NO OIL - Fulvio Grosso

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NO OIL - Fulvio Grosso
“Non troveremo mai un fine per la nazione
né una nostra personale soddisfazione nel
mero perseguimento del benessere economico,
nell’ammassare senza fine beni terreni.”
18.03.1968
Robert Kennedy
NO OIL
IL PETROLIO
È
FINITO
Romanzo
di
Fulvio Grosso
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Per la nostra famiglia gli ultimi anni erano stati felici e
proficui, la carriera di mia moglie all’Università proseguiva
senza scossoni, la mia era di tutto rispetto e, dal punto di
vista economico, non potevamo proprio lamentarci.
I figli, più o meno volenterosi, a scuola se la cavavano senza
eccessivi sforzi.
Marco aveva cominciato con il basket in una squadra che
non aveva grandi velleità, ma francamente preferivo così, a
nove anni c’era bisogno di un po’ di competizione per farlo
ingranare nella vita di tutti i giorni, ma nello stesso tempo
preferivo militasse in una squadra con poche ambizioni di
campionato affinché non fosse troppo stressato
dall’imperativo di vincere. Certo che quando vincevano era
una gran festa e penso fosse giusto così.
Giulia, invece, amava il nuoto; lei, sempre così introversa, si
trovava a suo agio in una corsia d’acqua in cui doveva
preoccuparsi solo della resistenza e del tempo. A dodici anni
non amava parlare dei suoi problemi, è vero che
probabilmente non ne aveva o forse riusciva a risolverli da
sola, fatto sta che non era solita parlare con noi se non
raramente con sua madre. Io davo per scontato che una figlia
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avesse più facilità nel parlare con la madre piuttosto che con
il padre e non mi davo troppa pena per questo.
I mesi che precedettero quel periodo furono uguali a quelli
degli anni prima, nessun segnale, almeno apparente o
almeno io non riuscii a vederlo, di quello che stava per
accadere. Il mondo girava come sempre e nessuno ci stava
preparando.
Non riesco comunque ad immaginare cosa si sarebbe potuto
fare, come avrebbero dovuto comportarsi i governi, cosa
avrebbe potuto fare ogni individuo per scongiurare tutto
questo. Eppure sì, si sarebbe potuto provare a risolvere
questa situazione prima che esplodesse. Forse questo lo dico
ora che so cosa è successo, ma a che serve?
Come ogni mattina mi svegliai al suono della radiosveglia. Il
giornale radio riportava le notizie del giorno, sempre le
stesse da mesi, forse anni. Il governo si barcamenava come
faceva da quando si era insediato, spesso veniva evocato lo
spauracchio delle elezioni. Ogni volta le promesse degli uni
o degli altri aprivano speranze, quasi mai davano certezze.
Ora lo so, ma all’epoca sembrava tutto nella norma, nessuno
era in grado di risolvere i problemi economici che ci stavano
attanagliando e si tentava con giochi di prestigio di far
quadrare il cerchio, cosa che come si sa è impossibile.
Ci promettevano: la diminuzione delle tasse, l’aumento dei
guadagni, lo sviluppo economico, l’aumento del PIL e la
diminuzione del debito pubblico, il blocco dei prezzi e
l’aumento delle pensioni.
Mi alzai, gli occhi pieni di sonno, guardai mia moglie che
ancora dormiva, andai in bagno, una doccia, la rasatura e un
goccio di dopobarba.
Il caffè sul fuoco e ancora la radio che annunciava un nuovo
conflitto in una parte della terra che al momento non riuscii
ad afferrare. Era così consueto che in qualche parte del
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mondo qualcuno decidesse di risolvere i problemi con la
guerra che ormai non si faceva più caso.
I miei figli arrivarono per la colazione. Anche mia moglie si
era alzata, così ci sedemmo come ogni mattina guardandoci
assonnati parlando del più e del meno; la scuola, sguardo
d’intesa tra fratello e sorella, come a dire “che pizza sempre
lo stesso argomento”; cosa pensavamo di fare per il fine
settimana; era necessario ricordarci di portare il cane dal
veterinario.
Lo vedo come in una nebbia come se fossi ancora lì insieme
a loro.
Ho visto e rivisto nella mia mente centinaia di volte la stessa
scena. Posso ripetere parola per parola cosa ci dicemmo quel
giorno, lo sguardo di ciascuno di loro; quello scocciato dei
figli, che si trasforma in una risata di intesa tra i due; quello
sardonico di mia moglie che si trasforma in affetto verso di
loro. Non potevo vedere il mio sguardo, ma sono certo che
fosse sereno.
Quando rivedo dentro di me la scena, a volte vedo anche me
come in un film, e il mio sguardo è davvero sereno, anche se
ad un tratto appare un’ombra sul mio viso. Un attimo, un
momento che forse vuole dire, o predire; una
consapevolezza che, sono certo, in quel momento non
avevo.
Finita la colazione, i soliti saluti, le raccomandazioni inutili
perché ripetitive, ma che ogni genitore si sente in dovere di
esternare almeno per mettersi la coscienza a posto. “Studia,
non fare arrabbiare la maestra”, per il maschio; “rispetta i
professori”, per la femmina, insomma il solito tran tran.
Quel lunedì partivo per la seconda settimana per Vicenza
dove tenevo un corso inerente una nuova procedura nella
azienda per cui lavoravo. Mi sembrava, allora, apprezzabile
questo compito, mi dava la sensazione di essere utile e, sotto
sotto, importante. Non era il mio lavoro insegnare, ma
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siccome quel processo lo avevo sviluppato io nei mesi
precedenti, era stato ovvio che fossi io a divulgarlo nelle
varie sedi della società.
Presi il trolley, mia moglie mi accompagnò alla
metropolitana, un bacio di corsa, sul lato della bocca,
un’abitudine piuttosto che un vero gesto di affetto.
<<Buona giornata>>, io.
<<Buona settimana.>>, lei.
Anche questo mi è tornato in mente mille volte ed ogni volta
ho pensato che avrebbe potuto essere diverso ed ogni volta
l’ho immaginato con sfumature sempre differenti.
L’Eurostar viaggiava veloce nella pianura padana. In quel
momento non mi veniva in mente di quanto eravamo stati
improvvidi. Proseguivano i lavori per l’alta velocità, ma
proseguivano, come sempre a rilento. I lavori del tunnel per
la tratta Torino-Lione erano iniziati tre anni e mezzo prima,
ma si erano bloccati dopo il grave fatto che era avvenuto e
non erano ancora ricominciati. Si era utilizzata un’enorme
quantità di energia per portare avanti quei lavori, e ci si stava
chiedendo se era necessaria o almeno utile questa opera
faraonica.
Quando erano iniziati i lavori ero convinto che quell’opera
fosse necessaria per il futuro e per l’economia dell’Italia,
poi, quando alcuni fatti erano venuti alla luce, mi ero
convinto che il nostro era stato un passo improvvido, senza
valutare tutte le implicazioni e conseguenze. Qualcuno, fin
dall’inizio, aveva opposto la ragione della visione futura, ma
la logica del fare e del business aveva prevalso e quelli che
avevano tentato di spiegare la necessità di altre priorità
erano stati trattati come Cassandra dai troiani.
Ora potrebbero dire: “ve l’avevamo detto”. Sai che
soddisfazione.
Il treno arrivò con soli ventotto minuti di ritardo, presi un
taxi e mi diressi all’albergo.
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I due giorni seguenti passarono nella solita routine, aula,
pausa caffè, ancora aula, pranzo.
Tentavo ogni giorno di liberarmi, almeno per pranzo, dei
colleghi più insistenti, ma ogni volta mi ritrovavo a pranzare
con alcuni di loro. I più giovani erano in grado di fare una
vera pausa, e con loro si poteva parlare di un po’ di tutto;
musica, anche se i miei e i loro gusti non sempre
coincidevano, ma ci si capiva. Quando si entrava nel
discorso sport, non c’era verso di parlare di qualche altro
argomento che non fosse il calcio. Tutti sono esperti di ogni
aspetto del calcio, per me una noia abissale, un gioco in cui
stai novanta minuti a guardare qualcuno che è stato pagato
cifre strepitose e che, se gli va bene, farà un gol, ma almeno
non si parlava di lavoro.
Fino a quando uno, sempre uno che aveva più di vent’anni in
azienda, cominciava a chiedere il tuo parere su un qualche
argomento che sembrava lo interessasse enormemente. In
realtà il solito leccaculo che pensava che fosse
indispensabile farsi notare da chicchessia, poteva sempre
essere utile per la carriera, ma non sapevano che a me
proprio non poteva fregarmene di meno.
Lo so che la maggior parte dei capi amano questi lecchini,
probabilmente perché a loro volta si sono comportati allo
stesso modo, ma a me interessavano quelli preparati e
capaci, piuttosto che quelli abili nel chiacchiericcio.
La sera, dopo una cena in un discreto ristorante,
rigorosamente da solo, rientravo nella mia camera e, seduto
su una poltroncina, proseguivo nella lettura di un libro. Mi
ero portato l’ultimo di Camilleri e non vedevo l’ora di
continuare.
Il terzo giorno, mercoledì, rientrati dal pranzo osservai dalla
finestra uno strano fenomeno, in strada c’era una fila
interminabile di auto ferme, il fatto mi incuriosì e così,
aprendo la finestra osservammo che la coda era rivolta ad un
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distributore di benzina, trecento metri più avanti. La
faccenda ci stupì e nell’aula cominciò una ridda di ipotesi,
naturalmente la più accreditata era un imminente sciopero.
Qualcuno alzando la voce disse “è finita la benzina”. Ci
fermammo tutti in silenzio guardando nella direzione della
voce che si era alzata sopra quella degli altri. Il tizio girò lo
schermo di un computer su cui campeggiava la pagina on
line di un giornale.
L’articolo diceva che le importazioni di petrolio erano
sospese, non si conoscevano i motivi, ma si ipotizzava che i
pozzi petroliferi fossero in esaurimento, anche se non se ne
aveva nessuna certezza.
Non riuscimmo, naturalmente, a riprendere il corso, la
discussione si fece accesa, ognuno aveva un parere: su quali
erano le colpe, su chi ricadeva la responsabilità, su cosa
avrebbe comportato l’interruzione momentanea dei
rifornimenti. Il mercato avrebbe sanato tutto, era il parere di
uno che si dava le arie del competente. Ci sarebbe stata una
nuova guerra e questa volta non avrebbe colpito solo il
Golfo, aveva ribadito un altro. Quest’ultima affermazione
aveva scatenato un nuovo filone di discussione, la guerra
sarebbe stata mondiale, ci stavamo apprestando alla terza
guerra mondiale era ormai un fatto certo per tutti i
partecipanti al corso.
La sera, uscendo la coda si era dissipata, pare per
esaurimento del carburante, andai in albergo e accesi la
televisione; tutti i canali riferivano di una crisi petrolifera.
I collegamenti da tutto il mondo parlavano di
accaparramenti, di probabile penuria di petrolio proveniente
dai paesi produttori. I governi si stavano prodigando per
richiedere ai produttori di aumentare l’estratto. Si profilava
una crisi come quella degli anni settanta.
Andai a cena, mi feci portare solo un primo, avevo poca
voglia di mangiare. Telefonai a casa, mia moglie era
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preoccupata, si chiedeva se potesse succedere qualcosa di
grave, risposi che sicuramente non sarebbe successo nulla,
era solo una manovra per alzare il prezzo, una solita
manovra speculativa, si sarebbe sgonfiata subito. Lo dissi,
più per confortare lei, ma qualcosa mi fece venire la bocca
amara. Mi chiese di ritornare subito a casa, ma ancora una
volta le risposi che dovevo rimanere e che non c’era proprio
nulla di cui dovesse preoccuparsi.
Che ingenuo, e che fesso.
Ci salutammo a disagio, anche se le parole erano quelle di
sempre.
In aula quel giovedì non riuscimmo a combinare nulla,
provavo ad iniziare un argomento, ma nè io nè i colleghi
riuscivamo a concentrarci. Passammo la maggior parte del
tempo su internet a visionare le notizie che man mano
arrivavano.
La situazione non sembrava risolversi, sembrava che il
flusso di petrolio si fosse interrotto, tutti i governi
assicuravano che vi erano riserve sufficienti, ma non
dicevano per quanto tempo. Alcuni editorialisti si
cimentarono nell’impresa di calcolare quanto petrolio era
stoccato nelle nostre riserve e quanto sarebbe durato.
Naturalmente prospettavano diversi scenari con diverse
tempistiche. I più catastrofici dicevano che se entro un mese
non fosse ripreso il normale approvvigionamento il nostro
tenore di vita avrebbe potuto subire dei contraccolpi.
Dei contraccolpi; dicevano proprio così.
A ripensarci dovevamo essere tutti un po’ coglioni, a
cominciare da quei soloni che si ammantavano dell’aurea di
esperti. Chissà dove sono adesso, mi piacerebbe chiedergli
di che cazzo erano esperti. Esercizio inutile ora e senza
costrutto.
Nel pomeriggio tre dei partecipanti al corso non si
presentarono. Non avevano detto niente, non avevano
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avvisato nessuno, semplicemente non c’erano. Fatti loro,
pensai, si giustificheranno con il personale. Verso le 15 e 30
mancò la corrente, che ritornò dopo circa un’ora. Tirammo
avanti fino all’ora di uscita.
Uno dei partecipanti al corso uscendo mi disse che sarebbe
tornato a casa e non ci sarebbe stato il giorno dopo.
Telefonai in direzione esprimendo il mio dubbio sul
proseguire il corso, non si riusciva a esplicitare la materia,
nessuno riusciva a seguire e la testa di ciascuno era altrove.
Mi risposero che il corso doveva terminare come previsto il
giorno seguente, parlarono di un obbligo contrattuale o
qualcosa di simile, tot ore che dovevano essere erogate per
contratto.
“Erogate” mi avevano detto, ma dove cazzo vivevano quelli,
ma si sa quelli del personale vivono su un altro pianeta e
sono convinti di parlare con quelli di un pianeta ancora
diverso dal nostro.
Così mi avviai avvilito verso l’albergo, rimasi seduto sul
bordo del letto con lo sguardo fisso sulla televisione che
vomitava notizie sempre più allarmanti. Qualcuno arrivava a
ipotizzare movimenti di truppe verso gli stati produttori di
petrolio. Qualcun altro sosteneva l’esaurimento dei pozzi
petroliferi in medio oriente. Le immagini provenienti da una
piattaforma oceanica nel Nord Atlantico mostravano il Brent
uscire copioso dalla trivella, non si capiva però se le
immagini erano recenti o di repertorio; il commento
precisava che nel nord si continuava ad estrarre petrolio con
la solita intensità.
Ancora cena, questa volta mangiai in abbondanza, non mi
ero accorto di aver saltato il pranzo nel vortice di discussioni
e congetture con i colleghi.
Ancora una volta telefonai a casa. Mia moglie chiedeva con
insistenza quando sarei tornato a casa, era molto preoccupata
e diceva che era meglio se fossi tornato al più presto.
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Mi accorsi che era veramente angosciata, cercai di calmarla
e le promisi che il giorno dopo avrei iniziato il corso come il
solito, ma che lo avrei chiuso in mattinata in modo da
prendere il treno delle 12 e 20, ci saremmo rivisti la sera.
Anche questa telefonata l’ho scolpita nella mia mente, mi
ripeto parola per parola quello che ci siamo detti, ripenso
soprattutto a quello che non ci siamo detti, ripenso che in
casa c’erano i miei figli ed io ho solo aggiunto alla fine “un
bacio ai bimbi”.
“Un bacio ai bimbi” e non “passami un attimo Giulia” e
neppure “fammi parlare con Marco”, ci penso e ci ripenso e
non mi dò pace.
Quante cose avrei potuto dire se avessi saputo quello che so
oggi?
Perché non sono partito quando me l’ha chiesto per la prima
volta mia moglie?
Fanculo all’azienda, ai corsi, agli studenti, ai leccaculo e
anche a me che non ho fatto di testa mia.
Tornai in albergo, ancora davanti allo schermo televisivo, di
leggere nemmeno a parlarne, la stanchezza mi prese di colpo
e mi addormentai.
Il mattino seguente mi svegliai, guardai l’orologio
meccanicamente e di colpo fui sveglio. L’usciere
dell’albergo non mi aveva svegliato, erano le 7 e 42 ed ero
in ritardo, dovevo ancora sistemare la valigia, lavarmi,
vestirmi. Avrei saltato la colazione, ma accidenti perché quel
fesso non mi aveva chiamato. Accesi la luce, ma non ottenni
risultato, alzai il telefono per dirgliene quattro, ma
l’apparecchio era muto.
Mi vestii in fretta e uscii per farmi spigare la situazione, se
l’impianto elettrico fosse saltato o se ci fosse un black-out o
cosa. Scesi le scale, le ascensori non funzionavano, arrivato
alla reception trovai un altro cliente dell’hotel che si
guardava intorno con fare interrogativo, mi chiese se avevo
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visto qualcuno dell’albergo. Dopo aver girato un po’ tra
ristorante, bar e cucina ci rendemmo conto che non c’era
nessuno dello staff. Intanto altri clienti ci avevano raggiunto
e ci chiedevano cosa fosse successo, ma noi dicemmo che ne
sapevamo quanto loro, semplicemente non c’era più nessuno
dell’albergo.
Uscii con il trolley alla ricerca di un taxi, mi accorsi quasi
subito che non c’era traffico, anzi non c’era nessuna auto in
circolazione. Né auto, né taxi, né bus, tutto fermo, solo un
furgoncino che sfrecciava a tutta velocità. Non c’era anima
viva in giro.
Inquietante, pensai.
In un lampo decisi che era meglio tornare a casa, così mi
diressi a piedi alla stazione. Arrivai dopo circa tre quarti
d’ora, incrociai per la strada solo un ciclista, gli chiesi cosa
stava succedendo, ma tirò dritto senza rispondere né voltarsi.
La stazione era deserta, i tabelloni spenti, nessun treno in
movimento. Una cinquantina di persone si aggiravano
spaesate trascinandosi dietro i loro bagagli.
Tirai fuori il cellulare e telefonai a casa. Questa era la mia
intenzione. Il cellulare funzionava, era carico, ma non dava
nessun segno. Mi spostai per cercare campo, nulla, pensai,
“si vede che in stazione non prende”. Fuori il risultato non
cambiò. Un altro uscì con in mano il cellulare, anche il suo
non prendeva. Ci guardammo sgomenti, un colpo attirò la
nostra attenzione, ci voltammo in direzione opposta alla
stazione.
Un gruppo nutrito di persone aveva spaccato una vetrina di
un supermercato e si stava riversando all’interno, immaginai
subito la razzia in corso. Non sapevo cosa fare, mentre le
strade che fino a poco prima erano rimaste deserte si
riempivano di gente che si dirigeva al supermercato. Più
lontano vidi altri spaccare la vetrina di un negozio, dal punto
in cui ero non riuscivo a capire cosa si vendeva i quel locale.
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Ero interdetto, non riuscivo a pensare, non avevo idea di
come comportarmi né che direzione prendere.
Tornai dentro la stazione per capire se ci fosse la possibilità
che prima o poi un treno sarebbe partito, ma dopo alcuni
minuti mi rassegnai all’idea che per quel giorno non c’era
verso di immaginare un qualunque movimento. Decisi di
lasciare il bagaglio in un deposito a gettoni e uscire per
farmi un’idea di cosa stesse succedendo.
Mi incamminai verso il supermercato, incrociai una signora
con un ragazzo a fianco che spingeva un carrello stracolmo
di pasta, pelati, olio, zucchero e scatolette di ogni tipo.
Chiesi cosa fosse successo, mi disse, senza fermarsi, che non
c’era più benzina, non c’era più corrente e nessuna notizia su
eventuali
rifornimenti
e
quindi
era
necessario
approvvigionarsi prima che tutto si esaurisse. Una coppia
usciva con due carrelli, lui teneva all’orecchio una radiolina.
Vide che lo stavo osservando con interesse e scuotendo la
testa mi disse che non riusciva a prendere nessuna
trasmissione, che nessuno più diceva niente.
Entrai nel magazzino che era nella confusione più totale,
c’era chi aveva riempito il carrello di detersivo e mi
chiedevo a che scopo. Gli scaffali si stavano svuotando
rapidamente, a terra dietro ad un cartone trovai una
confezione di merendine, la presi pensando che non avevo
fatto colazione, mi presi anche un succo di frutta ed uscii.
Seduto su una panchina nei giardini di fronte alla stazione
cercai di fare il punto della situazione. Ero a centinaia di
chilometri da casa, non sapevo quando avrei potuto prendere
un treno che mi avrebbe riportato indietro, guardai per
l’ennesima volta il cellulare, e lo sconforto mi crollò
addosso; non potevo nemmeno mettermi in contatto con i
miei.
Ero indeciso se spegnere il cellulare per conservare la carica
o lasciarlo acceso nell’eventualità che da casa qualcuno
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potesse chiamarmi. Decisi di lasciarlo acceso sperando che
qualcosa sarebbe successo.
Intanto era passata quasi tutta la mattinata; mi avviai verso il
centro e, man mano che mi inoltravo trovavo gente che
andava e veniva con sacchi, carrelli, borse e ogni genere di
contenitori. Le auto venivano utilizzate come camion,
caricate all’inverosimile, tanto che ci stava solo il guidatore
e quelli che lo accompagnavano si sedevano sul cofano.
Le vetrine dei negozi erano quasi tutte sfasciate, le serrande
divelte,
tutti
i
negozi
venivano
saccheggiati
sistematicamente. Riuscivo a capire chi si portava via generi
alimentari, ma incrociavo gente con televisori a cristalli
liquidi, altri con computer, uno aveva caricato su un carrello
una lavatrice.
Passai davanti ad un bar che aveva la serranda a mezza
altezza e la porta aperta, infilai la testa dentro e nella
penombra un uomo era seduto su una sedia di fronte ad un
tavolino su cui era poggiato un fucile da caccia.
Dissi <<Salve>>
Lui rispose allo stesso modo mentre appoggiava la mano sul
fucile. Gli chiesi se aveva qualcosa da mangiare, lui girò
leggermente le canne del fucile verso di me.
<<Pagando ovviamente>>, aggiunsi.
Mi fece cenno di entrare, sempre tenendo la mano sul fucile.
Dopo qualche minuto ci eravamo capiti. Aveva visto cosa
stava succedendo, pensava che quella follia sarebbe presto
terminata, era disposto a lasciar prendere tutto quello che
c’era nel bar, ma intendeva preservare l’integrità del locale e
quindi stazionava armato all’interno. Contava che tra
qualche giorno tutto sarebbe ritornato come prima e gli
sembrava stupido farsi distruggere ciò che aveva appena
finito di pagare.
Neppure lui sapeva cosa era successo se non che tutto si era
fermato di colpo. Mangiammo insieme un’insalata di riso,
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prosciutto e melone e una macedonia, si scusò di non
potermi fare un caffè, ma non c’era energia elettrica.
Quando andai via non volle essere pagato, mi disse che gli
avrebbe fatto piacere rivedermi dopo.
Disse solo “dopo” lasciando sottinteso tutto.
Tornai ancora una volta alla stazione e la trovai come prima
senza nessun movimento di treni e non vi erano nemmeno
più persone. Ripresi il mio bagaglio e pensai che sarebbe
stato meglio tornare all’albergo.
Lo trovai deserto, ripresi la chiave della mia camera dove
lasciai la valigia. Tornato al piano terra mi diressi al
ristorante, non c’era ovviamente nessuno. Entrai in cucina,
nessuno era più stato in quel luogo, dalla sera prima, provai
ad accendere il gas, ma dal fornello uscì dopo un primo
sbuffo solo aria, così tirai fuori dagli scaffali una scatola di
tonno, un barattolo di carciofini, una maionese, dei grissini,
due formaggi. Mi presi una bottiglia di vino rosso, la stappai
e la portai ad un tavolo insieme al resto e mi feci una cenetta
tranquilla. Dopo una mela per frutta mi versai un bicchierino
di limoncello.
In camera pensai a cosa avrei fatto l’indomani; prendere un
treno era la cosa più logica, ma avevo il dubbio che per il
giorno dopo la situazione potesse tornare alla normalità.
Cercai di figurami le varie opzioni, alla fine presi in
considerazione l’idea di tentare in tutti i modi possibili di
tornare a Torino, se del caso anche a piedi.
Valutai la situazione e presi subito la decisione di
prepararmi per il giorno seguente, scesi nella cucina
dell’albergo, infilai in un sacchetto quello che ritenevo utile
portarmi dietro, avevo paura che nei giorni seguenti avrei
fatto fatica a trovare qualcosa da mangiare, quindi presi
scatolette varie, sufficienti per almeno sei giorni.
Tornato in camera mi resi conto che non avrei potuto
viaggiare con un trolley, mi serviva uno zaino. Avevo notato
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un magazzino di sport verso il centro, sarei andato la mattina
seguente dato che non mi sembrava il caso di muovermi di
notte.
Qualcosa era scattato in me, ero deciso e determinato come
non lo ero mai stato in vita mia, a qualunque costo sarei
tornato a casa.
Mi svegliai all’alba, non avevo ancora realizzato che non
potevo farmi la barba con il rasoio elettrico, registrai
mentalmente che avrei dovuto trovare un rasoio classico,
con la lametta. Quella fu l’ultima volta, per molto tempo,
che mi preoccupai del mio aspetto fisico.
Guardai per l’ennesima volta il cellulare.
Muto.
Uscii con la mia valigia e una borsa di plastica, erano le sei e
non c’era ancora nessuno in giro, entrai nel negozio di
articoli sportivi, come avevo premeditato la sera avanti. Era
stato devastato, non avevano portato via tutto, ma tutto era
stato scaraventato a terra, le vetrine e le scaffalature interne
distrutte.
Feci la spesa scegliendo con calma, trovai uno zaino da 60
litri con varie tasche dove misi parte della mia roba.
Scambiai il vestito grigio con una giaccavento e un paio di
pantaloni di tela, provai un paio di scarponcini che infilai
nella tasca inferiore dello zaino. Rimasi un attimo interdetto
davanti ad un coltello da scout con una lama lunga circa
venti centimetri, poi mi decisi e lo presi.
Lo appesi con la fodera in pelle alla cintura, ma
guardandomi allo specchio trovai la visione minacciosa,
allora optai per infilarlo all’interno dei pantaloni sulla mia
destra. In questo modo mi sentivo più sicuro e nello stesso
tempo non davo l’impressione di essere una minaccia per gli
altri.
Tra le scarpe, i cartoni, le giacche e i maglioni, tre biciclette
erano a terra una sull’altra. Ci pensai un po’ e poi mi dissi
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che se non c’erano altri mezzi, quello mi avrebbe riportato a
Torino, anche se, lo sapevo, i chilometri, per me, erano
un’enormità. Trovai i un cassetto i pedali, li montai, caricai
lo zaino sul portapacchi posteriore legandolo con due
cinghie e mi avviai all’uscita.
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Uscito dal magazzino salii in bicicletta e rivolsi lo sguardo
verso ovest, la mia meta era centinaia di chilometri più in là.
Avevo trentanove anni, una famiglia che amavo, due figli
adorabili; il piccolo di nove anni e la sorella di tre anni più
grande. Una prospettiva molto seria di carriera, una casa che
mi piaceva, di cui avrei dovuto pagare il mutuo ancora per
quattro anni, ma era il mio orgoglio, due auto, di cui una
vera bomba e avevo la netta sensazione che il mondo fosse
crollato con uno schianto impressionante.
Mi dissi che era imperativo tornare a casa a qualunque costo,
il mio posto era là.
Abbandonai gli indugi e mi misi a pedalare.
Uscito da Vicenza mi trovai sulla statale, nessun veicolo in
movimento, a metà mattinata incrociai un’auto, c’erano
quattro persone a bordo ed era carica all’inverosimile.
Arrivai al tramonto nei pressi di una cascina, non sapevo di
preciso dove mi trovavo, mi accorsi in quel momento che
avrei avuto bisogno di una cartina stradale, non tanto per
conoscere la direzione, quella era sempre la stessa; sempre
ad ovest, con il sole alla mia sinistra e, nel caso, di notte,
sulla rotta della “via lattea”. La cartina stradale era
indispensabile per evitare lunghi giri intorno a paesi o città.
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Mi avvicinai alla cascina, nell’aia un uomo stava spostando
dei sacchi, mi guardò interrogativo.
Mi presentai, gli dissi che stavo tornando a casa e gli chiesi
se avesse un posto in cui avrei potuto dormire.
L’uomo si pulì la mano sulla pettorina dei pantaloni e strinse
la mia con forza. Mi invitò in casa; la moglie ed i tre figli si
comportarono con amicizia.
Sembrava ci conoscessimo da sempre, raccontai di ciò che
avevo intenzione di fare, cosa avevo visto in città, della
follia che aveva colto tutti nel tentativo di accaparrarsi il più
possibile. Ci scambiammo pareri su ciò che sarebbe
successo.
Ora che so cosa è successo, mi viene da ridere a pensare a
quanto eravamo ingenui e soprattutto ottimisti.
Non avevano una stanza per gli ospiti, mi lasciarono dormire
sul divano che avevano in cucina. Il mattino seguente partii
dopo colazione. Volevano offrirmi di tutto, accettai due
mele, non potevo caricarmi troppo e poi avevo le mie
provviste.
Al primo distributore di carburante trovai una cartina e mi
fermai qualche minuto per verificare il percorso che avrei
dovuto affrontare.
Un attimo, molto lungo, di sconforto mi prese nel vedere
quanta strada mi aspettava, feci un rapido calcolo e mi dissi
che avrei potuto farcela in sette o otto giorni, sperando
sempre nel ripristino della normalità ed in un provvidenziale
treno, che avrebbe accorciato quel periodo.
Nel primo pomeriggio sentii provenire alle mie spalle un
rumore di motore, mi fermai sul ciglio della strada. Un
camioncino stava procedendo a bassa velocità, quando fu nei
pressi feci un cenno, l’autista si fermò e tirò giù il finestrino.
Chiesi se potevano darmi un passaggio, mi dissero di si, a
patto che riuscissi a trovare un posto sul cassone posteriore.
In cabina c’erano quattro persone, due adulti e due ragazzi,
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nel cassone, in mezzo ad una miriade di cose c’era un altro
ragazzo. Viaggiammo per circa un’ora e mezza, poi il
veicolo prese una stradina sterrata, e dopo un paio di
chilometri si fermò nel cortile di una cascina.
Anche questa famiglia mi ospitò anche se il padrone di casa
mi disse che mi avrebbe permesso di dormire in una stanza
al pian terreno a patto che accettassi il fatto di essere chiuso
dentro. Capii le loro preoccupazioni ed accettai, ma quando
sentii la chiave serrare la porta ebbi un attimo di timore e per
riflesso mi barricai all’interno appoggiando una sedia alla
maniglia.
Ancora una volta mi misi in viaggio di buon ora, mi ero fatto
una specie di scaletta di percorrenza e contavo in serata di
arrivare almeno fino nei pressi di Milano, sempre che non
avessi trovato un altro passaggio che mi avrebbe permesso
di accorciare le distanze con un minimo dispendio di
energie.
Dopo un paio d’ore che pedalavo, su una strada ombreggiata
da una fila di alberi, ad un tratto fui scaraventato a terra, mi
ritrovai disteso sull’asfalto con un forte dolore al ginocchio
destro, non riuscivo a capacitarmi di cosa potesse essere
successo. Mentre mi rialzavo dolorante vidi lo zaino che era
ruzzolato dietro di me. Sullo zaino c’era un ragazzo sui
vent’anni, stava tentando di aprirlo. Girandomi verso la
bicicletta ne vidi un altro che la stava tirando su.
Capii, in quel momento, cosa stava accadendo. Mi avevano
spinto a terra per rubarmi tutto quello che avevo.
Mi alzai e senza pensare estrassi il coltello, quello più
vicino, che si occupava dello zaino, fece un balzo indietro.
Evidentemente non si aspettava una reazione. Il ragazzo si
alzò a sua volta e, gridando, incitò l’amico a fuggire con la
bicicletta. Non riuscii ad impedirglielo, ma almeno avevo
salvato lo zaino.
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Ci misi un po’ di tempo a riprendermi, dallo spavento e dalla
botta.
Tutte le mie previsioni andavano a farsi fottere, il tempo
calcolato per il ritorno non era più certo.
E quante cose, da quel momento, perdettero la certezza.
Ero sconsolato.
Possibile che fossimo già arrivati al banditismo? Per che
cosa poi. Una bicicletta e qualche scatoletta di tonno.
Mi rimisi in cammino a testa bassa come un cane bastonato.
Ogni tanto scuotevo la testa, sussultavo quando sentivo
muovere le fronde di un ramo. Presi un grosso bastone che
tenni come fosse una clava, ben in vista.
La mia vita era cambiata nel giro di pochi giorni, la mia e
quella di molti altri.
Scoprii poi che la vita di tutti era cambiata ed era cambiata
in un modo che non avremmo mai neanche immaginato.
Arrivai in vista di una cascina, mi avvicinai, ma a circa
cinquanta metri di distanza vidi uscire un uomo con un
fucile e due giovani, uno armato di forcone, l’altro di
roncola. Mi gridò di stare alla larga, dissi che non avevo
cattive intenzioni. La risposta fu chiara, se non avevo cattive
intenzioni allora potevo andare per la mia strada senza
avvicinarmi ulteriormente.
Capii il messaggio e proseguii.
Il sole era ormai tramontato e si stava scurendo sempre più,
vidi sulla strada un distributore di benzina con annesso un
piccolo bar. Era stato devastato, ma era aperto e pensai di
passare lì la notte.
Fu una notte senza sonno, faceva freddo, per la prima volta
ero impaurito, con l’umore a terra e presentimenti nefasti.
Mi addormentai senza accorgermene dopo aver mangiato
quello che avevo con me. Avevo però trovato una
confezione di pan-carrè che evidentemente era sfuggita ai
razziatori che erano passati prima di me.
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Il freddo mi svegliò prima dell’alba, mi rimisi in piedi e mi
avviai.
L’umore non era dei migliori, ma mi ripromisi di non farmi
prendere dallo sconforto.
Ho fatto questo proposito decine di volte, “non farti prendere
dallo sconforto” l’ho ripetuto e ripetuto, non sempre ci sono
riuscito.
Ora non ho neppure più la forza di ripetermelo.
Nei tre giorni successivi camminai badando bene a chi
incontravo. La diffidenza si stava facendo sempre più
pressante. Ci si parlava da lontano, qualcuno ostentava delle
armi, altri appena li chiamavi fuggivano senza voltarsi.
Passai al largo dai grandi centri, immaginavo che dove c’era
più gente ci sarebbe stata anche più disperazione.
Nessuno mi ospitò per la notte, riuscii a dormire in un
capanno per gli attrezzi e in una casa del casellante lungo la
ferrovia.
Passando nei pressi di un centro commerciale, mi fermai, era
ovviamente devastato, entrai, cercavo qualcosa di preciso; se
cercavi qualcosa che non era cibo avevi la buona probabilità
di trovarlo e lo trovai, un sacco a pelo che mi permettesse di
dormire senza patire il freddo che avevo avuto nelle notti
precedenti.
La mattina del quarto giorno vidi in lontananza grosse
volute di fumo, si trattava sicuramente di un incendio.
Guardando la cartina mi resi conto che il fumo era in
direzione di Milano.
Camminai tutto il giorno sempre con lo sguardo rivolto al
fumo che sempre più si ingrandiva. Erano ormai le 18 e 30 e
mi avvicinai ad una grande cascina, aveva un grande muro
di cinta che cingeva un grande cortile.
Il portone massiccio di legno era chiuso.
Quando fui nei pressi da sopra il muro un tale mi chiese cosa
volevo. Dissi che ero diretto a Torino e cercavo solo un
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posto per dormire. Non ottenni risposta, ma dopo un minuto
il portone si aprì quel tanto per farmi passare.
Ebbi un attimo di esitazione, poi mi dissi che quel poco che
mi era rimasto da mangiare non poteva essere motivo per
un’aggressione, al limite lo avrei dato spontaneamente.
Mi perquisirono, trovarono il coltello, ma me lo ridiedero
subito e poi mi fecero entrare.
All’interno, dalla parte opposta, una casa principale a due
piani teneva tutta la lunghezza del muro, ai lati del portone
due porticati aperti con in fondo costruzioni che immaginai
stalle.
Entrato nel cortile mi venne incontro un uomo sui
sessant’anni con capelli grigi, pelle abbronzata e fisico
asciutto. Mi tese la mano e si presentò, Giorgio Accardi, mi
spiegò che stava tentando di organizzare una comunità,
avevano preso molte derrate in un grande supermercato,
avevano una decina di mucche, molte galline e conigli ed
avevano viveri per oltre sei mesi. Contava di coltivare i
campi e pian piano riprendere una vita il più possibile
normale.
Lo guardai incredulo, gli prospettai i miei sentimenti.
Sollevando un sopraciglio mi disse con calma,
<<Non ti sei accorto di cosa è successo? La vita che
conoscevi prima non esiste più. Il mondo che conoscevamo
è collassato, ora dobbiamo pensare ad un nuovo ordine ed ad
un nuovo mondo. Sarà dura, i prossimi mesi saranno duri e
cruciali. Chi sopravivrà il primo anno potrà pensare al
futuro.>>
Rimasi a bocca aperta.
Come sopravvivere?
Cosa vuol dire che il mondo è collassato?
Perché non può tornare tutto come prima?
E mia moglie? I miei figli? Che ne sarà di loro?
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Mi guardò compassionevole, poi scosse la testa, e mi disse
che potevo dormire lì quella notte.
Mi invitarono anche a cena che fu servita in un grande
stanzone dove erano stati preparati due grandi tavoli. Cerano
circa cinquanta tra uomini e donne, quasi tutti giovani.
L’atmosfera era buona, ma c’era un po’ un’aria da caserma,
questa impressione fu maggiormente avvalorata quando vidi
entrare due uomini armati, che appoggiarono due fucili
mitragliatori ad una rastrelliera prima di sedersi a tavola.
Dopo cena chiacchierai con un ragazzo, Luigi, era lì con la
sua ragazza Agnese. Una biondina slavata, magrolina e
simpatica.
Dormii in una stanza al primo piano della costruzione
principale insieme ad altri due uomini. Avevo dormito
veramente bene, su un letto vero, come non mi succedeva da
giorni. Per una notte potevo sentirmi tranquillo e non più
solo in mezzo al nulla e nessuno.
Fui svegliato all’improvviso dal suono di una specie di
campana. Un suono metallico, insistente.
Vidi i due in stanza con me alzarsi di colpo e vestirsi
nell’agitazione. Li guardai stranito, mentre rimanevo tra le
coperte. Erano le cinque e non era ancora del tutto chiaro,
avevo intenzione di partire per le sette.
Uno dei due mi guardò e poi mi disse di muovermi. Mi alzai
assonnato pensando di prendermela comoda. Vidi dalla porta
aperta che stavano tutti correndo presi dal parossismo. Passò
di corsa Luigi che vedendomi si fermò.
<<Andiamo, muoviti, ci stanno attaccando.>>, e corse via.
Ci stanno attaccando? Chi ci attacca? Cosa sta succedendo?
Corsi anch’io in cortile, tutti gli uomini e le donne stavano
correndo, tutti armati, fucili, mitra e pistole. Cercai Luigi era
insieme alla sua ragazza, stava armeggiando con un fucile,
mi avvicinai. Una voce in mezzo al cortile gridò.
<<Luigi, dagli un arma e portalo con te.>>
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Era Accardi che impartiva ordini a destra e a manca, e in
quel caso si stava riferendo a me.
<<Si signor Generale.>>, rispose Luigi.
Mi voltai verso di lui, riflettendo su quel termine
“Generale”, ma non ebbi tempo di fare domande.
<<Sai come si usa?>>, mi chiese Luigi porgendomi una
pistola.
Naturalmente risposi di no.
Mi fece un corso accelerato di come si carica, di come si
mette il colpo in canna, di come si mette e toglie la sicura.
Poi corremmo su un impalcatura all’interno del porticato sul
lato del portone principale.
Un centinaio di persone si trovavano a circa cento metri dal
portone. Alcuni erano armati di fucili altri di forconi e
bastoni. Fecero qualche passo verso di noi, ma si fermarono
di colpo appena una raffica di mitra si stampò a pochi metri
dai loro piedi sollevando un gran polverone.
Si acquattarono nel punto in cui si trovavano. Spararono
alcuni colpi di fucile verso di noi, colpi che centrarono il
muro di cinta. Dalla nostra parte non vi fu nessuna reazione.
Era mia intenzione uscirmene al più presto per proseguire
verso Torino, ma mi informarono che la cascina era
circondata e non c’era alcuna possibilità di andarsene.
Un altro intoppo, pensai.
Mi resi conto che la difesa di quella cascina era stata
preparata con cura. Il Generale si spostava per tutto il
perimetro interno controllando ogni postazione, annuendo
con taluni, precisando e modificando con altri.
Per quel giorno non vi fu nessun altro tentativo da parte
degli aggressori.
Furono stabiliti turni di guardia che coprivano tutto l’arco
delle 24 ore, io fui assegnato al turno con Luigi e la sua
ragazza.
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Durante la notte ci fu un tentativo più per saggiare le difese
che altro, spararono da tutti i lati cercando di colpire le porte
e le finestre. Però questa volta l’ordine era stato preciso, non
si sparava più per avvertire, ma per colpire, non so se quella
notte vi furono vittime o feriti, dalla nostra parte nessuno.
Il mattino seguente il numero degli aggressori era
aumentato, tentarono un attacco frontale, ma era fin troppo
evidente che si trattava di un diversivo. Sparavano senza
avanzare, rimanendo al riparo dei fossati a discreta distanza.
L’attacco vero e proprio fu portato sul lato destro, lato in cui
si apriva un portoncino di servizio.
La porta era stata sprangata e rinforzata. Il Generale aveva
intuito che avrebbero tentato da quella parte, così aveva
spostato parte dei difensori lungo il muro destro. Quando gli
attaccanti furono ad una cinquantina di metri si sentirono
sicuri dal fatto che nessuno stava sparando loro addosso, il
frastuono proveniva tutto dal fronte della cascina, si
alzarono di scatto e si misero a correre verso la porta, ma
fatta una decina di metri si sentì distintamente un voce
imperiosa gridare:
<<Fuoco>>
Fu una carneficina. Gli attaccanti non ebbero scampo,
qualcuno riuscì a fuggire, ma la maggior parte rimase sul
terreno. Io ero al mio posto sempre sul davanti e non
partecipai, fortunatamente, a quella mattanza.
Era scoppiata la guerra.
Si trattava della terza guerra mondiale, di cui avevo discusso
con i miei allievi a Vicenza?
Gli aggressori rimasero due giorni senza fare altri tentativi.
Il quinto giorno cominciarono presto, a sparare da tutte le
direzioni, andarono avanti ore, senza mai smettere. Il
Generale aveva dato ordine di non rispondere al fuoco.
Un uomo si spostava da una postazione all’altra, aveva una
carabina con sopra innestato un cannocchiale, si sistemava
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sdraiato, puntava il fucile, prendeva la mira e poi sparava.
Un colpo solo. Poi si rialzava e con lo sguardo scuro in volto
si spostava da un’altra parte.
Mi fece venire la pelle d’oca quando si accucciò vicino a
me, mi guardò con un’espressione triste, e chiudendo gli
occhi scosse semplicemente la testa, poi senza più prestarmi
la minima attenzione si apprestò a fare il suo sporco lavoro,
sparò, ancora una volta un colpo solo e poi si disinteressò di
ciò che succedeva là dove aveva mirato, si rialzò e svanì.
Tutta la giornata andò avanti così, e proseguì anche la notte,
anche se con minor intensità.
Si faceva fatica a riposare con quel continuo martellamento.
Andarono avanti per due giorni, senza mai smettere.
Nessuno dei nostri fu ferito. Il nostro cecchino invece
colpiva con una meticolosità maniacale, un tiro ogni sei sette
minuti. Un colpo un uomo, ma dall’altra erano sempre più
numerosi.
Erano ormai passati otto giorni, all’alba del nono, sotto il
continuo crepitio di fucili e pistole al quale avevamo quasi
fatto l’abitudine, si udì una forte esplosione, una enorme
nuvola di fumo si levava dal muro posto sul fronte, dalla
parte opposta in cui eravamo appostati io Luigi e Agnese.
Dopo quell’enorme tuono ci fu un minuto di assoluto
silenzio.
Mentre il fumo diradava si udì una voce che, prima
mestamente, poi più forte, disse più volte.
<<Il Generale è morto.>>
E lo diceva con sgomento.
Quando il fumo si ridusse vedemmo che il muro presentava
una breccia larga circa due metri. Qualcuno disse che
avevano un bazooka.
In quel momento si udì un ruggito bestiale giungere dalle
fila degli aggressori, due o trecento persone stavano
correndo e urlando alla volta della breccia. Partì una raffica
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furiosa dai difensori che falciò la prima fila, ma dopo un
attimo di esitazione, anche se con un po’ più di cautela
l’avanzata riprese. Vidi qualcuno correre verso la porta
laterale nel tentativo di fuggire a quell’orda affamata.
Dopo aver guardato verso gli aggressori e aver scaricato il
suo fucile mitragliatore, Luigi si voltò, prese per mano
Agnese e poi disse a me.
<<Seguici>>
Corremmo verso il refettorio, dove avevamo sistemato anche
le brande, perché più sicuro e dove c’erano i nostri zaini. Mi
fece segno di prendere lo zaino, poi, sempre di corsa, ci
infilammo in uno stretto corridoio, arrivando ad una scala
che scendeva sotto il livello del suolo.
Non mi ero mai avventurato in quella parte della cascina.
Una porta dava su uno scantinato non troppo vasto. Luigi mi
buttò un tascapane che era appeso al muro, lui si mise a
riempire il suo con viveri che erano stati stoccati in quel
locale, lo stesso fece la ragazza. In un attimo furono pieni ed
il ragazzo ci incitò a seguirlo.
Arrivati in fondo al locale non vi era via d’uscita. Luigi
prese uno scalotto che era adagiato a terra, lo appoggiò alla
parete di fondo, salì ed aprì di pochi centimetri il battente di
una botola che a prima vista non si notava.
Guardò su e intorno poi spalancando salì in superficie,
tenendosi sdraiato nell’erba. Ci incitò a bassa voce.
Uscimmo a ridosso del muro di cinta sul retro della casa.
Corremmo acquattati passando dentro ad un fosso con poca
acqua. Ad un tratto sentimmo urlare e subito dopo una serie
di esplosioni e colpi che facevano schizzare l’acqua e la terra
intorno a noi.
Avevamo superato gli assedianti. Ci avevano visto e ci
stavano sparando. I due ragazzi si girarono e mentre
correvano spararono una raffica di mitra. Anch’io mi girai,
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ma nella foga del momento premetti il grilletto della pistola
senza togliere la sicura.
Comunque quasi subito smisero di sparare, erano più
interessati ad entrare al più presto nella cascina che a far
fuori tre fuggiaschi.
Non ci colpirono, o almeno così pensavo. Mi accorsi solo a
sera che un proiettile aveva centrato lo zaino, mi aveva
forato una camicia, mutande e un paio di calze, fermandosi
contro il tubetto del dentifricio.
Ci fermammo quando le gambe e il fiato ci obbligarono alla
sosta. Avevamo messo tra noi e la cascina più di un
chilometro, ma ancora per molto tempo sentimmo sparare.
Non posso immaginare cosa sia successo.
Rimanemmo insieme sino a sera, quando trovammo rifugio
dentro ad un vagone fermo sulla ferrovia. Dormimmo a
turno in uno scompartimento, mentre uno rimaneva di
guardia.
Il mattino successivo i due ragazzi mi dissero che avrebbero
cercato di aggirare Milano per andare in un paesino dove
avrebbero tentato di rintracciare i genitori di lei.
Ci abbracciammo commossi e prendemmo direzioni
opposte.
Avevo assistito ad una battaglia, anzi ne ero stato
protagonista anche se non avevo sparato un colpo, il mondo
ormai era popolato di lupi e se si voleva salvare la pelle
bisognava diventare lupi, ma proprio non me la sentivo e lo
sconforto mi prendeva ogni volta che pensavo a casa.
Impiegai ancora quattro giorni per arrivare in vista di
Torino. Avevo dovuto allungare più volte il tragitto per
aggirare qualche agglomerato urbano, l’unico centro che non
avevo potuto superare senza attraversarlo era stato Chivasso,
la città era troppo grande e passarle all’esterno mi avrebbe
fatto allungare troppo.
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Arrivato quasi in centro mi portai su una strada interna,
parallela alla via centrale. Camminavo rasente i muri per
paura di ogni cosa.
Ad un tratto, stavo per attraversare un incrocio quando delle
voci, provenienti dalla via che intendevo superare mi
bloccarono. Sbirciai dietro l’angolo facendo attenzione a non
farmi scorgere.
Due uomini con il fucile in mano stavano parlando con una
donna che portava un piccolo fardello su una spalla.
<<Cosa abbiamo dentro quel sacchetto bella signora?>>
Chiese uno dei due.
<<Lasciatemi andare>>, rispose la donna spaventata.
<<Ho solo poco cibo da dare ai miei bambini, vi prego.>>
I due figuri si misero a ridere e, con fare canzonatorio, la
incalzarono.
<<Dai cosa vuoi che sia quello che hai, tanto non ti
servirà.>>
E ancora una volta scoppiarono in una agghiacciante risata.
<<Ma se non porto queste cose a casa io e i miei figli
moriremo di fame. E’ l’unico cibo che sono riuscita a
trovare.>> Implorava la donna.
Dopo un’altra risata uno dei due le si avvicinò.
<<No ti sbagli, tu non morirai di fame.>>
La donna lo guardò con terrore e, togliendosi il piccolo
sacco dalla spalla, lo sporse verso l’uomo che la stava
incalzando. L’altro sempre sogghignando prese il sacco e
aggiunse.
<<Tu non puoi morire di fame, perché sei gia morta.>>
E nel pronunciare quelle parole le sparò nel petto.
A quella vista mi voltai dalla parte opposta appoggiandomi
al muro per paura di cadere e tenendomi una mano sulla
bocca per evitare di vomitare. Mentre ero appoggiato al
muro sentii i due fare commenti sulla donna, uno diceva che
avrebbero potuto divertirsi con quella, prima di ucciderla.
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L’altro prometteva che la volta prossima avrebbero
approfittato.
Non era possibile che ci fossero uomini che potessero
comportarsi in quel modo, eppure lo avevo appena visto, era
lì davanti ai miei occhi.
Quell’orrore era reale ed era lì, in quel luogo, in quel tempo.
Temetti ad un tratto che i due prendessero per la mia
direzione. Guardai, facendo ancora più attenzione a non
farmi scoprire, verso quel luogo infausto. I due assassini
stavano guardando nel fardello il loro misero bottino,
quando una voce si levò forte nella via.
<<Voi due state fermi, alzate le mani e giratevi verso il
muro. Non provate a toccare i fucili.>>
Questo suono proveniva dalla finestra di una casa, proprio di
fronte a dove i due avevano compiuto il loro omicidio.
<<Teneteli sotto tiro mentre io vedo chi sono>>, continuò la
voce, evidentemente rivolta a qualche suo sodale.
Dopo poco un giovane sui trent’anni si presentò in strada,
mentre i due tenevano le mani alzate e si guardavano alle
spalle per capire da dove veniva il pericolo.
Anche questo terzo individuo era armato, raggiunse i due
tenendoli sotto tiro.
<<Senti, possiamo fare a metà. Dividiamo tutto e ognuno
per la sua strada.>>
Disse lo sparatore cercando di girarsi e di abbassare le mani,
che però tirò immediatamente su quando vide il gesto
dell’altro che alzava il fucile minaccioso.
<<Perché dovremmo dividere con voi qualcosa che non è
nemmeno vostro.>>
E lo disse mentre guardava, piegando la testa da una parte, il
povero corpo martoriato della donna, steso sull’asfalto.
<<Va bene prenditelo e amici come prima.>> Grugni
scocciato il primo.
<<Penso che farò così.>>
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E senza dire altro, e senza spostarsi di un passo, sparò due
colpi di seguito, uccidendo i due colpendoli alla schiena.
Rimasi ancora fermo, in attesa, mi aspettavo di vedere uscire
altri uomini che dovevano essere nascosti, ma nessuno si
fece avanti.
L’uomo si chinò a recuperare la causa di quel massacro,
guadò il povero corpo della donna scuotendo la testa e poi se
ne andò.
L’unica cosa che mi venne in mente fu quella di chiedermi:
ma che razza di bestie siamo?
Ma dov’era “l’umanità” tanto decantata?
Dov’era finita la pietà?
Dove si erano nascosti gli uomini giusti?
Tutto ciò mi terrorizzò, non avevo un gran chè, ma sapevo
che quel poco sarebbe bastato a farmi uccidere. Ormai era
chiaro che chiunque poteva essere un potenziale pericolo.
Ero comunque armato, avevo una pistola che non sapevo
come usare, ma almeno potevo tentare di difendermi.
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3
La Mole Antonelliana si vedeva da lontano, la tenevo come
punto di riferimento, l’altro riferimento l’avevo nel
grattacielo di Porta Susa. Era stato appena ultimato, ma era
già inconfondibile, non potevo sbagliarmi.
Entrai in città da est, subito osservai la devastazione che
doveva essere stata perpetrata nella settimana precedente,
tutte le saracinesche dei negozi erano sventrate, macerie,
mobili e suppellettili scaraventati dai balconi.
Nessuno in giro; dentro ad un supermercato scorsi un corpo,
non mi fermai, ne vidi altri in vari luoghi.
Trovai in un androne una bicicletta. Non mi feci scrupoli, la
presi e nel giro di mezz’ora ero davanti a casa mia.
Non sapevo cosa aspettarmi, sapevo per certo che non
poteva esserci nessuno, ma mi chiedevo se avrei trovato
qualche indizio che mi avrebbe permesso di scoprire dove si
fossero rifugiati.
Salii le scale, passando tra porte divelte e mobili distrutti, in
alcuni appartamenti si notavano i segni di un incendio. La
porta di casa era stata scardinata, entrai, non c’era più nulla
al suo posto, tutto era stato scaraventato a terra ed era a
pezzi, evidentemente avevano cercato ovunque qualcosa da
mangiare. Solo la libreria era rimasta in piedi, ma i libri
erano tutti rovinati a terra.
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Mi aggirai senza trovare nulla che mi desse qualche idea di
dove potessero essere finiti i miei famigliari.
Dove potevano essere?
Dovevo assolutamente sapere.
Si era ormai fatto tardi, così decisi di rimanere per la notte.
Accostai la porta e spostai la credenza perché la tenesse in
posizione, poi sistemai come potevo il letto. Mi erano
rimaste due scatolette di carne ed una di frutta sciroppata,
mangiai e mi misi a letto.
Ero arrivato troppo tardi, ed ora non sapevo cosa pensare.
Non potevo immaginare cosa potesse essere accaduto,
cercavo di convincermi che non era accaduto niente, che i
miei si erano arrangiati e si erano rifugiati in un luogo
sicuro, ma i pensieri erano tra i più nefasti.
La città era completamente devastata e da quello che si
poteva vedere si erano scannati gli uni con gli altri per
accaparrarsi quei pochi viveri che si potevano reperire in
giro. Avevano sicuramente cominciato con assaltare i
supermercati e i magazzini, poi i negozi, poi erano passati
agli alloggi.
Finite le scorte si erano certamente spostati verso la
campagna alla ricerca di cibo, non poteva che essere una
guerra di morti di fame, i più duri potevano sperare di
sopravvivere, gli altri erano destinati a soccombere, uccisi da
chi li derubava o morti di stenti, comunque sarebbe stata una
mattanza.
In questo panorama e in quel mondo si erano mossi i miei
figli e mia moglie, i brividi mi prendevano al solo pensiero.
Pensai al Generale, aveva ragione, chi sopravviveva al primo
anno avrebbe avuto qualche speranza, ma certamente
sarebbero morte milioni di persone.
Dormii a spizzichi, consapevole che sarebbe stata l’ultima
volta che mi sarebbe capitato di rimanere in quella casa.
L’avevamo voluta fortemente, ci era piaciuta sin da subito
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con quello strano ingresso che sembrava quasi un vestibolo,
il salotto con il balcone finestra con i serramenti bianchi, le
camere ben dimensionate e, soprattutto la grande cucina in
cui potevamo pranzare comodamente con gli amici. Ci
eravamo indebitati, ma quel sacrificio non ci pesava,
avevamo quello che desideravamo. Ed ora tutto questo
doveva essere abbandonato e non sapevo neppure perché.
Non avevano lasciato alcun indizio, ne ero certo, lo avevo
cercato in ogni angolo della casa, o meglio, se c’era un
indizio di dove fossero andati era sparito nella confusione
della devastazione.
Il mattino seguente decisi che sarei andato a vedere cosa ne
era della casa dei miei genitori, scesi le scale e ad un tratto
sussultai.
<<Fasto! Andrea Fasto!>>, mi sentii chiamare.
Riconobbi la voce del signor Borsi del terzo piano, la porta
si aprì. Non avevo notato, salendo, che era l’unica che in
qualche modo era stata chiusa.
Mi guardò sorridendo da dietro la porta. Mi fece entrare,
aveva sistemato come poteva ed era rimasto in casa da solo.
Mi spiegò che si era nascosto in un anfratto del solaio, si era
portato dietro tutto ciò che aveva, ed intendeva dire i viveri,
ed aveva atteso che tutto si fosse calmato. Mi disse che
prima che si scatenasse tutto quel putiferio tutti gli inquilini
avevano preso la decisione di andarsene.
Mia moglie era passata a salutarlo.
<<Mi chiese se volevo andare con loro. Sua moglie è sempre
stata gentile.>>, disse con un mezzo sorriso.
<<Le ho risposto “Dove vuole che vada con questa
gamba”.>>
Zoppicava da sempre e si appoggiava ad un bastone per
sostenersi. Da giovane aveva avuto un brutto incidente
d’auto, era rimasto in coma per diverso tempo, ma, come
diceva lui, se l’era cavata cedendo solo una gamba.
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Aveva ringraziato e li aveva visti andare via, ognuno con
uno zaino sulle spalle, insieme ad altre due famiglie del
palazzo. Mi disse che mia moglie accennò che sarebbero
andati verso “giù”, nient’altro, anche perché gli altri le
stavano mettendo fretta.
Era successo otto giorni fa.
Il giorno successivo un orda di affamati si era riversato nelle
strade alla ricerca di tutto ciò che poteva servire,
contendendosi a suon di bastonate, di colpi di pistola, fucile,
colpendo e uccidendo per accaparrarsi quel poco che era
rimasto. Alla fine di quella giornata e della mattanza che ne
era scaturita tutto era tornato tranquillo, da quel giorno Borsi
aveva sentito solo qualche rumore, ma non aveva più visto
nessuno. Sarebbe comunque rimasto in quella casa fin che
non fosse rimasto senza viveri, e mi fece capire che ne aveva
ancora per circa dieci giorni.
Gli chiesi cosa avrebbe fatto poi. Alzò le spalle atteggiando
il viso ad un sorriso che voleva essere malizioso, ma che
trovai terrificante.
Ci salutammo con calore, lui mi augurò buona fortuna, io
non seppi cosa dire.
Uscii, ritrovai la bicicletta che avevo lasciato al pian terreno,
in un quarto d’ora arrivai a casa dei miei, attraversando una
città spettrale, punteggiata da cadaveri e macerie. Salii le
scale e arrivato al quarto trovai ciò che mi aspettavo e che
era la norma ormai in quella città, l’alloggio devastato, tutto
a terra, tutto rotto.
Raccattai da terra due foto, una di noi quattro, io, mia moglie
e i miei due figli, che i miei genitori tenevano sulla libreria
in salotto; nella seconda c’era proprio tutta la famiglia, noi
con loro due, il giorno del loro anniversario di matrimonio.
Le guardai a lungo, cosa che ho fatto spesso nei mesi
seguenti, mi salirono le lacrime agli occhi, e così le misi
subito nella tasca esterna dello zaino.
36
Solo in quel momento mi accorsi che non avevo il
portafoglio, non ricordavo di averlo perso o lasciato da
qualche parte, semplicemente era un accessorio che non
serviva più, e mi venne alla mente che il denaro non aveva
più alcun valore.
Mentre facevo queste ed altre considerazioni mi venne in
mente, come un flash, di un particolare della vita di mio
padre che fino ad allora avevo considerato come una
stranezza o una piccola follia e quasi me ne ero dimenticato.
Era ormai, qualche anno, cioè da quando si era trasferito in
quella casa, che mio padre aveva un piccolo ripostiglio
segreto in cantina. A dire la verità gli era venuto in mente
guardando la conformazione della cantina; su un lato vi era
una rientranza non più larga di 40 centimetri alta fino al
soffitto.
Mio padre aveva sistemato davanti a questa rientranza un
armadio e aveva ricavato una porta nascosta nel fondo.
Periodicamente sistemava in questo vano generi che lui
chiamava “di prima necessità”, cibarie soprattutto.
Mia madre lo prendeva in giro e diceva che era un po’
paranoico, mio padre si difendeva sostenendo che quel
ripostiglio era un posto come un altro per tenerci della roba
che poi sarebbe servita.
Scesi, con una certa apprensione fino alle cantine. Ormai
anche per me il problema cibo era sicuramente al primo
posto nei miei pensieri, e l’idea che nessuno avesse scoperto
il nascondiglio di mio padre mi fece fare con una certa
precipitazione quelle rampe di scala. Ovviamente la porta
era aperta, non scardinata, ed era l’unica, la cosa mi stupì
non poco, la cantina era sottosopra come tutte quelle
precedenti, l’armadio era aperto, il cuore mi venne in gola.
L’armadio era aperto, tutto quello che conteneva era
riversato sul pavimento, ma la parete di fondo era intatta,
appoggiai la mano dove sapevo che avrei trovato la piccola
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leva che apriva lo scrigno. La parete si girò senza sforzo,
dietro il pannello c’erano: pacchi di pasta, biscotti, latte,
scatolette varie e una busta.
Tesi l’orecchio per sentire se si avvertivano rumori, nulla.
Presi la roba dal buco e la infilai nello zaino, da cui estrassi
indumenti che mi sembravano meno importanti e che lasciai
lì. Guardai la busta vidi che dentro c’era una lettera, la infilai
in tasca ed uscii.
Ora capivo perché la porta della cantina era aperta, mio
padre era stato certamente in quel luogo ed aveva lasciato
apposta la porta aperta e forse aveva messo lui tutto all’aria,
affinché chi fosse entrato dopo avrebbe percepito che non
era il primo e che non avrebbe trovato più nulla e a maggior
ragione non si sarebbe accanito in quel buco, ma sarebbe
proseguito a quello successivo.
Grandioso pensai e lo benedissi in cuor mio.
Quando arrivai all’esterno non trovai più la bicicletta, mi
allarmai, presi immediatamente la pistola in mano e
guardandomi intorno, costeggiando i caseggiati, mi diressi
verso la periferia della città.
Ero confuso e non avevo un piano preciso, dovevo prima
trovare un mezzo di locomozione, poi capire cosa mi
conveniva fare.
Mi ricordai di un ciclista a qualche isolato da quella casa,
avevo portato una volta una bicicletta a riparare, mi aveva
fatto notare che se compravo le biciclette nei supermercati
per forza si rompevano e lo diceva con aria di sufficienza.
Non mi era simpatico, ma in quel momento il suo negozio
mi forniva una bicicletta, evidentemente vecchia, ma a prima
vista funzionante; probabilmente era stata portata a riparare,
ed era ciò che mi serviva. Saltato sul mezzo mi diressi
velocemente verso sud.
Dopo circa un’ora, appurato che nessuno mi seguiva, mi
fermai ed entrai nel portoncino sfondato di una casa, salii
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fino al primo piano, portandomi dietro, con non poca fatica,
la bicicletta, mi sedetti su un divano e tirai fuori la lettera.
Mio padre mi diceva che avevano deciso di lasciare la città
insieme ai loro amici, sarebbero andati in campagna, non
scriveva dove, ma io sapevo, lui ne era certo. Aggiungeva
che avevano visto il giorno precedente la mia famiglia, ma
che la situazione era precipitata e non sapeva più nulla di
loro, mi incitava a cercare mia moglie e i miei figli e a non
pensare a loro. Chiudeva augurandomi da parte sua e della
mamma ogni bene, poi aggiungeva “scusa, ma abbiamo
preso noi alcuni viveri.”.
Mi chiedeva scusa, io che lo avrei baciato per quello che mi
aveva lasciato, io che lo avrei baciato per la certezza che
aveva e per la sua lungimiranza. Ho ripensato a lui e a mia
madre tante di quelle volte, chissà se ce l’hanno fatta.
Loro che avevano fatto una vita di sacrifici per farmi
studiare, senza mai un giorno di ferie, senza un di più per
loro.
Mi resi conto in quel momento che non avrei più potuto
ringraziarli e, cosa che mi angustiò maggiormente era che
non lo avevo neppure mai fatto prima e me ne pentii
amaramente.
Pensai e ripensai a dove poteva essere andata mia moglie,
aveva detto “giù” al nostro vicino di casa. Lei era pugliese,
possibile che avesse l’intenzione di andare dai suoi?
Tutto era possibile ed era anche plausibile.
Poi mi venne in mente che “giù” poteva anche essere la
nostra casetta nell’entroterra ligure. Anche questa poteva
essere una scelta intelligente.
Dovevo prendere una decisione, e anche subito, avevo un
ritardo di otto giorni, ormai nove, da quando erano partiti.
Puglia o Liguria. Più di mille chilometri o meno di duecento.
Avevamo un piccola casetta nelle vicinanze di Dolceacqua
sopra Ventimiglia, aveva un senso andarci, c’era un piccolo
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terreno su cui si poteva coltivare un orto, sarebbe stato
importante nei mesi successivi.
Non sarebbe stato agevole raggiungerla e se non fossero stati
in quel luogo avrei allungato non di poco il mio viaggio
verso il sud. Ma d’altra parte era senz’altro meglio provare
prima nel punto più vicino, piuttosto che fare il contrario.
Presa la decisione scesi le scale con sulle spalle la bicicletta,
arrivato in fondo della rampa una serie di colpi di fucile
schiantò gli stipiti del portoncino della casa. Una pallottola
aveva centrato anche la bicicletta che avevo gettato
immediatamente a terra e, senza pensarci, ero risalito al
piano di sopra. Qualcuno mi stava sparando addosso, estrassi
la pistola, avrei venduto cara la pelle.
Così si diceva nei film western, ma la cosa non mi fece
ridere.
<<Esci fuori con le mani alzate, non ti faremo del male,
vogliamo solo la tua roba.>>, urlò una voce maschile.
Si lo avevo visto come si prendeva la roba altrui. Si
assicurava l’incolumità, poi una volta accaparrata la
mercanzia, un colpo in testa e via.
Questa volta, lo pensai seriamente, non mi avrebbero preso
facilmente.
Non sapevo quanti erano, né quante armi avessero. Non li
vedevo, ma sentivo che parlavano e potevano essere almeno
in tre. Guardai da una finestra per rendermi conto della
situazione. Non mi resi conto di nulla, non c’era niente da
vedere, erano ben nascosti.
Non potevo certo fare una sortita alla Pat Garret e Billy the
Kid, anche perché a loro non era andata bene, dovevo
escogitare qualcosa di meno cruento e, possibilmente più
sicuro.
Potevo attendere la notte e sperare di sgattaiolare senza
essere visto, ma questo voleva dire aspettare per molte ore
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senza la certezza che quella strategia avrebbe portato a buon
frutto.
Mi venne in mente di vedere se si poteva uscire passando
dalle cantine, ma la porta d’accesso era sotto la rampa che
portava al pian terreno ed avrei dovuto passare nell’androne,
cosa che avrebbe permesso ai miei assedianti di vedermi e
colpirmi.
C’era il tetto; le case erano l’una affiancata all’altra ed avrei
potuto spostarmi di almeno una trentina di metri, con il
rischio, però di essere visto e, ancora peggio, di essere
colpito.
Guardai sul retro, il balconcino della cucina si affacciava su
un piccolo cortile, sulla destra un muretto alto circa due
metri si dipartiva dal fianco del balcone, divideva dal cortile
della casa a fianco e finiva contro i box ricavati nella parte
terminale del cortile.
Non ci pensai un attimo, non avevo tempo, mi assicurai sulle
spalle lo zaino con le cinghie ben tirate, scavalcai la
ringhiera e combattendo con il mio senso dell’equilibrio
attraversai fino ai box e senza sforzo mi calai sul retro. Mi
trovai nel cortile di una casa che dava sulla via parallela a
quella da cui io ero entrato, uscii facendo attenzione che non
ci fosse nessuno e corsi a perdifiato, credo per almeno dieci
isolati.
Per quello che ne so quei tre o quattro sono ancora la fuori
ad aspettarmi, si fottano.
Camminai a lungo cambiando spesso direzione e voltandomi
ogni momento per verificare di non essere seguito.
Nel mio peregrinare trovai un altro ciclista ed anche un’altra
bicicletta così mi fu possibile riprendere il cammino.
La ragione mi indicò la strada, ripresi immediatamente la
strada e mi diressi in direzione di Cuneo, il Colle di Tenda e
la Liguria.
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Misi due giorni ad arrivare al Colle, non era tanto per i
chilometri, quanto il peso dello zaino che mi portavo dietro.
Avevo anche dovuto un paio di volte fare giri intorno ad
abitati per evitare di venire intercettato, sapevo quanto fosse
pericoloso e non volevo correre rischi.
Dormii in una casa nei pressi del tunnel, riuscii persino a
farmi una pasta utilizzando un fornelletto che avevo scovato
in un armadio dell’appartamento in cui mi ero rifugiato, che
mi diede vigore, ma soprattutto morale.
Il mattino seguente entrai nel tunnel, la bobina della
bicicletta girava e produceva la corrente necessaria alla
lampadina del faro sul davanti. La luce fioca rischiarava non
più di un metro davanti a me. Sembrava proprio di entrare
nelle viscere di un mostro.
Impiegai quasi un’ora ad attraversare il tunnel, poi presi per
la discesa e dovetti fermarmi più volte perché mi dolevano le
mani a forza di frenare e poi, all’improvviso, proprio su una
curva, si ruppe il cavo del freno posteriore, scivolai a terra
senza farmi troppo male, giusto una mano spelata e un colpo
al ginocchio, ma fui preso dal panico pensando a cosa
sarebbe potuto succedere se mi fossi rotto una gamba o un
braccio. Cacciai quell’idea, ma non salii più in bicicletta,
legai lo zaino al tubo e con un certo sollievo alle spalle
proseguii fino a quando non arrivai all’imbocco della strada
che dalla statale portava verso Dolceacqua.
Ci misi più tempo a fare quel pezzo di strada, che non era
più di nove chilometri, che a scendere dal colle.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando imboccai la stradina
che portava alla nostra casetta.
Conoscevo quel tratto come le mie tasche, ogni volta che
volevamo rilassarci e avevamo un paio di giorni ci
rifugiavamo in quel piccolo eden, trascorrendo giornate di
quiete e giochi con i figli che mi struggono ancora oggi al
solo pensiero.
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Arrivai al cancello che trovai chiuso, chiamai, una, due, tre
volte, poi dalla porta di casa uscì un uomo con un fucile al
braccio. Non lo conoscevo, non lo avevo mai visto prima e
usciva da casa mia con un fucile in mano.
Il mondo mi crollò in testa.
Era un uomo grasso, non tanto alto, con pochi capelli e lo
sguardo di chi ha paura. Mi disse subito di andare via,
facendomi notare il fucile, come se non fosse stata la prima
cosa che avevo visto. Gli chiesi se aveva visto qualcuno
della mia famiglia, se fossero passati di li, se qualcuno li
aveva visti. Gli chiesi, per pietà, se sapeva qualcosa di mia
moglie e dei miei figli.
L’uomo era agitato, spostava il peso da un piede all’altro;
dietro di lui apparve una donnina con indosso un grembiule
da cucina, era piccolina con i capelli bianchi raccolti a
crocchia, aveva in mano qualcosa, ma non riuscivo a capire
cosa, disse qualche parola all’uomo che scrollò il capo, si
capiva che lei insisteva, allora lui mi chiese se ero Andrea.
Risposi ovviamente di si in attesa di qualche accadimento e
con una grande apprensione nel cuore, l’uomo prese dalle
mani della donna quello che teneva stretto e ordinandomi di
allontanarmi dal cancello si avvicinò fino a lanciarmi una
busta oltre le inferriate.
Corsi subito verso il cancello, incurante del fucile e presi la
busta bianca che mi aveva lanciato. Sul davanti c’era una
grande ics seguita dal mio nome.
Per Andrea. L’aprii con un misto di gioia ed angoscia. Era di
mia moglie, lo capii subito dalla grafia, diceva che era stata
in quella casa qualche giorno prima insieme ai nostri vicini, i
De Novo, avrebbero proseguito per il sud, verso la Puglia,
con la loro barca. Mi assicurava che i bambini stavano bene
e mi pregava di raggiungerli il più in fretta possibile e che le
mancavo.
Anche lei mi mancava.
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Tutti loro mi mancavano.
Mi ero seduto sotto un albero, più che seduto mi ero
accasciato appoggiandomi al tronco di un ulivo che era il
nostro rifugio quando volevamo parlarci guardandoci negli
occhi.
Leggevo quelle righe e dovevo asciugarmi spesso le lacrime
dagli occhi perché le parole scritte si scioglievano davanti a
me.
Non so quanto rimasi con quella lettera in mano e quanto
piansi.
Piangevo perché sapevo che erano ancora vivi, piangevo
perché non ero riuscito a raggiungerli in tempo, piangevo
perché eravamo così distanti.
Ad un tratto ebbi la sensazione di qualcuno vicino a me, mi
voltai lentamente, era la donnina con il grembiule, mi stava
guardando con espressione compassionevole, con le mani
giunte sul grembo; mi fece un lieve sorriso e mi disse
semplicemente:
<<Ho preparato cena, se lo gradisce, ce n’è anche per lei.>>
Mi alzai dicendole semplicemente grazie e la seguii.
Era una delle poche gentilezze in quei giorni feroci.
Erano fuggiti da Ventimiglia e si erano rifugiati
nell’entroterra per cercare di sfuggire a quel delirio che
aveva portato la maggior parte degli abitanti a scannarsi gli
uni con gli altri. Avevano assistito ad una vera e propria
carneficina davanti ad un supermercato; perfino dei loro
amici si erano presentati a casa loro armati nel tentativo di
prendere loro ciò che avevano, erano riusciti ad allontanarli
solo minacciandoli con il fucile da caccia. La notte stessa
avevano messo tutto quello che avevano dentro ad un
carrello della spesa e una sacca e si erano diretti verso
l’entroterra sperando di trovare riparo da qualche parte.
Giunti di fronte alla mia casa avevano trovato il cancello
accostato e la chiave sul gradino della porta.
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Pensai che mia moglie aveva ragionato bene, era inutile
chiudere e sprangare la porta, avrebbero spaccato tutto per
riuscire a penetrare all’interno nella speranza di trovare
qualcosa da mangiare.
Avevano pensato che quella poteva essere un rifugio
abbastanza sicuro.
In effetti avevo fatto installare alle finestre delle inferriate, in
quanto noi frequentavamo il luogo solo per alcuni week-end
all’anno e circa un mese durante l’estate, la porta
dell’ingresso era blindata. La proprietà era circondata da un
recinto in ferro, come il portone e per quel motivo era
abbastanza facile difendersi dall’interno.
Mi chiesero scusa per aver approfittato della mia casa, ma io
dissi loro che avevano fatto bene, in quel momento tutto
sembrava lecito, quello a cui non riuscivo a rassegnarmi era
quella furia animalesca che aveva preso tutti e loro erano
d’accordo con me.
Mangiammo fagiano, lo aveva preso l’uomo cacciando il
giorno precedente, mi raccontarono che era abbastanza facile
trovare insalata e asparagi selvatici.
Quando fu ora di andare a dormire mi fecero accomodare,
mi diressi automaticamente verso la mia camera da letto, ma
quando già avevo la mano sulla maniglia, mi fermai e mi
girai verso la camera dei miei figli. I due, che erano dietro di
me, mi guardarono e ringraziarono con gli occhi, la mia
stanza, la nostra stanza era diventata la loro.
La stanza dei ragazzi era come l’avevamo lasciata l’ultima
volta, circa due mesi prima, c’era il peluche di Giulia sul suo
letto, il pigiama di Marco sotto al cuscino, le loro foto
appese ai muri: Giulia che si tuffava da uno scoglio, Marco
con il casco in testa su un go-cart, noi quattro su una roccia
durante una gita in montagna. Staccai le foto e le misi con le
altre che avevo preso dai miei. Poi dormii un sonno agitato.
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Il mattino seguente me ne andai, l’uomo mi strinse
energicamente la mano destra senza dire nulla, mentre
serrava le labbra muovendo impercettibilmente il capo in
segno di assenso. La donna mi abbracciò augurandomi
buona fortuna, vidi nei suoi occhi una lacrima, non so cosa
potesse significare, ma la sentii vicina e ne fui contento.
Scesi verso il mare, prendendo sentieri tra i campi.
Camminavo nei tratturi col pensiero alla mia famiglia, li
vedevo in quei luoghi, ma ero arrivato troppo tardi. Mi
figuravo il loro viaggio, i pericoli a cui andavano incontro ed
il cuore mi si stringeva nel petto.
Avvicinandomi ad un agglomerato di case sentii dei colpi
d’arma, non me ne intendo e quindi non capii che tipo di
arma fosse, comunque decisi di passare nel centro del
paesino per evitare di essere troppo visibile in mezzo ai
campi.
Potevo nascondermi tra una casa e l’altra.
Stavo scendendo in un piccolo carruggio cercando di non far
rumore quando ad un crocicchio mi trovai di fronte una
scena a cui non ero preparato. Due ragazze mi puntarono
contro un fucile ciascuna, al loro fianco una ragazza stava
rannicchiata su uno scalino di pietra e piangeva, un’altra le
si era inginocchiata al fianco e stava evidentemente cercando
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di consolarla, ma quello che più strideva erano i corpi di tre
uomini che giacevano bocconi colpiti da una scarica di
fucili, che sicuramente erano gli stessi che mi stavano
puntando addosso le due tipe.
<<Chi sei?>>, mi chiese quella più alta.
Era bionda con un corpo fino, ma con un’espressione feroce.
<<Mi chiamo Andrea Fasto se può servire.>>, risposi.
<<Cosa fai qui?>> Mi incalzò la stessa.
<<Sto andando verso sud a cercare la mia famiglia.>>,
replicai temendo un colpo da un momento all’altro, avevo
già visto la scena e temevo fosse la fine.
<<Li conosci?>> e mi indicava con la canna del fucile i tre
stesi a terra.
<<No, mai visti prima, chi sono?>>
<<Tre stronzi che hanno cercato di stuprare quella>>, e
indicò con la testa la piangente.
<<Ora non potranno più fare porcate.>>, aggiunse
sprezzante.
<<Amen>> ,dissi io.
E non mi veniva proprio in mente nulla di più, ormai
qualunque cosa era normale, anche che tre ragazze
andassero in giro armate a sparare a degli stronzi che nel
marasma più totale si mettevano a stuprare la prima donna
che gli capitava tra le mani, e non erano ancora le nove di
mattina.
Quel pensiero sull’ora mi parve grottesco, ma mi venne
proprio in quel momento.
<<Hai da mangiare?>> Mi chiese la bruna un po’ più bassa,
che indossava una salopette di jeans da cui sbucava il
manico di un coltello.
<<Me lo chiedi con il fucile?>> Fu la mia risposta un po’
avventata, mentre indicavo con il mento l’arma.
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Le ragazze si guardarono e abbassarono le canne dei fucili
verso terra, poi, quella che stava consolando la vittima, si
alzò e disse.
<<Scusa noi non vogliamo diventare come loro, ma se ci
puoi dare qualcosa te ne saremmo grate.>>
Mi tolsi lo zaino, e diedi loro un pacco di pasta e quattro
scatolette di tonno. Ci sedemmo un po’ distanti da quei corpi
martoriati. Erano studentesse che venivano da Brescia, non
erano riuscite a tornare a casa e cercavano di resistere con
ogni mezzo. Non feci fatica a creder loro guardando come si
destreggiavano con i fucili. Mi ringraziarono per il cibo e mi
augurarono buona fortuna. Con tutto quello che stava
accadendo ne avevo proprio bisogno.
Uscii dal piccolo borgo frastornato e ripresi il mio cammino.
Mia moglie mi aveva dato un’indicazione, certo che se
avessi trovato una barca anch’io avrei potuto andare verso
sud molto più celermente.
Così ripresi a dirigermi verso il mare alla ricerca di un
natante, mi venne da pensare che forse la furia devastatrice
non era arrivata fino all’acqua. Arrivai, facendo attenzione a
non farmi scorgere, fino ad un porto turistico.
Fu subito chiaro che anche lì la furia era arrivata e non aveva
risparmiato nulla. Nel piccolo porto erano rimaste solo
alcune imbarcazioni, vi erano cabinati mezzo sommersi, due
erano addirittura rovesciati, tutti gli altri avevano il
portellone d’ingresso divelto ed erano in uno stato
disastroso.
Un uomo immobile, cadavere, era riverso sulla scaletta che
dava alla cabina di un piccolo yact.
Mi guardai intorno; a riva, sulle pietre a pochi metri dal
bagnasciuga c’era un 470 lo osservai con interesse, a fianco
una barca a vela un po’ più tozza, sul fianco aveva una
scritta “Fusilla”, non so se indicasse il modello di barca o il
suo nome di battesimo, a occhio sembrava più stabile del
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470 che è una barca per regate. Nel gavone non c’erano vele
né il timone, mi aggirai per il porto e, sotto un porticato,
entrai in un ripostiglio in cui certamente si riponevano le
telerie e gli accessori delle barche.
Era, ancora una volta, tutto sottosopra; a terra vidi una sacca
con su scritto 470, ma non c’era traccia del timone. Ribaltati
a terra c’erano diversi armadi di ferro, provai a rigirarli e
dentro uno di essi trovai un sacco di iuta con sopra scritto
“Fusilla” e, poco distante, un timone in legno con a fianco
una deriva, che mi parve potesse adattarsi alla barca. Presi
anche due remi e una canna da pesca. Poi trovai una scatola
da scarpe in cui vi erano alcuni ami e un barattolo di esche.
Con tutta quell’attrezzatura mi diressi alla barca.
Con un certo sforzo, trascinai la barca in acqua, facendola
scivolare su dei rulli che erano adagiati a terra; ne presi due,
che avrei potuto usare in seguito per alare la barca quando
mi fossi fermato.
Una volta in acqua spinsi la barca fuori dal porto a remi, non
mi fidavo a tirare su le vele a riva.
Era una giornata con mare calmo e non feci fatica ad issare
la vela e fare rotta verso est.
Il mare liscio e una leggera brezza proveniente da sud mi
permetteva di navigare di bolina parallelo alla costa.
Veleggiai per tutto il giorno passando a qualche centinaio di
metri dai paesini che erano stati meta di villeggiatura fino a
poco tempo prima; ora le spiagge erano deserte, si potevano
osservare, invece, diverse persone che pescavano sui moli e
sulle rocce. Incrociai anche alcune barche su cui febbrile era
l’attività della pesca; alcuni pescavano con canne, altri con
reti, tutti si industriavano nel cercare di portare a casa
qualcosa da mangiare.
Io non fui da meno, misi su un amo un’esca che a occhio mi
sembrava adatta, non avevo mai pescato prima di allora e
non avevo idea di come comportarmi.
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Dopo diverso tempo mi resi conto che l’esca non c’era più,
in compenso nessun pesce era rimasto attaccato al mio amo
al traino. Cambiai quattro volte tipo di esca e amo, fino a
quando un pesce, neanche tanto grande, intorno ai trenta
centimetri, fece tendere il cavo.
Misi la barca alla cappa e tirai lentamente la preda verso di
me. Ci misi un po’ a far entrare il pesce all’interno dello
scafo, poi quando fu dentro non sapevo come finirlo, si
dibatteva furioso con l’amo conficcato in gola. Credo di
averlo fatto soffrire inutilmente prima di riuscire a dargli il
colpo di grazia.
Fu più facile nel pomeriggio con un pesce un po’ più
piccolo, e ancora di più nei giorni seguenti.
A sera avevo percorso un buon tratto, o così a me sembrava.
Accostai cercando una baia con una spiaggia protetta dalla
roccia. Ammainai la vela e mi diressi verso un piccolo
anfratto riparato, non avevo nessuna voglia di attirare
l’attenzione. Faticai a tirare a riva la barca, ma dopo molti
sforzi riuscii nel mio intento.
Non avevo pensato a come avrei passato la notte, l’unica
certezza era che non avrei abbandonato la barca, quindi mi
toccava dormire nei pressi, anche perché sulla scafo era
impossibile.
Non mi ero procurato una tenda, né un materassino, dovetti
provvedere con una soluzione di fortuna usando le vele per
ripararmi in qualche modo.
Accesi un fuoco con pezzi di legno che la risacca aveva
trascinato sulla spiaggetta, su cui cucinai i miei due pescetti.
Con un certo schifo sviscerai i pesci e li aprii in due, li misi
su una pietra liscia che avevo lavato in mare; poi, per dare
un gusto che sapesse un po’ meno di mare, provai a versare
sopra la salamoia di un sacchetto di olive, ma non ottenni un
gran risultato, però tutto sommato avevo potuto mangiare e
saziarmi.
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Il mare poteva aiutarmi e, il pensiero mi fu di conforto,
avrebbe potuto aiutare anche i miei figli.
Dormii malissimo su ciotoli che si conficcavano dappertutto,
l’umidità poi era terribile. Mi svegliai prima dell’alba e alle
prime luci del giorno ero già in acqua dopo aver mangiato
giusto due biscotti.
Il mare aveva preso ad agitarsi leggermente, le onde alte
poco più di mezzo metro facevano ondeggiare la barca che,
comunque, solcava il mare senza difficoltà. A metà mattina
il vento si fece un po’ più teso e soprattutto aveva cambiato
direzione, ora proveniva da est, cosa che mi costringeva a
fare lunghi bordi rallentando notevolmente l’avanzamento
verso la mia meta.
La seconda notte dormii all’interno di un locale di uno
stabilimento balneare; finalmente riuscii a riposare perché
avevo trovato una brandina su cui potei sdraiarmi.
Il mattino dopo, con sgomento, osservai il mare che si era
ingrossato, al punto che mi fu subito chiaro che non sarei
stato in grado di mettere in acqua la barca.
Rimasi interdetto se proseguire via terra o aspettare il
miglioramento delle condizioni del mare. Mi convinsi che il
percorso fatto i due giorni precedenti mi sarebbe costato via
terra più del doppio del tempo, per non contare la fatica.
Rimasi chiuso tutta la mattina nel locale che dava sul mare
ad osservare le onde che si frangevano sulle rocce, ad un
tratto entrò nella saletta, senza che mi fossi accorto del suo
arrivo, un uomo che mi guardò stupito. Aveva in mano una
canna e un cestino tipico dei pescatori, mi guardò e vidi che
notò subito la pistola che tenevo al fianco. Sorrise, poi mi
chiese se poteva pescare sugli scogli a lato dello
stabilimento. Gli risposi di si ed anzi gli chiesi se potevo
pescare al suo fianco. Rispose soltanto:
<<Il mare è grande.>> e ci avviammo insieme.
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Rimanemmo tutto il pomeriggio a chiacchierare come
fossimo stati amici da sempre, ci raccontammo le nostre
vicissitudini e le disgrazie del mondo, mentre le nostre reti si
riempivano. Mi disse che quello era un luogo molto adatto
per la pesca, da sempre.
Alla fine lui aveva preso sette bei pesci, io tre, ma per quella
sera era senz’altro sufficiente. Mi salutò rassicurandomi che
il giorno successivo il mare sarebbe tornato liscio come
l’olio.
Non si sbagliava, e il mattino successivo la barca solcava
dolcemente onde piccolissime.
Mentre veleggiavo mi vennero alla mente gli amici. Con il
pensiero costante alla mia famiglia avevo accantonato tutto
ciò che era naturale solo un mese prima. Gli amici con cui
trascorrevamo le vacanze, con cui passavamo gran parte del
tempo libero, che ci confortavano nei momenti di necessità e
con cui condividevamo gioie e dolori della vita. Avevamo
attraversato le varie fasi della nostra esistenza insieme,
prima come gruppo di giovani con le ragazze, poi i
matrimoni, i figli e tutta la vita insomma. Che fine avevano
fatto? Come se la stavano cavando? L’angoscia mi fece
pensare: saranno ancora vivi?
Il vento non mi agevolava molto, ma se si viaggia con una
barca a vela si deve dare per scontato che il vento bisogna
cercarselo, fortuna che avevo una certa dimestichezza con le
derive. D’estate mi piaceva veleggiare per brevi percorsi,
durante le vacanze, e quell’esercizio mi tornò veramente
utile.
Il tempo in barca passava lentamente, la tranquillità del mare
e le onde lievi mi permettevano di rimuginare sugli
avvenimenti di quei giorni.
Com’era possibile che fossimo finiti in una tale situazione?
Nessuno si era reso conto del baratro su cui stavamo
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viaggiando, nessuno aveva previsto quanto era avvenuto, e
poi cosa era successo in realtà?
Perché all’improvviso il mondo era scivolato in quel
baratro?
Cosa aveva scatenato quella furia?
Mi facevo mille domande e non mi riusciva di trovare mai
una risposta. Ce la mettevo tutta, ma quando ero certo di
essere sul punto di capire, la mente finiva al pensiero dei
miei figli e di mia moglie.
Li vedevo in mezzo a pericoli continui: prima nella città
saccheggiata, poi nelle colline dell’entroterra ligure con
loschi figuri che stupravano le ragazzine di passaggio. Li
immaginavo su una barca a vela assaltata dai pirati, proprio
quelli classici, con la benda sull’occhio e la bandiera nera
con il teschio.
Ogni tanto un pesce mi distraeva e l’attività di recupero della
preda mi permetteva di pensare ad altro, poi l’angoscia
ricominciava e le domande si affollavano sempre più nella
mia testa.
Alla fine di quella giornata mi fermai su una piccola
spiaggia a ridosso della roccia.
La spiaggia era raggiungibile dalla strada statale per mezzo
di una scalinata in cemento che era stata ricavata proprio
contro la scogliera. Sperai che nessuno mi avesse visto
approdare, ma, circa un’ora dopo, mentre mi stavo
preparando la cena, cocendo uno dei quattro pesci che avevo
tirato su durante la giornata, alzando la testa verso la
scalinata vidi, sull’ultima rampa, due figure scure
nell’ombra della sera. Sembravano alla prima fantasmi, la
mano mi corse immediatamente alla pistola poi, osservando
con più attenzione, notai che sulla rampa stavano scendendo
lentamente una donna e un ragazzino.
Erano in cattive condizioni, a giudicare dall’aspetto; la
donna aveva un vestito lacero e abbastanza sporco, i capelli
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castano chiari che, senza nessuna forma, le cadevano sugli
occhi, mentre il ragazzino, con i capelli lisci incollati alla
testa, era magro da far paura. Lo stavo osservando mentre lui
non aveva occhi che per il pesce che stavo preparando sul
fuoco.
La donna si avvicinò e senza lasciar passare un attimo disse:
<<Se ci dai qualcosa da mangiare poi potrò essere gentile
con te>> e, mentre lo diceva, aveva portato una mano ad un
bottone del vestito nell’atto di chi sta per sbottonarlo, ma
nello stesso tempo abbassava gli occhi e si vedeva che le
veniva da piangere.
Dissi loro che potevano sedersi e che avrei diviso con loro
quello che c’era.
Il ragazzo spalancò gli occhi in un sorriso patetico e lei mi
guardò negli occhi ringraziandomi silenziosamente.
Mangiammo, nella quiete, senza parlare, tutti i pesci che
avevo pescato, aprii anche una scatola di biscotti e una
scatoletta di pesche sciroppate.
Io, che fino a quel momento non avevo sofferto
particolarmente la fame, mangiai come al solito, ma i due
divorarono tutto ciò che mettevo loro dinanzi.
Dopo un po’ i due si sciolsero e cominciarono a raccontare,
il ragazzo che si chiamava Luca aveva otto anni ed era
quello più loquace, parlava a raffica passando da un
argomento all’altro, ma era difficile capire completamente
ciò che diceva perché parlava e nello stesso tempo
mangiava. La madre lo osservava con amore, ma in lei si
leggeva l’angoscia di quella situazione.
Alla fine della cena dissi al ragazzo di raccontarmi tutto
dall’inizio e così fu.
<<Quando è successo quello che è successo, noi eravamo a
casa nostra a Saluzzo, papà>> e quando nominò suo padre
guardò diretto la madre negli occhi, <<diceva che era meglio
se andavamo giù al sud dai suoi. Sai mio papa era di un
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paese vicino ad Orvieto. E allora voleva che noi andassimo
proprio laggiù. Abbiamo caricato la macchina, ma in
autostrada non si poteva entrare, così abbiamo preso per la
Liguria. Siamo passati dal passo di Nava, ma quando
eravamo già in vista del mare siamo arrivati in un punto che
la strada era sbarrata, c’erano due auto rovesciate e dei
bidoni dell’immondizia. Siamo scesi per farci strada, ma
quando siamo stati a terra sono uscite delle persone con i
fucili e ci hanno detto di lasciare lì tutto e di andarcene. Così
abbiamo perso i vestiti e tutti i viveri.>> Si fermò un attimo
per andarsi a sedere tra le braccia di sua madre che lo baciò
sui capelli.
<<Papà diceva che sarebbe andato tutto bene, saremmo
andati sul mare e avremmo trovato una barca che ci avrebbe
portato a sud. Siamo arrivati in un paese, non so come si
chiamava. Come si chiamava mamma?>> Chiese
rivolgendosi a sua madre, ma lei scosse le spalle come a dire
che non lo sapeva.
<<Eravamo a piedi>>, continuò il bimbo.
<<Abbiamo visto che c’erano delle persone che stavano
portando via da un capannone, non so, a noi sembravano
scatole di pasta o cose simili. Papà ci ha detto di aspettarlo
ed è andato in quel posto, poi, dopo un poco, è arrivato un
fuoristrada, sono scesi quattro e hanno cominciato a sparare.
Papà stava uscendo con in braccio una scatola, non ha fatto
tempo a dire o fare nulla che gli hanno sparato.>>
A questo punto si fermò alzando la testa verso sua madre
che lo stava tenendo stretto con le lacrime agli occhi.
<<Mamma ha detto che dovevamo comunque andare a casa
dei nonni e così abbiamo camminato, quasi sempre di sera,
per non farci prendere. Abbiamo mangiato quello che
abbiamo trovato, anche pesci crudi che abbiamo trovato
sulla spiaggia.>>
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Raccontato tutto quel che era loro successo parlando a
raffica, si fermò e si strinse nelle spalle.
La donna, il cui nome era Vera, mi guardò intensamente e
mi disse solo:
<<Grazie>>
Le dissi che io andavo verso sud e, se volevano, avremmo
potuto viaggiare insieme; la barca era abbastanza comoda
per tre persone e dissi che il mare poteva procurarci il cibo.
Lo dissi mentre mostravo loro la lenza. E poi c’erano ancora
una piccola parte dei viveri che mi aveva lasciato mio padre;
non c’era più molto, ma avremmo potuto comunque farci
due belle spaghettate che, ero sicuro, avrebbero rinfrancato
almeno il piccolo.
Dormimmo a ridosso della scogliera, la vela ci riparava
dall’aria esterna, lasciai il mio saccopelo ai due che si
strinsero l’uno con l’altro e si addormentarono in un batter
d’occhio.
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5
La barca non aveva problemi con il nuovo equipaggio;
durante la prima mattinata entrammo in un porticciolo a
remi, non volevo fare svettare troppo la vela; attraccammo in
fondo ad un molo galleggiante. Ci mancava acqua e contavo
di trovarla nel porto. Dissi al ragazzo di tenere la barca
vicino a molo con una piccola cima, mentre alla donna dissi
di rimanere in barca con i remi pronti per ogni eventualità.
Trovai una gomma, la attaccai al rubinetto che era in un
piccolo tombino all’inizio del molo, riempii una tanica da
dieci litri e la misi sulla barca. Vera mi chiese se avevo del
sapone, dissi di no, ma avevo osservato proprio all’inizio del
piccolo porticciolo l’insegna di un negozio di pesca
subacquea e sport, mi diressi verso quella parte facendo
attenzione se arrivava qualcuno, pronto a fuggire al primo
movimento sospetto.
Entrai nel negozio che, come sospettavo, era completamente
sottosopra. C’erano bombole, pinne e maschere a terra nella
confusione, su uno scaffale vidi le sacche di tre tende, ne
presi una, pensando alla possibilità di ripararsi meglio
all’interno di un igloo. Presi anche due sacchi a pelo e misi
in un borsone alcune maglie, dei costumi, pantaloncini,
asciugamani e due tute da ginnastica. Nel bagno trovai un
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sapone liquido e subito, di corsa, uscii con tutto quel ben
d’Iddio.
Sul molo, intanto la madre stava lavando il figlio, credo
fossero settimane che non si lavavano, le porsi il sapone, mi
sorrise e comincio a fregare il bambino che cercava di
resistere ai suoi tentativi di spogliarlo. Dissi loro che nella
sacca c’era qualche indumento e mi voltai verso l’ingresso
del molo a far la guardia, lasciando che si lavassero.
Impiegarono circa mezz’ora, poi mi dissero che potevo
girarmi, erano diventati due altre persone, lei si era lavata i
capelli e li stava asciugando con un bell’asciugamano blu; si
erano rivestiti con indumenti puliti e, se non avessi saputo in
che frangenti ci trovavamo, avrei detto che erano in vacanza.
Lei era decisamente carina, l’avevo conosciuta che era al
limite dello spaventevole, con quei capelli unti e filacciosi e
quel vestito stracciato che la facevano sembrare uno
spaventapasseri. Ora la vedevo sotto un’altra luce, una
donna attraente; in quelle tragiche circostanze non avevo
fatto caso a questo, anche perché il mio pensiero continuava
a tornare sulla mia meta e su chi, ad ogni costo, volevo
raggiungere.
Decisi di approfittare dell’acqua e del fatto che nessuno si
era ancora presentato a disturbarci, così mi lavai anch’io,
dalla testa ai piedi facendo una doccia lì all’aperto.
Ripartimmo rinfrancati, almeno esternamente potevamo
dirci che il nostro aspetto era tornato umano.
I tre giorni successivi furono di facile navigazione, era
persino rilassante veleggiare in compagnia; chiacchieravamo
tutto il giorno raccontandoci della nostra vita, qualche volta
con tristezza, altre con un piccolo tocco di allegria amara,
eravamo persino arrivati a dividere una certa complicità io e
Vera, una reale amicizia che solo in casi come questi può
sfociare in così breve tempo.
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Il cibo non era un problema, anche se Luca cominciava a
dirsi stufo di mangiare sempre la stessa cosa, ma non
avevamo grandi alternative.
La sera del quarto giorno ci fermammo qualche chilometro
dopo Livorno, avevamo visto dal mare una pineta che si
affacciava sulla spiaggia, decidemmo di accamparci in quel
luogo per la notte. Tirammo la barca in secca, poi feci un
giro d’ispezione, come facevo ogni volta che ci fermavamo,
per evitare di avere sorprese.
Montammo la tenda fra gli alberi e ci cucinammo una
discreta cenetta, aggiungendo un pugno di riso a testa ai
pesci pescati. Il ragazzino faceva le smorfie, non ne poteva
più di pesce, ma io gli dissi, canzonandolo, che non doveva
comportarsi così, stava mangiando una “paella” un piatto
tipico spagnolo, tra i più prelibati, mi guardò con stampato
sul viso un punto interrogativo mentre nel contempo
osservava il suo piatto di riso e pesce. Vera si mise a ridere,
ed era la prima volta che lo faceva da quando la conoscevo,
e gli disse che lo stavo prendendo in giro. Anche Luca rise,
mentre affermava che lo aveva capito.
Dormivamo nella tenda con il bambino fra noi; al mio fianco
tenevo la pistola pronta per ogni evenienza.
La luce del sole ci risvegliò, mangiammo un paio di biscotti
a testa.
Avevo convinto i miei due compagni che era meglio non
mangiare troppo quando si navigava e fino a quel momento
nessuno di noi aveva patito il mal di mare.
Misi su le vele come ogni mattina, cominciai a caricare la
tenda e, mentre raccoglievo il mio zaino, e loro il borsone e i
sacchi a pelo, arrivarono alla spiaggia due figuri di corsa,
uno più giovane, avrà avuto si e no vent’anni, una camicia
stracciata e con in mano un bastone; l’altro sulla
cinquantina, portava un maglione girocollo blu, non aveva
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quasi capelli, ma aveva una barba grigio nera che gli
circondava il viso.
Quest’ultimo, però, aveva in mano un fucile e lo rivolgeva
verso di noi.
Tirai fuori velocemente la pistola, l’uomo la vide, in quel
momento ebbi paura e assurdamente mi venne in mente la
famosa frase di Clint Eastwood, “quando un uomo con la
pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola
è un uomo morto”.
Valutai la situazione, era vero che io avevo una pistola e
l’altro un fucile, ma io ero in una posizione più favorevole,
ero al coperto tra gli alberi e l’altro era allo scoperto sulla
spiaggia.
I due non dissero nulla, il più vecchio incitò a gesti il
giovane che si mise di buona lena a spingere la barca in
acqua, anche l’uomo armato lo aiutò spingendo con una
mano, mentre con l’altra teneva il fucile puntato nella nostra
direzione.
Saltarono sulla barca, cazzarono le vele ed in un amen la
deriva prese a correre sulle onde, perpendicolare alla
spiaggia.
Stavo uscendo dal nostro riparo, veramente arrabbiato,
quando sulla spiaggia si materializzarono altri quattro
uomini; il primo che era arrivato fin sul bagnasciuga sparò
un colpo di fucile in direzione dei due bastardi, uno degli
altri disse che erano fuori tiro ormai. Si accorsero di noi e si
fermarono. Quello che sembrava il capo stava per
incamminarsi verso di me quando si fermò, aveva notato la
fondina che portavo al fianco, la pistola la tenevo fuori dalla
vista, in mano lungo il mio fianco destro, dietro ad un
albero.
<<Era vostra la barca?>> Ci chiese.
Feci cenno di si.
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<<Potevate fermarli>>, mi disse quasi come fosse un
rimprovero.
<<Erano armati.>>, dissi io.
<<Non avevano munizioni>>, mi informò.
<<Merda, come facevo a saperlo? Merda, merda, merda.>>
Ci avevano rubato il nostro mezzo di trasporto con
l’inganno.
I quattro ci dissero che non ce l’avevano con noi, che
potevamo proseguire in pace, e girandosi tornarono da dove
erano venuti, mentre la nostra barca era ormai un puntino nel
mare.
Non riuscimmo a capire cosa fosse successo tra i due gruppi,
l’unico risultato era che noi eravamo stati quelli penalizzati
dal loro conflitto e avevamo perso il nostro mezzo di
locomozione.
Ci incamminammo mesti lungo il bagnasciuga, non
avevamo più la barca a vela, ma ci era rimasto tutto il resto:
la canna da pesca, lo zaino e i sacchi a pelo. Speravamo di
trovare ancora una barca e comunque non ci conveniva
abbandonare il mare, era la nostra unica fonte di
sostentamento.
Ci fermavamo sulle rocce a pescare, quando trovavamo un
posto che ci sembrava adatto. A volte era davvero quello
buono, altre rimanevamo per più di un’ora senza che
nemmeno un pesce tentasse di mordicchiare l’esca che
avevamo preparato per lui. D’altra parte la nostra
inesperienza era palese e riuscire a prendere un pesce era pur
sempre un colpo di fortuna.
Nel pomeriggio attraversammo un lungomare che una volta
era pieno di villeggianti, ora due uomini pescavano con la
canna seduti in fondo ad un piccolo molo, ci guardarono
passare con scarso interesse.
Di fronte al mare vi erano una lunga fila di negozi, tutti
rigorosamente all’aria e con le vetrine infrante. Passammo di
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fronte ad un negozio di articoli sportivi, entrammo,
intendevo trovare due zaini per permettere a Vera e Luca di
avere il loro bagaglio comodo sulle spalle invece che nel
borsone che avevamo preso qualche giorno prima.
Mentre rovistavo tra le macerie Luca mi chiamò eccitato,
stava osservando dei cartoni rettangolari buttati a terra. Lo
guardai cercando di capire, e lui, per tutta risposta, ne aprì
uno e tirò fuori un monopattino. Aveva trovato un nuovo
mezzo di trasporto seppur non eccessivamente veloce, ma
che ci avrebbe permesso di percorrere più strada con minor
fatica, almeno su quei lungomare asfaltati.
Approfittammo per cambiarci con indumenti nuovi e puliti,
prendemmo due piccoli zaini, poi partimmo come tre
ragazzini in vacanza sui monopattini.
La prima ora fu quasi esilarante, per quanto potesse essere,
tenuto conto delle circostanze, Luca si divertiva e per un po’
dimenticammo i nostri guai.
Il viaggio non procedeva più spedito come nei giorni
precedenti, dovevamo fermarci spesso e, quando dovemmo
attraversare un parco naturale molto grande, con dispiacere
di Luca, dovemmo abbandonare i monopattini.
La seconda sera arrivammo in prossimità di un campeggio,
pensammo che avremmo potuto fermarci e dormire in una
roulotte, almeno avremmo avuto un letto decente.
Entrammo da un cancello prospiciente la spiaggia e fatti
pochi metri vedemmo uscire da una casa mobile un uomo
che imbracciava un fucile e ce lo puntava addosso senza
tanti complimenti. Alzammo istintivamente le mani in alto.
Ci domandò chi eravamo, cosa volevamo e quali erano le
nostre intenzioni. Risposi con calma e l’uomo parve
accettare le mie spiegazioni, abbassò il fucile e mi venne
incontro stringendomi la mano.
La tensione si attenuò e riuscimmo perfino a sorridere.
<<Potete uscire ragazzi>>, disse l’uomo, e a quelle parole si
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materializzarono due ragazzi che imbracciavano a loro volta
un fucile ciascuno.
Avevano pronta un’imboscata, se avessimo tentato un
qualunque gesto saremmo stati uccisi, senza tanti
complimenti.
<<Vi avevamo visto da un po’ di tempo e quando vi
abbiamo visto entrare nel nostro territorio…>> e lasciò in
sospeso la frase allargando le braccia con le mani rivolte
verso di noi. Poi sorridendo:
<<Comunque questa sera siete nostri ospiti per cena.>>
Fu davvero una cena gustosa, dopo tanti giorni di pesce
mangiammo carne di cacciagione.
L’uomo viveva in quel luogo insieme alla moglie e ai suoi
due figli, non avevano patito la fame perché tra la pesca e la
caccia se la cavavano abbastanza bene, avevano anche molta
farina e patate per cui anche il primo fu servito per cena con
dei gnocchi conditi con erbette che trovammo veramente
squisiti.
Quella sera confrontammo le nostre idee e impressioni su
ciò che era successo nelle settimane precedenti, nessuno di
noi aveva chiaro cosa avesse innescato quella follia,
provammo ad immaginare che ci fosse stato un forte calo
nella produzione del petrolio e l’Italia fosse stata penalizzata
nei rifornimenti. Si ipotizzò che gli Stati Uniti certamente si
erano accaparrati un buona parte del greggio, così come
pensammo per la Cina e forse la Russia.
Eravamo comunque tutti certi che avremmo ripreso la nostra
vita, magari non proprio come quella precedente, ma che
saremmo riusciti a trovare un modo per vivere.
Finimmo la cena con un amaro che gradii particolarmente.
La notte trascorse tranquilla, dormimmo in una roulotte, ed
al mattino, dopo un’abbondante colazione ripartimmo verso
sud.
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Camminammo tutto il giorno compiendo però un tragitto
modesto. Dovevamo fermarci spesso perché il ragazzino si
lamentava che era stanco, cercavo di approfittare di quelle
soste per pescare, ma in tutta la giornata riuscimmo a
prendere solo due pesci e neppure molto grossi, ma
catturammo anche tre granchi che a sera cocemmo sul
fuoco; non c’era molta carne, ma erano abbastanza gustosi.
Dormimmo, quella notte, in un chiosco di un bar sulla
spiaggia. Il mattino seguente ripartimmo senza mangiare
nulla.
Dopo circa un’ora scorgemmo una barca a vela che era
attraccata ad un piccolo imbarcadero; era un piccolo
cabinato di circa nove o dieci metri con un albero.
Vedemmo da lontano che vi erano alcune persone
affaccendate intorno allo scafo. Ci avvicinammo e, quando
fummo a circa cento metri, ci videro ed ogni attività si
interruppe.
Consegnai a Vera la pistola e le dissi di rimanere indietro, io
sarei andato a parlare con quella gente. Mi avvicinai
mostrando le mani bene in vista, sul ponte della barca c’era
un uomo armato, un altro si era piazzato a poppa, mentre
potei osservare che a terra c’erano due donne ed un terzo
uomo che si indaffaravano intorno a due taniche. Un tubo di
gomma usciva dal pontile ed era dentro ad una delle taniche.
Stavano rifornendosi di acqua.
Chiesi se andavano verso sud e se potevano darci un
passaggio. Quello a prua mi chiese se sapevo portare una
barca a vela, risposi di si.
Mi disse, guardando alle mie spalle, che avevano un solo
posto in barca. Mi fece osservare che la barca era piccola, e
loro erano già in otto, e più di una persona non avrebbero
potuto portare.
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Feci cenno di si, capivo. Dissi loro che magari un bambino
in più poteva sempre starci. Si guardarono tra loro e capii
che li avevo convinti.
<<Puoi salire, tu e il bambino>>, mi disse l’uomo con il
fucile, gurdando di sottecchi Vera e fece per darmi la mano
per aiutarmi a salire. Voltandomi vidi Vera che stava
osservando la scena con una mano sulla bocca e lo sguardo
sgomento.
<<Non vengo io.>>, risposi.
<<Vengono loro due>>, indicando madre e figlio.
E aggiunsi, prima che dicessero qualcosa.
<<Anche lei sa governare una barca.>>
Non ci fu bisogno d’altro, tutti accettarono con un “va
bene”, quasi collettivo, mi dissero solo che dovevano
sbrigarsi, non avevano intenzione di farsi sorprendere da
qualche malintenzionato. Ero d’accordo con loro, anche se
voleva dire separarsi da quella compagnia.
Prima di salire Vera chiese se poteva avere una matita e un
foglio di carta. Dalla cabina uscì una donna che le porse un
bloc-notes e una matita.
Vera scrisse qualcosa su un foglio, lo strappò dal blocco, lo
piegò in quattro e me lo infilò nel taschino della camicia.
<<Ti auguro di trovare quello che cerchi, ma in caso
contrario…>> e, lasciando incompiuta la frase, passò due
dita sulla mia guancia e prima di mettersi a piangere salì
sulla barca.
Luca mi volò al collo senza dire nulla. Non avevo parole, ma
mi sforzai e gli dissi soltanto:
<<Stai attento alla mamma.>>
Mi fece cenno di si, una lacrima gli scivolava sul volto, lo
issai a bordo.
Mi sedetti sul molo a pescare mentre la vela prendeva il
vento e rimasi lì fino a quando scomparve alla mia vista.
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La tristezza mi avvolse, avevamo trascorso una settimana
insieme e l’amicizia con quelle due creature era diventata un
conforto per me, ed ora avevo perso anche questo
riferimento. Ero di nuovo da solo, aprii il biglietto, c’era il
nome di un paese, un indirizzo e un cognome, null’altro.
Ripartii con il morale sotto i piedi, ma con la determinazione
che dovevo arrivare al più presto dai miei.
Claudia, Marco Giulia, dove siete?
Confidavo che fossero già arrivati a destinazione e li
immaginavo al sicuro in attesa del mio arrivo.
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6
Quella sera mangiai poco e mi addormentai di malumore.
Il giorno seguente ripresi a camminare e all’imbrunire entrai
in un’officina e mi rifugiai nel locale adibito ad ufficio.
Come ormai d’abitudine mi cucinai pesce che non trovai
particolarmente di mio gradimento, sarà stato per l’umore.
Finito di nutrirmi cercai di distrarmi guardadomi intorno,
sapevo che non potevo trovare del cibo, ma avevo bisogno
di qualcosa per passare il tempo, qualcosa che mi
distogliesse dal mio stato catatonico. In uno sgabuzzino
trovai una vecchia vespa 50 appoggiata al muro, la tirai
fuori, mi sembrava un rottame, ma mi dava l’aria di essere
funzionante; provai a scuoterla, c’era ancora un po’ di
benzina.
Cercai nell’officina ed in un cassetto trovai una chiave con
un biglietto attaccato “vespa”.
Non sarei stato in grado di farla partire senza le chiavi,
pensai, ma non sapevo, comunque, sesarei riuscito a metterla
in moto.
Tirata l’aria, provai una, due, tre volte a spingere sul pedale
d’avviamento, sembrava ingolfata. Allora la portai fuori mi
misi a spingerla correndo e dopo aver messo la seconda, al
terzo tentativo si mise in moto sobbalzando.
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Il motore girava e fui subito contento, avrei potuto
percorrere molti chilometri in poco tempo, ma c’era un
“ma”, avrei dovuto trovare della benzina.
Rivoltai completamente tutti i locali e alla fine trovai, nello
stesso sgabuzzino dove era stata sistemata la vespa, dietro un
cartone, una tanica da cinque litri con sopra scritto:
“miscela”, era piena.
Feci un piccolo conto mentale, immaginai che con la poca
benzina che era rimasta nel serbato e quella nella tanica
avrei potuto fare dai cento ai cento cinquanta chilometri, era
un bel passo avanti e me ne rallegrai.
Andai a dormire pensando fino dove avrei potuto arrivare il
giorno successivo. Ebbi difficoltà ad addormentarmi, il
pensiero del giorno dopo mi rendeva inquieto.
Comunque ero riuscito ad addormentarmi e stavo dormendo
come un sasso quando mi risvegliai di colpo, mi era venuta
una folgorazione. Avevo fino a quel punto immaginato di
procedere verso sud lungo la costa, per poi trovare un modo
di attraversare la penisola dal Mar Tirreno all’Adriatico, ben
sapendo che avrei dovuto attraversare gli Appennini e che
l’inverno non era poi così lontano.
Con un mezzo meccanico, pensai, avrei potuto attraversare
subito le montagne, che comunque in quel luogo non erano
poi tanto alte, e una volta sulla riviera adriatica avrei potuto
proseguire agevolmente verso sud.
Si, mi dissi, avevo avuto proprio una magnifica idea.
Mi alzai presto, ero intenzionato ad attraversare le montagne
in un solo giorno, speravo che la vespa mi avrebbe portato
fino a scavalcare la catena, avrei approfittato di ogni discesa
per spegnere il motore e risparmiare carburante.
Questo era ciò che mi ero prefissato e facevo conto sulla
buona sorte, ma non avevo fatto il conto con tutte le variabili
possibili e con tutte le avversità in agguato.
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Il cielo era plumbeo, nella notte si era coperto e ora non
prometteva niente di buono.
Non importa avevo una mantella e se anche avesse piovuto
avrei proseguito fino a quando c’era una goccia di benzina.
Misi la miscela nel serbatoio, ne avanzai poco più di mezzo
litro che misi in una bottiglia di plastica, speravo di più. Il
motociclo si mise in moto al secondo tentativo e,
baldanzoso, saltai in sella e partii.
Mi ero fatto un itinerario guardando su una cartina che
avevo trovato nell’officina, era abbastanza dettagliata e mi
consentiva di rilevare le varie strade che portavano verso est.
Scelsi quella che mi sembrava la più diretta, era certamente
una via secondaria, che si inerpicava fino ad una certa
altezza, ma sembrava decisamente la più breve.
Imboccai la strada provinciale e cominciai ad inoltrarmi
nell’entroterra e, dopo una ventina di chilometri, la strada
cominciò a salire. Viaggiavo a velocità moderata per non
consumare benzina.
Circa due ore dopo la partenza fui raggiunto da un forte
vento che aumentò di intensità man mano che avanzavo.
Fortunatamente non era frontale, ma piuttosto proveniva da
ovest e da nord, con folate sempre più impetuose. In certi
momenti ero scaraventato da una parte all’altra della strada,
ringraziai il fatto che non ci fossero altri veicoli.
Procedevo sempre più lentamente e, dopo un tuono
fragoroso, cominciò a piovere sempre più forte. Mi fermai e
misi, il più in fretta possibile la mantella, risalii sulla sella ed
andai avanti nella bufera.
Ormai l’andatura era pressappoco quella di un uomo a piedi,
cominciai a disperare e, mentre pensavo che dovevo
resistere e dovevo a tutti i costi proseguire per superare le
montagna, tutto d’un colpo il motore si ammutolì.
Fui colto dalla disperazione, provai e riprovai a rimettere in
moto la vespa, guardai nel serbatoio, c’era ancora benzina,
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ma non c’era verso di farla ripartire. Girai la vespa verso la
discesa, contavo di metterla in moto a spinta, ma non ci fu
verso, in compenso ero tornato indietro di cinque o seicento
metri in quel tentativo di riavviarla, che fu assolutamente
vano.
Probabilmente l’acqua aveva bagnato la candela, o qualcosa
di simile, e in quelle condizioni non era proprio possibile
rimediare.
Cercai di ragionare a cosa dovevo fare, mi ricordai che
avevo visto alcune case circa trenta chilometri prima, troppo,
mi dissi e pensai, ci sarà certamente qualche casa più avanti,
non posso tornare indietro, quando smetterà questo
temporale potrò proseguire, e magari recuperare la vespa.
E mentre cercavo di concentrarmi su cosa fare, la furia del
vento e della pioggia mi flagellava. Andai avanti sulla strada
cercando un riparo, ero completamente bagnato nonostante
la mantella. L’acqua si infilava dappertutto, dal collo, dalle
maniche e, quando il vento la alzava fin sopra la testa,
venivo trafitto da scrosci sempre più violenti.
Non vedevo a più di venti metri davanti a me, mi venne
paura che avrei potuto passare davanti ad una casa senza
accorgermi che c’era.
Erano caduti anche degli alberi sulla strada, volava qualsiasi
cosa, dai rami ai cartelli stradali, ero in mezzo ad una
tempesta e dovevo assolutamente trovare riparo.
Una raffica di vento mi scaraventò di lato fino a ridosso di
un albero, cominciavo ad avere un freddo cane, mi
aggrappai al tronco dell’albero e, mentre cercavo di
raddrizzarmi, vidi a terra un cartello segnaletico che era stato
piegato dalla furia del vento; indicava un campeggio a
cinquecento metri.
C’era una stradina non asfaltata che si dipartiva da quel
punto, non l’avrei vista se non fossi stato spinto dalle
raffiche.
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Mi incamminai in quella direzione, nel fango, facendo
attenzione ai rami che cadevano da ogni parte. Arrivai al
cancello del camping in un tempo che non riesco a calcolare,
era chiuso, lo scavalcai dopo aver lanciato dall’altra parte lo
zaino.
C’era, a pochi passi dal cancello, una costruzione bassa, una
insegna di legno indicava “Direzione – Bar – Market”.
Era tutto chiuso, provai a forzare la porta, ma non avevo
nulla che potesse aiutarmi, girai intorno al piccolo edificio;
sul retro c’era una piccola finestrella chiusa da un’anta in
legno. Presi un grosso ramo caduto, lo incastrai tra l’anta e il
davanzale e con un certo sforzo riuscii a scardinarla. Ruppi
il vetro ed in quel modo riuscii ad entrare.
Ero completamente fradicio ed ero frastornato dal freddo. La
prima cosa che desideravo era cambiarmi, perché addosso
non avevo neppure un indumento asciutto.
Aprii lo zaino, ma al suo interno tutto era bagnato, mi
insultai per non aver pensato di mettere il coprizaino che
avrebbe permesso di mantenere asciutte le cose al suo
interno. Cercai intorno qualcosa da infilarmi, ma trovai solo
un camice da lavoro e una coperta con cui tentai di
asciugarmi e riscaldarmi.
Mi sedetti su una brandina che era nell’ufficio, e fui colto da
un tremito violento, mi sentivo spossato ed ad un tratto fui
preso dal panico, mi sentivo addosso la febbre, anzi ero certo
di avere la febbre.
Non potevo rimanere bagnato e al freddo, dovevo
assolutamente trovare una soluzione. Mi alzai e mi avvicinai
alla scrivania, alle spalle della poltroncina, dietro la
scrivania, c’era una bacheca, conteneva le chiavi di tutte le
porte del campeggio. Osservai le chiavi, ognuna aveva un
cartellino che indicava a cosa servivano. Un gruppo era
contrassegnato da nomi e mi venne subito in mente che
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poteva trattarsi delle chiavi delle roulotte che erano ferme
nel campo.
Pensai che avrei potuto trovare qualche indumento al loro
interno. Mi feci forza e mi decisi ad uscire nella bufera;
speravo anche di trovare una roulotte con la stufa al suo
interno, dato che avevo notato che nei locali della direzione
non vi era alcun mezzo per scaldarsi.
Fuori fui colpito dalle raffiche di vento e dall’acqua gelata,
mi avvicinai alla prima roulotte con il mazzo di chiavi, e
dovetti provare otto chiavi prima di trovare quella che
apriva, sforzandomi di resistere alla furia del vento e
all’incalzare della pioggia.
Aprii ad una ad una le roulotte, cercando di resistere alla
spossatezza ed alla febbre che ormai mi stava divorando e
mi aveva anche procurato un mal di testa feroce, però
sapevo che se non avessi fatto subito quello che stavo
facendo avrei potuto pentirmene amaramente.
Rientrai ancora più raggelato e bagnato di quando ero uscito,
scottavo, ma avevo trovato molte cose che potevano
servirmi. Biancheria, vestiti, asciugamani, sacchi a pelo, un
accappatoio e, molto importante, medicinali.
Mi spogliai nel freddo di quella stanzetta e mi asciugai con
quello che avevo racimolato, poi, tremando mi vestii
mettendomi addosso tutto quello che avevo di più caldo:
canottiera di lana, maglione, pantaloni di tuta sopra ad un
pigiama di lana.
Il freddo e la febbre però non mi permettevano di connettere,
dovevo sforzarmi.
Avevo trovato una tendina ad igloo e pensai che sarebbe
stato più facile scaldare un luogo più piccolo come quello.
Spostai la scrivania e nel centro dell’ufficio montai la tenda,
vi infilai dentro il materasso che era sulla brandina, buttai
dentro anche tre sacchi a pelo, e poi, stavo per infilarmi
72
dentro per cercare di recuperare, ma la febbre mi aveva fatto
venire sete.
Entrai nel locale adibito a market, non c’era molta roba, ma
gli scaffali non erano vuoti, c’erano anche generi alimentari,
quelli che non avevano la necessità di rimanere in un
frigorifero ed avevano una scadenza non prossima. Ad un
primo sguardo vidi della pasta, del riso.
Trovai pacchetti di minestre liofilizzate, ne presi quattro,
presi una confezione di piatti sfogliabili, aprii una
confezione di sei bottiglie di acqua minerale. Nel reparto
attrezzi trovai piccole bombolette di gas, un fornelletto e una
lampada funzionante a gas.
Presi ciò che mi serviva e portai il tutto nella tendina che era
aperta nel centro della stanza.
Era una piccola tenda da tre persone, per me abbastanza
ampia; da una parte spostai il materasso, introdussi una
cassettiera con ruote su cui misi il fornelletto a gas, accesi la
lampada poggiandola anch’essa sulla cassettiera.
Non ce la facevo più, mi provai la febbre con un termometro
che avevo preso chissà in quale roulotte, segnava trentanove
e otto. Mi venne il sangue alla testa, quel poco che riusciva
ancora a circolare. Aprii un flacone di tachipirina, rimasi un
attimo indeciso, poi presi tre pastiglie e le ingurgitai senza
pensarci, poi mi infilai in un sacco a pelo di piumino e mi
ricoprii con gli altri due.
Il tremito mi faceva sbattere i denti con un’intensità e una
violenza che non avevo mai provato, avevo un freddo
incredibile e nello stesso tempo scottavo, non riuscii più a
concentrarmi e caddi in una specie di coma.
Non so quanto rimasi addormentato, ad un certo punto mi
svegliai, ero fradicio di sudore.
Nell’immediato non riuscii a ricordare dove mi trovavo, poi
vidi la lampada accesa sul tavolino improvvisato ed ebbi una
chiara visione della mia condizione.
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Fuori la tempesta continuava ad infuriare, sentivo le raffiche
di vento e gli scrosci d’acqua che investivano le persiane.
Mi riaddormentai senza accorgermene, mi risvegliai a notte
fonda, avevo un bisogno urgente, ma nessuna voglia di
alzarmi. Mi costrinsi, mi alzai, la temperatura all’interno
della tenda era discreta, indossai l’accappatoio per uscire. La
temperatura della stanza, invece, era glaciale, c’era un
bagno, ma non potei utilizzarlo, era il vano da cui ero entrato
e avendo infranto la finestra il finimondo era entrato con me.
Trovai un secchio nel market e lo usai per la bisogna.
Rientrai nel mio accogliente rifugio, la lampada aveva
riscaldato l’interno portandolo ad una temperatura
accettabile, lasciai slacciata la cerniera che dava all’esterno
in modo che potesse entrare aria per il ricambio.
Misurai la febbre era poco sopra i trentotto, decisi che era
meglio mangiare qualcosa, misi in un pentolino dell’acqua e
vi versai dentro una bustina di minestrone.
Dopo qualche minuto ero seduto sul materasso con in mano
un piatto fumante che mangiai con gusto, alla fine presi
un’altra pastiglia e mi rimisi a letto.
Non riuscii a calcolare il tempo che passava, fuori la
tempesta continuava ad infuriare, mi alzavo solo per i miei
bisogni, mangiavo, mi imbottivo di medicine.
Credo fossero passati quattro giorni, fuori era buio, quando
ad un tratto smise di piovere ed il vento cessò, lo percepii
mentre stavo dormendo, mi svegliai, sentivo che la febbre se
ne era andata insieme alla tempesta, mi rallegrai, pensai al
giorno dopo.
Sarei tornato sulla strada avrei cercato la vespa ed avrei
tentato di asciugare la candela, l’avrei fatta ripartire e mi
sarei finalmente diretto verso l’Adriatico.
Il pensiero mi sollevò il morale e mi riaddormentai contento.
Il mattino successivo mi risvegliai nella quiete più assoluta.
Fuori della tenda, un termometro appeso alla parete
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dell’ufficio segnava due gradi, non avevo più la febbre, mi
ero vestito in modo adeguato, decisi di prepararmi una
buona colazione e poi di partire al più presto. Mi feci un tè
che accompagnai con biscotti, fette biscottate con
marmellata e un succo di frutta, ora potevo pensare alla
partenza, non rimaneva che prendere tutto il cibo che potevo
dal market infilarlo nello zaino e partire.
Dalle ante chiuse delle finestre traspariva abbastanza luce
per vedere all’interno, ma non permettevano di vedere fuori,
doveva essere una giornata chiara, ma non sembrava che
risplendesse il sole.
L’importante era che non piovesse.
Aprii la porta per dare uno sguardo fuori e rendermi conto
delle condizioni del tempo.
Un treno in corsa mi colpì nell’attimo stesso in cui aprii,
l’impatto fu di una violenza esagerata, per un lungo attimo
mi mancò il fiato.
Stava nevicando e nella notte la coltre di neve aveva
superato i cinquanta centimetri.
Rimasi sull’uscio a bocca aperta.
Non era possibile.
Prima l’alluvione, poi la neve.
Pensai che erano i primi giorni di novembre, probabilmente
era la coda della perturbazione, avrebbe certamente smesso
presto.
Che pensiero infausto.
Rientrai nel mio piccolo luogo riscaldato, la tenda, volevo
pensare, ma non mi veniva in mente nulla. Decisi di farmi
un’idea di qual’era la situazione, andai nel market e feci un
inventario veloce, c’era da mangiare per molti giorni. Passai
nel bar, anche dal lato bibite e liquori non avrei dovuto aver
problemi.
Guardai ancora fuori, aprii le persiane in modo che potessi
vedere anche da dentro come evolveva la situazione, il cielo
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era plumbeo e non dava l’impressione che avrebbe smesso
di lì a poco.
Rimasi a pensare tutta la mattina mentre guardavo la neve
che stava per raggiungere il metro d’altezza. Mi preparai un
pranzo che sognavo da giorni, poi decisi che era necessario
trovare il modo di scaldare il locale.
Nelle roulotte, lo sapevo, non c’erano stufe a gas, mi serviva
qualcos’altro.
Una piantina appesa ad un muro descriveva la topografia
della zona, rintracciai il sito del campeggio, vidi che poco
oltre il bivio che portava in quel luogo erano segnate tre o
quattro costruzioni, case probabilmente, decisi che sarei
andato a vedere.
Non era pensabile camminare sulla neve appena caduta
senza sprofondare, avrei dovuto avere degli sci o delle
racchette da neve, ma in quel luogo non vi era nulla di tutto
ciò. C’erano nel market, nel ripiano dei giocattoli due
racchette di plastica, quelle che si usano per giocare con le
palline di spugna, ci ragionai su. Presi dei lacci e me le
assicurai agli scarponcini, non erano il massimo e non erano
nemmeno belle da vedere, non avrei vinto il concorso per
l’uomo più elegante, ma avrebbero fatto il loro dovere.
Mi inoltrai nella stradina alla volta della strada principale, in
mezzo ad una nevicata natalizia.
Adoravo la neve, ma in quel momento non me la sentivo di
apprezzare il paesaggio.
Poco oltre il bivio intravidi la sagoma di una casa, mi
avvicinai, avevo con me lo zaino vuoto e un palo di ferro
lungo circa un metro, lo avrei usato come grimaldello.
Visitai, se così si può dire, quattro case in quel pomeriggio;
mi dava una certa sensazione violare l’esistenza altrui
mentre aprivo i cassetti e gli armadi. Potevo intuire, anche se
si trattava di case per vacanze che venivano utilizzate,
probabilmente nei fine settimana, quasi la vita delle persone
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che vi avevano soggiornato. C’erano le fotografie appese ai
muri che mi permettevano di vedere i volti di quella gente, i
giornali che leggevano e cosa mangiavano. Mi rendevo
conto se tenevano degli animali, in una casa certamente
c’era almeno un gatto, lo si capiva da tante piccole cose, non
ultimo il divano rovinato dalle unghie; in un’altra casa
avevano un cane, anche lui nelle foto, la sua cuccia e il cibo
nel sottolavello.
Feci un’ispezione completa e mi feci anche un piccolo
inventario di cosa poteva tornarmi utile: cibo non deperibile,
c’era anche una cassetta di patate; molti vestiti, ma furono
due gli oggetti che decisi di prendere subito. In un armadio
trovai un fucile da caccia a doppia canna e una scatola con
venticinque cartucce.
Nella cucina della terza casa c’era una stufa a legna, non era
grande, era semplicemente una stufa cilindrica in ghisa che
poggiava su quattro piedi, con un diametro di non più di
trenta centimetri che permetteva di scaldare quel locale.
Tolsi i tubi dello scarico, feci scendere dalle scale la stufa
trascinandola, ruppi anche due gradini delle scale, ma non
me ne preoccupai, ormai tutto aveva un valore relativo. Per
portarla fino al campeggio smontai il coperchio di plastica di
un cassonetto della spazzatura a cui fissai una corda e così
ottenni una slitta.
Non fu comunque facile e mi costò molta fatica, ma contavo
che avrei dovuto fermarmi in quel luogo ancora per almeno
due o tre giorni.
Tornai che stava facendo buio, non aveva smesso un
momento di nevicare, impiegai circa due ore a sistemare la
stufa e a montare i tubi, fortunatamente c’era già un buco in
cui era inserita una ventola per arieggiare l’interno
dell’ufficio. Tolta la ventola potei infilare il tubo che portava
il fumo sull’esterno.
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Presi della carta, spaccai un pallet che era all’interno del
market, in poco tempo accesi la stufa e nel giro di qualche
minuto l’ambiente cominciò a riscaldarsi. Mi cucinai una
minestra direttamente posizionando il pentolino sulla stufa e
mi feci anche una bella padella di piselli e tonno, il tutto
innaffiato con un discreto vino rosso. Potevo perfino
mangiare ad un tavolo senza più la giaccavento addosso, in
qualche modo mi sentivo bene, in quel momento la
situazione che, sembrava potesse precipitare qualche giorno
prima, si stava stabilizzando ed ero perfino quasi sereno con
me stesso.
78
7
La neve continuò a scendere ininterrottamente per otto
giorni, coprendo il terreno con un manto di oltre quattro
metri.
Dopo i primi giorni mi resi conto che avrei dovuto fermarmi
per un certo tempo prima di poter riprendere il mio cammino
per cui cercai di organizzarmi. Avevo cibo per più di trenta
giorni, il secondo giorno avevo spaccato i rami di un albero
caduto e mi ero rifornito di legna da ardere.
In qualche modo cercavo di trovare qualche cosa con cui
occupare il pensiero, spalavo la neve davanti alla porta
d’ingresso e alla finestra, cercavo di togliere il più possibile
la neve caduta sul tetto, temevo si potesse sfondare, mi
cimentavo nella preparazione di pranzi cercando di trovare
le variazioni più improbabili tenendo conto della poca
varietà di cibo che avevo trovato sugli scaffali del market,
nelle case e nelle roulotte.
Avevo sostanzialmente molte scatolette: legumi, carne,
tonno, frutta, sughi; pasta e biscotti e le patate.
Dovevo per forza occupare il tempo, avevo paura di dare
fuori di testa, ero solo, in un mondo che era impazzito.
Impazzito in tutti i sensi.
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Avevo visto uomini e donne scannarsi per i motivi più futili,
saccheggiare grandi magazzini e ipermercati, dove prima di
questa crisi si andava anche solo per passare il tempo.
Non potevo non ripensare a quando si andava tutta la
famiglia, quasi fosse una spedizione, all’ipermercato, tutti e
quattro insieme come nelle pubblicità. Di solito, il sabato,
giravamo almeno un quarto d’ora alla ricerca di un
parcheggio nel grande piazzale del centro commerciale. Ci
infilavamo in una specie di girone infernale insieme ad altre
migliaia di persone alla ricerca di un’occasione o dell’ultima
trovata inutile da acquistare.
Mi venne solo in quel momento in mente l’inutilità di tutti
quei riti. Si passava più tempo nei centri commerciali che
con gli amici. I ragazzi tagliavano da scuola per poi
ritrovarsi a ciondolare tra negozi di intimo e rivendite di
videogiochi.
Che spreco di vita.
Eppure allora ci sembrava di non poterne fare a meno delle
promozioni, dei saldi o dei grandi ribassi. Poi, se non
eravamo proprio sfiancati dall’andare avanti e indietro per
quei corridoi, non ci facevamo mancare un giro all’Ikea.
Da quel magazzino di mobili in kit uscivamo sempre con
qualche cosa, di solito inutile: lampade portacandele, set di
forbici colorate, piatti di forma particolare, contenitori in
plastica e qualsiasi cosa che la fantasia svedese aveva
partorito.
Che poi se uno ci pensa la fantasia svedese a noi italiani
dovrebbe proprio farci ridere, ma non potevamo mancare
alla grande chermes dei prodotti scandinavi.
Io per la verità cercavo sempre una qualche scusa per evitare
quei pomeriggi, ma immancabilmente mi piombava addosso
la mancanza di disponibilità nei confronti della famiglia a
partecipare alle necessità dei figli e della moglie.
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Cazzate, ma quanto mi mancavano in quel paesaggio
innevato, sperso in un luogo a me sconosciuto.
Il tempo, quello meteorologico, poi si era accanito contro
me, non ricordavo di aver sentito di nevicate così intense
negli ultimi anni, mi ero pure sorbito una tempesta e un
diluvio, la sfortuna mi perseguitava, magari se avessi
continuato lungo la costa avrei trovato un tempo più
clemente.
Non potevo farci niente, ma mi arrabbiavo lo stesso.
Avevo trovato fortunatamente anche dei libri che divorai
nelle lunghe giornate in attesa che smettesse di nevicare. Nel
cassetto della scrivania trovai un lettore CD con alcuni
compact, così ascoltai musica sino a quando le pile a mia
disposizione me lo permisero.
Mi aggiravo per il campeggio con le mie improbabili
racchette da neve alla ricerca di legna da ardere e di
qualunque cosa potesse servirmi, mi inoltravo fin sulla
strada dove c’erano le quattro case isolate con l’intento di
curiosare su qualcosa che mi era sfuggito la prima volta e le
volte successive.
Ogni volta che entravo in un alloggio chiedevo mentalmente
scusa ai proprietari, salutandoli rivolto verso le fotografie
appese, stavo diventando matto ed il tragico è che me ne
rendevo conto. Parlavo anche tra me e me, ad alta voce, poi,
quando mi accorgevo di ciò, tacevo cercando di darmi un
tono, ma era tutta una finta con me stesso.
Smise di nevicare ed il cielo si aprì con un sole accecante, la
temperatura che si era mantenuta sullo zero nei giorni delle
precipitazioni, scese bruscamente; il termometro, che
reclamizzava un amaro del luogo e che era posizionato sul
muro esterno della reception, segnava meno dieci gradi
durante il giorno e scendeva abbondantemente sotto i
quindici di notte.
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La neve e il gelo avevano spezzato molti rami degli alberi
del campeggio, alcuni erano già secchi e potevo utilizzarli
subito nella stufa, gli altri provvedevo a tagliarli e a
sistemarli a fianco della stufa in modo che si asciugassero il
più possibile prima di poterli mettere nel fuoco, affinchè non
producessero un fumo eccessivo.
Tutto sommato la stufa funzionava bene e non soffrii più il
freddo.
Passarono circa dieci giorni con un freddo polare, la neve si
era consolidata e così alta che non si vedevano più le
roulotte, l’undicesimo giorno la temperatura si alzò, il cielo
si riempì di nuvole e nel pomeriggio ricominciò a nevicare.
Fu una giornata di vero sconforto.
Dove ero finito?
Non c’era speranza avrei dovuto sostare ancora a lungo,
c’erano più di tre metri di neve ghiacciata su cui si stava
posando altra neve.
Cominciai a dubitare di avere cibo a sufficienza per
resistere, decisi subito di tornare nelle case poco lontane.
Infatti, a parte le patate che avevo preso da uno scantinato,
non avevo preso altro cibo che era contenuto nelle dispense,
pensavo che quanto si trovava nel market del camping fosse
sufficiente per i pochi giorni che contavo di restare, le mie
visite precedenti erano un passatempo, ma in quel momento
avevo bisogno di accumulare tutto il possibile. Riempii lo
zaino con la pasta e le scatole che trovai.
Tornato al campeggio feci un censimento e mi resi conto che
se mi razionavo ciò che avevo potevo contare di resistere per
almeno altri venti giorni.
Se avessi fatto razioni minime, pensai, ma non terminai
neppure il pensiero.
Guardai la neve fuori e mi venne paura. Erano tre giorni che
non smetteva, avevo pranzato da circa un’ora, ero seduto
sulla poltroncina e stavo leggendo un libro quando sentii un
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rumore inaspettato, mi sembrava che qualcosa avesse
toccato la porta.
Pensai ad un ramo caduto mosso dal vento.
Un’altra volta lo stesso suono, e poi, mentre i miei sensi si
erano tesi, udii come se qualcuno grattasse sulla porta.
Il cuore mi balzò in gola, non sapevo cosa pensare, mi
avvicinai guardingo alla finestra e, con cautela, sbirciai
verso la porta. Riuscivo a vedere il fondo schiena di un
animale, poi compresi che era un cinghiale, non era tanto
grande sembrava un maiale di mezza stazza, rimasi bloccato
per un momento, poi mi mossi, cercando di non far rumore,
presi il fucile, lo caricai con due cartucce, richiusi e mi
avvicinai alla finestra.
Non avevo mai sparato con un fucile da caccia, non sapevo
nemmeno se il fucile che avevo tra le braccia fosse adatto
per un animale di quella stazza, o se invece fosse un fucile
per la caccia alle quaglie.
Non avevo idea se avrei ricevuto un contraccolpo molto
potente oppure no. Comunque ero più che deciso a
conquistare quella preda.
Aprii molto lentamente la finestra, misi fuori con cautela le
canne, urtai leggermente il bordo della finestra, il rumore
fece girare l’animale che, per un attimo, mi guardò e
subitamente si girò per fuggire, ma io nello stesso istante
sparai un colpo, che fece un frastuono assordante all’interno
della piccola stanza. Subito dopo, nonostante fossi quasi
stordito dal rumore, sparai la seconda cartuccia.
Nonostante la mia inesperienza tutti e due i colpi arrivarono
al bersaglio. L’animale fece tre passi e si adagiò ansimante
nella neve.
Aprii la porta e lo vidi a terra che respirava affannosamente,
mentre il sangue gli usciva da più parti, mi venne paura che
potesse rialzarsi e potesse caricarmi con quelle zanne
appuntite. Rientrai, caricai di nuovo il fucile, uscii e lo
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puntai verso la bestia, ma non riuscii più a sparare. Forse
sarebbe stato meno crudele ucciderlo subito, ma non me la
sentivo di sparare guardandolo negli occhi, e così, per
vigliaccheria, lo lasciai morire senza il colpo di grazia.
Dopo circa un’ora lo toccai con un piede per vedere se si
muoveva ancora. Non dava segni di vita e in quel momento
mi chiesi.
“E adesso?”
“Cosa dovevo fare?”
Non avevo mai ucciso animali.
Non avevo mai visto smembrare o squartare altro che polli.
Mi ingegnai, pensando a come probabilmente si doveva fare
quel lavoro, che certo non mi piaceva. Legai le zampe
anteriori dell’animale, lo trascinai, mentre stava sempre
nevicando, e lo fissai tirandolo su tra due alberi vicini.
Quando fu appeso in quel modo, che pareva orribile a
vedersi, presi un coltellaccio e con un grande senso di
nausea gli aprii il davanti. Le interiora uscirono di colpo
insieme ad una grande quantità di sangue, feci un salto
indietro schifato.
Lo lasciai lì, in quella posizione, col ventre squartato per
altre due ore, poi tornai; con una pala, presi le interiora e le
andai a mettere in un buco nella neve, lontano. Il corpo si era
praticamente dissanguato, con molta fatica tolsi la pelliccia
e, senza sapere se quello era il metodo giusto cominciai a
tagliare fette di carne, dalle cosce prima e poi dal dorso e da
tutto il corpo.
Sistemavo le strisce sulla neve, quando ne ebbi una certa
quantità pensai che era meglio se mi fossi predisposto una
specie di frigorifero. Così scavai nel ghiaccio, a lato della
casa, un frigorifero fatto di ghiaccio, dove misi una accanto
all’altra le fette di carne che man mano tagliavo.
Mi ci volle tutto il pomeriggio per riuscire a togliere la
maggior parte della carne dalla carcassa dell’animale, alla
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fine chiusi con una lastra di ghiaccio la carne, però tenni per
quella sera due fette che mi sarei cucinato.
Il taglio non doveva essere dei migliori, ma in compenso la
carne era veramente gustosa.
Questa inaspettata manna fu ciò che mi salvò dalla morte
certa, rimasi bloccato in quel luogo per più di cento giorni,
mentre continuava a nevicare intervallando giornate serene
con gelate che duravano anche dieci giorni.
Una notte stavo per andare a letto, quando, chiudendo le
persiane, mi si presentò uno spettacolo che non avevo mai
visto se non sui libri. Un’aurora boreale illuminava il cielo
con strisce biancastre e fluorescenti, era un vero spettacolo e
mi venne spontaneo uscire per osservare quella meraviglia.
La natura si era scatenata con tutto il repertorio, tifoni,
bufere di neve, gelo ed in quel momento l’aurora boreale.
Sapevo che alle nostre latitudini non era solito assistere ad
uno spettacolo del genere ed il fatto mi turbò. Non sapevo a
cosa pensare, la mia ignoranza nella meteorologia era
abissale, forse da quelle parti era naturale, ma qualcosa mi
diceva che non era così.
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8
Ai primi di aprile, decisi di muovermi, non potevo rimanere
in quel luogo remoto all’infinito, dovevo per forza prendere
una decisione e la mia malinconia verso la mia famiglia mi
spingeva a non indugiare oltre.
C’era ancora moltissima neve, ma non nevicava più da
quindici giorni.
Avevo preparato un piano, che avevo studiato per giorni. Mi
ero convinto che non mi conveniva tornare indietro; dalle
cartine che avevo sapevo che dovevo percorrere circa
sessanta chilometri per superare i monti, poi sarei stato in
pianura e avrei potuto raggiungere il mare e avrei così potuto
riprendere il mio cammino verso sud.
Contavo di impiegare quattro giorni per arrivare alla
pianura, dovevo camminare nella neve: nei giorni precedenti
feci una variante alle racchette che tanto mi erano state utili.
Con della plastica molto resistente avevo applicato delle
strisce sotto le racchette stesse che fungevano quasi da
piccoli sci, due bastoni di scopa a cui avevo aggiunto due
rondelle, sempre di plastica, mi facevano da bastoncini.
La decisione di partire era anche impellente in quanto ormai
avevo viveri per non più di una settimana e quindi era
indispensabile arrivare al più presto al mare dove, se non
altro, avrei potuto pescare.
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Riempii lo zaino esclusivamente con il cibo, nella parte
superiore legai la tendina e sotto fissai un sacco a pelo di
piumino; non avevo posto per il vestiario, feci quindi stare in
una tasca laterale solo alcuni capi di biancheria.
Poi, una mattina, dopo un’abbondante colazione, presi lo
zaino e il fucile e mi chiusi alle spalle il rifugio che mi aveva
ospitato per così tanto tempo.
Ero arrivato in quel luogo pensando di rimanervi una notte e
ne uscivo dopo mesi.
Mi incamminai certo del mio obiettivo, all’inizio mi
sembrava di procedere abbastanza celermente, ma dopo
poco mi resi conto che, anche con quelle calzature, che mi
ero preparato, non potevo andare avanti con un passo molto
spedito.
Ero rimasto molto tempo senza muovermi eccessivamente e
dopo poco che camminavo già avevo il fiatone. La salita era
dura e la neve, a tratti soffice ed a tratti ghiacciata, mi
rallentava. La fatica si faceva sentire e dovevo fermarmi
spesso per riprendere fiato, comunque a sera arrivai nel
punto che mi ero prefissato.
Tre case a lato della strada, vidi subito che due di esse
avevano la porta d’ingresso aperta, mi accorsi anche che
davanti alla terza era stata chiaramente tolta almeno parte
della neve, anche se c’era comunque un cumulo abbastanza
alto e non c’erano impronte di sorta.
Entrai nella prima e mi rifugiai nel salotto, montai subito la
tenda dove accesi la lampada a gas che mi ero portato via
proprio per poter scaldare la tenda. Sistemai il tutto e feci
anche una discreta cenetta, poi feci il giro della casa.
Qualcuno era stato sicuramente lì prima di me.
Decisi di esplorare anche le altre due case, così uscii, entrai
nella villetta vicina con la porta aperta, feci il giro, non c’era
nulla di utile, anche qui era stato asportato tutto quello che
poteva servire, anche se non era stato messo nulla a
87
soqquadro, evidentemente chi era passato non aveva fretta e
non voleva rompere nulla.
Mi spostai verso la casa con la porta chiusa, provai ad aprire,
nulla. Pensai che avrei potuto rompere un vetro visto che le
persiane erano aperte. Mi avvicinai ad una finestra, prima di
infrangere il cristallo volli guardare dentro. Misi le mani a
coppa e appoggiai la testa al vetro e subito sussultai.
L’interno era quello di una cucina, ma la cosa spaventosa era
che c’era un uomo, seduto su una sedia con la testa
appoggiata sul tavolo e rivolta verso di me. Aveva gli occhi
aperti e la bocca semispalancata ed era indubbiamente
morto.
Non entrai, provai solo ad immaginare quello che poteva
essere successo, aveva finito i viveri e non aveva più avuto
la forza di andarsene.
Feci il giro intorno alla casa, arrivato sul retro mi accostai
alle due porte finestre che davano su quel lato, dalla prima
vidi una stanza che poteva essere di un adolescente, con un
letto, un piccolo armadio una scrivania e una libreria su cui,
oltre ai libri, erano esposte automobili e aerei in miniatura.
Guardando nella finestra successiva ebbi un’altra immagine
agghiacciante.
Su un letto matrimoniale era distesa una donna, aveva le
mani giunte sul petto e teneva una corona del rosario in
mano. Evidentemente lei era morta per prima e l’uomo
l’aveva composta in quel modo e poi era toccato a lui.
Dormii un sonno agitato quella notte e l’indomani mi rimisi
in cammino di buon ora, non mi andava di rimanere ancora
in quel luogo per altro tempo.
In quanti posti avrei trovato la morte ad aspettarmi?
La domanda mi apparve angosciosa, la tragedia era tutto
intorno.
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L’inverno, in quella zona, doveva aver mietuto diverse
vittime, tutta gente che, come me, era rimasta intrappolata
su quelle montagne.
Camminai per cinque ore filate; dalla cartina avevo rilevato
che avrei trovato due o tre case, mi sarei fermato nei pressi
per un boccone e avrei poi proseguito fino al punto che mi
ero prefissato, altre tre case isolate lungo la strada.
Ero contento perché stavo mantenendo, anche se con fatica,
la mia tabella di marcia.
Arrivai in vista delle case, erano solo due ed erano una a
fianco dell’altra, mi stavo avvicinando e in quel momento
stavo armeggiando con una cinghia dello zaino e la mia
attenzione era tutta concentrata su quella cinghia, quando
alzai lo sguardo mi venne un colpo.
Davanti alla porta di una delle due case si era materializzato
un fantasma.
Mi bloccai all’istante, terrorizzato a quella vista, non avevo
ancora rimosso le macabre figure della sera prima ed ora
davanti ai miei occhi c’era un essere infernale. Guardai con
più attenzione e mi resi conto che la mia immaginazione mi
aveva giocato un brutto scherzo.
Davanti a quella casa c’era una persona che aveva sopra la
testa una coperta che la ricopriva quasi fino ai piedi. Era
assolutamente immobile, mi guardava con uno sguardo
perso, gli occhi infossati, la bocca viola, piccola e sottile.
Mi avvicinai adagio, e vidi che si trattava di una donna.
<<Salve>>, le dissi.
Non rispose e fece solo cenno di si abbassando
impercettibilmente il capo. Quando le fui vicino mi avvidi
che si trattava di una ragazzina.
Ci guardammo per un po’ negli occhi senza dire nulla, poi
lei fece cenno di entrare. Mi precedette in cucina e si sedette
su una sedia davanti al tavolo. Sul tavolo davanti a lei c’era
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una scatoletta di sugo, pelati, aperta e con una forchetta
dentro.
Osservai l’interno e immaginai che non aveva altro da
mangiare e probabilmente quella era l’ultima razione a sua
disposizione. Le chiesi se aveva fame, e dall’espressione che
fece e da come allargò gli occhi capii.
Tirai fuori della carne che avevo già cotto e dei biscotti,
cercai due piatti sopra l’acquaio ed uno lo misi davanti a lei.
Mangiò voracemente, come c’era da aspettarsi, le diedi
anche una seconda razione. Quando ebbe finito di mangiare
provai a fare qualche domanda.
<<Sei sola?>>
Scosse la testa.
Dunque c’era qualcun altro e dov’era?
<<Sei con i tuoi genitori?>>
La testa si abbassò due volte.
<<Dove sono?>> Le chiesi sempre più incuriosito.
E lei con un leggero cenno del capo mi indicò verso il
corridoio dove c’era una porta chiusa. Mi alzai e mi diressi
in quella direzione, ma quando misi la mano sulla maniglia,
la ragazza, che si era alzata e mi aveva seguito, mise la sua
mano sulla mia e mi guardò negli occhi.
Capii e non abbassai la maniglia.
Le dissi che doveva venire con me, non fece obbiezione, la
aiutai a preparare un piccolo zaino in cui mise degli
indumenti e sopra fissai la coperta con cui si era riparata.
Diedi a lei quel simulacro di racchette da neve e presi due
manici di scopa per fare altri bastoncini.
Lasciammo la casa senza voltarci, mentre lei piangeva.
Camminammo in silenzio per tutto il pomeriggio. Spesso
sprofondavo nella neve, ma tutto sommato riuscivamo a
procedere ad un ritmo abbastanza buono.
La sera arrivammo ad una casa che trovammo con la porta
divelta, ci accampammo per la notte, nel salotto c’era un
90
camino che accesi con alcuni ceppi che erano li a fianco.
Montai la tenda su un grande tappeto di lana nel salotto, misi
dentro due materassi che avevo recuperato in una stanza.
Mangiammo in silenzio, poi versai in due bicchierini un
liquore al mandarino che avevo trovato su uno scaffale, lei
lo bevve a piccoli sorsi, mentre seduta davanti al camino
osservava le fiamme.
Non osai disturbarla.
Quando fu ora di coricarci lei rimase un attimo titubante, la
rassicurai e le dissi di non avere paura.
Era un’idiozia, se avessi voluto farle del male non avrebbe
potuto difendersi, lei abbassò gli occhi ed entrò nella tenda.
Avevo aperto il sacco a pelo in modo che coprisse entrambe
ed avevo messo sopra un copriletto spesso che avevo trovato
in una stanza sul retro.
La ragazza si mise sul materasso e si girò verso la parete
della tenda, io mi infilai cercando di non toccarla, non
volevo che si spaventasse più di quanto già lo era.
Nel buio ebbi la percezione che non stesse dormendo.
<<Come ti chiami>>, chiesi.
E dopo un po’ lei rispose. <<Erica>>
<<Io sono Andrea, quanti anni hai?.>>
<<Diciassette>>, rispose.
Riuscii a farle dire ancora poche cose, poi lei si addormentò.
Il giorno dopo camminammo, io davanti, lei subito dietro, ci
fermammo solo per mangiare poi, verso sera, arrivammo ad
una villetta in cui pensavo di fermarmi.
Il cancello era chiuso, ci avvicinammo e, mentre stavo
accertandomi da che parte ci conveniva passare, il
portoncino di casa si aprì, uscì un uomo sui sessant’anni con
un fucile in mano. Rimase per un po’ fermo sulla soglia, si
avvicinò imbracciando il fucile tenendo le canne verso terra,
ma nella nostra direzione.
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<<Cosa volete?>> Chiese quando fu nei pressi del cancello.
<<Cerchiamo ospitalità>>, risposi io.
L’uomo guardò prima me e subito dopo osservò con
attenzione Erica.
Alzando il fucile indicò quello che tenevo su una spalla.
Capii cosa voleva, mi tolsi il fucile dalla spalle e lo feci
passare all’interno del cancello e lo appoggiai ad una delle
colonne che sorreggeva i battenti.
L’uomo, che nonostante l’arma che brandiva aveva un’aria
pacifica rimase perplesso.
Gli feci cenno di aspettare, aprii la giaccavento, estrassi
lentamente la pistola che tenevo nella fondina e la depositai
vicino al fucile. L’altro si avvicinò, tirò su fucile e pistola,
poi estrasse da una tasca una chiave, aprì e ci fece entrare.
Attraversammo il giardino ed entrammo attraverso la porta
che mostrava chiari segni di arma da fuoco.
Ci presentammo, dopo che l’uomo aveva sistemato le mie
armi in un armadio nell’entrata. Accese la luce e questo mi
stupì, evidentemente lesse il mio pensiero e mi disse che
aveva dei pannelli fotovoltaici che gli davano una piccola
fonte di energia.
Aveva una riserva di cibo abbondante e ci preparò una cena
che veramente mi mancava da diverso tempo. La ragazza
mangiò in silenzio, mentre noi ci scambiavamo informazioni
e pareri.
Giovanni Ristori aveva un aria importante, capelli brizzolati,
occhiali rotondi e la faccia ben rasata, era un ingegnere
civile, si era rifugiato in quel luogo con sua moglie.
Lo guardai interrogativo quando accennò alla donna.
<<Mia moglie aveva bisogno di una medicina particolare
che doveva prendere ogni giorno, avevamo scorte per circa
cinquanta giorni, non ci abbiamo pensato subito e quando
finì l’ultima pastiglia cominciò a stare male.>>
Si fermò per un po’.
92
<<Ha resistito venti giorni. L’ho seppellita la.>> e,
avvicinandosi alla finestra indicò un albero che era in mezzo
al giardino.
Poi disse che vicino a lei, nel girdino, erano seppellite altre
tre persone. Avevano tentato di entrare con la forza, li aveva
ammazzati senza pietà.
Trasalii, ma non feci domande.
Finita la cena accese la televisione e mise un dvd in un
lettore, apparve sullo schermo un cartone dei “Simpson”, la
ragazza si raggomitolò su una poltrona e si mise a fissare la
trasmissione.
Noi ci sedemmo un po’ in disparte a chiacchierare, con un
bicchiere di whisky in mano.
Mi chiese se sapevo cosa era successo, al mio diniego, mi
spiegò. Aveva, in un’altra stanza, un apparecchio radio con
cui, per diletto, si era negli anni messo in comunicazione con
tutte le parti del mondo; con quella radio si era messo in
contatto con diversi interlocutori ed aveva potuto farsi
un’idea di cosa era successo nel mondo.
Cominciò il suo racconto.
Nei mesi di luglio e agosto dello scorso anno alcuni pozzi
petroliferi si erano esauriti, la notizia fu tenuta nascosta in
quanto contavano di supplire con un maggior sfruttamento
dei pozzi ancora produttivi, ma anche questi ad uno ad uno
si erano esauriti. A metà settembre la metà dei pozzi aperti
nel mondo si era esaurita, alla fine dello stesso mese la
produzione era calata dell’ottanta per cento e d’un tratto
quello che veniva prodotto non fu più sufficiente.
Gli stati avevano gettato sul mercato tutte le riserve che
possedevano nella speranza del ritrovamento di nuovi pozzi
da sfruttare, ma l’inevitabile si era avverato.
Il collasso fu repentino ed inaspettato, le popolazioni erano
state tenute all’oscuro e non avevano potuto organizzarsi.
Anche se, aggiunse il mio interlocutore, questo avrebbe
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soltanto anticipato ciò che poi era avvenuto in tutto il
mondo.
Mancando il petrolio, gli approvvigionamenti di derrate
alimentari, la corrente elettrica e le forniture di gas vennero
a mancare di colpo e, come avevo potuto constatare di
persona, ognuno pensò per se e cercò il modo di
sopravvivere.
Gli Stati Uniti tentarono anche di occupare i pozzi ancora
operativi dell’Arabia Saudita, avevano mandato una flotta
con portaerei, cacciatorpediniere e marines per attuare un
piano che avrebbe permesso loro di impadronirsi del petrolio
rimasto, ma quando arrivarono nella penisola arabica era
tutto esaurito, non avevano neppure più il carburante per
tornare indietro, così travasarono tutto il carburante rimasto
nelle varie navi e lo misero nei serbatoi di una portaerei.
Buttarono in mare gli aerei e caricarono la maggior parte dei
soldati e dei marinai e fecero rotta verso la patria.
Chiesi come facesse a sapere tutte quelle notizie. Accennò
ancora una volta alla radio, poi mi disse di seguirlo.
Mentre la ragazza continuava a seguire i cartoni sulla
televisione, entrammo in una stanza in cui vi erano diversi
apparecchi elettronici, campeggiava tra essi una radio che
aveva un microfono sul davanti. Ristori accese un
apparecchio e, prima mi chiese se conoscevo l’inglese, alla
mia risposta affermativa, mi spiegò che mi avrebbe fatto
sentire una registrazione di una conversazione tra lui ed un
militare statunitense.
Dopo le solite domande e risposte di riconoscimento, la voce
del mio ospite chiedeva con chi stesse parlando e cosa era
successo a lui. Colui che parlava era un sergente dei marines
americano. “Be! non so se sarò vivo la prossima ora”,
cominciò la voce, “per cui le posso raccontare tutto quanto
ci è successo sin dall’inizio. Quando è stato chiaro che la
crisi del petrolio era irreversibile il governo ha deciso di
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mandare l’esercito a procurarsi la fonte di energia che
serviva per il nostro paese. Siamo partiti dagli Stati Uniti il
28 settembre per cercare di occupare l’Arabia Saudita. Noi,
cioè io e il mio gruppo, eravamo su una nave d’appoggio e
dovevamo proteggere le portaerei in mare e lo sbarco delle
truppe a terra. Una parte della flotta si è diretta verso il
Golfo Persico mentre l’altra parte è entrata nel Mar Rosso,
noi eravamo con questa seconda parte della flotta.
Ci siamo attraccati per qualche giorno nel porto di Jiddah,
poi, dato che lì non c’era più carburante spostammo la
maggior parte di quello che c’era nel nostro serbatoio su una
portaerei, l’idea era che ci saremmo trasferiti tutti sulla
portaerei e saremmo tornati a casa.
Nella notte successiva ci fu una sommossa e la portaerei è
stata assaltata da una miriade di imbarcazioni. Non so cosa
sia successo su quella nave, comunque ha levato le ancore e
se ne è andata. Noi, visto l’accaduto, siamo usciti dal porto
e, dato che non avevamo abbastanza carburante, il capitano
ha diretto l’imbarcazione verso il continente africano.
Abbiamo avuto motori per circa quattro ore, poi tutto si è
spento e con l’abbrivio che avevamo preso ci siamo arenati
su una spiaggia della costa del Sudan.
A quel punto non avevamo altra alternativa che abbandonare
la nave. Siamo scesi a terra con tutto l’equipaggiamento che
potevamo portare con noi, mentre dal mare arrivavano
diverse imbarcazioni di sudanesi che ci avevano visto
arenare e che si preparavano a saccheggiare la nave.
Noi eravamo in quarantacinque, avremmo anche potuto
rimanere sullo scafo e difenderlo con le armi di bordo, ma
non aveva nessun senso, saremmo rimasti bloccati senza
speranza di aiuto.
Ci siamo inoltrati all’interno, la prima notte ci siamo
accampati in una radura. Il comandante ha posizionato le
sentinelle, poi dopo aver mangiato la razione che ognuno
95
aveva, siamo andati nelle tende. Nel cuore della notte è
iniziato l’inferno, si sparava da ogni parte. Dopo più di
mezz’ora di battaglia siamo riusciti a prendere il controllo
della situazione e ci siamo asserragliati dietro ad un cumulo
di massi.
La mattina dopo ci siamo contati, tredici erano morti, sei i
feriti gravi e otto feriti più o meno gravemente. Ci avevano
attaccato per prendere cibo e armi, erano riusciti a portare
via alcune armi e una certa quantità di cibo.
Il comandante si convinse che non potevamo rimanere così
allo scoperto e ci dette ordine di procedere verso le alture
che erano di fronte a noi. I sei feriti gravi non si tentò
neppure di muoverli, gli fu somministrata della morfina in
dose letale e furono seppelliti vicino agli altri in fosse
scavate poco profonde.
Nel pomeriggio siamo arrivati alle prime colline, giunti a
circa un centinaio di metri dalla prima siamo stati bersagliati
da un gruppo nutrito di combattenti.
La prima salva fu quella che ha fatto il maggior disastro.
Sono caduti nell’immediato undici uomini, ci siamo difesi e
con qualche difficoltà siamo riusciti ad aggirarli e a
guadagnare un’altura. Quando ci siamo riuniti eravamo
rimasti in dodici di cui tre feriti.
Non avevano ferite eccessivamente gravi, ma non potendoli
curare adeguatamente si sono resi conto che non avevano
speranze e così ci hanno chiesto di lasciarli in quella
postazione con le loro armi. Siamo corsi così verso la
montagna, mentre dietro di noi è scoppiata una vera e
propria battaglia che è durata per quasi un’ora.
I nostri ragazzi ci avevano fatto guadagnare un bel po’ di
tempo, in questo modo siamo riusciti a raggiungere le
pendici di un monte, siamo saliti e ci siamo rifugiati in una
grotta. E’ da qui che sto trasmettendo.
96
Adesso il tenente ci ha detto che, dato che siamo circondati e
non abbiamo speranza se restiamo qui, la nostra unica
risicata possibilità è quella di uscire, armi alla mano e
cominciare a sparare su tutto quello che si muove, o la va o
la spacca. Se li facciamo fuori tutti abbiamo qualche
speranza se no la facciamo finita in fretta.
E dire che i miei hanno una piccola fattoria nel Montana e se
non avessi ascoltato un mio amico che insisteva, ora sarei
tranquillo a mungere una vacca e a bermi un whisky insieme
ad una bella ragazza.
Che coglione!
Beh. Signore, la devo salutare, qualunque cosa avvenga non
torneremo indietro quindi non saprà mai come va a finire. La
radio la lasciamo qui, è troppo ingombrante.
Le auguro tutto il bene del mondo.”
A questo punto si sentiva la voce di Giovanni che gli
augurava “Che Dio ti protegga” e l’altro rispondere. “Non so
se Dio esista, se c’è di sicuro non è qui. Comunque grazie”.
La trasmissione si chiudeva così e rimanemmo per un lungo
tempo in silenzio guardando il liquido giallo nel bicchiere
che tenevamo in mano.
Ci voltammo insieme, nessuno di noi due si era accorto della
presenza della ragazza che era in piedi appoggiata allo
stipite della porta, Giovanni si alzò e le chiese se voleva da
bere, indicandole la bottiglia posata sulla scrivania. La
ragazza rifiutò e chiese se poteva rimanere con noi.
Ci spostammo nel salotto e sedemmo io ed Erica sul divano
e il padrone di casa su una poltrona; si era portato dietro la
bottiglia e prima di sedersi aveva riempito il mio bicchiere.
Parlammo del più e del meno, accennai al tempo e Giovanni
mi disse che la situazione metereologica che avevamo avuto
noi era comune a tutte le parti del mondo. Sentendo vari
corrispondenti tutti avevano parlato di uragani, tempeste e
abbondanti nevicate in ogni parte del mondo.
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Dall’Egitto all’Australia, in Cina e in Canada, nel Messico,
Brasile e Argentina, in India e Viet Nam oltre che in tutta
l’Europa.
Aveva avuto contatti anche con due metereologi, uno
statunitense, l’altro danese, che gli avevano espresso
l’opinione che probabilmente questa situazione era stata
generata dall’improvviso stop di tutte le fonti inquinanti.
<<Come è possibile?>> Chiesi.
Secondo questi due, che più o meno avevano lo stesso
pensiero, anche se non si erano sentiti, si era incrinato
l’equilibrio atmosferico in tutto il mondo.
Un equilibrio che si era creato con l’inquinamento.
Nessuno aveva previsto che venendo a mancare questa
componente si sarebbe scatenata una reazione tale. In
pratica, secondo questi due, l’inquinamento non era più stato
alimentato, ciò aveva cambiato i valori e le temperature
sopra i grandi agglomerati urbani e le correnti e le
perturbazioni avevano preso un piega del tutto inaspettata.
Naturalmente i due avevano detto che non erano in possesso
di nessun dato che avvalorasse quello che dicevano e che la
loro era solo una supposizione.
L’unico dato certo è che in tutto il mondo si era scatenata
una forza della natura che nessuno poteva immaginare.
<<Ho potuto appurare, parlando con i miei interlocutori>>,
aggiunse Giovanni, <<che in tutto il mondo ci sono stati
cataclismi climatici, per quello che posso pensare io è
plausibile che si sia scatenata una reazione a catena che ha
innescato questa situazione>>.
Dissi che speravo che questo non si ripetesse più.
<<Comunque deve essere stato orribile. In ottobre avevo
trentun corrispondenti con cui mi sentivo ad intervalli
regolari, nel mese di novembre il numero ha cominciato a
diminuire ed ora, a distanza di tre mesi, sento soltanto tre
persone>>, concluse.
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Lo guardai sgomento e chiesi stupidamente:
<<E cosa ne è stato degli altri?>>
Giovanni alzando le spalle disse che non aveva avuto più
notizie di loro, i contatti si interrompevano
improvvisamente, e non poteva che far viaggiare
l’immaginazione per spiegare ciò che poteva esser avvenuto.
<<Sono sicuro che non si è trattato di niente di buono>>,
disse alla fine.
Dopo un attimo di pensieri che si accavallavano, mi tornò in
mente quello a cui aveva accennato il nostro ospite prima
della cena e sfacciatamente gli chiesi cosa era successo con
gli uomini che erano sepolti nel giardino. Giovanni
guardando il bicchiere che ancora teneva in mano sorrise.
E poi cominciò a raccontare.
<<Era un pomeriggio, aveva appena cominciato a nevicare,
mia moglie mi chiama e mi indica tre uomini che sono in
giardino. I tre erano armati ed avevano un atteggiamento
furtivo e per niente rassicurante. Presi subito il mio fucile.
Lo ha visto è un’arma a nove colpi, si può quasi dire che è
un fucile di precisione. Sono andato alla porta ed ho aperto
senza far rumore, tenendomi dietro lo stipite ho gridato,
intimando loro di lasciare i fucili o di andarsene; per tutta
risposta hanno sparato contro la porta.
Con un calcio ho richiuso e sono corso sopra, sono andato
alla finestra della camera da letto, ho aperto senza farmi
vedere. Erano nel mezzo del giardino e stavano pensando a
cosa fare, credo sia stata l’ultima cosa che gli è passata per
la testa.
Tre bersagli, tre colpi, tre centri ed è tutto finito. In un
attimo. Sono sceso dabbasso, ai piedi della scala c’era mia
moglie che mi ha guardato e mi ha detto “Sembri Mel
Gibson”.>> si fermò e ci mettemmo a ridere.
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In un altro momento della vita, in un altro periodo, in
un’altra epoca sarei inorridito a quel racconto, in quella casa,
in quel momento, mi faceva ridere.
<<Siamo riusciti a distruggere un mondo che era
meraviglioso>>, disse tra sé e sé Giovanni.
<<Credo sia insito nell’uomo. E dire che tutti i sintomi erano
presenti e ben noti. Come si poteva pensare che il petrolio
sarebbe stato estratto all’infinito? Abbiamo per anni
continuato a far viaggiare le merci con camion e auto. Non
ci è mai venuto in mente che molti spostamenti,
specialmente di beni di consumo, non avevano nessun senso.
L’acqua che viaggia su e giù per l’Italia, i pomodori che
arrivano da ogni parte, mentre i nostri li buttiamo perché non
sono convenienti.
Pensi a quello che si vedeva nei supermercati, praticamente
non c’erano più stagioni. Si potevano mangiare asparagi in
pieno inverno, ma li facevamo arrivare dal Sud America, e a
nessuno veniva in mente lo spreco di carburante per
permetterci di mangiare un prodotto come quello, fuori
stagione. Non ha mai comprato ciliegie a dicembre?>>
<<No>>, risposi.
<<Però si potevano comprare, così some le fragole, e
l’assurdo era che quando la frutta o la verdura era di
stagione non la trovavi ad un prezzo minore, anche quella
proveniva dall’estero, perché per i nostri contadini non era
più conveniente raccoglierla, dati i prezzi.>> Incalzò
infervorandosi il mio interlocutore.
<<Non avevo mai pensato in questi termini>>, mi venne da
dire, quasi vergognandomene.
<<La colpa non è sua, ma di chi avrebbe dovuto prendere le
decisioni giuste. Tutti i governanti, e quando dico tutti
intendo dire quelli di tutto il mondo, avevano una visione
troppo ristretta, troppo rivolta all’immediato. Quando si
facevano programmi, che alla fine erano solo proclami,
100
erano sempre a lunga scadenza e mai rispettati. Pensi al
protocollo di Kyoto, siamo arrivati al duemila e dodici e
nessuno dei propositi presi è stato attuato.
Abbiamo continuato a comportarci come cicale, con
l’aggravante che le formiche non esistono ed il mondo è
collassato.>>
Si fermò un attimo e poi aggiunse <<Il mondo che
conoscevamo non c’è più, magari ora sarà possibile
ricominciare, se non siamo completamente deficienti la
lezione dovremmo averla imparata, anche se non sono per
niente ottimista.>>
Bevemmo ancora un bicchiere di whisky poi, dato che si era
fatto tardi, decidemmo che era ora di andare a riposarci.
Il padrone di casa ci accompagnò al piano di sopra e aprendo
una porta che dava su una camera con due letti disse alla
ragazza che poteva dormire in quella stanza. Erica si
appoggiò alla porta, ma non entrò, mi guardò con uno
sguardo abbattuto, allora chiesi se preferiva che dormissi
con lei e lei annui.
Dormimmo veramente bene e il risveglio fu ancora meglio.
Giovanni ci aveva preparato una colazione di lusso; c’era
pane fresco, prosciutto, formaggi e frutta sciroppata.
Mentre eravamo a tavola chiese ad Erica se voleva rimanere,
in quella casa, lui aveva ancora viveri a sufficienza, anche se
non aveva piani per il futuro. La ragazza rimase interdetta,
mi guardava come a chiedere aiuto, le dissi che poteva
scegliere in libertà. Disse che voleva rimanere con me, se io
ero d’accordo.
Giovanni ci rifornì di ogni ben d’Iddio, aveva salami,
prosciutti e perfino del parmigiano. Prima di uscire mi
riconsegnò il fucile e la pistola, poi ci accompagnò al
cancello, lo ringraziai con una cordiale stretta di mano, Erica
si avvicinò per salutare e Giovanni la abbracciò e
prendendole il viso tra le mani la baciò sulla fronte, ma non
101
disse niente, aveva le lacrime agli occhi e rimase a guardarci
fino a quando sparimmo dalla sua vista.
Camminammo per tutta la mattinata, arrivati nei pressi di un
ponte su un fiumicello lo trovammo abbattuto e dovemmo
compiere una deviazione, non era possibile continuare verso
est, dovemmo prendere verso sud e rimanere in mezzo alle
montagne alla ricerca di una via verso il mare.
Girammo a vuoto per tutto il giorno e a sera trovammo
rifugio in un capanno di legno.
Montai ancora una volta, al suo interno, la tenda e dopo aver
mangiato ci coricammo. Ci infilammo nel sacco a pelo, le
diedi la buona notte e mi voltai verso la parete esterna, lei
dopo pochi minuti si strinse a me, probabilmente aveva
freddo o paura, cercava il calore di un corpo e il conforto
che poteva trarne.
Pensai a Giulia, mia figlia, e mi chiesi se qualcuno la stava
scaldando e le teneva compagnia, fui certo di si, sua mamma
era certamente con lei e suo fratello, e vegliava su di loro.
Il pensiero mi fece star meglio e poi mi dissi che Erica
sarebbe venuta con me ed avrebbe fatto parte della famiglia.
Quella ragazzina non aveva più nessuno e non potevo certo
abbandonarla.
Riprendemmo il cammino il giorno seguente, avevo paura di
essermi perso, ma almeno una delle due direzioni che mi ero
prefissato era quella giusta, ma non mi avvicinava al mare.
Verso le dieci passammo in prossimità di due case, non
avevamo intenzione di fermarci quindi stavamo proseguendo
quando ad un tratto sentimmo gridare.
<<Hei voi! Laggiù! Eilà sono qua! Di qua!>>
Ci voltammo verso quel suono, un uomo su un balcone di
una delle case si stava sbracciando.
<<Aspettate!>> Aggiunse e rientrò.
Ci fermammo e, dopo qualche secondo, lo rivedemmo uscire
dalla porta d’ingresso e mettersi a correre verso di noi.
102
Non sapevo se considerarlo un pericolo oppure no. Non
aveva nulla in mano e man mano che si avvicinava potei
osservarlo meglio. Era un ragazzo in jeans e maglione
girocollo, si fermò a circa due metri e cominciò a mitraglia:
<<Non sapete quanto sono contento, non potete nemmeno
immaginare, sono qui da più di tre mesi, non c’era la luce,
ha nevicato per settimane e prima c’è stato una specie di
tifone, io ero venuto perché...>>
Lo bloccai e gli dissi di prendere fiato, sapevamo cosa era
successo e gli chiesi di calmarsi e di raccontarci tutto con
calma.
Era arrivato in quella casa in moto, dopo i disordini e i
saccheggi si era rifugiato con i suoi genitori in una casa alla
periferia di Siena, erano rimasti senza viveri quindi avevano
deciso di mandarlo nella loro casa in montagna dove
avevano delle scorte.
Lui era arrivato proprio quando il tempo aveva cominciato
ad impazzire e non era più riuscito ad abbandonare quel
luogo, raccontò di una solitudine terribile, di notti insonni e
di disperazione. Non feci fatica a credergli, aveva vissuto
quello che io ed Erica conoscevamo bene.
Gli dissi che, naturalmente se voleva, poteva venire con noi.
Non se lo fece ripetere due volte, mise in uno zaino quello
che gli serviva e nel giro di cinque minuti fu pronto.
Si chiamava Lucio aveva vent’un anni frequentava
l’università ed era decisamente simpatico. Si faceva un po’
fatica a farlo tacere, ma mi sembrò che fin da subito fosse
entrato in sintonia con Erica e questo non mi dispiacque, la
ragazza aveva bisogno di una compagnia della sua età.
Lucio conosceva quei luoghi, gli dissi che il ponte più a
valle era crollato e lui ci portò su una stradina che passava
all’interno di un bosco.
Ci fermammo in una casetta e il giorno dopo ci dirigemmo
finalmente verso est.
103
I due ragazzi camminavano sempre vicini e spesso si
parlavano, a volte ridevano ad alta voce, in altri momenti si
raccontavano qualcosa sottovoce. Erica aveva preso un
espressione più serena, ero contento.
Arrivammo la sera successiva in un casolare, era deserto, ci
piazzammo in cucina dato che c’era una stufa a legna che
accendemmo con grande piacere. Montammo la tenda e
mentre la sera prima avevamo dormito tutti e tre insieme,
anche per avere più caldo, quella sera mi sistemai sul divano
con una coperta e lasciai la tenda ai due ragazzi.
Nella notte fui svegliato da strani rumori, subito fui preso
dal panico, nel buio non riuscivo a capacitarmi di cosa
potesse essere, poi capii che non c’era nulla da temere, i due
ragazzi stavano facendo conoscenza e girandomi dall’altra
parte li invidiai, e non potei fare a meno di pensare a mia
moglie.
104
9
Camminammo tutta la mattina abbastanza agevolmente,
stavamo scendendo verso la pianura e il mare, anche se la
neve ostacolava alquanto il cammino. I due ragazzi
parlavano tra di loro tenendosi per mano, ogni tanto li
sentivo ridere; mi faceva piacere vedere che nonostante tutto
la vita, forse, poteva riprendere il suo corso.
Due giovani che cercavano conforto in quella tenebra era
certamente un inizio di ottimismo.
Nel primo pomeriggio, mentre avanzavamo sulla strada
provinciale, vedemmo sulla nostra destra una stradina che
portava, dopo circa duecento metri, ad una cascina. Il
portone era aperto e si vedeva al suo interno una certa
attività.
Ci guardammo, poi dissi ai ragazzi di aspettare ed andai a
controllare. Avevo tirato giù il fucile dalla spalla ed avevo,
per sicurezza, controllato che fosse carico. Mi ero anche
slacciato la giacca in modo da poter poi prendere
agevolmente anche la pistola, se fosse stato necessario.
Dall’esterno sembrava di vedere una grande cascina
circondata da numerose stalle, fienili e magazzini, una tipica
cascina toscana o emiliana.
105
Arrivato al portone mi fermai; dentro alcune persone erano
intente in lavori vari, mi videro ed alcuni di loro mi
sorrisero.
Mi si fece incontro un uomo più o meno della mia età,
portava la barba tagliata corta e i capelli a spazzola castani,
vestiva un giubbotto di pile e jeans, mi guardò e porgendomi
la mano si presentò. Si chiamava Bruno Lai ed insieme ad
altri si era stabilito in quella cascina con molte provviste e
animali: mucche, capre, conigli e galline.
Si disse felice del nostro arrivo e ci fece subito capire che se
volevamo potevamo restare. Mi stupii subito del fatto che
non si vedevano armi, mi ero così abituato all’atmosfera da
far west, che quella pace bucolica mi aveva preso alla
sprovvista.
Fummo subito trattati come amici da tutti i componenti di
quella comunità. A cena si presentarono tutti uno ad uno
dandoci il benvenuto ognuno a suo modo.
La cascina, che si trovava in una valletta poco frequentata e
conosciuta, era di una coppia sui sessant’anni, avevano
aperto la porta della loro casa a chi si era presentato ed ora
vivevano in quel luogo quarantun persone. Tra loro c’erano
anche nove bambini, e tutti gli abitanti provenivano dalle
zone limitrofe e
avevano potuto sopravvivere a
quell’inverno terribile grazie alle riserve ed agli animali.
Mi spiegarono che a breve avrebbero cominciato a seminare:
granturco e soia, avevano già una bella serra in cui
coltivavano un orto con ogni ortaggio possibile nella
stagione.
Si percepiva che erano riusciti a ricostruire una comunità
felice e laboriosa, ciò mi dette speranza per il futuro.
Dopo cena ci chiesero delle nostre vicissitudini; furono
molto scossi dal racconto di Erica rimasta sola dopo che i
suoi genitori erano morti di stenti; un po’ più allegramente
fu preso il racconto di Lucio, non tanto per ciò che diceva,
106
quanto per il modo con cui enfatizzava ogni fatto che gli era
accaduto.
Ma la discussione si scatenò quando formulai le tesi su ciò
che era avvenuto nel mondo, secondo quanto avevo apprerso
solo due giorni prima da Ristori. Alcuni furono colpiti dal
fatto che tutta questa devastazione fosse dovuta al solo fatto
che il petrolio era finito, altri, ed erano la maggior parte, si
dimostrarono preoccupati del possibile cambiamento
repentino del clima, si chiesero se non fossero anche
cambiate le stagioni, cosa che li inquietava oltremodo, dato
che contavano di vivere dei frutti della terra e del loro
lavoro. La discussione si fece vivace quando l’argomento si
spostò su a chi attribuire le colpe di quanto era avvenuto.
La mia opinione e quella della maggior parte degli
interlocutori era che chi aveva in mano i destini del mondo
non si era occupato del futuro, aveva vissuto nel presente
senza vedere ciò che era evidente, bastava guardare e
mettere in fila tutti i fattori che erano lì a disposizione e
bastava fare uno più uno per avere un’idea di ciò che stava
per accadere.
Bruno Lai, colui che sembrava il capo di quella comunità, fu
il più duro a condannare l’insipienza dei politici che ci
avevano governato.
<<Hanno pensato solo a se stessi, non hanno mai pensato al
bene comune, e toccava a loro prevedere ciò che poteva
accadere, loro avevano tutti i dati per capire e, o non hanno
capito o hanno fatto finta di niente, e dire che li abbiamo
votati noi>>, disse scuotendo la testa.
Ora lo so anch’io e lo vedo chiaramente, ma prima che
accadesse quello sconvolgimento, non avevo nessuna idea in
proposito. Vivevo la mia vita pensando a quale auto avrei
acquistato, dove sarei andato in ferie e dove saremmo andati
per la settimana bianca.
107
Eppure, non mi davo pace, era tutto lì a portata di vista, se
solo non avessimo avuto il salame sugli occhi.
Il susseguirsi di crisi economiche avrebbe dovuto dire già
qualcosa; il prezzo del petrolio sempre in crescita ci avrebbe
dovuto far pensare al fatto che prima o poi sarebbe finito, e
quando ci fu la crisi mondiale del prezzo dei cereali, questo
da solo avrebbe dovuto farci riflettere, ma noi a pensare ad
un telefonino nuovo o ad un nuovo televisore a cristalli
liquidi.
Non so darmi pace anche se non so cosa avrei potuto fare.
So solo che non mi sono mai preoccupato di queste cose, il
mio universo era la carriera e i beni più o meno inutili da
portare alla famiglia e da ostentare con gli amici.
Non riesco neppure ad insultarmi, qualunque epiteto sarebbe
troppo riduttivo.
La mattina seguente facemmo colazione tutti insieme, una
cosa davvero piacevole; Lucio mi prese in disparte e mi
comunicò che lui ed Erica sarebbero rimasti in quel luogo.
Dissi loro che facevano bene perché quello era davvero il
paradiso e che ero contento che potessero finalmente trovare
una famiglia così disponibile.
Ci abbracciammo, Bruno e tutti gli altri vennero a salutarmi
e mi dissero che sarebbero stati lieti se io fossi tornato da
loro con la famiglia. Li ringraziai commosso, ma contavo
veramente di ritrovare i miei e rimanere con loro dove
speravo si trovassero.
Mi volsi alla volta del mare e ripresi la mia odissea.
Avevo preso una direzione che mi portava verso sud est,
così nello stesso tempo mi avvicinavo al mare e al
meridione. Seguendo la strada provinciale giunsi ad un
fiume, ero già passato da quelle parti una volta che
andavamo in ferie nel casale dei miei suoceri, da come me
lo ricordavo era un piccolo corso d’acqua, ma ciò che
vedevo mi sembrava il Rio delle Amazzoni, è esagerato, ma
108
il pensiero mi venne osservando la dimensione e la portata
del fiume che avevo di fronte.
La strada terminava proprio dentro all’acqua, del ponte non
vi era più traccia.
Immaginai la furia che doveva essersi scatenata in quel
luogo. Mi convinsi che l’alluvione che aveva prodotto quello
scempio si era scatenata durante la tempesta del novembre
precedente. In quel momento l’acqua scendeva a valle
impetuosa alimentata dalle copiose nevicate che avevano
ricoperto i monti e tutte le terre circostanti nei mesi
precedenti.
Non c’era modo di guadare, per cui mi decisi a scendere
lungo gli argini del fiume per cercare un modo per
attraversare. Nel mio vagabondare cominciai a vedere luoghi
che erano stati abitati; alcuni erano stati devastati dalla furia
delle acque ed erano completamente in rovina. Nelle cascine
isolate e risparmiate dalla furia delle acque vi erano ovunque
cadaveri. Gente che probabilmente si era rifugiata in quei
luoghi, ed era stata colpita prima dalla tempesta, che
sicuramente in qualche luogo si era trasformata in uragano,
poi dalla neve e il gelo che avevano completato l’opera
uccidendo chi era sopravvissuto al diluvio, e davanti ai miei
occhi non c’erano che morte e desolazione.
In una casa trovai, al primo piano, otto persone, tra cui tre
bambini, tutte nella stessa stanza, la scena era agghiacciante,
fuggii spinto dal terrore che si intravedeva in quegli occhi
aperti nel nulla.
Morti di stenti, morti di fame, morti di paura, morti di
freddo.
Passai la notte in un casello della ferrovia, almeno non
c’erano nelle vicinanze presenze di fantasmi.
L’indomani continuai la mia ricerca di un possibile
attraversamento del corso d’acqua. Tutti i ponti erano
crollati, arrivai in vista del mare e fui colto dal panico;
109
quello che mi si presentava davanti era di una desolazione
assoluta, la furia delle acque del mare era penetrata
all’interno per almeno due chilometri distruggendo case,
strade, ponti e coltivazioni.
Il fiume entrava nel mare in un enorme estuario e si
allargava in una laguna che ad occhio non era possibile
oltrepassare.
Cercai tutta la giornata un modo per poter raggiungere la
riva opposta e poter proseguire, ma non trovai barche o
mezzi galleggianti che mi potessero traghettare.
La sera disperato mi rifugiai in un magazzino, mangiai
quello che avevo appresso e cercai di trovare una soluzione,
ma per tanto che mi sforzassi non riuscivo a venirne a capo.
Decisi che ci avrei dormito su, ma la notte passò senza che
riuscissi veramente a riposare, mi sentivo bloccato e lo ero,
dovevo per forza trovare un modo per proseguire.
Il giorno seguente mi persuasi che l’unico modo per
attraversare quel fiume era quello di trovare un mezzo
galleggiante o di costruirmelo. Entrai in vari magazzini, in
uno dei quali trovai anche due cadaveri di persone che erano
state uccise a fucilate; in ultimo entrai in un’officina in cui
vi erano anche vari copertoni e, guardando due grosse
gomme di un camion appoggiate alla parete, mi figurai un
grosso salvagente o qualcosa di simile.
Cercai sugli scaffali e trovai delle camere d’aria, ne presi
due, le gonfiai, non senza fatica, con un pompa da bicicletta;
non erano perfettamente rigide, ma pensai che avrebbero
comunque fatto la loro parte.
In mancanza d’altro, mi dissi, queste possono andare bene.
Mi avvicinai al fiume e valutai la situazione; non mi piaceva
affatto buttarmi in quell’acqua con due copertoni neri,
dovevo tenere conto che avevo l’assoluta necessità di
preservare lo zaino con quello che c’era dentro, la perdita
dello zaino sarebbe stata una catastrofe.
110
Avevo ancora cibo per quattro o cinque giorni, avevo la
canna da pesca, con gli ami e le esche, che contavo mi
avrebbe sfamato per i giorni a venire, avevo le armi che mi
avrebbero protetto dalle mie paure, insomma tutti i miei
averi erano in quelle poche cose e in quella situazione
perdere anche solo una parte di ciò che possedevo avrebbe
potuto essere fatale. Dovevo assolutamente concentrarmi e
valutare ogni possibilità.
Misi lo zaino su una delle gomme e lo legai con delle corde,
non era possibile legarlo in modo molto stretto in quanto la
gomma era molto flessibile, ma cercai di assicurarmi che
stesse comunque sopra e non a contatto con l’acqua. Misi le
cartucce sia della pistola che del fucile dentro un sacchetto
di cellophane che chiusi ermeticamente e che misi poi
all’interno dello zaino, stessa cosa feci per la pistola. Per il
fucile non avevo un contenitore che potesse difenderlo
dall’acqua quindi decisi dei metterlo sopra lo zaino, lo avrei
tenuto con le mani.
Mi spogliai, benchè non facesse affatto caldo e fu ancora
peggio quando cominciai ad immergermi nell’acqua, ma non
potevo certo bagnare anche i vestiti, sarebbe stato peggio e
per quanto riguardava il freddo non avrebbe comunque
significato un gran differenza.
Legai tra di loro le camere d’aria, mi misi al centro di una e
spinsi avanti quella su cui avevo sistemato lo zaino.
Subito la corrente mi prese, ma cominciai a forza di braccia
e di gambe a spingermi verso l’altra sponda, facevo una
fatica infernale a cercare di guadagnare metri, nello stesso
tempo il freddo mi attanagliava al punto che pensai che mi
sarebbe venuta una sincope.
Non avevo assolutamente immaginato una situazione del
genere, mi era praticamente impossibile governare le camere
d’aria e l’unica cosa che potevo fare era scalciare per
guadagnare la riva opposta.
111
Quando fui al centro del fiume fui colpito da un tronco
galleggiante che viaggiava sulla superficie dell’acqua, misi
tutta la mia forza per cercare di tenere a galla i miei averi,
ma mi fu impossibile trattenere il fucile che mi scivolò di
mano e sparì immediatamente tra i flutti.
Impiegai un tempo infinito a raggiungere la riva opposta che
toccai stremato.
Non potevo abbandonarmi sdraiato sull’erba, non dovevo
ammalarmi un’altra volta, mi obbligai ad alzarmi, cercai
nello zaino qualcosa per asciugarmi, fortunatamente avevo
messo buona parte dei vestiti dentro sacchetti impermeabili,
così li trovai asciutti e mi vestii in fretta anche se dovette
trascorrere almeno mezz’ora prima che il mio corpo
smettesse di tremare.
Non avevo più alcun allenamento alla fatica fisica, i mesi
trascorsi bloccato sui monti mi avevano rammollito.
E dire che, nella vita precedente, ormai questa era la mia
considerazione; nella vita precedente, due volte la settimana
frequentavo una palestra per tenermi in forma.
Quella della palestra era una moda a cui nessuno poteva
rinunciare, se non voleva essere tagliato fuori.
La palestra, che assurdità, pensandoci ora; correre su un
tapis-roulant per fare fiato, alzare pesi per rassodare i
muscoli, prendere a pugni un sacco per mantenere i riflessi,
il tutto con i consigli di un preparatore che ti fa notare la tua
pancetta, il fiato corto e la scarsa elasticità.
Tutto per essere alla moda, non perché serva. Forse fare una
camminata in montagna, o una bella nuotata al mare mi
avrebbero fatto meglio e, nel frangente in cui mi trovavo, mi
avrebbe aiutato nell’attraversamento di quel fiume.
Avevo comunque raggiunto il mio scopo, potevo proseguire
verso la mia meta. La perdita del fucile non era grave, era
una perdita accettabile, o almeno mi convinsi che fosse così.
Giunsi in tarda mattinata sul mare, potei osservare lo sfacelo
112
che doveva aver colpito quella costa. Tutto ciò che era
vicino al mare era stato distrutto e la distruzione si inoltrava
nell’entroterra.
Verso la fine del pomeriggio vidi sulla spiaggia un certo
numero di persone che stavano armeggiando intorno ad assi
di legno e pali, avvicinandomi gli uomini si accorsero della
mia presenza e smisero i loro lavori. Il loro atteggiamento
non era ostile, anzi fu subito amichevole, mi vennero
incontro e vollero subito sapere da dove venivo.
Raccontai per sommi capi la mia odissea e loro mi resero
partecipe della loro. Stavano ricostruendo un capanno a
palafitta sul mare dal quale intendevano calare una rete a
bilanciere, come quelle che già esistevano precedentemente,
contavano così di poter pescare a sufficienza.
Mi fecero entrare in una costruzione che avevano riattato
con legno, pannelli prefabbricati ed ogni cosa che potesse
tornare utile. Mi raccontarono che anche qui avevano subito
la furia del tornado.
<<Cominciò a piovere con un’intensità mai vista, poi il
vento cominciò a scoperchiare i tetti e a far volare tutto ciò
che veniva sradicato>>, iniziò a raccontarmi Francesco, un
uomo sui trentacinque anni, muscoloso come lo sono gli
scaricatori di porto, con una lunga barba e che vestiva una
logora tuta ed evidentemente era molto considerato dai suoi
amici che ascoltavano annuendo.
<<Mentre il cielo si scatenava su di noi, dalla montagna
scese una valanga d’acqua, i più piccoli rigagnoli si
trasformarono in fiumi in piena portando a valle ogni sorta
di detriti e facendo scivolare verso il mare case, campi e
borghi. C’erano camion e trattori trascinati insieme a silos e
container che sono finiti in mezzo al mare.
Dopo tre o quattro giorni di questa apocalisse l’acqua che
aveva travolto tutto è ritornata indietro con gli interessi.
113
Il mare è cresciuto come non l’avevamo mai visto, ad un
tratto un’onda immane alta più di dieci metri ha travolto
tutto ciò che ancora era rimasto in piedi. Ci siamo visti
arrivare addosso uno tzunami che si è ripetuto per cinque
volte.
Cinque volte di seguito, a distanza di poche ore l’una
dall’altra, le onde si sono riversate sulla costa entrando
nell’entroterra fino a venti chilometri e più.>>
Mi sorse spontaneo chiedere come avessero potuto
sopravvivere.
Mi indicarono una collina non più alta di trenta metri a circa
quattro chilometri dal mare, si erano rifugiate su quell’altura
una dozzina di famiglie e da quel luogo avevano visto lo
sfacelo di tutta la zona ed avevano, nello stesso tempo,
potuto vedere la completa distruzione di tutta la popolazione
che viveva in quei luoghi.
Milioni di persone erano sparite ingoiate dalle acque.
<<Molti di quelli che erano riusciti a sopravvivere, però,
sono morti nei giorni e nelle settimane seguenti>>, proseguì
Francesco.
<<Appena terminata l’acqua ha cominciato a nevicare.>>
Questa storia la conoscevo e riuscivo anche ad immaginare
cosa aveva dovuto comportare in una situazione come quella
questo ulteriore peggioramento del clima.
<<Ha nevicato per settimane, noi avevamo conservato del
pesce che era stato pescato nei giorni precedenti l’alluvione
e con quello ed altro che avevamo potuto trovare siamo
riusciti, con grandi sacrifici e sofferenze, ad arrivare fino al
momento in cui abbiamo potuto riprendere a pescare. Ora
però possiamo solo pescare con le canne perché non
abbiamo più barche ed è per questo che stiamo ricostruendo
il bilanciere così potremo avere cibo a sufficienza anche per
quei periodi in cui sarà difficile pescare.>>
114
Vivevano in trentacinque in quelle povere baracche, ma si
stavano riprendendo. Si capiva che avevano avuto una paura
immensa e che avevano disperato di farcela, ma in quel
momento erano pieni di nuova speranza e voglia di
ricominciare.
La maggior parte di loro non si conosceva prima di quella
catastrofe, si erano ritrovati per caso su quella collina ed
insieme si erano dati da fare per aiutarsi l’un l’altro, forse
c’era ancora speranza negli uomini, o almeno in quelli che
erano rimasti.
Mi ospitarono per la notte e, l’indomani, dopo una colazione
di pescetti fritti mi congedai da quella comunità.
115
10
Dovetti ritornare verso l’interno, il litorale non era agibile, le
strade non esistevano più e al posto delle case c’erano solo
macerie, tutto il paesaggio era sconvolto e, sono certo,
neppure chi viveva in quei luoghi prima della catastrofe
avrebbe potuto riconoscere quei luoghi.
Vidi Pescara dall’alto, o meglio vidi quello che era rimasto
di Pescara: solo macerie. Il porto era trasformato in un
ammasso di ferraglia, una nave, probabilmente un traghetto,
era rovesciata con un fianco su una banchina, altre
imbarcazioni erano a pezzi o affondate in un tripudio di
lamiere, pennoni e gru.
C’erano resti di imbarcazioni fino oltre il limite delle case e
dei palazzi o per meglio dire fino oltre le rovine della città.
La città era stata sconquassata da un cataclisma di
proporzioni immense, l’acqua aveva raso al suolo interi
quartieri e aveva portato la morte e la distruzione ovunque.
Non si notava alcun movimento, nessuna persona, nessun
animale, niente che avesse una vita propria, la desolazione
più assoluta, anche la vegetazione era scomparsa, solo
qualche albero aveva resistito a dispetto di tutto. Nel mio
procedere verso sud, potevo pescare solo dove c’erano
promontori rocciosi che si inserivano nel mare, altrove era
praticamente impossibile, per l’impraticabilità delle spiagge.
116
Mi resi conto che non possedevo una canna adatta alla pesca
dalla spiaggia o ciò che era rimasto delle spiagge. In un
modo o nell’altro comunque riuscii sempre a procurarmi
qualcosa da mangiare che integrasse quelle poche provviste
che ancora avevo conservato.
Impiegai una settimana a giungere in Puglia e, come altre
volte mi era capitato, pensai di essere arrivato, poi mi
ricordai della lunghezza di quella regione ed io dovevo
proprio andare in fondo allo stivale, nel Salento, quella era la
mia destinazione.
Attraversai tutte quelle terre che conoscevo, quella era la
terra di mia moglie, vidi il disastro provocato in tutte le città
ed i paesi rivieraschi.
Il colpo peggiore lo ebbi arrivato ad Trani.
Ricordavo quella splendida cattedrale sul mare, l’avevo
amata per la sua posizione, su un isola legata alla terra da un
piccolo istmo; per la sua architettura, un gotico stupefacente
e per la magia che il suo insieme sapeva esprimere.
Non c’era più, non si scorgevano, la dov’era stata, che poche
pietre grigie che non davano l’idea della maestà che in quel
luogo era albergata.
La tristezza ancora una volta mi calò sulle spalle come una
nebbia grigia, pensai a tutte le meraviglie che nei secoli
avevamo costruito e che nel giro di poco tempo erano andate
perdute. Sperai, con tutto il cuore, che si trattasse solo dei
monumenti nelle città costiere.
Mi rendevo conto che, in un momento di grande tristezza per
l’umanità, mi stavo preoccupando delle pietre, ma quelle
perdite erano ai miei occhi una catastrofe nella catastrofe.
Stavo attraversando il Gargano, avevo lasciato il mare da
qualche ora, dopo aver pescato alcuni pesci per garantirmi il
cibo sino al ritorno sulla costa, mi ero inoltrato in un
boschetto
quando,
all’improvviso,
mi
trovai
nell’accampamento di un gruppo di uomini, sette per
117
l’esattezza, che al mio arrivo si alzarono guardandomi
impauriti.
Erano tutti ragazzi di colore e stavano cocendo una minestra
in un pentolone sistemato su un focolare circondato da
pietre. Alla prima sembrarono proprio spaventati, poi,
vedendo il mio atteggiamento non ostile, vidi sui loro visi un
certo rilassamento.
Li salutai, mi invitarono a sedermi con loro, accettai e offrii
a mia volta i pesci che avevo pescato poche ore prima.
Mangiammo insieme, venivano dal Togo e dal Burchina
Faso, erano venuti in Italia per raccogliere pomodori ed
erano rimasti bloccati in quel luogo dalle condizioni avverse
del tempo.
Mi raccontarono che prima delle piogge erano più di cento,
avevano appena finito di lavorare e molti di loro erano partiti
poco prima che il tempo cambiasse, altri si erano allontanati
poco prima che cominciasse a nevicare, loro invece non
avevano avuto coraggio di muoversi con quelle condizioni,
non erano abituati ad un clima come quello, erano rimasti e
si erano costruiti un rifugio di fortuna nel bosco.
Non dissi che neppure io ero abituato ad un clima come
quello.
Erano sopravvissuti scaldandosi
con la legna che
bruciavano in un bidone di ferro, ed erano riusciti a
procurarsi del cibo uccidendo alcuni animali che avevano
potuto catturare, mettendo a frutto le loro conoscenze sulla
caccia.
Chiesi loro perché non si fossero riparati in una casa.
Mi rispose quello che parlava un po’ meglio la mia lingua:
<<Tutti morti nelle case, noi non entriamo.>>
Avevano avuto paura degli spiriti che aleggiavano su quelle
residenze e non avevano avuto il coraggio di sfidarli.
Poi volle chiedere lui a me: <<Cosa è successo, perché tutti
morti?>>
118
Spiegai quello che sapevo; il petrolio era finito e nel mondo
si era scatenata prima una guerra per la sopravvivenza che
aveva risvegliato ogni istinto primitivo negli uomini nel
tentativo proprio di sopravvivere, poi il clima era
improvvisamente cambiato e le tempeste e la neve avevano
fatto il resto.
Quello che mi capiva meglio tradusse ai suoi compagni ciò
che avevo detto.
Uno di essi, quello che appariva il più giovane, doveva avere
meno di vent’anni, si mise a piangere tenendosi la testa tra le
mani, aveva intuito che la speranza di tornare a casa era
quasi del tutto svanita, avrebbe dovuto continuare a vivere
con i suoi compagni dimenticando la sua famiglia.
Avevo preso alcune bibite tra le rovine di un capanno, offrii
loro una birra, ma rifiutarono, erano mussulmani e non
bevevano alcolici, fortuna che avevo preso anche due lattine
di aranciata che si passarono l’un l’altro, con piacere,
ringraziandomi a segni con il capo.
Mi raccontarono che il ragazzo più giovane era la prima
volta che veniva a lavorare in Italia, voleva guadagnare
abbastanza per poi tornare nel suo villaggio dove intendeva
sposare una ragazza di cui era innamorato. Gli altri erano già
venuti a raccogliere pomodori gli anni precedenti, erano tutti
sposati, chi con due, chi con tre figli. Risparmiavano il più
possibile per poter portare a casa il necessario per vivere,
dormivano in capannoni a terra su una stuoia, ma non se ne
lamentavano, loro avevano uno scopo.
Finito il pranzo li avevo salutati ed avevo augurato loro
buona fortuna, anche se pensavo tra me e me che io avevo
una meta, ormai prossima, da raggiungere, mentre loro
avevano scarse possibilità di rivedere i loro cari e provai
pena.
Non avevo più avuto soverchi problemi ad attraversare i
corsi d’acqua, anche perché un giorno, attraversando un
119
paesino, disabitato ero entrato in una specie di emporio che
faceva un po’ da casalinghi, negozio di giocattoli e
ferramenta, ed avevo trovato tra gli scaffali un canottino
gonfiabile, avevo preso anche un gonfiatore ed al momento
di attraversare un fiume o un canale impiegavo una decina di
minuti a gonfiarlo poi salivo sopra e, vogando con una
pagaia, attraversavo con una relativa facilità.
La cosa buffa era che avevo arrotolato il canotto sullo zaino
e la pagaia, che si divideva in due, la sistemavo ai lati, così,
visto da fuori, sembravo un villeggiante che andava in
spiaggia.
C’è da dire che non incontravo molta gente che potesse
criticarmi.
Un pomeriggio entrai in un piccolo agglomerato di case,
cinque persone sedute su delle sedie sistemate sul
marciapiede sul fronte di una casa chiacchieravano tra loro.
Tre donne e due uomini, erano tutti avanti con gli anni, le
donne vestivano una veste nera lunga con un grembiule sul
davanti, una era completamente senza denti e rideva
mostrando le gengive.
I due uomini, che si chiamavano entrambe Salvatore,
facevano, l’uno il sarto e veniva chiamato Sasà, l’altro il
barbiere, detto Salvo.
Quando il secondo mi disse il suo mestiere mi venne
spontaneo guardarmi in un vetro di una finestra.
Erano mesi che non mi vedevo, o meglio, avevo guardato la
mia immagine riflessa varie volte, ma era la prima volta, da
un tempo lunghissimo, che mi vedevo veramente come ero.
Avevo i capelli lunghi che mi arrivavano sulle spalle, la
barba incolta mi copriva completamente tutto il viso e il
collo, visto così ero davvero impresentabile, dovevo
sembrare un pezzente.
Chiesi all’uomo se era disposto a tagliarmi i capelli e la
barba.
120
Fu subito felice ed in un batter d’occhio mise fuori, proprio
sul marciapiede davanti casa, una poltroncina da barbiere.
Prese una scatola di latta in cui teneva le forbici e i rasoi, mi
fece accomodare con un inchino affettato, mi mise un
asciugamano sul davanti e cominciò a tagliare.
Gli altri quattro spostando le sedie su cui erano seduti, si
misero intorno e tutti cominciammo a chiacchierare
raccontandoci la nostra vita, sembrava proprio di essere in
un salone da barba del sud, e la constatazione mi fece
perfino ridere.
Bastava proprio poco per ridare alla vita un senso.
La popolazione del luogo aveva abbandonato la frazione nel
momento in cui si era appresa la notizia della mancanza di
petrolio e di rifornimenti alimentari. Loro, che erano vecchi,
non se l’erano sentita di andarsene ed erano riusciti a passare
l’inverno con le provviste che avevano. Alla fine della brutta
stagione si erano dedicati a coltivare gli orti e, con quattro
galline che producevano uova, riuscivano a mangiare tutti i
giorni.
Mentre venivo servito di barba e capelli mi fu offerto
persino del rosolio, non è che mi piacesse molto, ma era tale
la gioia di stare con quella gente che lo gustai sommamente.
Quando ebbe terminato, dopo avermi fatto uno shampo ed
avermi spruzzato sul viso un dopobarba che lasciava un
piacevole profumo di talco mi alzai e, con modi eleganti,
almeno credo, dissi:
<<Quanto devo, signore?>>
Tutti risero e il mio buon barbiere rispose:
<<Per questa volta offre la casa.>>
Lo abbracciai e fui ancora più stupito quando mi offrirono
ospitalità per la notte.
Vivevano insieme in una casa dove c’era una cucina con una
bella stufa e due stanze da letto, gli uomini dormivano in una
stanza e le donne nell’altra.
121
Fu quella una cena davvero unica, quei vecchietti erano
davvero simpatici, tra di loro c’era armonia, e mi trattarono
quasi come fossi stato figlio loro. Erano tutti vedovi e tutti
avevano figli, in cinque mi raccontarono di quattordici figli
e vent’un nipoti, di tutti mi fecero vedere le fotografie.
Questo era andato al nord a lavorare alla Fiat, quest’altra
faceva l’infermiera vicino a Roma, due erano emigrati in
America e uno di essi aveva un ristorante a Detroit. Dei
nipoti la maggior parte frequentavano le elementari o le
medie, ma due già andavano all’università. C’era poi uno
che aveva una fabbrichetta nel Veneto e ci tennero a farmi
sapere che occupava ventisei operai.
Due purtroppo erano morti, uno in un incidente stradale,
solo due anni prima, mentre l’altro era caduto da
un’impalcatura mentre lavorava alla costruzione di una casa.
Insomma in quel luogo si poteva ritrovare la memoria di uno
spaccato della storia che ci eravamo lasciati alle spalle.
Tutti si augurarono, ma nelle loro parole si leggeva la
certezza, che la loro discendenza fosse stata in grado di
superare quei terribili mesi precedenti.
Dormii la notte sul divano in cucina, il mattino successivo li
lasciai col groppo in gola per il calore che mi avevano
donato, mi augurarono ogni bene e so che erano sinceri.
Due giorni dopo ero nei pressi della località in cui avrei
rivisto i miei.
Quando avevo visto i disastri provocati dalle alluvioni e
dalle onde del mare avevo temuto per la mia famiglia, ma
avevo ben presente che la casa di campagna di mio suocero
era su un altopiano ad un paio di chilometri dal mare e che
era praticamente impossibile il verificarsi di un’alluvione,
proprio per la conformazione del territorio.
Il terreno su cui sorgeva questo piccolo casale era
principalmente coltivato ad ulivi, la terra era rossa e, ricordo
quando mio suocero mi raccontava la fatica che aveva
122
dovuto sopportare per togliere tutte le pietre che
disseminavano i campi, pietre che poi aveva utilizzato per
costruire i muretti a secco che contornavano e delimitavano
la proprietà.
Nonostante cercassi di convincermi che non era successo
niente, che i miei erano stati risparmiati dalle calamità e che
mi ripetessi nella mente questo mantra, il timore si insinuava
nei miei pensieri man mano che mi avvicinavo alla meta.
11
Ero ormai in prossimità della casa rurale dei miei suoceri,
camminavo su un tratturo con lo sguardo fisso, la mente
ottenebrata dalla speranza, il cuore che un po’ martellava
violentemente e un po’ sembrava saltare qualche colpo.
L’angoscia era la mia compagna ormai da qualche tempo,
non volevo illudermi, ma nello stesso tempo l’attesa mi
annullava.
Ad un tratto vidi, su un sentiero parallelo al mio, due figure
che si stagliavano contro sole.
Un uomo camminava dietro ad una bambina, si capiva che la
stava sgridando per qualcosa. La ragazzina era magrolina e
portava un secchio che pareva alquanto pesante; camminava
a testa bassa ed era evidente che era molto stanca.
La bimba si voltò verso di me, alzò la testa, poi si bloccò sul
posto; l’uomo, che era qualche passo dietro gridò ancora
verso di lei, ma la piccola lasciò cadere il secchio e si mise a
correre nella mia direzione.
In quell’istante il mio cuore ebbe un sussulto e nello stesso
tempo udii un grido, il grido più bello che avessi mai
sognato.
<<Papà>>
E correva a perdifiato fin che mi arrivò tra le braccia.
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Non sapevo cosa dire, non mi riusciva di dire nient’altro che
<<Giulia, Giulia, Giulia.>>
Rimanemmo abbracciati mentre ci baciavamo per un tempo
infinito.
L’uomo arrivò nei pressi, ci guardò torvo e mi accorsi che la
mia bambina si stringeva a me quasi a difendersi.
<<La mamma e Marco dove sono?>> Chiesi subito.
<<Non lo so>>, fu la risposta che mi raggelò.
<<Sono usciti una mattina e non sono più tornati, è successo
prima della neve. Eravamo appena arrivati. Non so. Non lo
so papà. Non so dove sono.>>
E pianse mentre mi abbracciava freneticamente.
Guardai l’uomo; non mi piaceva affatto. Lui disse che
insieme a sua moglie si era preso cura della bambina. E
mentre lo diceva Giulia mi stringeva e piangeva.
Ci alzammo ed andammo con il contadino verso la casa che
era stata dei miei suoceri. Mia figlia rimase al mio fianco,
dalla parte opposta rispetto all’uomo, con la sua mano nella
mia.
Entrammo nella casa che conoscevo. La tavola era
apparecchiata per cinque, tre ragazzini erano già seduti
davanti ai piatti. Loro e la moglie ci guardarono con
un’espressione interrogativa mentre attraversavamo la
soglia.
La donna dette uno sguardo furtivo verso la credenza.
Sulla sommità c’era in bella vista un fucile da caccia, io
pensai immediatamente alla pistola che avevo all’interno
della giacca.
Ormai ero pratico, avrei potuto estrarre l’arma e fare fuoco
in meno di cinque secondi.
L’uomo disse che ero il padre di Giulia e non vi furono
commenti. Feci sedere mia figlia capotavola, era certamente
il posto del padrone di casa, ma avevo notato che non era
stato messo il piatto per lei.
125
Io sedetti, dopo aver tolto lo zaino e la giacca; tutti mi
guardarono quando videro la pistola che portavo nella
fondina, feci finta di nulla e mi misi con le spalle alla
credenza. Ero il più vicino al fucile e questo mi dava qualche
vantaggio.
Chiesi che ne era stato dei miei suoceri. Mi dissero che
quando erano arrivati non c’era nessuno.
Loro erano scappati da Lecce e si erano insediati in quel
casale circa un mese dopo l’inizio della catastrofe. Mia
moglie e i miei figli erano arrivati poco prima dell’inverno,
ma il secondo giorno mia moglie e nostro figlio erano usciti,
proprio il giorno in cui si era messo a nevicare forte e a sera
non erano tornati.
Giulia si rimise a piangere. Le dissi che l’indomani saremmo
andati insieme a cercarli. Quando feci questa affermazione i
due adulti si guardarono, io li guardai a mia volta, ma
l’uomo sedendosi disse alla moglie che era ora di mangiare.
La donna portò in tavola una pentola con una minestra di
pasta e verdure, ne versò un mestolo prima a me e poi a mia
figlia. Giulia si buttò sul piatto come se non mangiasse da
secoli, la guardai stupito e di colpo immaginai cosa avesse
dovuto subire in quei mesi, ed una rabbia sorda mi salì nel
petto fino a farmi sudare.
Mangiammo in silenzio, la bimba si rimpinzava così
velocemente, in una mano il cucchiaio, nell’altra una fetta di
pane nero. Le toccai delicatamente il braccio, mi guardò
sollevando appena gli occhi, le sorrisi e lei capì che poteva
stare tranquilla e a quel punto cominciò a mangiare con più
calma, ma senza fermarsi.
La donna si alzò per portare via la pentola, con un gesto
della mano le feci intendere che doveva lasciarla dov’era.
Presi il mestolo e ne versai un altro nel piatto della mia
piccola. Alzò gli occhi verso di me sorridendo mentre
126
muoveva avanti e indietro la testa. Finimmo il pranzo dopo
aver mangiato frittata e frutta.
L’uomo si alzò e, mentre lo faceva, mi fece cenno di uscire
con lui.
Evidentemente doveva parlarmi.
Mi alzai a mia volta, rimasi un attimo a riflettere, poi
voltandomi presi il fucile da sopra la credenza e mi diressi
fuori. Giulia fece per alzarsi, le misi una mano sulla spalla e
le feci capire che poteva rimanere, senza paura, ora c’ero io
a proteggerla e lo avrei fatto ad ogni costo e lei questo lo
comprese.
Usciti sull’aia, l’uomo si schiarì la voce due o tre volte, poi
con la mano sulle labbra cominciò a parlare.
Le sue parole furono come una lama di ghiaccio che mi
trafiggeva da parte a parte.
<<I tuoi sono morti.>>, disse in un soffio.
Non avevo saliva in bocca e non riuscii a profferire parola.
<<Erano andati a raccogliere patate nel campo laggiù.>> e
indicò appena con la mano.
<<Quando sono andato a vedere perché non tornavano, li ho
trovati distesi, uccisi da qualcuno che aveva rubato loro le
patate.>>
<<Dove sono?>> Mi uscì dalle labbra strette.
<<Laggiù, non ho detto niente alla bambina.>> e si fermò
aspettando gli eventi, mentre guardava il suo fucile che
tenevo in mano.
Sulle prime pensai che fosse stato lui ad ucciderli, poi la
ragione mi disse che, se fosse stato un uomo di quel genere,
avrebbe ucciso anche mia figlia e per il momento accantonai
il pensiero perché un altro mi struggeva.
Rientrai con il cuore a pezzi, mi avvicinai a mia figlia, le
feci cenno di alzarsi, la condussi fuori. L’altro era rimasto
nello stesso punto in cui lo avevo lasciato, gli dissi di
portarci sul posto.
127
Presi per mano Giulia che si era fatta seria e attenta.
Camminammo nella campagna seguendo l’uomo, quando
fummo sul fondo di un campo, vidi sotto un ulivo due
piccoli cumuli di terra. L’uomo si avvicinò ed indicando il
cumulo di sinistra disse semplicemente, a bassa voce.
<<Tua moglie.>> E poi abbassando ancora di più la voce ed
il capo.
<<Tuo figlio.>>
Caddi con le ginocchia a terra, mentre sul volto di Giulia,
accanto a me, cominciarono a scendere lacrime, poi si buttò
addosso a me singhiozzando. Rimanemmo così per un
tempo indefinito, mentre l’altro si era posto in disparte a
testa bassa ad una decina di metri da noi.
Avevamo vissuto felicemente quindici anni della nostra vita,
avevamo avuto quello che avevamo sempre desiderato, due
figli magnifici, una casa carina, amici fidati e tutto questo
era svanito un giorno dell’anno precedente. Ed ora tutto era
sepolto lì, sotto pochi centimetri di terra, tutto era finito,
avevo fatto tutti quei chilometri ed avevo visto tutte quelle
miserie per nulla.
Questi pensieri mi travolgevano, ma un lampo mi ricordò
che no, non era stato inutile, avevo avuto una perdita
enorme: mia moglie e mio figlio, ma avevo mia figlia e con
lei e per lei dovevo andare avanti.
Mi alzai, presi due pietre grandi e le misi sui due tumuli, poi
col coltello incisi i loro nomi; stavo finendo di scrivere che
alle mie spalle Giulia mi sporse due mazzetti di fiori. Li
aveva raccolti nei campi intorno a quelle due tombe, aveva
le guance rigate dalle lacrime, ma aveva sulle labbra un
sorriso malinconico. Appoggiammo i fiori sulle pietre, ci
inginocchiammo tenendoci per mano, poi, dopo un certo
tempo, ci alzammo e seguimmo ancora una volta l’uomo che
ci precedeva.
128
Quando stavamo per entrare in casa, l’uomo mi fermò
toccandomi il braccio e disse semplicemente:
<<Cosa intendi fare?>>
E, mentre lo diceva, guardava il fucile che tenevo sempre in
mano.
<<Ce ne andiamo domani>>, dissi senza pensare, e
aggiunsi:
<<Non vi farò del male, domani mattina partiamo.>>
Entrando dissi che volevamo riposarci e stare un po’ da soli,
i due fecero cenno di si, mentre i loro figli tacevano e ci
guardavano.
La piccola si diresse verso una scala in discesa, in fondo alla
cucina che io sapevo portava al seminterrato, la fermai
mettendole una mano sulla spalla, si voltò e mi disse che lei
dormiva lì. La feci girare e la instradai verso la scala che
portava al piano ammezzato.
La casa era fatta su più livelli, la cucina grande si affacciava
sul cortile. Sul retro, raggiungibile per mezzo di una scala di
sette scalini, l’interrato che veniva usato come cantina.
Sopra due camere a cui si poteva accedere per mezzo di una
scala a due rampe.
Sapevo che la stanza di sinistra era quella matrimoniale dei
miei suoceri, quindi indirizzai Giulia a quella di destra.
<<Ma quella è la stanza dei miei figli>>, disse la donna, che
parlava per la prima volta con me.
Mi voltai guardandola negli occhi.
<<Questa notte ci dorme mia figlia.>>
E lo dissi con un sibilo che mai avevo udito uscire dalle mie
labbra, mentre la rabbia mi montava in corpo.
Avevano fatto dormire mia figlia in una cantina, da sola, al
buio, strinsi il fucile che tenevo in mano e dovetti farmi
forza per frenare la collera.
Entrammo, guardai per la prima volta con attenzione mia
figlia, cercando di togliermi la patina di tenerezza che mi
129
offuscava gli occhi; era dimagrita, aveva i capelli unti e
spettinati, era decisamente sporca, con le unghie nere, le
braccia luride. La abbracciai ancora, poi aprii la porta e
gridai di portarmi una bacinella, dell’acqua calda e del
sapone.
Era un ordine e fu eseguito senza discutere.
La spogliai, la feci entrare nella bacinella e la lavai con
delicatezza, mi lasciò fare senza parlare.
Un anno prima non mi avrebbe neppure permesso di entrare
in bagno mentre faceva la doccia, si sentiva una signorina
con i suoi dodici anni. Ora di anni ne aveva tredici e trovava
normale e confortevole che suo padre la lavasse, ogni tanto
una lacrima usciva da uno dei suoi occhi stupendi, lei
porgeva il viso verso di me ed io le passavo la spugna sul
viso in modo che l’acqua confondesse l’acqua.
La asciugai in un grande asciugamano bianco che era stato
della nonna, le pettinai i capelli e trovai che era stupenda e
glielo dissi. Ancora una volta mi abbracciò senza dire nulla.
Nell’armadio c’erano gli abiti dei ragazzi, cercammo
insieme quello che poteva andare bene per lei. Si provò, con
fare quasi civettuolo, biancheria da ragazzo, mentre io la
guardavo strabuzzando gli occhi e spostando di fianco la
bocca in una smorfia che voleva essere comica.
Era così buffo che ci venne persino da ridere e ridemmo per
la prima volta.
Trovò un paio di jeans che cinse con un foulard, una
maglietta rossa e una maglia grigia con il collo a vu.
Dopo aver trascorso un certo tempo in camera, ritornammo
in cucina per la cena e tutti sollevarono lo sguardo verso
Giulia. Non l’avevano mai guardata prima.
Cenammo tutti insieme un po’ più rilassati, ma la tensione
era sempre palpabile, io non mi ero mai tolto la pistola dalla
fondina e lasciavo che quella presenza fosse ben visibile, il
fucile lo avevo lasciato in camera che avevo chiuso a chiave;
130
avevo visto troppe brutture negli ultimi mesi, non avevo
nessuna intenzione di lasciarmi prendere alla sprovvista ed
avevo il preciso proposito di far sapere che non sarebbe stato
facile sorprendermi.
In camera avvicinai i due letti, ci sdraiammo e dormimmo
abbracciati tutta la notte.
Una stagione della mia vita era davvero finita, della famiglia
mi era rimasta una pietra preziosa, ma le altre le avevo viste
seppellite in un campo, sotto un ulivo.
Il ricordo mi avrebbe seguito per sempre.
Avevo deciso, senza riflettere, che era indispensabile
andarsene da quel luogo; mia figlia in quella casa era stata
senza dubbio sfruttata da quei due che l’avevano tenuta
come una serva.
Avevo temuto qualcosa di più brutto da parte dell’uomo, ma
dalle informazioni che avevo carpito a mia figlia avevo
capito che oltre qualche schiaffo e l’umiliazione di farla
mangiare non a tavola ma poggiandole il piatto, sempre poco
colmo, sul davanzale, non aveva subito altre violenze.
Provai ad interrogarmi su che cosa avrei fatto in caso
contrario; cacciai immediatamente quel pensiero perché
quello che si affacciò nella mia mente mi fece paura.
Per tutta la notte i ricordi della nostra vita precedente si
accavallarono in testa, con una serie infinita e caotica di
flash-back: una gita in montagna, il primo giorno di scuola
di Marco, la nascita di Giulia, la prima volta che ho visto
Clara, il matrimonio, le vacanze al mare, l’esame di laurea,
la prima comunione, la prima volta che abbiamo fatto
l’amore, il dente di Giulia, la torta della nonna, tutto, ma
proprio tutto passava davanti alla mia mente.
In quella triste ora dovevo pensare a cosa avremmo dovuto
fare nel futuro, l’unica soluzione che trovavo plausibile era
quella di tornare verso la Toscana nella comunità dove
avevo lasciato Erica e Lucio.
131
Nonostante tutti i pensieri che mi assillavano riuscii a
dormire.
Ci svegliammo, preparammo uno zainetto che era nella
stanza, con capi dei ragazzi per Giulia, scendemmo e
facemmo colazione tutti insieme, in silenzio.
Quando finimmo andammo a prendere i nostri zaini. Posai il
fucile, che peraltro era stato sempre scarico, sul tavolo, mi
bastava la pistola per darmi sicurezza e feci in modo che si
vedesse.
Avevo preso due borse da mettere a tracolla, dissi a Giulia di
riempirle con viveri. La famiglia non fece una mossa, anche
se si capiva che non era eccessivamente soddisfatta. Non
avevo certo alcun rimorso; si erano insediati nella casa dei
miei suoceri, avevano approfittato delle loro riserve e dei
loro campi, ma soprattutto avevano fatto lavorare come una
schiava mia figlia, trattandola come un cane.
Loro erano consapevoli di cosa stavo pensando e rimasero in
silenzio a testa bassa.
Quando i panieri erano quasi pieni, Giulia spalancò gli occhi
e sorridendomi mi fece cenno di aspettare. Si diresse verso
la porta del seminterrato, ne uscì poco dopo con in mano due
salami e una bottiglia di vino. La guardai complice e le
sorrisi.
Uscimmo con un cenno del capo che voleva essere in
qualche modo un saluto.
<<Il fucile ci serve>>, disse l’uomo mentre varcavo la
soglia.
<<Lo lascerò in fondo al campo dove ci sono le tombe>>,
dissi, e aggiunsi:
<<Non uscite per mezz’ora, se vi vedo da lontano mi porto
via il fucile.>>
E non dissi altro.
Ci incamminammo verso il luogo dove erano i nostri cari.
132
Ci fermammo qualche minuto tenendoci per mano, poi diedi
un bacio sui capelli a mia figlia e le dissi che dovevamo
andare.
Tutto ciò che era stato prima non c’era più, la nostra vita, i
nostri affetti, il mondo intero non era più quello di prima,
iniziavamo una nuova vita e non sapevamo cosa ci
aspettava, la nostra era soltanto una speranza nell’ignoto.
Gli occhi di Giulia cercavano nei miei quella sicurezza che
non avevo, ma mi sforzai per mostrarmi all’altezza, volevo
che la sua allegria tornasse, la volevo vedere di nuovo felice.
L’avevo immaginata radiosa mentre l’accompagnavo
all’altare ed ora non mi riusciva di pensare al suo futuro
senza vedere solo una nebulosa informe, dovevo garantirle
almeno una vita decente, ma non avevo idea di come avrei
potuto fare.
Attraversammo un fosso, aprii il fucile e lo immersi nel
fango, in questo modo ci avrebbero messo del tempo per
poterlo riutilizzare e anche se avessero avuto l’intenzione di
seguirci avremmo avuto tempo per allontanarci, poi lo
abbandonai in mezzo alle canne.
133
12
I primi due giorni viaggiammo senza grossi problemi, il
nostro umore era velato, avevo mia figlia, ma ora dentro di
me c’era anche la certezza di aver perso mia moglie e mio
figlio.
Avevo attraversato tutta l’Italia per ritrovare solo un pezzo
della mia famiglia, ma Giulia mi dava la forza per andare
avanti.
Riuscivamo anche a trovare qualche momento di
spensieratezza. Quando, ad esempio, dovevamo attraversare
i corsi d’acqua, il gonfiare il canotto, la messa in acqua e
l’inevitabile bagnata, ci facevano ridere, anche se subito
dopo venivamo presi dallo sconforto.
Il tempo, sperai, avrebbe attenuato le ferite che ci portavamo
dietro; mia figlia mi stava attaccata, come un cucciolo che
segue la madre quando ancora deve prendere il latte.
Il terzo giorno ci fermammo nel piccolo borgo dove avevo
conosciuto i cinque vecchietti. Ci accolsero con grandi
sorrisi e trattarono mia figlia come una regina, non sapevano
più cosa fare per renderla felice. Si rammaricarono molto
nell’apprendere la sorte dei miei cari e avemmo da loro una
grande comprensione.
134
Salvo volle sistemare i capelli di Giulia e glieli acconciò che
più bella non poteva essere, anche se lei storceva un poco il
naso.
Per cena ci prepararono una frittata con le erbette e noi
tagliammo uno dei salami che ci eravamo presi nella casa
dei nonni, fu molto apprezzato e per l’occasione fu stappata
una bottiglia del vino “buono”. Temo fosse l’ultima rimasta,
ma la offrirono con gioia e la bevemmo con infinito piacere,
ed insistetti perché anche Giulia ne bevesse un mezzo
bicchiere.
Ci sistemarono in cucina, ma soprattutto ci fecero sentire in
famiglia, questo ci confortò più di ogni altra cosa. Ne
avevamo proprio bisogno.
Su consiglio di Sasà, il giorno seguente prendemmo per una
strada che attraversava una grande boscaglia e nello stesso
tempo ci permetteva di accorciare notevolmente il nostro
tragitto.
Circa quattro ore dopo la nostra partenza, mentre
camminavamo su una strada asfaltata, vedemmo una scena
assolutamente normale in un’altra epoca e assolutamente
inusuale in quelle circostanze.
Due bambini stavano giocando nel cortile di una casetta
poco visibile dalla strada. Ci accorgemmo della loro
presenza per il chiacchiericcio che i due facevano mentre
giocavano seduti, uno di fronte all’altro. Anche loro si
avvidero di noi quando gli eravamo ormai nei pressi, ci
guardarono stupiti e corsero immediatamente in casa
gridando.
<<Aldo, Aldo>>, urlarono insieme.
Dopo poco un uomo sui cinquanta, cinquantacinque anni si
fece sulla porta, mentre si asciugava le mani in un
asciugamano da cucina.
135
<<Salve>>, disse, venendoci incontro e tendendo la mano.
Dietro di lui cinque bambini ci guardavano con occhi
sgranati.
Aldo ci presentò i piccoli:
<<Le gemelle Luisa e Ida, Annina, Tonio e Toto.>> Erano
tutti piccoli; il più grande, Tonio, aveva sette anni e teneva
Toto per le spalle mentre ascoltava i grandi chiacchierare.
Avremmo potuto proseguire oltre, c’erano ancora alcune ore
di sole, ma mi resi conto della solitudine di quell’uomo con
cinque bambini, dopo mesi di vita senza un adulto con cui
confrontarsi e non ebbi cuore di abbandonarlo.
La cena fu quasi esilarante, i bambini spalancarono gli occhi
alla vista del salame che avevamo messo in tavola, lo
mangiarono con appetito chiedendo più volte il bis,
riuscendo a consumarne più della metà. I bambini erano
teneri e si vedeva che pendevano dalle labbra di quell’uomo
che però non era il loro padre.
Toto rimase tutta la sera seduto in grembo a Giulia che se lo
coccolava come avesse avuto un bambolotto.
I piccoli dormivano tutti nella stessa stanza in cui c’erano
solo letti e null’altro. Una volta messi a letto, ci sedemmo a
chiacchierare.
Così Aldo ci raccontò la sua storia, che cominciava ormai
come ogni storia circa un anno prima.
Lui che era un erborista e che si occupava di raccogliere
erbe ed essenze da vendere ai negozi specializzati, si era
recato, come faceva ogni anno, nella sua piccola casa nel
bosco, dove preparava anche confetture di frutti di bosco e
faceva essiccare funghi che in quel luogo erano abbondanti.
Due giorni dopo essersi sistemato, l’erogazione della
corrente elettrica si era interrotta; sulle prime non ci fece
caso, a volte era già successo dato il luogo poco accessibile e
poco frequentato, e comunque lui era attrezzato con lampade
a gas e proprio non gli mancavano televisione e radio..
136
Trascorsa una settimana pensò ad un guasto alla linea non
rilevato, si convinse che era meglio così, sarebbe vissuto un
mese come si faceva cent’anni prima e non ci pensò più.
Si era fatto accompagnare sin lì da un amico, in quanto lui
non aveva la macchina.
Non aveva mai voluto prendere la patente perché non se la
sentiva di caricarsi di quella responsabilità, per cui spesso
chiedeva agli amici un passaggio o si serviva dei mezzi
pubblici.
Non potendo richiamare l’amico per farsi venire a prendere,
in quanto il telefonino si era scaricato, decise di andare alla
fermata dell’autobus che passava due volte la settimana sulla
strada provinciale, a circa dieci chilometri da quel luogo
sperduto. Intendeva tornare a casa sua per poi farsi
riaccompagnare dal solito amico a riprendere le erbe che
aveva raccolto. Scese il giorno ed all’ora giusta, aspettò alla
fermata, ma non passò alcun pulman.
A dire il vero si stupì del fatto che non passavano nemmeno
auto o camion. Era pur vero che si trattava di una strada di
scarso traffico, ma qualche mezzo ogni tanto passava; quel
giorno non vide nessuno.
Tre giorni dopo, mentre cominciava a piovere, ridiscese alla
fermata del bus, ancora una volta non vide nessuno che
arrivava e nessuno che transitava. Tornò alla sua casa nel
bosco, sapeva che qualche chilometro più verso sud c’erano
due case, decise di andare a chiedere a quella gente un
passaggio per tornare in città.
<<Sono arrivato alla prima casa>>, raccontò, <<mentre
infuriava una tempesta. Voi non potete nemmeno
immaginare che razza di pioggia veniva giù.>>
Non lo interruppi, ma sapevo di cosa parlava.
<<La porta non era chiusa a chiave, entrato in cucina trovo
due bambine che stanno spalmando Nutella su fette
biscottate. Le due gemelle. Mi salutano e mi dicono di fare
137
piano che la nonna dorme. Hanno sei anni e mi dicono che la
loro nonna dorme da molti giorni.
Ho dato giusto una sbirciata nella stanza della nonna. Solo in
quel momento ho realizzato che doveva essere successo
qualcosa di veramente grave. Com’era possibile che nessuno
si fosse preoccupato di venire a vedere se le loro figlie
stavano bene, dato che si trovavano con una donna anziana e
non c’era possibilità di comunicare.
Devo dire che fino a questa sera non avevo capito di cosa si
trattava, le mie erano solo congetture.
Mi sono portato via le due bambine, ho preso quel che c’era
da mangiare e siamo tornati qui sotto un fiume d’acqua.>>
<<E gli altri bambini?>> Chiese Giulia incuriosita.
<<Dovendo provvedere anche alle gemelline ed essendomi
ormai accorto della scarsezza delle nostre provviste, uscii, in
quei giorni, nonostante il tempo inclemente, a cercare
verdura selvatica commestibile. Le mie erbe non sono certo
un alimento molto nutriente.
Così il secondo mattino ti vedo un frugolo che cammina
nella pioggia con la sua bella mantella rossa, gli stivalini
gialli e con un cestino in mano. Toto, dice solo questo, non
parla e non sono ancora riuscito a capire quanti anni ha. Così
ad occhio e croce ne avrà tre o quattro.
Capite, era lì da solo, in mezzo a quella tempesta con tuoni e
fulmini. Ho preso la sua mano nella mia, mi ha seguito senza
fare storie e quando è arrivato in casa si è seduto su una
sedia, con le gambe penzoloni a guardarci serio.
Invece Tonio me lo trovai davanti alla porta il giorno
seguente, ha sette anni è molto sveglio e mi chiese se potevo
andare con lui dalla zia che stava male, disse che aveva il
fiato corto e che gli aveva detto di andare a cercare qualcuno
che l’aiutasse. Gli ho chiesto dov’era la casa di sua zia, ma
non sapeva proprio in che direzione si trovasse; vagava da
138
ore, aveva perso la strada e solo il caso lo aveva condotto
alla mia porta.
La storia, forse, più triste è quella di Annina; l’ho trovata il
giorno prima che iniziasse a nevicare.
Poi vi parlo di quanto ha nevicato qui, non potete neppure
farvene un’idea.
Prendo una strada, sempre sotto quell’acquazzone che non
finiva mai, e, ad un tratto vedo una figurina seduta su una
pietra, sul ciglio della strada. E’ lì seduta e quando mi
avvicino mi accorgo che tiene nella sua mano la mano di una
donna distesa ai suoi piedi.
Quando mi vede mi dice che la mamma non vuole alzarsi.
Pensateci, era lì che teneva la mano della mamma, morta
chissà da quanto tempo. Le ho chiesto come si chiamava e
quanti anni aveva. Annina e aveva cinque anni mi ha
risposto. Le ho detto di venire con me e lei mi ha chiesto “E
la mamma?”
Ho sistemato quel povero corpo in un fossato e l’ho
ricoperto come potevo con rami e foglie.
Quando siamo arrivati qui, mi ha raccontato a modo suo che
da un po’ di giorni c’era poco da mangiare, anzi la mamma
non mangiava, dava a lei quello che era rimasto. Le diceva
che sarebbero andate via quando finiva di piovere, ma poi un
giorno aveva deciso di partire lo stesso, ma non ce l’aveva
fatta.
Credo abbia tentato di resistere fino all’ultimo sperando
nell’arrivo di qualcuno, il marito o non so.>>
A questo punto si fermò un attimo, poi riprese.
<<Questi bambini hanno sofferto tanto, ma a parte Toto, non
mi pare che gli altri ne abbiano risentito. Sono più forti di
noi.>>
E lo disse guardando me.
Era prodigioso che un uomo, che non aveva figli, si fosse
preso cura di quei piccoli al punto di diventare il loro padre
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adottivo. Ero contento di trovare, finalmente, un uomo
buono, in mezzo alla pazzia di questo mondo, che si era
dedicato agli altri senza secondi fini.
Fu sconvolto quando gli raccontai cosa era avvenuto nel
periodo in cui lui aveva vissuto isolato in quel luogo; mi
sembrò sgomento nel rendersi conto che quei bambini erano
affidati a lui, per sempre, che lo volesse o meno.
Gli suggerii di andare nel borgo dove avevamo conosciuto i
cinque anziani, in fondo si trovava solo a quattro ore di
marcia da quel luogo, e gli arzilli vecchietti lo avrebbero
aiutato ad accudire quella numerosa nidiata. Si mostrò grato
del mio consiglio e mi garantì che lo avrebbe messo in
pratica.
A ripensarci non gli avevo dato un’indicazione di distanza
dicendogli quanti chilometri era lontano il borgo di cui gli
avevo parlato, mi era parso logico dargli un’indicazione sul
tempo percorso a piedi, anche questo faceva parte del nuovo
modo di esistere.
L’indomani lasciammo quell’asilo salutati dai bambini che
festosi ci abbracciarono, tutti tranne Toto che rimase in
disparte. Mi avvicinai a lui e, visto che non si muoveva, gli
tesi la mano, lui mi pose la sua sulla mia, guardandomi negli
occhi, poi d’improvviso si lanciò tra le braccia di Giulia e
rimase così per qualche tempo. Le loro grida e il battito di
mani ci seguirono per un breve tratto, ripassammo nei luoghi
che avevo visto all’andata, feci solo un giro un po’ più lungo
quando arrivai in prossimità del Gargano.
Non so se il mio sia stato razzismo o cosa, il fatto è che
temevo di portare mia figlia in mezzo a sette uomini, bianchi
o neri che fossero, quindi decisi di proseguire senza
fermarmi.
Ritrovai i pescatori che avevano ormai terminato la struttura
che reggeva la rete a bilancia, anche loro mi accolsero
benevolmente e ci prepararono una frittura di pesce da
140
leccarsi le dita, le donne della comunità si presero a cuore
Giulia e la accudirono come fosse la loro figlia; mi
commuoveva vederla guardare quelle donne sapendo che
pensava alla mamma.
Per un lungo tratto avevamo viaggiato con due biciclette che
avevamo trovato in una casa, le avevamo però dovute
lasciare quando incontrammo un fiumicello che, come tutti
gli altri, dovemmo attraversare con il nostro canotto.
Ci inoltrammo verso l’entroterra dopo esserci riforniti di
pesce, ormai ero diventato un provetto pescatore con la
lenza; mia figlia si lamentava di dover mangiare sempre
pesce, ma poi lo gustava e spesso chiedeva il bis.
Da quando l’avevo rivista si era rimessa un po’ in carne, la
lunga marcia l’aveva rinforzata e sembrava veramente in
forma, ai miei occhi era stupenda, mi ricordava sua madre e
questo mi infondeva ancora più amore verso di lei.
Giulia mi aveva chiesto il secondo giorno dove eravamo
diretti, le raccontai della comunità che avevo trovato in
Toscana, le dissi che avevo conosciuto persone buone e che
in quel luogo c’erano uomini, donne, ragazzi e bambini,
sarebbe stata la nostra nuova casa e avremmo potuto vivere
in pace protetti da quel nucleo di nuova civiltà.
Una sera ci eravamo accampati nella cucina di una casa
abbandonata, era abbastanza accogliente e la stufa ci
infondeva un calore che in qualche modo ci confortava.
Quando ci coricammo, dopo qualche minuto di silenzio
Giulia cominciò a parlare nel buio:
<<Siamo partiti quel giorno perché la gente era impazzita,
sparavano da tutte le parti, tu eri via e non eravamo riusciti a
telefonarti. I De Novo sono venuti da noi e ci hanno detto
che sarebbero partiti subito per andare a prendere la loro
barca e andare in Sicilia dove, come sai, era nato Michele.
La mamma ha detto che ci avresti raggiunto. Non so come
141
facesse a sapere che avresti capito dove eravamo diretti,
comunque siamo partiti con loro.
Bighy era scappato il giorno prima quando avevano
cominciato a sparare da tutte le parti. Papà ti giuro l’ho
cercato ovunque, non l’abbiamo più ritrovato e siamo partiti
senza di lui.>>
Bighy era il nostro cane, lo avevamo preso al canile un
giorno che Giulia era tornata da scuola con un foglio nel
quale si diceva che una cucciolata di Beagle sarebbe stata
soppressa, per mancanza di fondi, se non avessero trovato
una famiglia disposta a prenderli.
Io non ero del tutto d’accordo nel caricarmi della
responsabilità di un cane, temevo che alla fine sarebbe
toccato a me portarlo a spasso il mattino e la sera, con la
pioggia, con il sole e con il vento; conoscevo i miei polli.
Giulia si mise a piangere e Marco le dette corda. Promisero
che si sarebbero occupati loro di tutto, che io non avrei
dovuto preoccuparmi di nulla.
Così andammo al canile, i cuccioli erano quattro: piccoli,
buffi e amorevoli.
Devo dirlo, appena li ho visti ho capito che non avremmo
potuto farne a meno. Giulia prese in braccio il primo che le
si era avvicinato ad annusarla ed aveva deciso di prendere
quello.
Bianco e marrone, con le sue orecchie pendule era proprio
tenero e, bisogna ammetterlo, non ce ne pentimmo mai.
Poi, come previsto, toccò quasi sempre a me portarlo fuori,
ma questo non mi disturbava, anzi era un vero toccasana
staccare da tutto, da quegli stronzi sul lavoro, dal traffico e
dalle beghe politiche in televisione, camminare senza meta
con l’animale che tirava.
Una vera cura rilassante.
Marco era quello che si era affezionato di più e penso abbia
patito la perdita in quei giorni.
142
Giulia continuò il suo racconto:<<Siamo saliti in sei sulla
loro macchina, avevamo tutto quello che eravamo riusciti a
portare in braccio e nel bagagliaio. Dovevi vedere come era
stracolma quell’automobile.
Michele ha guidato come un pazzo per tutta la strada,
quando siamo passati vicino a Limone, prima del Colle di
Tenda, c’erano delle persone in mezzo alla strada, volevano
fermarci, Michele non ha diminuito la velocità e gli altri si
sono spostati, ma ci hanno sparato. Fortunatamente non ci
hanno colpito. Non hanno colpito noi, intendo, hanno però
preso l’auto.
Subito dopo il tunnel siamo rimasti senza benzina, abbiamo
provato a scendere in folle, ma non so perché i freni con il
motore spento non funzionavano, così siamo finiti contro un
terrapieno. Andavamo piano e non ci siamo fatti niente.
Allora dato che non potevamo arrivare al mare, la mamma
ha detto che potevamo fermarci nella nostra casa di
Dolceacqua. E ci siamo andati.
Ti ha scritto una lettera sai?>>
Dissi che l’avevo trovata e che l’avevo ancora con me.
<<Me la fai poi leggere?>> Mi chiese.
<<Naturalmente>>, la rassicurai.
<<Il mattino successivo>>, continuò, <<siamo arrivati al
porto, c’era una gran confusione, siamo andati di corsa al
molo e siamo saltati sulla barca dei De Novo. C’era un sacco
di gente che si è messa a correre nella nostra direzione, ma
abbiamo fatto in tempo a partire e uscire dal porto.
I De Novo contavano di arrivare fino in Sicilia e poi ci
avrebbero lasciato la barca per andare dai nonni in Puglia.
Sai che la mamma è brava, cioè era brava con le vele.>>
Lo sapevo benissimo, lei aveva un dono per la barca a vela,
io non capivo come facesse.
143
Io dovevo sempre ragionare, prima sulla direzione del vento,
poi su come posizionare le vele e non sempre l’andatura che
ne scaturiva era soddisfacente.
Lei sentiva il vento senza guardare i segnavento, sistemava
le vele d’istinto e la barca viaggiava che era un piacere. Era
un vero lupo di mare, sebbene non conoscesse neppure un
termine marinaresco, materia che invece era il mio forte, per
lei poggiare o orzare, poppa o prua, scotta o sartia non
volevano dire nulla, non sapeva come si chiamavano i nodi,
per lei c’era destra e sinistra, davanti e dietro, corde e
cordini, ma il governo della barca era il suo forte.
<<Così abbiamo navigato per quattro giorni senza
avvicinarci neppure a riva, ci siamo fermati ad un piccolo
molo e siamo riusciti a procurarci l’acqua, poi abbiamo
proseguito; ogni tanto avvistavamo delle imbarcazioni a
vela, ma si tenevano a distanza e Michele, comunque,
preferiva così.
Eravamo già arrivati in Calabria e stavamo viaggiando a
qualche centinaio di metri dalla costa quando abbiamo visto
partire dalla spiaggia due gommoni, erano troppo veloci ed
in pochi minuti si sono avvicinati. Erano armati e ci hanno
costretti a puntare verso riva.
A questo punto non potevamo fare altro, noi eravamo nella
cabina, Michele ha detto di mettere tutto quello che
potevamo negli zaini e di prepararci a scappare. La barca si è
arenata a pochi metri dalla riva, noi siamo saltati giù e per
un attimo abbiamo avuto paura che ci sparassero, poi uno è
salito sul cabinato e gli altri lo hanno seguito, mentre noi,
fradici, siamo corsi oltre la spiaggia.
Eravamo dalle parti di Paola. Non so se sai dov’è. Io non lo
so, ma è in Calabria.
A quel punto ci siamo divisi perché noi dovevamo tornare
per diversi chilometri indietro e i De Novo proseguirono per
144
il sud. Ci hanno anche chiesto se volevamo andare con loro,
ma gli abbiamo detto che tu saresti venuto in Puglia.
Non so che strada abbiamo fatto, la mamma ha trovato una
cartina, poi abbiamo preso tre biciclette, erano tre montainbike, Marco era sempre davanti, sai che lui amava la
bicicletta.>>
Lo sapevo. Lo sapevo e ricordavo anche quando avevo
dovuto portarlo al pronto soccorso un giorno che si era
sfracellato correndo su uno sterrato nel parco.
Riuscivo a vederlo mentre lo pensavo.
<<Abbiamo viaggiato per quattro giorni>>, proseguì, <<ad
un certo punto non avevamo più cibo. Siamo stati senza
mangiare per due giorni, poi, passando accanto ad una
casetta, lungo la strada, la mamma ha visto una piccola serra
coperta; dentro abbiamo trovato pomodori, sedani, finocchi
e ravanelli e così siamo riusciti ad arrivare nella casa di
campagna dei nonni, dove mi hai trovato.
Il resto lo sai.>>.
Si addormentò senza aggiungere altro ed io rimasi a lungo
ad occhi aperti nel buio ad immaginare il loro viaggio.
Tutto ciò sarebbe stato impensabile solo un anno prima, ma
ormai quella era la nostra vita.
Mi accorsi il giorno seguente che mi ero perso, o meglio non
avevo più trovato la strada da cui ero venuto, comunque
avevo una cartina e la direzione e la strada erano giuste,
quindi proseguimmo senza intoppi.
Due giorni fa attraversavamo un bosco di alberi ad alto
fusto, ci siamo fermati per riposare, approfittando di un
tronco di un albero caduto.
Mi allontanai per normali funzioni fisiologiche, lasciando
Giulia seduta sul legno appoggiato a terra, ad un tratto sentii
un urlo, era mia figlia. Mi prese uno spavento mortale, mi
avvicinai correndo, poi mi obbligai a farmi più cauto e mi
145
fermai ad ascoltare cercando di vedere nella direzione in cui
lei doveva essere.
La vidi che si riparava dietro ad un albero, davanti a lei un
uomo che faceva dondolare un fucile tenendolo per la
tracolla.
<<Dai vieni fuori bella bambina>>, le stava dicendo,
<<vieni qui che ti scaldo se hai freddo.>>
E lo diceva con voce suadente, per quello che poteva riuscire
ad un verme come quello.
<<Forza esci di lì che giochiamo un po’ al dottore.>>
A pochi passi da me un altro uomo si appoggiava ad un
albero e rideva. Aveva in un fodero, appeso alla cintola, un
lungo coltello.
Mi avvicinai senza farmi sentire. D’altra parte l’altro faceva
un tal baccano che non sarebbe stato possibile sentire altro.
Mi assicurai che non ci fossero altri nei paraggi, appoggiai la
canna della pistola alla tempia di quello a me più vicino e gli
sussurrai di stendersi e di mettere la faccia direttamente nella
terra, mentre gli toglievo il coltello dal fodero. Alla prima
sobbalzò, poi capì e si mise carponi, ma subito chiamò.
<<Ale…>>
Gli sferrai un calcio in faccia che gli impedì di proseguire.
L’altro si voltò mentre stava dicendo:
<<Dai non rompere i coglioni.>>
Mi vide e fece per recuperare il fucile in modo da poterlo
usare.
Non ci pensai un attimo e sparai. Gli centrai il ginocchio
destro, e quello lasciando cadere a terra il fucile si mise ad
urlare dal dolore.
Quella volta non mi ero dimenticato di togliere la sicura e
avevo sparato per uccidere, la mia mira però era quella che
era, ma bastò per fermare quegli energumeni.
Mi avvicinai, presi il fucile, tolsi la cartucciera dalla spalla
del ferito, gli presi anche il coltello che teneva al fianco,
146
mentre quello continuava dimenarsi e a maledire. Nel
frattempo tenevo sotto tiro l’altro che non osava più alzarsi.
Dissi a Giulia di prendere la sua roba ed infine mi rivolsi a
quello a cui avevo spaccato il naso, almeno da quanto
sanguinava.
<<Quella è la tua direzione>> gli dissi indicando con la
pistola quella opposta a quella che avremmo preso noi.
<<La prossima volta che ti vedo sei morto.>>
<<Ma io non c’entro niente è stato lui che…>>, bofonchiò
quello tenendosi il naso.
Sembrava quasi un bambino che dava la colpa al compagno.
<<Il fatto è che non ti voglio più vedere. Andiamo Giulia
raggiungiamo gli altri, avvisiamoli, avranno sentito lo sparo
e staranno venendo qui.>>
Mi guardò sulle prime stupita, poi mi accorsi che aveva
capito e ci incamminammo.
Mentre ci allontanavamo sentivamo il ferito gridare
all’amico di non abbandonarlo, ma l’altro per tutta risposta.
<<Te la sei cercata adesso vaffanculo, ti avevo detto di
lasciar stare, era solo una bambina, e poi dovevi immaginare
che non era sola. Adesso arrangiati.>>
Sentimmo ancora per parecchio tempo quello ferito che
imprecava.
Camminammo in silenzio a lungo, con l’intento di
allontanarci il più possibile da quei due.
La sera, ancora una volta, ruppe il silenzio nel buio.
<<Papà, perché gli uomini sono così cattivi?>>
Era una bella domanda. Cosa rispondi ad un figlio quando ti
fa domande del genere?
Specialmente se ha appena avuto un’esperienza come
quella?
Ti passano tutte le argomentazioni nella testa, ma ognuna
non ha nessun senso.
147
<<Credo>>, cominciai, perché non potevo eludere la
domanda, io ero il suo riferimento, anzi ero il suo unico
riferimento.
<<Credo che la natura umana sia sbagliata, è l’uomo in sé
che forse non è umano, almeno non nel senso che riteniamo
noi due.
Da sempre gli uomini si sono comportati in modo folle. Fin
dalla antichità abbiamo combattuto per prendere ad altri
quello che avevano, si sono fatte guerre per millenni.
All’epoca dei romani si divertivano a vedere gente che si
ammazzava negli stadi.
Ti ricordi dei gladiatori?
Poi c’erano quelli che venivano sbranati dai leoni, un altro
bello spettacolo.
Nei secoli passati ci sono stati gli spagnoli e i portoghesi che
massacravano
le
popolazioni
indoamericane
per
impadronirsi del loro oro.
Pensa agli indiani d’America, sterminati dai coloni che gli
occupavano le terre; pensa che in alcuni casi le tribù
venivano decimate dal vaiolo che era stato portato apposta
dai soldati inglesi.>>
<<Si però loro scotennavano i loro nemici>>, mi interruppe
mia figlia.
<<Anche questa è una bella storia; questo è quello che ci
hanno fatto vedere nei film western. Devi sapere che i
pellerossa erano, di norma, una popolazione pacifica che
viveva di caccia e raccolta di frutti vari. Quando arrivarono i
bianchi, questi occuparono le terre che erano state delle tribù
pellerossa per secoli, ma siccome gli indiani non volevano
capire che su quelle terre non potevano più mettere piede, i
coloni decisero di eliminarli fisicamente.
In alcuni centri misero una taglia per ogni pellerossa ucciso,
che fosse un guerriero, vecchio, donna o bambino. Però non
si fidavano della parola di questi assassini prezzolati e allora
148
pretendevano una prova dell’effettiva uccisione e si decise
che si doveva portare lo scalpo di ogni indiano ucciso, per
essere pagati.>>
<<Allora non erano gli indiani che prendevano lo scalpo?>>
Volle sapere Giulia.
<<Voglio dire che non sono stati loro ad inventare questa
pratica, se così possiamo chiamarla. I pellerossa erano
animisti, per cui si convinsero che i bianchi prendevano gli
scalpi dei nemici per trarne la forza dall’anima del nemico
stesso e quindi si misero, con buona volontà, anche loro a
fare la stessa cosa>>, le risposi.
<<Ma allora perché si dice che erano gli indiani a fare
queste cose, se l’idea era cominciata dai bianchi?>>
<<Perché la storia la scrivono i vincitori, semplicemente per
questo.>>
<<Cosa vorresti dire, che se Hitler avesse vinto la guerra
sarebbe diventato un santo?>> Mi domandò incalzante.
<<Un santo forse no, ma non avremmo saputo nulla sullo
sterminio degli ebrei. Probabilmente la storia avrebbe
raccontato di un grande condottiero che aveva unificato un
impero dalla penisola iberica agli Urali, salvando il mondo
dalla guerra, o qualcosa del genere.>>
<<Ma! Sarà! E perché ce l’avevano poi tanto con gli
ebrei?>>
Passando ad un argomento che avevo appena toccato
superficialmente, tanto di tempo ne avevamo e non avevamo
altro da fare che chiacchierare, e, devo dirlo, questo mi
faceva un immenso piacere. Cercai di spiegarle la crisi
economica della Germania di quel periodo, i disoccupati,
l’umiliazione della guerra perduta, tutte cose che avevo
studiato a scuola.
Spero che sia riuscito a spiegarmi.
Non riuscivo a vederla in faccia, ma dal mugugno che fece
non credo del tutto, ma andai avanti nei miei ragionamenti.
149
<<Comunque per continuare il discorso di prima sull’uomo
e sull’umanità, dobbiamo ricordarci che per secoli gli
schiavi sono stati la norma, i loro proprietari li
consideravano come bestie ed avevano persino il diritto di
ucciderli, se lo desideravano.
Pensa, ancora, all’ingegno che si è sprecato per produrre
bombe atomiche. Ti ricordi di Hiroshima e Nagasaki?
Se penso ai campi di concentramento, alle guerre mondiali,
alla pulizia etnica, ai kamikaze, alle torri gemelle, agli
omicidi, alle rapine, alla pedofilia, ebbene, se penso che
queste cose sono opera dell’uomo, io e te non siamo
umani.>>
<<Sono d’accordo. Ma non ci sono stati anche uomini
giusti? Che capivano?>> Intervenne mia figlia.
<<Hai presente tutte le tragedie che sono avvenute nel corso
di quest’anno?>> Non aspettai risposta.
<<Ce le siamo volute, io non ho capito cosa stava
succedendo, ma era possibile prevederlo. Abbiamo basato il
nostro sviluppo su dati inutili. Per esempio ci siamo infatuati
della religione del PIL?>>
Ma mia figlia disse che non sapeva cosa fosse il Pil.
<<Ti spiego; in tutto il mondo si è basato l’indice di
progresso calcolandolo con l’aumento del prodotto interno
lordo. Il Pil. Secondo questo parametro, più si produceva e
più eravamo ricchi,.
Si dava per scontato che si doveva produrre e consumare
come se avessimo a disposizione un pianeta infinito, anzi
come se avessimo centinaia di pianeti da cui trarre i prodotti
e le materie prime che ci servivano. Bob Kennedy per
esempio.>>
<<Chi era Bob Kennedy?>> Mi interruppe Giulia.
<<Bob Kennedy>>, spiegai, <<era il fratello di John
Fitzgerald Kennedy che era stato presidente degli Stati Uniti;
150
stava facendo la campagna elettorale per diventare lui
presidente.>>
<<E suo fratello?>> Mi bloccò ancora.
<<Era stato ucciso. Ebbene un giorno, e sto parlando del
1968, quarantacinque anni fa, durante un discorso disse che:
il PIL non poteva essere preso come metro per misurare il
nostro benessere, disse che il PIL comprendeva
l’inquinamento, la pubblicità delle sigarette, aumentava se
c’erano ingorghi stradali che facevano consumare più
benzina, se viaggiavano le ambulanze e aumentavano i morti
per incidenti stradali. “Il PIL”, aggiungeva, “comprende i
programmi televisivi che valorizzano la violenza, cresce con
la produzione di napalm, missili e testate nucleari, con
l’aumento dei carcerati, con gli equipaggiamenti per la
polizia e l’esercito. Il PIL non tiene conto della salute delle
famiglie, della qualità dell’educazione e della gioia dei
momenti di svago. Non comprende la bellezza della poesia, i
valori famigliari, l’intelligenza del nostro dibattere. Non
misura la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra
saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione.
Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna
di esser vissuta.” Capisci?>>
<<Lo hanno fatto presidente?>> Chiese ingenua.
<<No è stato ucciso.>> Sentii su di me il suo sguardo
sbalordito, e continuai.
<<Altri hanno detto cose sensate, per citarne solo qualcuno:
Martin Luter King, che era un nero afroamericano ed era a
capo del movimento per l’emancipazione in America, disse
un giorno: “ho fatto un sogno: che ogni uomo venga
riconosciuto uguale ad ogni altro, a prescindere dal colore
della pelle”. Il Mahatma Gandhi, un altro grande uomo, fu il
padre della moderna India, quello che indusse gli inglesi a
lasciare il suo paese che era stato conquistato come colonia,
sosteneva la non violenza ad ogni costo. Lo stesso Gesù
151
Cristo, e non ho bisogno di spiegarti chi era, proclamava
l’amore in cielo e in terra.
Ebbene tutti questi personaggi che dicevano cose solo
sensate sono stati uccisi.
E’ per questo che penso che l’uomo sia un animale
sbagliato, avrebbe potuto vivere felice ed in pace su una
terra magnifica come la nostra, eppure guarda come siamo
finiti.>>
Non ebbi risposta, si era addormentata.
Finalmente arrivammo nella valle che mi ero prefissato di
raggiungere, avevamo pranzato con quello che ci era
rimasto. Ci rimanevano poche provviste, ma ormai il viaggio
stava per terminare.
Guardai ancora una volta la cartina, ma mi sembrava,
comunque, di riconoscere i luoghi, non vedevo l’ora di
rivedere Lucio ed Erica e tutti gli altri. Ritrovai la strada che
portava al cancello della cascina, ci inoltrammo nel viale
alberato fino ad arrivare al portone che era, come la volta
precedente, spalancato. Varcammo la soglia e, con mio
enorme sgomento, non vidi nessuno.
Non si sentiva alcun rumore, tutto taceva, tutto era
immobile. Giulia mi guardò angosciata e non potei fare altro
che alzare le spalle a significarle che non capivo. Pensai che
fossero riuniti in qualche locale per una festa o una
cerimonia o non so.
Entrammo in tutti i locali.
Vuoti.
Nessuno.
Niente.
Non c’erano più persone, né animali. C’erano ancora i
tavoli, gli armadi, i letti, ma non c’erano più indumenti,
lenzuola e coperte e neppure cibo e non si riusciva a capire
cosa fosse successo, dove fossero finiti tutti.
152
Giulia si mise a piangere, era stanca e disperata, l’avevo
portata fin lì con la promessa di una nuova vita ed ora ci
trovavamo senza prospettive e senza futuro, noi due da soli,
in questo mondo terribile, con tutta la cattiveria la fuori. Ad
un tratto notai un movimento tra il fitto del bosco, subito
fuori dal cancello. Una figura si spostava nella nostra
direzione, lo riconobbi al primo sguardo, Lucio.
<<Lucio>>, gridai.
<<Accidenti, dove vi eravate cacciati, per un momento ho
temuto fosse successo qualcoa.>>
Il suo volto non lasciava trasparire alcuna gioia, anzi era
afflitto da una pena che ancora non conoscevo.
<<Non c’è più nessuno, sono rimasto solo io.>>
E così ci raccontò ciò che era avvenuto. Circa un mese dopo
che li avevo lasciati per raggiungere la mia famiglia, o
quello che ne era rimasto, un mattino arrivarono alla fattoria
una dozzina di camion militari, da cui scesero un centinaio
di soldati. Minacciandoli con le armi si erano impadroniti di
tutto ciò che c’era, animali, provviste e quant’altro.
Bruno, l’uomo che aveva organizzato la rinascita di quella
gente, che voleva solo vivere in pace con il duro lavoro,
protestò, ma venne subito tacitato con un colpo di
manganello in testa.
Gli uomini furono divisi dalle donne e chiusi in uno
scantinato. Lucio precisò che, in realtà gli uomini furono
divisi in due gruppi, lui e la maggioranza degli uomini e dei
ragazzi furono rinchiusi in un piccolo ripostiglio, gli altri
cinque, tra cui Bruno furono portati altrove. Non sapeva dire
dove.
Dopo alcune ore rinchiusi in quel luogo angusto, non
sentendo più alcun rumore proveniente dall’esterno, decisero
di scardinare la porta ed uscire. Una volta fuori videro che i
soldati se ne erano andati portandosi via tutto, comprese le
donne ed i cinque uomini che non erano rinchiusi con loro.
153
Lucio aveva sperato di capire da dove provenivano i soldati,
voleva a tutti i costi ritrovare Erica, ma nessuna traccia e
nessun indizio gli aveva permesso di capire da dove
venissero quegli uomini e dove fossero diretti poi.
Era pazzesco avevano portato via tutti gli averi e le donne,
come si faceva nella preistoria, o come facevano i pirati. Mi
sovvenne il ratto delle Sabine, ma non lo dissi.
Lucio era disperato, ed anche noi che avevamo contato su
quella comunità per ricominciare la nostra vita. Ci disse che
gli altri se ne erano andati alla ricerca delle proprie origini,
lui era rimasto nella speranza che qualcuno tornasse o che
Erica avesse potuto fuggire, ma ormai era passato troppo
tempo, per cui aveva deciso che il giorno seguente sarebbe
tornato nella sua città alla ricerca dei suoi parenti.
Preparammo, afflitti, qualcosa da mangiare, con il poco che
ci era rimasto, e poi ci chiudemmo in una stanza e ci
sdraiammo per la notte su due letti senza materassi, mentre
Lucio preferiva dormire in una stanza da solo.
154
13
Ho rivisto tutto quello che è successo da mesi ad oggi e sono
qui su questo pagliericcio a ripensare a cosa ho sbagliato. Ho
portato qui mia figlia pensando ad una nuova vita ed
abbiamo trovato il nulla, abbiamo solo potuto constatare a
che punto l’umanità sia arrivata.
La sento vicino a me che a volte singhiozza, anche lei
sperava di ricominciare, si aspettava di vedere un gruppo di
persone che si aiutavano a vicenda, agognava incontrare dei
coetanei con cui confrontarsi ed ancora giocare come faceva
prima e invece piange di una disperazione sorda senza
speranza.
Non riesco a chiudere occhio, per fortuna il respiro di Giulia
mi indica che si è addormentata, cosa farò?
Lei si aspetta da me una soluzione che ci dia una speranza di
vita, ma non ho idee, non posso tornare indietro, in Puglia,
non sapremmo dove andare. Là ci sono le spoglie dei nostri
più cari, ma non abbiamo amici o altri parenti.
Non ha senso tornare a Torino, in queste condizioni non è
possibile vivere in una città, l’unica alternativa possibile è
trovare un accomodamento in una località di campagna dove
coltivare la terra, allevare animali e, in definitiva,
sopravvivere come si faceva nei secoli precedenti
dedicandoci ad una nuova vita rurale.
155
Senza che me ne rendessi conto mi sono addormentato, è
mattina e sono seduto sul letto e non ho ancora preso
nessuna decisione, mi muovo come un sonnambulo, mi giro
guardandomi a destra e sinistra senza vedere nulla, cerco
qualcosa nello zaino, ma non so cosa.
Giulia mi sta guardando, ha il viso triste, lei che è sempre
stata l’allegria in persona, lei che era la prima a ridere di
tutto, ora mi guarda ed il suo sguardo è un punto
interrogativo.
<<Cos’è quel foglietto che hai in mano?>> Mi chiede.
Ho un foglietto tra le mani e non me ne ero accorto, l’ho
preso dallo zaino mentre ero in trance e lo stavo proprio
guardando senza vederlo, glielo porgo.
<<San Venanzo – Contrada Fornace – Simoni. Cosa vuol
dire?>>
Una speranza mi è precipitata nel cervello, un lampo, ma
non devo dare troppe illusioni a Giulia devo stare sul vago,
non voglio che si prenda un’altra bastonata, ma allo stesso
tempo non posso tacere.
<<Ti ho raccontato che durante il mio viaggio verso sud
avevo incontrato una signora con il suo bambino; lei mi ha
dato questo biglietto, forse potremmo andarla a trovare, poi
si vedrà.>>
La guardo in attesa di una qualche espressione, mi guarda
senza cambiare faccia.
<<E dov’è questo posto?>>
Già dov’è?
<<Mi ha detto che era dalle parti di Orvieto, anzi Tra
Orvieto e Perugia.>>
Guardiamo la cartina che io mi porto dietro, troviamo
ovviamente Perugia e Orvieto, non c’è nessuna traccia di un
luogo chiamato San Venanzo. La cartina non è molto
particolareggiata e la scala non consente di vedere luoghi
156
troppo piccoli. C’è Lodi tra le due città che ho nominato, ma
non si vede altro.
<<Comunque noi possiamo andare verso quei luoghi, poi
troveremo sul posto una carta che ci porti in questo
benedetto San Venanzo.>>
Dico “benedetto” sperando in qualcosa che non dovrei
sperare, potremmo non trovare nessuno, potremmo essere di
troppo, potremmo semplicemente essere sopraffatti nel
viaggio.
Troppe incognite. Non dobbiamo farci illusioni.
Quello che è importante è che il passato dobbiamo lasciarlo
alle spalle, non dobbiamo pensare ad altro che al futuro e
andargli incontro costi quel che costi. Prendo la cartina, la
stendo su un tavolo.
<<Dove siamo?>> Mi chiede, questa volta senza
malinconia; è pronta lo sento.
<<Siamo qui, sopra Pistoia, dovremo andare giù prima verso
Firenze, poi verso Arezzo e Orvieto o Perugia, vedremo.>>
Le dico indicando i luoghi sulla cartina.
<<Dove troviamo da magiare?>>
E’ sempre stata pratica, non si preoccupa della lunghezza del
tragitto, vuole sapere se siamo in grado di sopravvivere. Le
faccio vedere che passeremo nella valle dell’Arno,
probabilmente potremo pescare.
<<Ma fanno schifo i pesci di fiume>>, si lamenta.
<<Tieni conto che l’inquinamento è sparito, non ci sono più
fabbriche che sputano i loro veleni, né fognature che buttano
in acqua i loro liquami, probabilmente potremo trovare pesci
non troppo cattivi.>>
La rincuoro anche se non so fino a che punto posso
garantirle del cibo decente per i prossimi giorni. Se non
dovessimo trovare il modo di sfamarci converrà andare
verso il mare, lì so che possiamo cibarci.
157
Facciamo l’inventario, ci sono rimaste tre patate e un mezzo
salame, nient’altro. Dobbiamo metterci subito in marcia e lo
facciamo dopo aver tagliato e gustato due fette di salame.
<<Mmmm cappuccino e brioches papà tu mi porti sempre
nei migliori bar della zona.>>
Le do uno scappellotto e sorridendo la invito a camminare,
ne abbiamo di strada da fare.
Salutiamo Lucio che pare afflitto.
Usciamo dalla valle, lasciandoci alle spalle quello che
credevamo sarebbe diventata la nostra dimora, decidiamo di
prendere la via più diretta, verso Pistoia e poi giù.
Decidiamo, perché da adesso in avanti voglio condividere
con mia figlia ogni scelta che faremo.
Saliamo per un sentiero che ci porta a valicare un piccolo
passo, siamo nel centro dell’Appennino, non ci sono centri
abitati, neppure piccoli. Contiamo in serata di arrivare
almeno nelle vicinanze della città.
Superato il passo scendiamo in un boschetto, mia figlia
saltella, pochi metri davanti a me.
Ad un tratto si ferma e punta il braccio in direzione di una
costruzione che a tutta prima sembra una cappella. La
guardo con espressione interrogativa. Non mi sta indicando
la chiesa, mi indica qualcosa che da dove mi trovo non
riesco a vedere bene.
Sembra una sagoma davanti ad un albero. Giulia si ferma e
mette una mano davanti alla bocca.
La raggiungo e finalmente vedo.
C’è un uomo seduto, rivolto verso la valle sottostante, a
pochi metri dalla chiesetta, appoggiato ad un albero. Non si
muove, mentre mi avvicino mi rendo conto che è morto. Lo
si capisce dalla posizione, la testa gli ciondola da una parte,
ma soprattutto si nota l’incarnito della faccia quasi
scheletrito.
158
Mia figlia si ferma a qualche metro da quella visione. E’
chiaramente un uomo con una lunga barba, la sua pelle si è
incartapecorita e quasi marrone, è seduto con le gambe
incrociate sul davanti e tiene in grembo, tra le mani aperte,
un libro. Una pagina svolazza mezza strappata, è una visione
macabra, ma al tempo stesso serena.
Guardo verso la chiesa, a fianco c’è una piccola costruzione,
sembra una stanza, come una canonica. Entriamo nella
stanza, la porta è accostata, ma non chiusa. Dentro tutto è in
ordine, pieno di polvere lasciata dal tempo e le ragnatele
oscurano parte della piccola finestrella.
Ci sono poche cose dentro: un tavolo, una sedia, un letto,
una madia e una libreria piena di libri. Sul tavolo è aperto un
libro, anzi sembra un diario.
E’ un diario, l’ultima pagina inizia con la dicitura “Giorno
336 dell’anno” Leggo. “Oggi è l’ottavo giorno che non
mangio, mi sento assai debole, faccio fatica a muovermi dal
letto al tavolo, penso che non potrò andare avanti ancora per
molto. Spero che la mia non sia superbia, ma non ho voglia
di morire chiuso qui dentro, per cui penso che andrò a
sedermi fuori, sotto l’albero che è stato il mio luogo di
meditazione per anni. Mi porterò anche il libro dei Salmi che
mi aiuti a meditare sulla grandezza di Dio. Che il Signore
perdoni tutti i miei peccati.” Finisce così senza una firma
senza un’indicazione.
Nella prima pagina vi sono le informazioni che ci
permettono di capire dove ci troviamo e al cospetto di chi. “
Eremo di Sant’Egidio - Primo giorno dell’anno del Signore
2012- questo è il ventiseiesimo anno che io, Frate Agostino,
ho il privilegio di vivere in questo eremo.
I propositi dell’anno: Finito l’inverno conto di risistemare
l’orto, la scorsa stagione non ha dato grandi frutti. La
meditazione sarà incentrata sulla potenza del Signore, a
questo proposito ho già ordinato undici libri a Frate Pio che,
159
se il Priore li approverà, me li porterà alla fine del mese con
le provviste. La canonica ha bisogno di una risistemazione
nella parte del muro esterno che da verso nord, la muffa si
insinua un po’ ovunque. Lettura del giorno Atti 6:11”
Ci guardiamo io e mia figlia, lo scritto è essenziale, ma ci
sono tutte le informazioni che il frate intendeva lasciare sul
diario.
Da un breve calcolo deve essere morto circa a metà
dicembre dello scorso anno. Guardando la libreria noto che
su un piano c’è una fila di libri uguali a quello sul tavolo,
sono i diari di tutti gli anni passati, ne prendo uno, infatti è
quello del 2008. Poi mi viene l’interesse di vedere cosa è
successo nell’ultimo anno e anche Giulia si mette al mio
fianco e cominciamo a curiosare nella vita di questo
sant’uomo. Apro a caso e vado avanti fino ad arrivare a
settembre, mese in cui tutta questa storia è iniziata.
O meglio il mese in cui la storia si è fermata.
Per tutto il mese le annotazioni sono le solite. Il giorno 274,
credo si riferisca all’inizio del mese di ottobre, leggiamo:
“Frate Pio avrebbe dovuto arrivare questa mattina con le
provviste e il materiale che avevo richiesto, è strano questo
fatto non era mai avvenuto negli anni passati, senza che mi
avvisassero.” Poi continua con il solito elenco di cose fatte,
le letture, la raccolta della lattuga, la zappatura di una
piccola parte dell’orto eccetera.
Il giorno seguente: “Anche oggi Frate Pio non si è
presentato, se il buon frate non sta bene probabilmente
manderanno qualcun altro, come è già successo una volta.”
Il terzo giorno: “E’ necessario diminuire le razioni dei pasti
in quanto non posso sapere quando pensano di mandarmi le
provviste, comunque non ho di che preoccuparmi, ho cibo
per almeno trenta giorni.”
Qualche giorno dopo: “E’ possibile che per qualche motivo
si siano scordati di venire qui, magari pensano di avermi già
160
portato il cibo per il mese, probabilmente il prossimo mese
arriverà Frate Pio e quando si accorgerà di ciò che è
successo ci faremo delle belle risate.”
Per il resto del mese Agostino non fa più riferimento alla
mancanza di cibo. Annota meticolosamente i lavori svolti,
gli argomenti su cui ha meditato e le letture che ha fatto.
Giorno 305: “E’ preoccupante che Frate Pio non sia ancora
giunto, se non si fa vivo entro quindici giorni avrò finito
quasi tutte le provviste e sarò costretto a scendere a valle.
Sarebbe la prima volta dopo ventisei anni.”
Non scrive più nulla della mancanza di cibo nei giorni a
seguire. Nove giorni dopo annota che è cominciato a piovere
forte. Il giorno successivo segna che la pioggia gli ha
praticamente distrutto l’orto. Lui ha raccolto ciò che restava.
Il giorno che pensava di partire per tornare a valle scrive:
“Con questo tempo mi è impossibile mettermi in viaggio, il
vento e la pioggia non mi permetterebbero di arrivare da
nessuna parte.”
Nei due giorni successivi Agostino, sempre segnando ogni
azione compiuta nel suo eremo, è amareggiato con se stesso
per non essere partito prima, ma confida nella Provvidenza.
Intorno alla metà del mese, come io ben so, comincia a
nevicare, il frate scrive ogni giorno senza mai una parola di
rammarico, si affida alla volontà di Dio e continua la sua
vita scandita dalle ore di preghiera, di lavoro e di
meditazione.
Poi l’ultimo giorno, come abbiamo letto all’inizio, nessuna
recriminazione, nessuna accusa, solo una preghiera.
Abbiamo letto com’è finita; lascio il diario aperto, dopo un
attimo di riflessione prendo la penna e nella pagina bianca a
fianco dell’ultimo suo scritto mi sento di mettere: “Qui ha
vissuto un uomo santo che ci spiace di non aver potuto
conoscere. Andrea e Giulia”. Giulia fa cenno di si con la
testa, poi usciamo.
161
Passando per l’ultima volta davanti a quell’uomo, che
certamente è stato un buono e che certamente non ha avuto
responsabilità in ciò che è successo al mondo, lasciamo un
fiorellino che abbiamo raccolto proprio fuori della chiesa.
Proseguiamo in discesa per un lungo tratto in silenzio,
ognuno preso dai pensieri suoi.
<<Perché un uomo decide di isolarsi dal mondo e fare
l’eremita?>>
Giulia interrompe il nostro silenzio.
<<Chi lo sa. Ci sono persone che proprio non se la sentono
di vivere in un mondo in cui non credono, in un mondo dove
la violenza e la sete di denaro sono le uniche leggi.>> Provo
a risponderle, ma francamente non so neppur io se quello
che le dico ha un senso.
<<Ma serve a qualcuno un eremita?>>
Mia figlia non molla e a me tocca risponderle, ma prima
devo avere io un’idea, provo a farmela mentre la esprimo.
<<Anche a questo non so risponderti, ma a cosa è servito
tutto quello che abbiamo visto negli anni trascorsi prima di
questa grande crisi?
La gente si dava da fare per raggiungere un maggior
benessere personale, tutti badavano esclusivamente ad avere
sempre di più.
Avere e non essere.
La carriera, il denaro, la macchina più bella.>>
<<Vero pà?>> Mi interrompe provocatoriamente.
<<Si è vero anch’io volevo una macchina sempre più di
lusso. Toccato.
Non ci rendevamo conto che stavamo distruggendo la terra,
non ci rendevamo conto che la terra è finita, nel senso che
non è infinita, che oltre ad un certo punto non si può andare.
Sulla terra non possono vivere più di un certo numero di
persone è una questione fisica.>>
<<In che senso?>> Ancora lei.
162
<<Se possediamo una casa di cento metri quadri possiamo
starci comodamente in quattro, cominciamo a pestarci i piedi
se siamo in otto, la situazione diventa invivibile quando si
pretende di viverci in sedici, in trentadue è quasi
impossibile, anche se in qualche luogo c’era qualcuno che
viveva in queste condizioni. Se arriviamo a cento possiamo
rimanere al massimo seduti e questo non è vivere, ma
quattrocento persone proprio non ci stanno è una faccenda
fisica.>>
Che paragoni mi vengono, non sono proprio capace a
spiegarmi.
<<Ho capito>>, mi risponde, invece.
<<Anche se non mi hai riposto sugli eremiti. L’unica cosa
che possiamo dire è che queste persone non sono
responsabili dello sfacelo che ci ha colpito.
Tu, invece, fai parte di quelli che ne sono responsabili, e
anch’io ho fatto la mia parte, quando pretendevo ogni anno
un guardaroba nuovo e firmato e buttavo via vestiti e scarpe
che avevo usato al massimo due volte.>>
Mi guarda e non c’è acrimonia nel suo sguardo e neppure
rimprovero, la sua è una constatazione, amara, ma una
constatazione.
Mi viene da pensare che da quando siamo rimasti soli il
nostro rapporto è maturato e cresciuto. Non avevo mai avuto
prima d’ora la possibilità di parlare con mia figlia in questi
termini e sentirla grande, anche se per me rimane sempre
una bambina, ha tredici anni, ma le circostanze l’hanno
obbligata a diventare adulta precocemente.
C’è una cascina di fronte a noi, entro, la porta non è chiusa.
Come altre volte la morte è presente, anche qui gli abitanti
non ce l’hanno fatta. Esco e scuoto la testa ad indicare a
Giulia di non entrare, lei mi indica il portico con un mezzo
sorriso.
163
Ci sono, appoggiate ad un muro, quattro biciclette. Ne
scegliamo due con il portapacchi posteriore su cui leghiamo
i nostri zaini; gonfio le gomme e senza indugio partiamo,
lasciando quella triste tomba.
In poco meno di un’ora siamo a Pistoia, la attraversiamo
senza incontrare anima viva, ci guardiamo intorno straniti,
poi ci fermiamo in piazza del duomo e decidiamo di
mangiare un boccone, ormai siamo agli sgoccioli.
Ci riposiamo per qualche minuto e ci permettiamo perfino di
fare i turisti, ma l’assenza di vita ci inquieta.
Decidiamo di proseguire, e in altre due ore siamo a Prato,
Viale Leonardo da Vinci, pedaliamo mollemente. Sulla
nostra destra, in un giardino di una bella casetta, un uomo
sta zappando l’orto, con lui un bambino che può avere si e
no sei o sette anni.
Ci fermiamo e rimaniamo a bocca aperta a guardare quella
visione di assoluta normalità, l’uomo lavora con meticolosità
facendo solchi ben allineati e della stessa lunghezza.
Normalità un anno fa, ma ora è una vera magia.
Li osserviamo da dietro la cinta di rete metallica che separa
la proprietà dalla strada, fino a quando il bambino ci nota e
tira la camicia avvertendo l’uomo che, vedendoci, ci sorride.
Appoggiandosi alla zappa si avvicina a noi. Da subito ho
osservato che, sia l’uomo che il bambino, hanno tratti
orientali, sorridono allegri.
<<Benvenuti>>, ci dice con un piccolo inchino mentre il
bimbo si arrampica sul muretto tenendosi alla rete.
Ci invitano ad entrare facendoci transitare dal cancello che
dà su un piccolo vialetto con ghiaia bianca. Sulla porta di
casa una donna con una lunga gonna ci guarda anche lei
sorridendo, mentre altri due bambini le si fanno addosso.
<<Plego entrate.>>
Io e Giulia ci guardiamo, la casa è arredata in modo
normale, vi sono però alcuni tocchi orientali, un grande
164
divano rivestito da un tessuto in seta rossa e oro, un budda
su un tavolino e alcune statuette dei soldati di terracotta di
Xian.
Sono cinesi e fanno parte della comunità cinese di Prato, si
sono salvati in più di duecento, avevano le loro provviste
che avevano fatto venire dalla Cina e che sono state
sufficienti per sfamare un gran parte di loro.
Gli abitanti della città, per la maggior parte, se ne sono
andati, non sanno dove, e non sono più tornati; loro hanno
occupato le case che avevano un pezzo di terra da coltivare
ed ora tutti hanno un orto e qualcuno anche galline e conigli.
In pratica sono diventati i padroni della città e riescono a
sopravvivere con il loro lavoro e l’aiuto reciproco.
I bambini che hanno tre, sei e otto anni, schiamazzano in una
lingua per noi incomprensibile, capiscono poche parole di
italiano, ma sono felici di giocare con una sorella più grande.
Vedo mia figlia per la prima volta con uno sguardo sereno e
provo una grande tenerezza, sembra di nuovo la bambina
che dovrebbe essere. Ci invitano a rimanere per la cena e per
la notte, accettiamo naturalmente.
Il pollo, era una vita che non lo assaggiavamo, con il riso
poi, una vera leccornia e piccole fette di pane.
Da piangere, il pane.
Quando stiamo per finire la cena arrivano una decina di
persone, uomini e donne, tutti cinesi, sono lì per noi.
Non so come, ma il nostro anfitrione è riuscito ad avvisare i
vicini del nostro arrivo, i quali sono prontamente venuti
portando dolci e un liquore che sicuramente ha una
gradazione superiore alla nostra grappa. Vogliono conoscere
la nostra storia.
Faccio così un riassunto edulcorato della mia odissea, devo
però parlare adagio e fermarmi spesso perché, dato che
alcune delle signore presenti non capiscono l’italiano, uno
dei presenti deve tradurre nella loro lingua.
165
Il fatto è che non capisco mai quando devo proseguire. A
volte parlo per un minuto ed il traduttore se la cava con
quattro parole, altre volte dico una frase e devo aspettare due
o tre minuti prima che si concluda la traduzione.
Ormai ho intuito il da farsi, proseguo quando tutti
spalancano gli occhi, mi guardano e fanno segno di si.
Sembra una comica.
Loro mi parlano della loro esperienza, mi raccontano che
quando la neve se n’è andata sono andati casa per casa,
hanno portato fuori le persone che erano morte di stenti e di
fame e le hanno seppellite nel cimitero della città.
Un vero senso di pietà, che non mi sarei aspettato.
Tutti hanno qualcosa da insegnarci.
Ci salutano a fine serata con un piccolo inchino e se ne
vanno augurandoci un buon viaggio e una vita felice, da
parte nostra ricambiamo, felici di quell’incontro.
La colazione, con pane e miele, il buonissimo e profumato
tè, insieme a quei tre bambini spensierati ed ai nostri due
benefattori, ci carica di energia, macineremo chilometri
oggi, ne sono certo.
166
14
Impieghiamo quasi un’ora ad uscire da questa città ormai
cinese, dobbiamo fermarci più volte a salutare quelli che
erano presenti la sera prima nella casa dei nostri ospiti.
Dopo un po’ mi rendo conto che stiamo salutando un
numero infinitamente superiore di persone rispetto alla
decina della sera precedente. Sono cinesi e, francamente non
riusciamo a distinguerli, ma tutti danno l’impressione di
conoscerci e tutti ci sorridono e salutano amichevolmente.
Forse questa città in futuro si chiamerà Plato dico a Giulia
che mi guarda e poi solleva gli occhi al cielo scuotendo la
testa, ma poi sorride e pedala veloce.
Le case e le fabbriche si susseguono sulla strada, tanto che
non ci rendiamo nemmeno conto che siamo arrivati a
Firenze e non è ancora mezzogiorno.
Attraversiamo lentamente la periferia e verso l’una siamo
nel centro della città, ci fermiamo in piazza del Duomo, poi
scendiamo in piazza della Signoria, ci fermiamo davanti al
David.
<<Figo>>, dice Giulia.
Questa volta tocca a me alzare gli occhi al cielo, ma subito
dopo sorridere, le voglio troppo bene.
Decidiamo di andare verso l’Arno, non abbiamo più nulla da
mangiare se non qualche pasta donataci da quelli di Plato,
167
per cui ci conviene provare a pescare e, che Dio ce la mandi
buona.
Mentre sto pensando alla pesca ci sentiamo apostrofare.
<<Hei voi! Sembrate turisti, ma gli è un po’ di tempo che
non se ne vedono.>>
La voce proviene da dietro un cancello a inferriata. Ci siamo
passati davanti, ma non lo abbiamo nemmeno notato.
Torniamo indietro ed un uomo, questa volta italiano, con in
mano una vanga, ci osserva con curiosità, poi si presenta:
Fausto Antori, fiorentino di Firenze, ci tiene a precisare. Ci
invita anche lui ad entrare.
Varcato il cancello, quello che doveva essere il giardino di
una villa patrizia è stato trasformato in un orto, da un lato
due serre coperte con il nilon, in mezzo si vedono
dell’insalata e dei finocchi. L’erba che spunta in tre file ben
ordinate presumo siano carote, ma essendo un cittadino non
sono un esperto.
<<E’ un po’ che non si vedono facce nuove da queste
parti>>, ci fa presente il nostro amico.
Vuole sapere cosa facciamo, da dove veniamo e dove siamo
diretti. Gli do indicazioni sommarie e quando gli accenno al
fatto che eravamo intenzionati ad andare a pescare ci
propone di lasciare gli zaini, di andare sul fiume e tornare
con una buona pesca, ma prima insiste per offrirci
un’insalata con sedani, finocchi e ravanelli, e poi ci propone
la sua ospitalità e una cena con i nostri pesci e le sue
verdure.
Non abbiamo dei grandi valori nei nostri zaini, quindi
possiamo lasciarli senza tema, e la prospettiva di dormire,
ancora una notte, in una casa e su un vero letto, ci alletta,
quindi accettiamo.
Il nostro ospite ci consiglia di andare lungo il fiume verso
sud, prima delle rovine dell’ultimo ponte, lì, dice, si è
168
formata una polla che è spesso frequentata da pesci belli, ed
aggiunge, buoni.
Ci dirigiamo al fiume, appena arrivati al Lung’Arno ci
rendiamo conto della catastrofe che deve aver colpito la città
e il fiume, le case hanno porte e finestre divelte dalla furia
delle acque, detriti, tronchi e carcasse d’auto sono accatastati
agli angoli delle strade.
Guardo verso nord, non si vedono ponti, c’è una passerella
fatta con assi appoggiati sui sassi e sulle macerie la dove
prima c’era il ponte Vecchio.
Faccio cenno a Giulia di proseguire, arriviamo in pochi
minuti nel luogo che ci è stato indicato. Ci sediamo su un
blocco di cemento nel punto dove iniziava un ponte che
scavalcava il fiume.
L’acqua è limpida e si intravedono addirittura le sagome
guizzanti di alcuni pesci di discrete dimensioni. Butto l’amo
e mi preparo con attenzione a sentire la lenza tendersi.
<<Com’è?>> Mi dice all’improvviso mia figlia.
<<Com’è cosa?>> Rispondo io senza sapere dove vuole
parare.
E allora spiega. <<Com’è? Lei.>>
<<Lei chi?>> Faccio io stupido. Poi tutto mi è chiaro.
Giulia mi lancia uno sguardo come a dire, sai bene di chi sto
parlando. Faccio si con la testa, una, due, tre volte.
<<Cosa ti posso dire. E’ una brava persona, ha sofferto,
come noi, sono sicuro che, credo, ecco non so, ma penso che
ci accoglierà bene. Sperando che sia riuscita a raggiungere la
sua meta e che sia anche riuscita a superare l’inverno.>>
Questa cosa l’ho detta, ma mi procura angoscia.
Già e se arriviamo là e non li troviamo?
<<E di aspetto com’e? E’ bella?>> Mi chiede con la testa
abbassata e lo sguardo sull’acqua.
<<Oddio, è, è… Quando l’ho vista. Quando ho visto lei e
suo figlio, mi sono sembrati due fantasmi, erano magri,
169
sporchi e stracciati. Mi hanno chiesto aiuto e siamo stati
insieme per diversi giorni.>>
<<Cosa vuoi dire siamo stati insieme?>> Mi domanda
interrompendomi e guardandomi negli occhi.
<<Ooh, cosa vai pensando>>, le dico dandole un buffetto
sulla guancia.
<<Quando dico siamo stati insieme non voglio dire quello
che pensi tu. E poi, ragazzina, a che cosa stai pensando
tu?>>
Diventa rossa e si gira sorridendo dall’altra parte. Un pesce
abbocca e urlando lo tiriamo fuori dall’acqua, per un pelo
non ci scivola via, poi riesco a dargli una botta in testa e a
metterlo nel sacchetto che avevo appresso.
<<Come si chiama?>>
<<Vera.>>
<<E il bambino?>>
<<Luca.>>
<<Però ti piace.>> Non molla la piccola.
<<Se devo dirtela tutta non mi dispiace, ci siamo incontrati
per caso, in circostanze pazzesche e in quella follia siamo
riusciti a convivere rispettandoci ed in qualche modo
volendoci anche bene.
In quel momento di paura, fame e morte, ci siamo aiutati, ma
non ho mai pensato ad altro che a voi ed alla mamma fino a
quando non ti ho ritrovata. Adesso penso che si possa anche
ritrovare un’amica, siamo rimasti soli, ma possiamo anche
rifarci una vita. Vedremo.>>
Fa si con la testa e con il dito mi indica un'altra preda che ha
abboccato alla nostra esca.
Ha tredici anni ed è già grande. In quest’ultimo anno è
cresciuta in fretta, saltando tutta una parte della vita
spensierata che si sarebbe meritata, ora è per me una vera
amica e non riesco nemmeno ad esprimere quanto l’ami.
Torniamo alla casa patrizia del nostro ospite con nel carniere
170
sette pesci belli polposi, non riconosco la specie, speriamo
siano anche buoni.
Antori ci accoglie festoso e lo è ancor di più quando gli
mostriamo la nostra pesca miracolosa. Ci accompagna al
piano superiore, il pianterreno non è ancora agibile, ci
spiega, causa l’alluvione che ha devastato la città.
Mettiamo i pesci in padella su una stufa a legna, verdure
cotte sono già in un’altra padella. La tavola è preparata su un
tavolo in legno di noce a cui sono avvicinate sedie dallo
schienale alto ed imbottito.
Da una parte della cucina è appeso un quadretto con una
fanciulla con in mano una spada seguita da un’altra fanciulla
che porta sulla sua testa la testa mozzata di un uomo
barbuto. Mi sembra di averlo già visto da qualche parte.
<<E’ la stampa di un quadro famoso?>>, chiedo.
<<No, è il ritorno di Giuditta, del Botticelli.>>
Lo guardo, come a dire, appunto è la stampa di un quadro
famoso.
E lui: <<E’ l’originale. L’ho preso agli Uffizi.>>
Quando vede il mio sguardo esterrefatto, aggiunge:
<<Venite, vi faccio vedere.>> E ci precede nel salotto.
Indica verso la parete di destra.
<<L’Annunciazione di Leonardo da Vinci. A sinistra Venere
di Urbino del Tiziano. Lì nel centro l’autoritratto di
Raffaello e San Jacopo con due fanciulli di Andrea del
Sarto. Su quella parete trovate Rembrant e i fiamminghi che
sono i miei preferiti.
Non guardatemi con quella faccia, abbiamo deciso che era
meglio che ognuno si prendesse un po’ di capolavori e se li
portasse a casa in modo da preservarli, ogni tanto ce li
scambiamo così possiamo gustarceli.>>
<<Abbiamo? Chi?>> Faccio io.
<<In città siamo rimasti in una cinquantina, cinquantasei per
l’esattezza, ci scambiamo la produzione dell’orto, i pesci, le
171
uova, ed ogni sera ci ritroviamo in piazza a chiacchierare. In
televisione non danno un gran chè in questo periodo.>> Ci
dice con un certo sarcasmo.
Ceniamo e dopo cena, insieme, andiamo in piazza della
Signoria.
Arrivando si sente un brusio di chiacchiere che si interrompe
di botto al nostro arrivo. Fausto ci presenta e mi invita a
raccontare la nostra storia.
Lo guardo incredulo, ma lui mi fa presente che, come già mi
aveva accennato prima, i programmi televisivi non attirano
più di tanto e poi, gli fa eco un altro, anche al cinema non
programmano nulla di interessante.
Racconto a questo punto la nostra storia, saltando qualche
episodio, altrimenti questa sera non si va a dormire, e
soprattutto perché vengo interrotto decine di volte. Chi vuole
una spiegazione, chi non si capacita di un fatto, chi
commenta con termini coloriti e chi si fa prendere dalla
commozione e si mette a piangere.
Alla fine si scatena una vera babilonia, ognuno chiacchiera e
commenta col vicino, allora alzo entrambe le braccia e
riesco ad ottenere il silenzio.
<<Io vi ho raccontato come sono arrivato sino qui, voi
volete raccontarci com’è che siete qui?>>
Uno degli astanti si alza e rivolgendosi ad un uomo con la
barba bianca gli dice.
<<Professore a lei la parola.>>
<<Si però non cominci da Adamo ed Eva.>> Dice un altro
mentre tutti si mettono a ridere.
<<Va bene, parleremo solo dell’ultimo anno va bene?>>
L’uomo che si alza per esporre i fatti ha un’età di circa
sesant’anni, barba e baffi bianchi, ben curati, veste un
completo di velluto blu e porta un anacronistico farfallino
rosso sopra la camicia immacolata.
172
Inizia guardando la platea da sopra gli occhiali. E racconta
ciò che io già avevo visto, la razzia nella città, la battaglia tra
bande per accaparrarsi le vettovaglie, la fuga verso la
campagna della maggioranza della popolazione. Poi la
grande pioggia seguita dall’inondazione, più disastrosa di
quella degli anni sessanta, tutti i ponti distrutti, metà della
città allagata per settimane. Finita questa piaga la neve ed i
mesi di gelo, poi coloro che erano in qualche modo
sopravvissuti ed erano tornati in città avevano ricominciato
una vita.
Non quella di prima, ma una nuova vita e lì quegli uomini e
quelle donne cercavano di ricreare una polis partendo da
quella piazza che tutto il mondo ci aveva invidiato.
Torniamo nella casa che ci ha accolto, la nostra stanza ha un
letto matrimoniale su cui vi è un quadro, la Madonna col
Bambino e Angeli di Cimabue, mai avrei pensato di dormire
sotto un capolavoro come quello, questo mi da la certezza
che il mondo non è più lo stesso di prima.
Dopo aver sistemato in un contenitore di plastica il pesce
cotto e avanzato la sera prima, salutiamo il nostro buon
fiorentino e quel che rimane di questa splendida città.
Ci dirigiamo lungo la Val d’Arno, la strada è a tratti
dissestata ed interrotta da macerie e tronchi d’albero lasciati
dall’alluvione, per fortuna con le biciclette è abbastanza
agevole oltrepassare i vari ostacoli.
Come sempre più lungo e complicato è l’attraversamento dei
rii e dei corsi d’acqua, non ha resistito nemmeno un
ponticello, in alcuni casi troviamo delle passerelle posticce,
come nei pressi di Incisa dove per attraversare l’Arno sono
state posizionate una serie di assi inchiodate le une alle altre
che permettono un attraversamento abbastanza agevole,
segno che qualcuno sta cercando di riprendere la vita
normale.
173
Nei punti più alti, sopra il fiume, troviamo delle cascine
abitate da gente cordiale che è felice di vedere delle facce
nuove e di scambiare due chiacchiere, anzi è sempre un
problema proseguire perché ognuno vorrebbe fermarti,
ospitarti ed offrirti qualche cosa da mangiare.
Alla terza casa abitata incontrata nella mattina decidiamo di
accettare l’ospitalità. Si sono sistemate in una bella cascina
tipica toscana con i muri in tufo e i pavimenti in cotto, tre
famiglie. Tre coppie, due sui cinquant’anni ed una coppia
più giovane con due figli, da come sono trattati è come se
avessero sei genitori, tutti premurosi ed amorevoli.
In fondo sono il futuro ed è giusto così.
Anche loro, come tutti, ci raccontano le loro vicissitudini e
noi raccontiamo le nostre. La preoccupazione maggiore è, e
rimane, la paura di un inverno come quello precedente, ma
per questo, mi dicono, si stanno attrezzando. Hanno
coltivato un campo a patate, un altro a mais, contano sulle
mele degli alberi intorno alla casa, le olive e, non ultimo, si
sono attrezzati a produrre prosciutti e salumi con i cinghiali
che riescono a catturare.
Procediamo nel pomeriggio e riusciamo anche a fare diversi
chilometri ed alla fine ci sistemiamo per la notte presso una
famiglia che si è stabilita in un cascinale, anche qui con altre
quattro famiglie, che si sono organizzate come una comune
o un kibbuz. La sera tutti in una grande stanza a cenare ed a
scambiarsi pareri e storie, è un po’ come facevano i nostri
nonni, si riunivano a sera nella stalla a parlare e a ridere di
quel che si poteva.
Il giorno successivo continuiamo a pedalare, sembriamo
padre e figlia in gita. Giulia non smette di parlare sembra
quasi serena.
<<Che puzza>>, sbotta ad un certo punto.
Stiamo pedalando vicino ad una discarica.
174
<<Hai mai pensato che la nostra civiltà, cosìdetta moderna, è
l’unica che ha prodotto dell’immondizia?>> Le dico.
<<In che senso? Non capisco. Cosa vuoi dire?>>
<<Pensaci bene; fino alla fine dell’ottocento e ancora nei
primi anni del novecento non esistevano discariche, perché
non si producevano rifiuti.>>
<<E dove li mettevano?>>
<<No, proprio non si producevano, non ce n’erano. Tutto
veniva riutilizzato, e niente era costruito per essere buttato.
Si è cominciato, prima a produrre oggetti e macchine che si
rompevano dopo un certo tempo. Poi si è pensato di
produrre imballaggi sempre più voluminosi e inutili.
Hai presente le scatole delle bambole? Le confezioni dei
cioccolatini? Il polistirolo per proteggere gli elettrodomestici
durante il trasporto?
Poi le bottiglie per l’acqua, le confezioni per il latte, i
detersivi. Tutta roba da buttare. Tutta roba che però sarebbe
potuta essere riutilizzata, ma che per pigrizia, o peggio, per
ignavia, si è preferito buttare nelle discariche, inquinando i
suoli e appestando l’aria. Belle cose vero?>>
Giulia mi guarda stranita e poi mi chiede.
<<Ma gli antichi non avevano l’immondizia?>>
<<Credo che tutto quello che è stato buttato o perso
nell’antichità sia finito nei musei di tutto il mondo. Questo ti
dà l’idea di come negli ultimi anni siamo stati, anche in
questo campo, poco lungimiranti.>>
La vedo perplessa e la sento che tra sé mormora un “che
schifo”, e non riesco a capire se intende parlare della puzza o
della “saggezza” degli uomini.
Lasciamo la Val d’Arno e per diversi chilometri transitiamo
sull’autostrada.
Due biciclette su un’autostrada, chi l’avrebbe mai
immaginato. Giulia si esalta e, abbassando la testa fino quasi
175
al manubrio, comincia a riprodurre il suono di un motore.
<<Brrrummm.>>
Ed io non riesco a fare a meno di imitarla, e per un breve
tratto giochiamo a rincorrerci e a superarci, fin quando una
salita non ci tarpa le nostre velleità motoristiche,
costringendoci a scendere e spingere i nostri bolidi.
Però ridiamo come matti.
<<Mi sembra che la vita in qualche modo stia
riprendendo>>, mi fa notare mia figlia mentre stiamo
riposando sotto un ulivo.
<<La gente si sta riorganizzando, ma sono rimasti proprio in
pochi. Secondo te quanta gente è rimasta sulla terra?>> Mi
chiede, mentre io penso a tutto e tutti, a chi abbiamo perso e
chi stiamo cercando, alla vita passata e a come potrà essere
quella futura.
<<Non ne ho idea, ma se nel resto del mondo sono ridotti
come da noi ho paura che l’umanità si sia ridotta e di
molto.>>
<<Come con il diluvio universale>>, mi suggerisce.
<<O la scomparsa di Atlantide>>, ribatto io.
<<Potremmo inventarci un nome per questo cataclisma.>>,
aggiunge, come fosse un gioco.
<<Si, lo chiamiamo”La scomparsa del petrolio”>>,
propongo.
Ma lei non è d’accordo.
<<Che squallido.>>
<<Forse sarebbe più appropriato “l’idiozia dell’umanità”>>,
provo a suggerire.
E lei a questo punto è d’accordo, ma aggiunge.
<<Pà, si riuscirà a tornare come prima?>>
<<Non credo>>, le rispondo, <<e forse, dopo tutto quello
che è successo, non lo vorrei neanche, siamo stati sul punto
di distruggere la terra e, per quello che ne sappiamo,
abbiamo eliminato la maggior parte dell’umanità.>>
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<<Hai ragione>>, interviene ancora lei.
<<Dobbiamo ricominciare daccapo e non fare più gli errori
già fatti. Papà, chissà se abbiamo imparato la lezione?>>
E’ proprio maturata, un anno fa avremmo discusso su un
nuovo videofonino con un’infinità di opzioni, ora parliamo
dei massimi sistemi e condividiamo i ragionamenti.
Continuiamo a discutere sulla questione per più di mezz’ora
e ci troviamo sempre più in sintonia, abbiamo solo il
rammarico di essere rimasti soli.
Usciamo dall’autostrada, dove non abbiamo incrociato
nessuno. Giunti nei pressi del lago di Montepulciano, conto
di pescare, ma arrivati sulle sue rive, troviamo ospitalità
presso un’altra piccola comunità.
Ringrazio, ma mi offro di andare a pescare; accettano e così
trascorriamo un’altra serata piacevole insieme a quelle
squisite persone. E qui, per la prima volta qualcuno sa dove
si trova San Venanzo e me lo indica su una carta stradale che
è in loro possesso.
Siamo a circa cinquanta chilometri dalla nostra meta, Giulia
mi guarda e mi sorride. Mi faccio un copia della cartina, mi
indicano di proseguire sull’autostrada fino a Fabro, poi
prendere su per la montagna, quella è la strada più comoda.
Andiamo a dormire eccitati, domani dovremmo riuscire ad
arrivare, la cosa mi rende inquieto.
Li troveremo? Saranno sopravvissuti?
E’ meglio se non penso.
<<Te lo ricordi Daniele?>> Mi chiede nel buio della nostra
stanza mia figlia.
<<Mm??>>
<<E’ venuto quando abbiamo fatto la festa per il mio
compleanno, faceva la terza. Quello biondo con la felpa
rossa con un leone stampato sopra. Dai.>>
Ora mi viene bene in mente, lo avevo tenuto d’occhio per
buna parte della festa, tampinava mia figlia, dove c’era lei,
177
c’era lui, se lei bevevo una bibita, lui bevevo una bibita, se
lei mangiava una pasta, lui mangiava una pasta.
<<Si, si, ora che me ne parli lo ricordo, ti stava dietro come
un cagnolino>>, le dico.
<<Veramente ero io che stavo dietro a lui.>>
Come lei che stava dietro a lui? Vuol dire che quando lui
mangiava una pasta, lei mangiava una pasta, quando lui
beveva eccetera?
<<Mi piaceva da matti, gli ho fatto un filo spietato. Sai lui
era un po’ timido, ma veramente tosto per il resto.>>
<<Quale resto?>> Chiedo un po’ preoccupato.
<<Cosa capisci, intendo dire che aveva un carattere tenero,
ma risoluto. Papà avevo dodici anni, penserai mica che
abbiamo fatto sesso?>>
Lo so che sono arrossito, meno male che è buio.
<<Ci siamo baciati due volte. Baciava da Dio, non so se mi
capisci.>>
<<Ti capisco, ti capisco>>, faccio io, cercando di trattenere
un sospiro.
<<Tornavamo da scuola mano nella mano. Al pomeriggio
passavamo ore al telefono, aveva sempre qualche storia da
raccontare ed era sempre molto buffo.
Mi manca, non sono neppure riuscita a sentirlo quando
siamo scappati da casa. Chissà cosa gli è successo.
Speriamo.>> E chiude così la conversazione, la sento girarsi
dall’altra.
Ma guarda te, ogni giorno una sorpresa, ed io che non ne
sapevo niente.
E già ai padri non si deve dire nulla. Mia figlia aveva un
ragazzo, passeggiavano mano nella mano, si baciavano, si
scambiavano confidenze, si volevano bene.
Chissà se mia moglie lo sapeva? Non oso chiederlo a Giulia,
penso che oggi sarebbe amareggiata sapendo di non essersi
confidata con sua madre. La vita di mia figlia si apre giorno
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dopo giorno, ma d’altra parte chi può essere il suo
confidente se non io.
Mi si accavallano mille pensieri, e poi, nel dormiveglia,
vedo il volto di Vera.
15
Ripartiamo di buon ora eccitati, potrebbe essere il nostro
ultimo giorno di viaggio.
E se così non fosse?
E se non trovassimo nessuno?
Cosa faremo?
Guardo Giulia e so che sta pensando la stessa cosa, mi
sorride e si mette a pedalare con lena. Va bene togliamoci
questo dente, vada come deve andare, ma che angoscia.
Riprendiamo il viaggio in autostrada, ma dopo mezz’ora
vedo Giulia, che pedala davanti a me, fermarsi. Guarda con
interesse la ruota davanti e prima che io la raggiunga, si
volta e mi fa.
<<Come dice la legge di Marphy, se una gomma può bucarsi
si buca.>>
Si non ci voleva.
<<Ne abbiamo già avuto la nostra dose della legge di
Murphy>>, dico io.
<<Quando doveva piovere, c’è stato il diluvio; quando si è
messo a nevicare, ne sono venuti quattro metri e non voglio
parlare di tutto il resto sennò mi viene una crisi di nervi.>>
Spingiamo le biciclette, per fortuna c’è una stazione di
servizio a poca distanza e troviamo con una certa facilità il
modo di rimediare alla foratura.
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Dopo due ore usciamo dall’autostrada e prendiamo verso i
monti. La strada si leva dolcemente, incontriamo persone
indaffarate nei campi, ci salutano con cordialità e ci
confortano sulla nostra direzione. Stiamo andando nel verso
giusto.
Dopo una prima collinetta ne superiamo una seconda e poi
ancora un’altra, ci inoltriamo in una valletta in cui si nota il
campanile di una chiesetta a fianco di una costruzione che
può sembrare un convento. A conferma dell’apparenza, due
suore stanno strappando erbacce in un orto ben squadrato,
una terza è seduta su una panca a ridosso di un muro.
Ci fermiamo, principalmente per riposarci e per bere alla
fontana che scorgiamo subito fuori del portone d’ingresso
del convento. Le due suore ci vengono incontro sorridendo,
sono giovani ed evidentemente di buono spirito. Si
puliscono le mani nel grembiule che hanno sul davanti della
tonaca e stringono le nostre amichevoli, invitandoci a bere
un po’ d’acqua e sciacquarci per rinfrescarci.
<<Finalmente padre, avevo proprio bisogno di
confessarmi>>, interviene la suora seduta che è
evidentemente molto più vecchia delle due sorelle davanti a
noi.
<<Non è padre Ubaldo, madre è un forestiero con sua
figlia.>>
E mentre una religiosa dice questo rivolto alla anziana,
l’altra fa segno con un dito che non ci sta molto con la testa.
<<Non sapevo che padre Ubaldo avesse una figlia>>, dice di
rimando la simpatica vecchietta.
E poi continua tra se e se. <<Potevano almeno dirmelo che
padre Ubaldo si era sposato.>>
Poi dopo un po’ di silenzio, osservata benevolmente dalle
sorelle.
<<Ma i preti possono sposarsi?>>
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Ci raccontano le due giovani suore che quella è la madre
badessa. Era una donna forte ed energica fino all’avvento
dell’inverno e della catastrofe.
La maggior parte delle suore che vivevano nel convento
avevano preferito andare dai loro genitori, fratelli e sorelle;
erano rimaste in nove, sette di queste molto anziane. Ad una
ad una se ne erano serenamente andate, in sei erano morte,
mentre la madre superiora perdeva la ragione ed ora, queste
due buone suorine, la accudivano come fosse la loro madre.
Hanno mangiato durante l’inverno principalmente patate,
noci e mele, ed hanno finito anche le confetture che erano
state preparate l’estate precedente, ora se la cavano con la
coltivazione dell’orto e saltuariamente ricevono anche
qualche offerta di uova o polli dai vicini che vivono non
molto lontano nella valle e che le rispettano.
Sono rimaste le uniche persone di chiesa in quel luogo e la
domenica si ritrovano con una ventina di persone della zona
a pregare nella piccola chiesa del convento. Loro si
prendono cura di far suonare le campane tre volte al giorno,
a mattina, a mezzogiorno e a fine pomeriggio, con questo
scandiscono il tempo di quella piccola regione.
Le salutiamo con calore, mentre la madre superiora, che si
era alzata e con l’ausilio di un bastone è giunta nei pressi, mi
chiede:
<Allora dove ci mettiamo per la confessione padre
Ubaldo?>>
Pedaliamo in direzione monti, mentre una voce cerca di
spiegare.
<<Non è padre Ubaldo.>>
E l’altra spiega: <<Ve l’ho detto che padre Ubaldo ha una
figlia?>>
Sorridendo ci stringiamo l’occhio e pestiamo sui pedali, poi
dobbiamo scendere dalle biciclette perché la strada si
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inerpica e non ce la facciamo con gli zaini caricati sui
portapacchi.
Sono trascorse due ore dopo il pranzo, sempre a base di
pesce e verdure, non abbiamo più detto nulla, siamo presi
nei nostri pensieri.
Dopo una curva osserviamo un paesino, che ha una chiara
origine medioevale; un torrione con tre finestre alla sommità
domina l’abitato.
Chissà se c’è ancora qualcuno che lo abita?. Mi chiedo con
una certa angoscia.
“San Venanzo”.
Un bel cartello bianco con il nome del paese, ci annunzia
che abbiamo raggiunto la nostra meta.
Ancora una volta ci guardiamo e proseguiamo verso il
centro di questo piccolo borgo. Al nostro arrivo una donna
che sta trasportando una piccola fascina si ferma, ci osserva
e ci saluta con un sorriso. Ricambio sguardo, saluto e
sorriso, poi mi schiarisco la voce e chiedo.
<<Mi sa dire dove vivono i Simoni?>>
Non le dico neppure “buon giorno”, trattengo il fiato
guardando l’espressione della donna che con naturalezza mi
indica.
<<Prenda per questa strada, quando arriva al bivio c’è strada
del Mulino, cento, duecento metri dopo vede una stradina
che porta alla casa dei Simoni, li trova lì.>>
Li trova lì, non ho il coraggio di domandare “chi trovo lì?”
Vorrei chiedere. “C’è una donna con un bambino sugli otto
anni?”, ma non ho il cuore e taccio e profferisco solo uno
sbiadito:
<<Grazie>>
Prendiamo la strada che ci ha indicato la buona donna, sono
in subbuglio, devo concentrarmi per frenare il tremore che
mi prende, non ho più salivazione.
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Gli occhi di Giulia mi scrutano, abbasso i miei, guardo
l’asfalto e spingo sui pedali. Dopo circa duecento metri
incontriamo una stradina sterrata sulla destra.
Proprio come aveva descritto la donna. In fondo si vede una
casetta a due piani, di tufo, con a lato un porticato e, sopra
questo, un fienile.
Lascio alle spalle ogni dubbio e immetto la bicicletta verso
quella casa. Sto per avviarmi, ma Giulia mi ferma con un
gesto della mano, si avvicina e, tenendo ferma tra le gambe
la sua bicicletta, si sporge verso di me, mi sistema il colletto,
mi toglie non so cosa da una spalla, mi da un colpetto su un
fianco ed infine mi riavvia i capelli con le dita.
Mi guarda compiaciuta e poi serrando le labbra abbassa due
volte il capo e mi fa segno che posso andare.
Non mi ha detto nulla, ma quella delicatezza la apprezzo con
tutto il cuore, me la avvicino e la bacio sulla fronte, lei si
divincola e fa un gesto insistente che vuol solo dire “Vai,
cosa aspetti.”
Pedaliamo lentamente e ci avviamo verso il portone
spalancato sulla corte, ma ad una ventina di metri dalla
stradina vediamo tre figure che stanno lavorando nei campi.
Un bambino e due donne, una delle due è anziana, l’altra...
L’altra no.
L’altra è Vera e la circolazione del mio sangue si ferma ed io
non so cosa fare.
Scendo dalla bici, la appoggio ad un albero; in quel
momento Luca ci vede e gridando il mio nome mi corre
incontro, mi salta addosso e chiama sua madre festoso.
Lei si è sollevata e stà immobile nel punto in cui si trova,
con un gesto della mano si toglie il sudore dalla fronte. Mi
guarda con un’espressione che non so definire.
Sorpresa, spaesata, felice, non riesco a decifrare.
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Mi avvicino lentamente, le gambe sono di legno; abbiamo
fatto tanta di quella strada che ora mi pare che il peso di
tutto mi sia caduto addosso all’improvviso.
Piano piano le arrivo a pochi passi. Luca che aveva gridato
dalla gioia ora tace e ci guarda poco discosto.
Non vedo mia figlia, ma so che è dietro di me, Vera la sta
guardando, ed il suo sguardo è avvolgente, mi sento di dire
amorevole.
Nel suo occhio sinistro c’è una lacrima che stenta a
scendere.
Oddio quanto è bello il suo occhio sinistro.
Oddio quanto sono stupido, i suoi occhi sono tutti e due
belli, non li avevo considerati prima, non l’avevo mai
guardata con questi occhi.
I miei occhi.
Non riesco a vedere altro che i suoi occhi che si sono fusi
con i miei. Facciamo un passo insieme, l’uno verso l’altro, e
ci abbracciamo.
Ci abbracciamo come dovessimo con questo abbraccio
comprendere tutto il mondo, e ci teniamo stretti, mentre il
respiro fatica ad uscire, gli occhi si chiudono e il peso
portato fino a qui si scioglie.
Luca e Giulia si intrufolano tra di noi e il nostro abbraccio li
comprende e li avvolge, e tutti insieme ci stringiamo.
Non so perché, è assurdo, ma mi viene in mente Rossella
O’Hara e la sua ultima frase nel famoso film.
Ma qui non si tratta del domani ed ora ho una certezza.
Oggi è un altro giorno.
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INDICE
Capitolo
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pag. 3
pag. 18
pag. 33
pag. 46
pag. 57
pag. 67
pag. 79
pag. 86
pag. 105
pag. 116
pag. 124
pag. 134
pag. 155
pag. 167
pag. 180