Manlio il mago Intervista a Manlio Rocchetti

Transcript

Manlio il mago Intervista a Manlio Rocchetti
asc incontri: rocche t ti
Manlio Rocchetti aiuta Daniel Day-Lewis ad entrare nel personaggio di Bill “the butcher” Cutting (Gangs of New York, 2002)
manlio il mago
“E
sserci senza
esserci”. È
uno dei motti
professionali
di Manlio
Rocchetti, leggendario artista del make-up & hair, come direbbero in America o, se preferite, alchimista
diabolico di trucchi, parrucche e mille
accorgimenti innestati sui volti e sui
corpi in modo invisibile e naturale.
Un lavoro assimilabile ad una pozione
magica, in grado di trasformare l’attore nel personaggio immaginato dal
copione, costruito assieme al regista ed
al costumista. Un grande aiuto per gli
interpreti ed un notevole contributo
all’ impatto visivo del film. Se ne sono
accorti anche all’Academy, che ha premiato Rocchetti con l’Oscar dopo che
i divi di Hollywood avevano già da
tempo bloccato l’alchimista italiano in
60
di gianni sorrentino
intervista a manlio rocchetti
sala trucco. Il glamour divistico non
ha minimamente attecchito su Manlio,
professionista di rinomata schiettezza, animato da un’eleganza semplice
che rivendica fieramente la nascita
romana.
Lo abbiamo intercettato poco prima che ripartisse per Boston, atteso da
Scorsese e Di Caprio sul set di Shutter
Island, e gli abbiamo chiesto di raccontarci qualche tappa del suo grand tour
nel cinema mondiale.
Nella tua carriera nei hai viste e
fatte di tutti i colori. Scorrendo la
tua filmografia trovo cinema d’autore e pubblicità, colossal statunitensi
e film come La regina degli uomini
pesce o Remo e Romolo…
Ho fatto un po’ di tutto e posso
dirti che il lavoro, se fatto bene e preso seriamente, è sempre gratificante.
Non conta nulla se sia di serie A o di
serie B perché c’è sempre da imparare. Imparare quello che bisogna fare
e quello che non bisogna fare, una
cosa sottovalutata ma altrettanto
importante…
Credo che il tuo esordio sia comunque ascrivibile alla serie A, in
un film a episodi particolarmente
curioso…
Si chiamava Le streghe ed era un
interessante film a episodi, uno dei
quali diretto da Pasolini ed interpretato da Totò, con i capelli rossi e
ricci, Ninetto Davoli, sempre con i
capelli rossi ma all’indietro, e dalla
Mangano, con i capelli verdi.
Pasolini era un genio e sapeva
sempre quello che voleva. Aveva una
macchina da presa personale perché
voleva vedere il film direttamente
asc incontri: rocche t ti
con i suoi occhi, forse a causa della
delusione provata da La notte brava,
un film di Bolognini basato su di un
suo soggetto, ripreso sostanzialmente, qualche tempo dopo, in Mamma
Roma. Ho lavorato con Pasolini anche in Teorema, dove truccai ancora
la Mangano e anche Laura Betti e
Terence Stamp. Pensa che il libro
omonimo fu scritto mentre l’opera
veniva filmata. Insomma, prima girava e poi scriveva…
Se non erro, Pasolini teorizzava
un linguaggio unico per tutte le arti,
un linguaggio della vita che doveva
irrompere in qualsiasi specificità
formale…
E aveva ragione, perché arte e
vita vanno sempre assieme. L’una
è il compimento dell’altra. Non si
può fare una cosa senza l’altra. Sono
complementari, inscindibili.
Hai dei ricordi particolari di
Totò?
L’ho truccato a lungo per quel
film e posso dirti che era un uomo
gentile ed educato, un signore nobile d’animo. Non ho avuto purtroppo
la fortuna ed il tempo di conoscerlo
meglio. Ricordo i suoi occhiali molto spessi per camuffare la cecità che
lo stava colpendo. Da un lato aveva
continuamente bisogno di Castellani,
suo grande amico oltre che spalla;
dall’altro non faceva pesare mai
questa sua infermità grazie ad una
grandissima sensibilità che gli faceva
capire perfettamente quello che gli
era richiesto. Un attore vero, uno che
cerca le cose dentro sé stesso.
Successivamente hai lavorato
con Rossellini…
Ho collaborato con lui in tutti i
lavori per la televisione da Agostino
in poi, tranne che per il Pascal.
Rossellini era molto meno introspettivo di Pasolini. Lavorare con
lui voleva dire entrare in una grande
famiglia. Era uno che si faceva capire al volo, sapeva comunicare con
pochi cenni e, soprattutto, sapeva
esattamente quello che voleva: come,
quando e cosa girare, perché intuiva
già il risultato finale. Un uomo di una
certa importanza e di un certo peso,
e anche molto deciso. Un attore, durante il Cosimo de’ Medici, si rifiutò
di recitare una scena a cui erano state
cambiate cinque parole perché voleva un paio di giorni per “apprenderle
ed interpretarle”. Rossellini prese il
copione e in pochi minuti riscrisse
tutto. Senza più quell’attore, immediatamente allontanato dal set…
Negli anni Settanta hai lavorato anche con Fellini, regista in
cui l’apporto del trucco risalta
particolarmente.
Fellini ha sempre prediletto un
trucco molto forte, in linea con
i suoi personaggi, sempre molto
caratterizzati. Sapeva esattamente
come riprendere gli attori, come
trasformarli, come ridicolizzarli “seriamente”, non per giocare. Faceva
la caricatura di ogni personaggio, te
la consegnava e ti diceva: “lo voglio
così”. In sala trucco veniva solo i primi giorni o per salutare. Gli bastava
uno sguardo per capire se il risultato
c’era, o se si era sulla buona strada,
e poi aspettava in teatro. Era anche
un po’ clownesco, come i suoi personaggi. Quando girava cercava anche
il divertimento. E se non si divertiva
se ne andava. Ricordo benissimo
il suo arrivo nel mio primo giorno
sul set di Roma, mentre veniva ricostruita in teatro una cucina. Fellini
controlla rapidamente l’ambiente e
chiama subito Donati. E gli fa: “senti, quella porta lì non va bene là e la
mettiamo di qua, la finestra la mettiamo di là e questo lo mettiamo di
qua. Ci vediamo domani, arrivederci
e grazie”. Il giorno dopo arriva e fa
subito “Danilo! Non ci siamo capiti
bene. La porta la mettiamo di qua,
la finestra di là e quello di qua. Il
terzo giorno torna sul set e fa: “Danì,
stanotte, c’ho dormito sopra. Famo
tutto come il primo giorno…”
Uno dei tuoi lavori più rimasti nell’immaginario collettivo fu
quello compiuto ne Il nome della
rosa. Come ti sei trovato con Sean
Connery?
Molto bene. Connery fu molto gentile ed educato, un vero sir.
Ricordo quell’incontro con molto
piacere anche se non facemmo mol-
to per trasformare il suo aspetto. Il
grosso lavoro fu quello fatto su Ron
Perlman che interpretava il personaggio di Salvatore. In realtà l’attore designato era Franco Franchi – su cui
avevo studiato per settimane facendo
i calchi, una calotta per fargli l’alopecia e tanti altri particolari – ma
litigò con il regista per una banalità
– non voleva farsi tagliare i capelli – e
se ne andò via. Perlman arrivò ad un
giorno dalle riprese e passai tutta la
notte a lavorare per farlo essere pronto la mattina dopo. Gli mettemmo
un naso porcino, qualcosa in fronte
per fare i bozzi, la gobba, un grande
lavoro sui denti. Tutto in una notte.
Negli anni Ottanta inizi una
collaborazione con Hollywood che
diverrà sempre più intensa. Un attimo prima declini un lavoro importante come L’ultimo imperatore. Ci
puoi raccontare la vicenda?
Fui chiamato da Mario Cotone
mentre lavoravo con la Torrini per
il film Hotel Colonial. Raggiunsi
Bernardo Bertolucci e ci vedemmo
per fare dei provini sull’attore che
avrebbe interpretato l’imperatore. Il
film si sarebbe fatto tre mesi dopo
ma volevano effettuare altre prove
il giorno successivo. Io non potevo
perché ero impegnato su di un set a
Venezia e volevo seguire il lavoro personalmente. Mi dissero “prendere o
lasciare” ed io lasciai. Non si poteva
lavorare in quel modo, anche se era
un film apparentemente più importante di quello che stavo facendo. Se
stai facendo una cosa, devi farla seriamente. Non puoi buttare via della
gente per un provino. Non è giusto.
Invece di quel film feci Man on fire e
alla fine delle riprese fui chiamato da
Robert De Niro per fare il suo truccatore personale ne Gli Intoccabili…
Trasformandolo nell’Al Capone
reso celebre dal motto “chiacchiere
e distintivo”. Fra l’altro De Niro in
quel film sembra bassissimo…
Per abbassare un interprete basta
affiancargli attori molto più alti e riprenderlo da angolature particolari.
Quanto al nostro lavoro, facemmo
poco. Gli abbiamo allargato un po’ il
naso, lo abbiamo pelato un pochino,
61
asc incontri: rocche t ti
due cicatrici sulla guancia e sul collo, lo abbiamo gonfiato e imbottito,
con una camicia molto stretta per far
uscire il collo fuori. Questo è quanto. La cosa particolare è che sembra
presente in tutto il film mentre in
realtà abbiamo girato solo sei giorni,
preceduti però da nove settimane di
preparazione, chiusi in albergo a fare
prove su prove.
Rimaniamo in America. Ci puoi
raccontare l’incontro con Oliver
Stone?
Oliver Stone l’ho incontrato una
sola volta in vita mia, quando preparava il film su Noriega. In realtà non
mi chiamò lui ma Al Pacino con cui
avevo fatto Two Bits. Modellai il suo
viso su quello di Noriega, aggiungendo un pezzo di naso, facendogli
il viso butterato sormontato da una
parrucca con la fronte bassa. Evitai
di fare una copia perché secondo me
doveva apparire Al Pacino che interpreta Noriega, così come nell’altro
film c’era De Niro che interpretava
Al Capone. Si riconosceva De Niro
ma si leggeva Al Capone. Oliver non
apprezzò molto il tutto e mi disse: “ma non possiamo farlo proprio
uguale, uguale, uguale?”. Stavo per
spiegargli la mia idea quando Pacino,
anticipandomi, gli fece: “Oliver fai
così: chiama un sosia, fallo recitare
e io lo doppio”.
Una cosa analoga capita negli
invecchiamenti. Ce ne sono di bellissimi, anche stupendi, come quello
di Piccolo grande uomo o quello di
Amadeus ma, se li rivedi, ti accorgi
che l’attore non è più riconoscibile
perché gli sono stati messi addosso
troppi pezzi prostetici. Preferisco
percorrere altre strade.
Lavori con Al Pacino anche ne
L’avvocato del diavolo. Come lo hai
“demonizzato”?
In modo molto semplice, pettinandogli i capelli all’indietro, dopo
averli scuriti, e poco altro. Pacino
non ha bisogno di nulla perché è lui
stesso che mette dentro al personaggio qualcosa di particolare. Come
attore, secondo me, ha pochi rivali,
anche perché accetta solo determinati copioni. Al suo livello mi vengono
62
in mente De Niro e Hoffman. E
anche Nicholson, che ho conosciuto
e truccato sul set di Blood and wine,
un gran giocherellone, pazzo e divertente, che si fa fare tutto ma che sa
quello che vuole e si accorge di tutto.
È uno che conosce benissimo il mestiere e gli altri. E quando entra in
scena, la sua presenza si sente.
Torniamo alla tua carriera. Nel
1990 arriva il Premio Oscar con A
Spasso con Daisy…
È arrivato tanti anni fa, piuttosto
inaspettatamente, perché in precedenza avevo fatto dei film molto
più complessi ma non ero stato mai
nominato. Un pregio risiede forse
nel lavoro sull’invecchiamento che
abbiamo cercato di rendere vero e
sottile. La storia seguiva una famiglia lungo un arco di quarant’anni e i personaggi principali sono
stati continuamente invecchiati e
ringiovaniti.
Fra i maestri americani con
cui hai lavorato nominerei anche
Altman…
L’esperienza con Altman mi ha
riportato ai film di Rossellini per
quell’atmosfera particolare che si
instaurava con tutta la troupe. Una
grande famiglia, dove si mangia, si
lavora e si assiste alle proiezioni del
girato sempre tutti assieme. Un clima paternalistico, con orari giusti e
rispetto per tutti i reparti.
La tua lunga ed attuale collaborazione con Martin Scorsese iniziò
con L’ultima tentazione di Cristo…
Quel film fu molto più complesso di A spasso con Daisy perché oltre
ad invecchiare gli attori era richiesto
anche un bel lavoro sulle barbe, i
nasi, i tatuaggi e tanti altri dettagli
che resero quell’esperienza veramente interessante. Un grande lavoro che
fu un po’ seppellito dalle polemiche
a volte gratuite che piovvero sul film.
Si disse che era un’opera empia e antireligiosa ma la ritengo una lettura
sbagliata. Il film racconta la vita di
Cristo così come la conosciamo ad
eccezione di un’occasione di abbandonare il suo destino in favore di una
vita normale che lo conduce a sposar-
asc incontri: rocche t ti
si. Alla fine si scopre comunque che
era solo un sogno perché Cristo si ritrova sulla croce. La cosa fu giudicata
da molti come sconcia e sacrilega ma
non concordo assolutamente.
Nei successivi L’età dell’ innocenza e Gangs of New York trucchi
molte star e in entrambi i film c’è
Daniel Day Lewis. Volevo chiederti cosa pensi del suo approccio
professionale.
Daniel è serissimo ed estremamente professionale. Come De Niro
in C’era una volta in America e Gli
Intoccabili, quando chiedeva di rimanere anche quattro o cinque ore al
trucco per perfezionare ogni dettaglio. In Gangs of New York feci preparare diverse lenti a contatto perché
il suo personaggio aveva un’aquila
nella pupilla. Feci preparare delle
lenti piccoline per i campi lunghi,
una grossa ma sempre morbida per
i campi medi e poi due rigide, tipo
osso, per i primi piani della pupilla.
Mettere quella lente non era piacevole, ci ho provato pure io ed era difficile muoversi, figurati recitare…
Ti è mai capitato un attore che
non voleva farsi invecchiare?
Qualche volta ma devo dire che
mi è capitato più spesso con le attrici.
Mi capitò di avere un contrasto con
Barbra Streisand sul set de L’amore ha
due facce perché per metà film doveva essere un po’ imbruttita e lei non
ne voleva sentir parlare. Avevamo
lavorato benissimo ne Il principe
delle maree e non volevo guastare il
rapporto così le dissi: “non litighiamo, preferisco non fare questo film”.
Siamo rimasti in ottimi rapporti ed
in seguito mi ha chiamato anche per
dei concerti…
provini inediti per C’era una volta in America (1984)
C’è qualche film meno conosciuto a cui tieni particolarmente?
Ho fatto un film nel 1993,
Wrestling Ernest Hemingway, diretto
da Randa Haines, che secondo me
non ha avuto la fortuna che meritava.
Aveva attori come Shirley MacLaine,
Robert Duvall, Richard Harris e
Sandra Bullock. Una produzione
seria come la Warner Brothers e un
budget di venti milioni di dollari, un
film che ti dava quindi le possibilità di realizzare cose molto belle. In
quel periodo uscì I due brontoloni
con Lemmon e Matthau ed il nostro
film fu pressoché dimenticato dalla
produzione. Varrebbe la pena vederlo
perché c’è un buon invecchiamento
di Robert Duvall, una grande recitazione corale e poi, anche se non
si vede, un divertimento inconsueto sul set. Pur senza conoscerci, ci
trovammo tutti talmente bene che
nell’ultimo giorno la troupe espose
un enorme cartello, con su scritto
“Ricominciamo il film da capo, per
favore”. All’ultimo ciack, Harris prese una bicicletta e iniziò a pedalare
davanti alla macchina da presa per
non far terminare le riprese. Cose
che non ho avevo mai visto prima. E
neanche dopo…
Duvall ti chiama molto spesso
per lavorare assieme. Ci puoi raccontare il vostro rapporto?
L’ho conosciuto tramite la
Torrini, per Hotel Colonial. Ci siamo
incontrati e abbiamo subito litigato
per via di un naso finto che non voleva assolutamente mettere. Poi siamo
diventati grandi amici. Mi chiama
solo quando ha bisogno di parrucche,
trucchi speciali o di cose particolari
e negli anni abbiamo fatto parecchie
cose assieme. Un film dalla storia
curiosa è stato sicuramente L’apostolo.
Robert mi chiese se potevo aiutarlo
a realizzarlo trovando qualcuno che
credesse nel progetto. Il film costava
quattro milioni di dollari, una cifra
non elevata ma né io né lui fummo
in grado di trovare un produttore,
né in Italia, né in Francia, né in
America. Robert se l’è poi fatto da
solo e, quando era finito e montato,
l’ha rivenduto per dodici milioni di
dollari…
Tra i film recenti a cui hai
collaborato, vorrei menzionare
Brokeback Mountain, anche per
chiederti un ricordo di Heath
Ledger…
Heath Ledger era una brava persona, sempre educato con tutta la
troupe. Aveva qualche bizzarria ma
la esternava in modo sempre accettabile. Ricordo anche dei momenti
63
asc incontri: rocche t ti
d’ira, a volte incomprensibili, ma
quando lavorava era un attore veramente serio, uno di quelli che ci sta
con l’anima a fare quello che fa. Una
scena prevedeva un pugno al muro
e lui si rifiutò di colpire una parete
finta. Passò poi una buona parte del
film con la mano fratturata come se
niente fosse…
Il film ha avuto molto successo
ma io non sono totalmente soddisfatto. Abbiamo fatto molte prove
e alla fine è stato scelto un trucco
abbastanza normale mentre io avrei
preferito lavorare maggiormente su
barbe, baffi e capelli. Anche il copione ha abbandonato il progetto iniziale, forse più poetico, in favore di
un film più crudo, probabilmente a
ragione, se pensi che è stato premiato
con tre Oscar.
Tra i film che non hai fatto, anche del passato, in quale ti sarebbe
piaciuto lavorare?
Difficile dirlo. Ce ne sono tantissimi eccezionali. Forse Il gattopardo,
un film quasi irripetibile, così grande
e corale.
Ritieni più importante, per
il lavoro di un truccatore, il rapporto con l’attore o quello con il
costumista?
Dipende da chi è il costumista
e chi è l’attore. Dipende molto. Se
collabori con un costumista che sa
quello che fa, ti trovi benissimo. Se
ne trovi uno che parla solo per parlare
o per vanagloria, diventa più difficile.
In linea di massima mi sono sempre
trovato bene a lavorare con tutti.
Gli attori? Più sono importanti e
più capiscono quello che vali, quello
che fai e che non fai. Capiscono la
tua sensibilità nel fare le cose, un po’
come quando vai dal dentista. E poi,
solitamente, gli attori bravi hanno
molto rispetto e poche pretese perché non devono dimostrare niente a
nessuno. Vanno in scena e recitano.
Non si aggrappano a null’altro e ti
lasciano fare il tuo lavoro.
Puoi dare un consiglio ad un
giovane truccatore?
Bisogna cercare di permettere
all’attore di recitare nel modo più
comodo possibile, cercando di aiutarlo nel raggiungere una somiglianza o un’idea di quello che dovrà
interpretare. Mai esagerare a far le
cose perché più si esagera e peggio è.
Bisogna sempre stare nel limite della
credibilità perché il trucco è bello
la squadra ideale: l’attore (John Lone), il costumista (James Acheson) e il
truccatore (Manlio Rocchetti). il risultato: L’ultimo Imperatore (1987)
64
quando non si vede. C’è ma non c’è.
Allora è bello. Se nessuno pensa che
ci sia un trucco allora va bene, se ti
dicono che hai fatto un bel trucco
o hai messo una bella parrucca vuol
dire invece che hai sbagliato qualcosa. L’ideale è riuscire a fare una
cosa vera.
Oggi trucco ed effetti speciali
tendono ad essere confusi. Si prediligono effetti fantasmagorici, spesso
pesanti, che poi vengono anche premiati, spesso giustamente, ma forse
si dovrebbero fare due categorie
distinte. Conosco entrambi i mondi
perché ho fatto effetti speciali sia in
piccole produzioni che per Scorsese
ma credo che fare Freddie Kruger,
per dire un mostro qualsiasi, sia una
frescaccia. È molto più difficile non
far vedere quello che fai, lì sta il bello.
Esserci senza esserci…