, Le origini etniche cit., p. 2. 55 J. Pouillon, Plus c’est la même chose, plus ça change, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», XV (1975), p. 160. 56 Cfr. J. Clifford, Prendere sul serio la politica delle identità, in «aut aut», n. 312 (2002), p. 104. 57 E. Weil, Essais et conférences, t. II. Le Politique, Vrin, Paris 1991, p. 216. 58 Cfr. Z. Bauman, Intervista sull’identità cit., p. 8. 59 Cfr. B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, manifestolibri, Roma 1996. 60 J.-L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle cul-ture, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 78. 61 Id., Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999. 62 F. La Cecla, Il malinteso, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 133-34. 63 E. Renan, Cos’è una nazione?, Donzelli, Roma 1993, pp. 7-8. 64 J. S. Huxley e A. C. Haddon, Noi Europei. Un’indagine sul problema «razziale» (1935), Edizioni di Comunità, Torino 2002, p. 15.