NO OIL - Fulvio Grosso
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NO OIL - Fulvio Grosso
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.” 18.03.1968 Robert Kennedy NO OIL IL PETROLIO È FINITO Romanzo di Fulvio Grosso 1 2 1 Per la nostra famiglia gli ultimi anni erano stati felici e proficui, la carriera di mia moglie all’Università proseguiva senza scossoni, la mia era di tutto rispetto e, dal punto di vista economico, non potevamo proprio lamentarci. I figli, più o meno volenterosi, a scuola se la cavavano senza eccessivi sforzi. Marco aveva cominciato con il basket in una squadra che non aveva grandi velleità, ma francamente preferivo così, a nove anni c’era bisogno di un po’ di competizione per farlo ingranare nella vita di tutti i giorni, ma nello stesso tempo preferivo militasse in una squadra con poche ambizioni di campionato affinché non fosse troppo stressato dall’imperativo di vincere. Certo che quando vincevano era una gran festa e penso fosse giusto così. Giulia, invece, amava il nuoto; lei, sempre così introversa, si trovava a suo agio in una corsia d’acqua in cui doveva preoccuparsi solo della resistenza e del tempo. A dodici anni non amava parlare dei suoi problemi, è vero che probabilmente non ne aveva o forse riusciva a risolverli da sola, fatto sta che non era solita parlare con noi se non raramente con sua madre. Io davo per scontato che una figlia 3 avesse più facilità nel parlare con la madre piuttosto che con il padre e non mi davo troppa pena per questo. I mesi che precedettero quel periodo furono uguali a quelli degli anni prima, nessun segnale, almeno apparente o almeno io non riuscii a vederlo, di quello che stava per accadere. Il mondo girava come sempre e nessuno ci stava preparando. Non riesco comunque ad immaginare cosa si sarebbe potuto fare, come avrebbero dovuto comportarsi i governi, cosa avrebbe potuto fare ogni individuo per scongiurare tutto questo. Eppure sì, si sarebbe potuto provare a risolvere questa situazione prima che esplodesse. Forse questo lo dico ora che so cosa è successo, ma a che serve? Come ogni mattina mi svegliai al suono della radiosveglia. Il giornale radio riportava le notizie del giorno, sempre le stesse da mesi, forse anni. Il governo si barcamenava come faceva da quando si era insediato, spesso veniva evocato lo spauracchio delle elezioni. Ogni volta le promesse degli uni o degli altri aprivano speranze, quasi mai davano certezze. Ora lo so, ma all’epoca sembrava tutto nella norma, nessuno era in grado di risolvere i problemi economici che ci stavano attanagliando e si tentava con giochi di prestigio di far quadrare il cerchio, cosa che come si sa è impossibile. Ci promettevano: la diminuzione delle tasse, l’aumento dei guadagni, lo sviluppo economico, l’aumento del PIL e la diminuzione del debito pubblico, il blocco dei prezzi e l’aumento delle pensioni. Mi alzai, gli occhi pieni di sonno, guardai mia moglie che ancora dormiva, andai in bagno, una doccia, la rasatura e un goccio di dopobarba. Il caffè sul fuoco e ancora la radio che annunciava un nuovo conflitto in una parte della terra che al momento non riuscii ad afferrare. Era così consueto che in qualche parte del 4 mondo qualcuno decidesse di risolvere i problemi con la guerra che ormai non si faceva più caso. I miei figli arrivarono per la colazione. Anche mia moglie si era alzata, così ci sedemmo come ogni mattina guardandoci assonnati parlando del più e del meno; la scuola, sguardo d’intesa tra fratello e sorella, come a dire “che pizza sempre lo stesso argomento”; cosa pensavamo di fare per il fine settimana; era necessario ricordarci di portare il cane dal veterinario. Lo vedo come in una nebbia come se fossi ancora lì insieme a loro. Ho visto e rivisto nella mia mente centinaia di volte la stessa scena. Posso ripetere parola per parola cosa ci dicemmo quel giorno, lo sguardo di ciascuno di loro; quello scocciato dei figli, che si trasforma in una risata di intesa tra i due; quello sardonico di mia moglie che si trasforma in affetto verso di loro. Non potevo vedere il mio sguardo, ma sono certo che fosse sereno. Quando rivedo dentro di me la scena, a volte vedo anche me come in un film, e il mio sguardo è davvero sereno, anche se ad un tratto appare un’ombra sul mio viso. Un attimo, un momento che forse vuole dire, o predire; una consapevolezza che, sono certo, in quel momento non avevo. Finita la colazione, i soliti saluti, le raccomandazioni inutili perché ripetitive, ma che ogni genitore si sente in dovere di esternare almeno per mettersi la coscienza a posto. “Studia, non fare arrabbiare la maestra”, per il maschio; “rispetta i professori”, per la femmina, insomma il solito tran tran. Quel lunedì partivo per la seconda settimana per Vicenza dove tenevo un corso inerente una nuova procedura nella azienda per cui lavoravo. Mi sembrava, allora, apprezzabile questo compito, mi dava la sensazione di essere utile e, sotto sotto, importante. Non era il mio lavoro insegnare, ma 5 siccome quel processo lo avevo sviluppato io nei mesi precedenti, era stato ovvio che fossi io a divulgarlo nelle varie sedi della società. Presi il trolley, mia moglie mi accompagnò alla metropolitana, un bacio di corsa, sul lato della bocca, un’abitudine piuttosto che un vero gesto di affetto. <<Buona giornata>>, io. <<Buona settimana.>>, lei. Anche questo mi è tornato in mente mille volte ed ogni volta ho pensato che avrebbe potuto essere diverso ed ogni volta l’ho immaginato con sfumature sempre differenti. L’Eurostar viaggiava veloce nella pianura padana. In quel momento non mi veniva in mente di quanto eravamo stati improvvidi. Proseguivano i lavori per l’alta velocità, ma proseguivano, come sempre a rilento. I lavori del tunnel per la tratta Torino-Lione erano iniziati tre anni e mezzo prima, ma si erano bloccati dopo il grave fatto che era avvenuto e non erano ancora ricominciati. Si era utilizzata un’enorme quantità di energia per portare avanti quei lavori, e ci si stava chiedendo se era necessaria o almeno utile questa opera faraonica. Quando erano iniziati i lavori ero convinto che quell’opera fosse necessaria per il futuro e per l’economia dell’Italia, poi, quando alcuni fatti erano venuti alla luce, mi ero convinto che il nostro era stato un passo improvvido, senza valutare tutte le implicazioni e conseguenze. Qualcuno, fin dall’inizio, aveva opposto la ragione della visione futura, ma la logica del fare e del business aveva prevalso e quelli che avevano tentato di spiegare la necessità di altre priorità erano stati trattati come Cassandra dai troiani. Ora potrebbero dire: “ve l’avevamo detto”. Sai che soddisfazione. Il treno arrivò con soli ventotto minuti di ritardo, presi un taxi e mi diressi all’albergo. 6 I due giorni seguenti passarono nella solita routine, aula, pausa caffè, ancora aula, pranzo. Tentavo ogni giorno di liberarmi, almeno per pranzo, dei colleghi più insistenti, ma ogni volta mi ritrovavo a pranzare con alcuni di loro. I più giovani erano in grado di fare una vera pausa, e con loro si poteva parlare di un po’ di tutto; musica, anche se i miei e i loro gusti non sempre coincidevano, ma ci si capiva. Quando si entrava nel discorso sport, non c’era verso di parlare di qualche altro argomento che non fosse il calcio. Tutti sono esperti di ogni aspetto del calcio, per me una noia abissale, un gioco in cui stai novanta minuti a guardare qualcuno che è stato pagato cifre strepitose e che, se gli va bene, farà un gol, ma almeno non si parlava di lavoro. Fino a quando uno, sempre uno che aveva più di vent’anni in azienda, cominciava a chiedere il tuo parere su un qualche argomento che sembrava lo interessasse enormemente. In realtà il solito leccaculo che pensava che fosse indispensabile farsi notare da chicchessia, poteva sempre essere utile per la carriera, ma non sapevano che a me proprio non poteva fregarmene di meno. Lo so che la maggior parte dei capi amano questi lecchini, probabilmente perché a loro volta si sono comportati allo stesso modo, ma a me interessavano quelli preparati e capaci, piuttosto che quelli abili nel chiacchiericcio. La sera, dopo una cena in un discreto ristorante, rigorosamente da solo, rientravo nella mia camera e, seduto su una poltroncina, proseguivo nella lettura di un libro. Mi ero portato l’ultimo di Camilleri e non vedevo l’ora di continuare. Il terzo giorno, mercoledì, rientrati dal pranzo osservai dalla finestra uno strano fenomeno, in strada c’era una fila interminabile di auto ferme, il fatto mi incuriosì e così, aprendo la finestra osservammo che la coda era rivolta ad un 7 distributore di benzina, trecento metri più avanti. La faccenda ci stupì e nell’aula cominciò una ridda di ipotesi, naturalmente la più accreditata era un imminente sciopero. Qualcuno alzando la voce disse “è finita la benzina”. Ci fermammo tutti in silenzio guardando nella direzione della voce che si era alzata sopra quella degli altri. Il tizio girò lo schermo di un computer su cui campeggiava la pagina on line di un giornale. L’articolo diceva che le importazioni di petrolio erano sospese, non si conoscevano i motivi, ma si ipotizzava che i pozzi petroliferi fossero in esaurimento, anche se non se ne aveva nessuna certezza. Non riuscimmo, naturalmente, a riprendere il corso, la discussione si fece accesa, ognuno aveva un parere: su quali erano le colpe, su chi ricadeva la responsabilità, su cosa avrebbe comportato l’interruzione momentanea dei rifornimenti. Il mercato avrebbe sanato tutto, era il parere di uno che si dava le arie del competente. Ci sarebbe stata una nuova guerra e questa volta non avrebbe colpito solo il Golfo, aveva ribadito un altro. Quest’ultima affermazione aveva scatenato un nuovo filone di discussione, la guerra sarebbe stata mondiale, ci stavamo apprestando alla terza guerra mondiale era ormai un fatto certo per tutti i partecipanti al corso. La sera, uscendo la coda si era dissipata, pare per esaurimento del carburante, andai in albergo e accesi la televisione; tutti i canali riferivano di una crisi petrolifera. I collegamenti da tutto il mondo parlavano di accaparramenti, di probabile penuria di petrolio proveniente dai paesi produttori. I governi si stavano prodigando per richiedere ai produttori di aumentare l’estratto. Si profilava una crisi come quella degli anni settanta. Andai a cena, mi feci portare solo un primo, avevo poca voglia di mangiare. Telefonai a casa, mia moglie era 8 preoccupata, si chiedeva se potesse succedere qualcosa di grave, risposi che sicuramente non sarebbe successo nulla, era solo una manovra per alzare il prezzo, una solita manovra speculativa, si sarebbe sgonfiata subito. Lo dissi, più per confortare lei, ma qualcosa mi fece venire la bocca amara. Mi chiese di ritornare subito a casa, ma ancora una volta le risposi che dovevo rimanere e che non c’era proprio nulla di cui dovesse preoccuparsi. Che ingenuo, e che fesso. Ci salutammo a disagio, anche se le parole erano quelle di sempre. In aula quel giovedì non riuscimmo a combinare nulla, provavo ad iniziare un argomento, ma nè io nè i colleghi riuscivamo a concentrarci. Passammo la maggior parte del tempo su internet a visionare le notizie che man mano arrivavano. La situazione non sembrava risolversi, sembrava che il flusso di petrolio si fosse interrotto, tutti i governi assicuravano che vi erano riserve sufficienti, ma non dicevano per quanto tempo. Alcuni editorialisti si cimentarono nell’impresa di calcolare quanto petrolio era stoccato nelle nostre riserve e quanto sarebbe durato. Naturalmente prospettavano diversi scenari con diverse tempistiche. I più catastrofici dicevano che se entro un mese non fosse ripreso il normale approvvigionamento il nostro tenore di vita avrebbe potuto subire dei contraccolpi. Dei contraccolpi; dicevano proprio così. A ripensarci dovevamo essere tutti un po’ coglioni, a cominciare da quei soloni che si ammantavano dell’aurea di esperti. Chissà dove sono adesso, mi piacerebbe chiedergli di che cazzo erano esperti. Esercizio inutile ora e senza costrutto. Nel pomeriggio tre dei partecipanti al corso non si presentarono. Non avevano detto niente, non avevano 9 avvisato nessuno, semplicemente non c’erano. Fatti loro, pensai, si giustificheranno con il personale. Verso le 15 e 30 mancò la corrente, che ritornò dopo circa un’ora. Tirammo avanti fino all’ora di uscita. Uno dei partecipanti al corso uscendo mi disse che sarebbe tornato a casa e non ci sarebbe stato il giorno dopo. Telefonai in direzione esprimendo il mio dubbio sul proseguire il corso, non si riusciva a esplicitare la materia, nessuno riusciva a seguire e la testa di ciascuno era altrove. Mi risposero che il corso doveva terminare come previsto il giorno seguente, parlarono di un obbligo contrattuale o qualcosa di simile, tot ore che dovevano essere erogate per contratto. “Erogate” mi avevano detto, ma dove cazzo vivevano quelli, ma si sa quelli del personale vivono su un altro pianeta e sono convinti di parlare con quelli di un pianeta ancora diverso dal nostro. Così mi avviai avvilito verso l’albergo, rimasi seduto sul bordo del letto con lo sguardo fisso sulla televisione che vomitava notizie sempre più allarmanti. Qualcuno arrivava a ipotizzare movimenti di truppe verso gli stati produttori di petrolio. Qualcun altro sosteneva l’esaurimento dei pozzi petroliferi in medio oriente. Le immagini provenienti da una piattaforma oceanica nel Nord Atlantico mostravano il Brent uscire copioso dalla trivella, non si capiva però se le immagini erano recenti o di repertorio; il commento precisava che nel nord si continuava ad estrarre petrolio con la solita intensità. Ancora cena, questa volta mangiai in abbondanza, non mi ero accorto di aver saltato il pranzo nel vortice di discussioni e congetture con i colleghi. Ancora una volta telefonai a casa. Mia moglie chiedeva con insistenza quando sarei tornato a casa, era molto preoccupata e diceva che era meglio se fossi tornato al più presto. 10 Mi accorsi che era veramente angosciata, cercai di calmarla e le promisi che il giorno dopo avrei iniziato il corso come il solito, ma che lo avrei chiuso in mattinata in modo da prendere il treno delle 12 e 20, ci saremmo rivisti la sera. Anche questa telefonata l’ho scolpita nella mia mente, mi ripeto parola per parola quello che ci siamo detti, ripenso soprattutto a quello che non ci siamo detti, ripenso che in casa c’erano i miei figli ed io ho solo aggiunto alla fine “un bacio ai bimbi”. “Un bacio ai bimbi” e non “passami un attimo Giulia” e neppure “fammi parlare con Marco”, ci penso e ci ripenso e non mi dò pace. Quante cose avrei potuto dire se avessi saputo quello che so oggi? Perché non sono partito quando me l’ha chiesto per la prima volta mia moglie? Fanculo all’azienda, ai corsi, agli studenti, ai leccaculo e anche a me che non ho fatto di testa mia. Tornai in albergo, ancora davanti allo schermo televisivo, di leggere nemmeno a parlarne, la stanchezza mi prese di colpo e mi addormentai. Il mattino seguente mi svegliai, guardai l’orologio meccanicamente e di colpo fui sveglio. L’usciere dell’albergo non mi aveva svegliato, erano le 7 e 42 ed ero in ritardo, dovevo ancora sistemare la valigia, lavarmi, vestirmi. Avrei saltato la colazione, ma accidenti perché quel fesso non mi aveva chiamato. Accesi la luce, ma non ottenni risultato, alzai il telefono per dirgliene quattro, ma l’apparecchio era muto. Mi vestii in fretta e uscii per farmi spigare la situazione, se l’impianto elettrico fosse saltato o se ci fosse un black-out o cosa. Scesi le scale, le ascensori non funzionavano, arrivato alla reception trovai un altro cliente dell’hotel che si guardava intorno con fare interrogativo, mi chiese se avevo 11 visto qualcuno dell’albergo. Dopo aver girato un po’ tra ristorante, bar e cucina ci rendemmo conto che non c’era nessuno dello staff. Intanto altri clienti ci avevano raggiunto e ci chiedevano cosa fosse successo, ma noi dicemmo che ne sapevamo quanto loro, semplicemente non c’era più nessuno dell’albergo. Uscii con il trolley alla ricerca di un taxi, mi accorsi quasi subito che non c’era traffico, anzi non c’era nessuna auto in circolazione. Né auto, né taxi, né bus, tutto fermo, solo un furgoncino che sfrecciava a tutta velocità. Non c’era anima viva in giro. Inquietante, pensai. In un lampo decisi che era meglio tornare a casa, così mi diressi a piedi alla stazione. Arrivai dopo circa tre quarti d’ora, incrociai per la strada solo un ciclista, gli chiesi cosa stava succedendo, ma tirò dritto senza rispondere né voltarsi. La stazione era deserta, i tabelloni spenti, nessun treno in movimento. Una cinquantina di persone si aggiravano spaesate trascinandosi dietro i loro bagagli. Tirai fuori il cellulare e telefonai a casa. Questa era la mia intenzione. Il cellulare funzionava, era carico, ma non dava nessun segno. Mi spostai per cercare campo, nulla, pensai, “si vede che in stazione non prende”. Fuori il risultato non cambiò. Un altro uscì con in mano il cellulare, anche il suo non prendeva. Ci guardammo sgomenti, un colpo attirò la nostra attenzione, ci voltammo in direzione opposta alla stazione. Un gruppo nutrito di persone aveva spaccato una vetrina di un supermercato e si stava riversando all’interno, immaginai subito la razzia in corso. Non sapevo cosa fare, mentre le strade che fino a poco prima erano rimaste deserte si riempivano di gente che si dirigeva al supermercato. Più lontano vidi altri spaccare la vetrina di un negozio, dal punto in cui ero non riuscivo a capire cosa si vendeva i quel locale. 12 Ero interdetto, non riuscivo a pensare, non avevo idea di come comportarmi né che direzione prendere. Tornai dentro la stazione per capire se ci fosse la possibilità che prima o poi un treno sarebbe partito, ma dopo alcuni minuti mi rassegnai all’idea che per quel giorno non c’era verso di immaginare un qualunque movimento. Decisi di lasciare il bagaglio in un deposito a gettoni e uscire per farmi un’idea di cosa stesse succedendo. Mi incamminai verso il supermercato, incrociai una signora con un ragazzo a fianco che spingeva un carrello stracolmo di pasta, pelati, olio, zucchero e scatolette di ogni tipo. Chiesi cosa fosse successo, mi disse, senza fermarsi, che non c’era più benzina, non c’era più corrente e nessuna notizia su eventuali rifornimenti e quindi era necessario approvvigionarsi prima che tutto si esaurisse. Una coppia usciva con due carrelli, lui teneva all’orecchio una radiolina. Vide che lo stavo osservando con interesse e scuotendo la testa mi disse che non riusciva a prendere nessuna trasmissione, che nessuno più diceva niente. Entrai nel magazzino che era nella confusione più totale, c’era chi aveva riempito il carrello di detersivo e mi chiedevo a che scopo. Gli scaffali si stavano svuotando rapidamente, a terra dietro ad un cartone trovai una confezione di merendine, la presi pensando che non avevo fatto colazione, mi presi anche un succo di frutta ed uscii. Seduto su una panchina nei giardini di fronte alla stazione cercai di fare il punto della situazione. Ero a centinaia di chilometri da casa, non sapevo quando avrei potuto prendere un treno che mi avrebbe riportato indietro, guardai per l’ennesima volta il cellulare, e lo sconforto mi crollò addosso; non potevo nemmeno mettermi in contatto con i miei. Ero indeciso se spegnere il cellulare per conservare la carica o lasciarlo acceso nell’eventualità che da casa qualcuno 13 potesse chiamarmi. Decisi di lasciarlo acceso sperando che qualcosa sarebbe successo. Intanto era passata quasi tutta la mattinata; mi avviai verso il centro e, man mano che mi inoltravo trovavo gente che andava e veniva con sacchi, carrelli, borse e ogni genere di contenitori. Le auto venivano utilizzate come camion, caricate all’inverosimile, tanto che ci stava solo il guidatore e quelli che lo accompagnavano si sedevano sul cofano. Le vetrine dei negozi erano quasi tutte sfasciate, le serrande divelte, tutti i negozi venivano saccheggiati sistematicamente. Riuscivo a capire chi si portava via generi alimentari, ma incrociavo gente con televisori a cristalli liquidi, altri con computer, uno aveva caricato su un carrello una lavatrice. Passai davanti ad un bar che aveva la serranda a mezza altezza e la porta aperta, infilai la testa dentro e nella penombra un uomo era seduto su una sedia di fronte ad un tavolino su cui era poggiato un fucile da caccia. Dissi <<Salve>> Lui rispose allo stesso modo mentre appoggiava la mano sul fucile. Gli chiesi se aveva qualcosa da mangiare, lui girò leggermente le canne del fucile verso di me. <<Pagando ovviamente>>, aggiunsi. Mi fece cenno di entrare, sempre tenendo la mano sul fucile. Dopo qualche minuto ci eravamo capiti. Aveva visto cosa stava succedendo, pensava che quella follia sarebbe presto terminata, era disposto a lasciar prendere tutto quello che c’era nel bar, ma intendeva preservare l’integrità del locale e quindi stazionava armato all’interno. Contava che tra qualche giorno tutto sarebbe ritornato come prima e gli sembrava stupido farsi distruggere ciò che aveva appena finito di pagare. Neppure lui sapeva cosa era successo se non che tutto si era fermato di colpo. Mangiammo insieme un’insalata di riso, 14 prosciutto e melone e una macedonia, si scusò di non potermi fare un caffè, ma non c’era energia elettrica. Quando andai via non volle essere pagato, mi disse che gli avrebbe fatto piacere rivedermi dopo. Disse solo “dopo” lasciando sottinteso tutto. Tornai ancora una volta alla stazione e la trovai come prima senza nessun movimento di treni e non vi erano nemmeno più persone. Ripresi il mio bagaglio e pensai che sarebbe stato meglio tornare all’albergo. Lo trovai deserto, ripresi la chiave della mia camera dove lasciai la valigia. Tornato al piano terra mi diressi al ristorante, non c’era ovviamente nessuno. Entrai in cucina, nessuno era più stato in quel luogo, dalla sera prima, provai ad accendere il gas, ma dal fornello uscì dopo un primo sbuffo solo aria, così tirai fuori dagli scaffali una scatola di tonno, un barattolo di carciofini, una maionese, dei grissini, due formaggi. Mi presi una bottiglia di vino rosso, la stappai e la portai ad un tavolo insieme al resto e mi feci una cenetta tranquilla. Dopo una mela per frutta mi versai un bicchierino di limoncello. In camera pensai a cosa avrei fatto l’indomani; prendere un treno era la cosa più logica, ma avevo il dubbio che per il giorno dopo la situazione potesse tornare alla normalità. Cercai di figurami le varie opzioni, alla fine presi in considerazione l’idea di tentare in tutti i modi possibili di tornare a Torino, se del caso anche a piedi. Valutai la situazione e presi subito la decisione di prepararmi per il giorno seguente, scesi nella cucina dell’albergo, infilai in un sacchetto quello che ritenevo utile portarmi dietro, avevo paura che nei giorni seguenti avrei fatto fatica a trovare qualcosa da mangiare, quindi presi scatolette varie, sufficienti per almeno sei giorni. Tornato in camera mi resi conto che non avrei potuto viaggiare con un trolley, mi serviva uno zaino. Avevo notato 15 un magazzino di sport verso il centro, sarei andato la mattina seguente dato che non mi sembrava il caso di muovermi di notte. Qualcosa era scattato in me, ero deciso e determinato come non lo ero mai stato in vita mia, a qualunque costo sarei tornato a casa. Mi svegliai all’alba, non avevo ancora realizzato che non potevo farmi la barba con il rasoio elettrico, registrai mentalmente che avrei dovuto trovare un rasoio classico, con la lametta. Quella fu l’ultima volta, per molto tempo, che mi preoccupai del mio aspetto fisico. Guardai per l’ennesima volta il cellulare. Muto. Uscii con la mia valigia e una borsa di plastica, erano le sei e non c’era ancora nessuno in giro, entrai nel negozio di articoli sportivi, come avevo premeditato la sera avanti. Era stato devastato, non avevano portato via tutto, ma tutto era stato scaraventato a terra, le vetrine e le scaffalature interne distrutte. Feci la spesa scegliendo con calma, trovai uno zaino da 60 litri con varie tasche dove misi parte della mia roba. Scambiai il vestito grigio con una giaccavento e un paio di pantaloni di tela, provai un paio di scarponcini che infilai nella tasca inferiore dello zaino. Rimasi un attimo interdetto davanti ad un coltello da scout con una lama lunga circa venti centimetri, poi mi decisi e lo presi. Lo appesi con la fodera in pelle alla cintura, ma guardandomi allo specchio trovai la visione minacciosa, allora optai per infilarlo all’interno dei pantaloni sulla mia destra. In questo modo mi sentivo più sicuro e nello stesso tempo non davo l’impressione di essere una minaccia per gli altri. Tra le scarpe, i cartoni, le giacche e i maglioni, tre biciclette erano a terra una sull’altra. Ci pensai un po’ e poi mi dissi 16 che se non c’erano altri mezzi, quello mi avrebbe riportato a Torino, anche se, lo sapevo, i chilometri, per me, erano un’enormità. Trovai i un cassetto i pedali, li montai, caricai lo zaino sul portapacchi posteriore legandolo con due cinghie e mi avviai all’uscita. 2 Uscito dal magazzino salii in bicicletta e rivolsi lo sguardo verso ovest, la mia meta era centinaia di chilometri più in là. Avevo trentanove anni, una famiglia che amavo, due figli adorabili; il piccolo di nove anni e la sorella di tre anni più grande. Una prospettiva molto seria di carriera, una casa che mi piaceva, di cui avrei dovuto pagare il mutuo ancora per quattro anni, ma era il mio orgoglio, due auto, di cui una vera bomba e avevo la netta sensazione che il mondo fosse crollato con uno schianto impressionante. Mi dissi che era imperativo tornare a casa a qualunque costo, il mio posto era là. Abbandonai gli indugi e mi misi a pedalare. Uscito da Vicenza mi trovai sulla statale, nessun veicolo in movimento, a metà mattinata incrociai un’auto, c’erano quattro persone a bordo ed era carica all’inverosimile. Arrivai al tramonto nei pressi di una cascina, non sapevo di preciso dove mi trovavo, mi accorsi in quel momento che avrei avuto bisogno di una cartina stradale, non tanto per conoscere la direzione, quella era sempre la stessa; sempre ad ovest, con il sole alla mia sinistra e, nel caso, di notte, sulla rotta della “via lattea”. La cartina stradale era indispensabile per evitare lunghi giri intorno a paesi o città. 17 18 Mi avvicinai alla cascina, nell’aia un uomo stava spostando dei sacchi, mi guardò interrogativo. Mi presentai, gli dissi che stavo tornando a casa e gli chiesi se avesse un posto in cui avrei potuto dormire. L’uomo si pulì la mano sulla pettorina dei pantaloni e strinse la mia con forza. Mi invitò in casa; la moglie ed i tre figli si comportarono con amicizia. Sembrava ci conoscessimo da sempre, raccontai di ciò che avevo intenzione di fare, cosa avevo visto in città, della follia che aveva colto tutti nel tentativo di accaparrarsi il più possibile. Ci scambiammo pareri su ciò che sarebbe successo. Ora che so cosa è successo, mi viene da ridere a pensare a quanto eravamo ingenui e soprattutto ottimisti. Non avevano una stanza per gli ospiti, mi lasciarono dormire sul divano che avevano in cucina. Il mattino seguente partii dopo colazione. Volevano offrirmi di tutto, accettai due mele, non potevo caricarmi troppo e poi avevo le mie provviste. Al primo distributore di carburante trovai una cartina e mi fermai qualche minuto per verificare il percorso che avrei dovuto affrontare. Un attimo, molto lungo, di sconforto mi prese nel vedere quanta strada mi aspettava, feci un rapido calcolo e mi dissi che avrei potuto farcela in sette o otto giorni, sperando sempre nel ripristino della normalità ed in un provvidenziale treno, che avrebbe accorciato quel periodo. Nel primo pomeriggio sentii provenire alle mie spalle un rumore di motore, mi fermai sul ciglio della strada. Un camioncino stava procedendo a bassa velocità, quando fu nei pressi feci un cenno, l’autista si fermò e tirò giù il finestrino. Chiesi se potevano darmi un passaggio, mi dissero di si, a patto che riuscissi a trovare un posto sul cassone posteriore. In cabina c’erano quattro persone, due adulti e due ragazzi, 19 nel cassone, in mezzo ad una miriade di cose c’era un altro ragazzo. Viaggiammo per circa un’ora e mezza, poi il veicolo prese una stradina sterrata, e dopo un paio di chilometri si fermò nel cortile di una cascina. Anche questa famiglia mi ospitò anche se il padrone di casa mi disse che mi avrebbe permesso di dormire in una stanza al pian terreno a patto che accettassi il fatto di essere chiuso dentro. Capii le loro preoccupazioni ed accettai, ma quando sentii la chiave serrare la porta ebbi un attimo di timore e per riflesso mi barricai all’interno appoggiando una sedia alla maniglia. Ancora una volta mi misi in viaggio di buon ora, mi ero fatto una specie di scaletta di percorrenza e contavo in serata di arrivare almeno fino nei pressi di Milano, sempre che non avessi trovato un altro passaggio che mi avrebbe permesso di accorciare le distanze con un minimo dispendio di energie. Dopo un paio d’ore che pedalavo, su una strada ombreggiata da una fila di alberi, ad un tratto fui scaraventato a terra, mi ritrovai disteso sull’asfalto con un forte dolore al ginocchio destro, non riuscivo a capacitarmi di cosa potesse essere successo. Mentre mi rialzavo dolorante vidi lo zaino che era ruzzolato dietro di me. Sullo zaino c’era un ragazzo sui vent’anni, stava tentando di aprirlo. Girandomi verso la bicicletta ne vidi un altro che la stava tirando su. Capii, in quel momento, cosa stava accadendo. Mi avevano spinto a terra per rubarmi tutto quello che avevo. Mi alzai e senza pensare estrassi il coltello, quello più vicino, che si occupava dello zaino, fece un balzo indietro. Evidentemente non si aspettava una reazione. Il ragazzo si alzò a sua volta e, gridando, incitò l’amico a fuggire con la bicicletta. Non riuscii ad impedirglielo, ma almeno avevo salvato lo zaino. 20 Ci misi un po’ di tempo a riprendermi, dallo spavento e dalla botta. Tutte le mie previsioni andavano a farsi fottere, il tempo calcolato per il ritorno non era più certo. E quante cose, da quel momento, perdettero la certezza. Ero sconsolato. Possibile che fossimo già arrivati al banditismo? Per che cosa poi. Una bicicletta e qualche scatoletta di tonno. Mi rimisi in cammino a testa bassa come un cane bastonato. Ogni tanto scuotevo la testa, sussultavo quando sentivo muovere le fronde di un ramo. Presi un grosso bastone che tenni come fosse una clava, ben in vista. La mia vita era cambiata nel giro di pochi giorni, la mia e quella di molti altri. Scoprii poi che la vita di tutti era cambiata ed era cambiata in un modo che non avremmo mai neanche immaginato. Arrivai in vista di una cascina, mi avvicinai, ma a circa cinquanta metri di distanza vidi uscire un uomo con un fucile e due giovani, uno armato di forcone, l’altro di roncola. Mi gridò di stare alla larga, dissi che non avevo cattive intenzioni. La risposta fu chiara, se non avevo cattive intenzioni allora potevo andare per la mia strada senza avvicinarmi ulteriormente. Capii il messaggio e proseguii. Il sole era ormai tramontato e si stava scurendo sempre più, vidi sulla strada un distributore di benzina con annesso un piccolo bar. Era stato devastato, ma era aperto e pensai di passare lì la notte. Fu una notte senza sonno, faceva freddo, per la prima volta ero impaurito, con l’umore a terra e presentimenti nefasti. Mi addormentai senza accorgermene dopo aver mangiato quello che avevo con me. Avevo però trovato una confezione di pan-carrè che evidentemente era sfuggita ai razziatori che erano passati prima di me. 21 Il freddo mi svegliò prima dell’alba, mi rimisi in piedi e mi avviai. L’umore non era dei migliori, ma mi ripromisi di non farmi prendere dallo sconforto. Ho fatto questo proposito decine di volte, “non farti prendere dallo sconforto” l’ho ripetuto e ripetuto, non sempre ci sono riuscito. Ora non ho neppure più la forza di ripetermelo. Nei tre giorni successivi camminai badando bene a chi incontravo. La diffidenza si stava facendo sempre più pressante. Ci si parlava da lontano, qualcuno ostentava delle armi, altri appena li chiamavi fuggivano senza voltarsi. Passai al largo dai grandi centri, immaginavo che dove c’era più gente ci sarebbe stata anche più disperazione. Nessuno mi ospitò per la notte, riuscii a dormire in un capanno per gli attrezzi e in una casa del casellante lungo la ferrovia. Passando nei pressi di un centro commerciale, mi fermai, era ovviamente devastato, entrai, cercavo qualcosa di preciso; se cercavi qualcosa che non era cibo avevi la buona probabilità di trovarlo e lo trovai, un sacco a pelo che mi permettesse di dormire senza patire il freddo che avevo avuto nelle notti precedenti. La mattina del quarto giorno vidi in lontananza grosse volute di fumo, si trattava sicuramente di un incendio. Guardando la cartina mi resi conto che il fumo era in direzione di Milano. Camminai tutto il giorno sempre con lo sguardo rivolto al fumo che sempre più si ingrandiva. Erano ormai le 18 e 30 e mi avvicinai ad una grande cascina, aveva un grande muro di cinta che cingeva un grande cortile. Il portone massiccio di legno era chiuso. Quando fui nei pressi da sopra il muro un tale mi chiese cosa volevo. Dissi che ero diretto a Torino e cercavo solo un 22 posto per dormire. Non ottenni risposta, ma dopo un minuto il portone si aprì quel tanto per farmi passare. Ebbi un attimo di esitazione, poi mi dissi che quel poco che mi era rimasto da mangiare non poteva essere motivo per un’aggressione, al limite lo avrei dato spontaneamente. Mi perquisirono, trovarono il coltello, ma me lo ridiedero subito e poi mi fecero entrare. All’interno, dalla parte opposta, una casa principale a due piani teneva tutta la lunghezza del muro, ai lati del portone due porticati aperti con in fondo costruzioni che immaginai stalle. Entrato nel cortile mi venne incontro un uomo sui sessant’anni con capelli grigi, pelle abbronzata e fisico asciutto. Mi tese la mano e si presentò, Giorgio Accardi, mi spiegò che stava tentando di organizzare una comunità, avevano preso molte derrate in un grande supermercato, avevano una decina di mucche, molte galline e conigli ed avevano viveri per oltre sei mesi. Contava di coltivare i campi e pian piano riprendere una vita il più possibile normale. Lo guardai incredulo, gli prospettai i miei sentimenti. Sollevando un sopraciglio mi disse con calma, <<Non ti sei accorto di cosa è successo? La vita che conoscevi prima non esiste più. Il mondo che conoscevamo è collassato, ora dobbiamo pensare ad un nuovo ordine ed ad un nuovo mondo. Sarà dura, i prossimi mesi saranno duri e cruciali. Chi sopravivrà il primo anno potrà pensare al futuro.>> Rimasi a bocca aperta. Come sopravvivere? Cosa vuol dire che il mondo è collassato? Perché non può tornare tutto come prima? E mia moglie? I miei figli? Che ne sarà di loro? 23 Mi guardò compassionevole, poi scosse la testa, e mi disse che potevo dormire lì quella notte. Mi invitarono anche a cena che fu servita in un grande stanzone dove erano stati preparati due grandi tavoli. Cerano circa cinquanta tra uomini e donne, quasi tutti giovani. L’atmosfera era buona, ma c’era un po’ un’aria da caserma, questa impressione fu maggiormente avvalorata quando vidi entrare due uomini armati, che appoggiarono due fucili mitragliatori ad una rastrelliera prima di sedersi a tavola. Dopo cena chiacchierai con un ragazzo, Luigi, era lì con la sua ragazza Agnese. Una biondina slavata, magrolina e simpatica. Dormii in una stanza al primo piano della costruzione principale insieme ad altri due uomini. Avevo dormito veramente bene, su un letto vero, come non mi succedeva da giorni. Per una notte potevo sentirmi tranquillo e non più solo in mezzo al nulla e nessuno. Fui svegliato all’improvviso dal suono di una specie di campana. Un suono metallico, insistente. Vidi i due in stanza con me alzarsi di colpo e vestirsi nell’agitazione. Li guardai stranito, mentre rimanevo tra le coperte. Erano le cinque e non era ancora del tutto chiaro, avevo intenzione di partire per le sette. Uno dei due mi guardò e poi mi disse di muovermi. Mi alzai assonnato pensando di prendermela comoda. Vidi dalla porta aperta che stavano tutti correndo presi dal parossismo. Passò di corsa Luigi che vedendomi si fermò. <<Andiamo, muoviti, ci stanno attaccando.>>, e corse via. Ci stanno attaccando? Chi ci attacca? Cosa sta succedendo? Corsi anch’io in cortile, tutti gli uomini e le donne stavano correndo, tutti armati, fucili, mitra e pistole. Cercai Luigi era insieme alla sua ragazza, stava armeggiando con un fucile, mi avvicinai. Una voce in mezzo al cortile gridò. <<Luigi, dagli un arma e portalo con te.>> 24 Era Accardi che impartiva ordini a destra e a manca, e in quel caso si stava riferendo a me. <<Si signor Generale.>>, rispose Luigi. Mi voltai verso di lui, riflettendo su quel termine “Generale”, ma non ebbi tempo di fare domande. <<Sai come si usa?>>, mi chiese Luigi porgendomi una pistola. Naturalmente risposi di no. Mi fece un corso accelerato di come si carica, di come si mette il colpo in canna, di come si mette e toglie la sicura. Poi corremmo su un impalcatura all’interno del porticato sul lato del portone principale. Un centinaio di persone si trovavano a circa cento metri dal portone. Alcuni erano armati di fucili altri di forconi e bastoni. Fecero qualche passo verso di noi, ma si fermarono di colpo appena una raffica di mitra si stampò a pochi metri dai loro piedi sollevando un gran polverone. Si acquattarono nel punto in cui si trovavano. Spararono alcuni colpi di fucile verso di noi, colpi che centrarono il muro di cinta. Dalla nostra parte non vi fu nessuna reazione. Era mia intenzione uscirmene al più presto per proseguire verso Torino, ma mi informarono che la cascina era circondata e non c’era alcuna possibilità di andarsene. Un altro intoppo, pensai. Mi resi conto che la difesa di quella cascina era stata preparata con cura. Il Generale si spostava per tutto il perimetro interno controllando ogni postazione, annuendo con taluni, precisando e modificando con altri. Per quel giorno non vi fu nessun altro tentativo da parte degli aggressori. Furono stabiliti turni di guardia che coprivano tutto l’arco delle 24 ore, io fui assegnato al turno con Luigi e la sua ragazza. 25 Durante la notte ci fu un tentativo più per saggiare le difese che altro, spararono da tutti i lati cercando di colpire le porte e le finestre. Però questa volta l’ordine era stato preciso, non si sparava più per avvertire, ma per colpire, non so se quella notte vi furono vittime o feriti, dalla nostra parte nessuno. Il mattino seguente il numero degli aggressori era aumentato, tentarono un attacco frontale, ma era fin troppo evidente che si trattava di un diversivo. Sparavano senza avanzare, rimanendo al riparo dei fossati a discreta distanza. L’attacco vero e proprio fu portato sul lato destro, lato in cui si apriva un portoncino di servizio. La porta era stata sprangata e rinforzata. Il Generale aveva intuito che avrebbero tentato da quella parte, così aveva spostato parte dei difensori lungo il muro destro. Quando gli attaccanti furono ad una cinquantina di metri si sentirono sicuri dal fatto che nessuno stava sparando loro addosso, il frastuono proveniva tutto dal fronte della cascina, si alzarono di scatto e si misero a correre verso la porta, ma fatta una decina di metri si sentì distintamente un voce imperiosa gridare: <<Fuoco>> Fu una carneficina. Gli attaccanti non ebbero scampo, qualcuno riuscì a fuggire, ma la maggior parte rimase sul terreno. Io ero al mio posto sempre sul davanti e non partecipai, fortunatamente, a quella mattanza. Era scoppiata la guerra. Si trattava della terza guerra mondiale, di cui avevo discusso con i miei allievi a Vicenza? Gli aggressori rimasero due giorni senza fare altri tentativi. Il quinto giorno cominciarono presto, a sparare da tutte le direzioni, andarono avanti ore, senza mai smettere. Il Generale aveva dato ordine di non rispondere al fuoco. Un uomo si spostava da una postazione all’altra, aveva una carabina con sopra innestato un cannocchiale, si sistemava 26 sdraiato, puntava il fucile, prendeva la mira e poi sparava. Un colpo solo. Poi si rialzava e con lo sguardo scuro in volto si spostava da un’altra parte. Mi fece venire la pelle d’oca quando si accucciò vicino a me, mi guardò con un’espressione triste, e chiudendo gli occhi scosse semplicemente la testa, poi senza più prestarmi la minima attenzione si apprestò a fare il suo sporco lavoro, sparò, ancora una volta un colpo solo e poi si disinteressò di ciò che succedeva là dove aveva mirato, si rialzò e svanì. Tutta la giornata andò avanti così, e proseguì anche la notte, anche se con minor intensità. Si faceva fatica a riposare con quel continuo martellamento. Andarono avanti per due giorni, senza mai smettere. Nessuno dei nostri fu ferito. Il nostro cecchino invece colpiva con una meticolosità maniacale, un tiro ogni sei sette minuti. Un colpo un uomo, ma dall’altra erano sempre più numerosi. Erano ormai passati otto giorni, all’alba del nono, sotto il continuo crepitio di fucili e pistole al quale avevamo quasi fatto l’abitudine, si udì una forte esplosione, una enorme nuvola di fumo si levava dal muro posto sul fronte, dalla parte opposta in cui eravamo appostati io Luigi e Agnese. Dopo quell’enorme tuono ci fu un minuto di assoluto silenzio. Mentre il fumo diradava si udì una voce che, prima mestamente, poi più forte, disse più volte. <<Il Generale è morto.>> E lo diceva con sgomento. Quando il fumo si ridusse vedemmo che il muro presentava una breccia larga circa due metri. Qualcuno disse che avevano un bazooka. In quel momento si udì un ruggito bestiale giungere dalle fila degli aggressori, due o trecento persone stavano correndo e urlando alla volta della breccia. Partì una raffica 27 furiosa dai difensori che falciò la prima fila, ma dopo un attimo di esitazione, anche se con un po’ più di cautela l’avanzata riprese. Vidi qualcuno correre verso la porta laterale nel tentativo di fuggire a quell’orda affamata. Dopo aver guardato verso gli aggressori e aver scaricato il suo fucile mitragliatore, Luigi si voltò, prese per mano Agnese e poi disse a me. <<Seguici>> Corremmo verso il refettorio, dove avevamo sistemato anche le brande, perché più sicuro e dove c’erano i nostri zaini. Mi fece segno di prendere lo zaino, poi, sempre di corsa, ci infilammo in uno stretto corridoio, arrivando ad una scala che scendeva sotto il livello del suolo. Non mi ero mai avventurato in quella parte della cascina. Una porta dava su uno scantinato non troppo vasto. Luigi mi buttò un tascapane che era appeso al muro, lui si mise a riempire il suo con viveri che erano stati stoccati in quel locale, lo stesso fece la ragazza. In un attimo furono pieni ed il ragazzo ci incitò a seguirlo. Arrivati in fondo al locale non vi era via d’uscita. Luigi prese uno scalotto che era adagiato a terra, lo appoggiò alla parete di fondo, salì ed aprì di pochi centimetri il battente di una botola che a prima vista non si notava. Guardò su e intorno poi spalancando salì in superficie, tenendosi sdraiato nell’erba. Ci incitò a bassa voce. Uscimmo a ridosso del muro di cinta sul retro della casa. Corremmo acquattati passando dentro ad un fosso con poca acqua. Ad un tratto sentimmo urlare e subito dopo una serie di esplosioni e colpi che facevano schizzare l’acqua e la terra intorno a noi. Avevamo superato gli assedianti. Ci avevano visto e ci stavano sparando. I due ragazzi si girarono e mentre correvano spararono una raffica di mitra. Anch’io mi girai, 28 ma nella foga del momento premetti il grilletto della pistola senza togliere la sicura. Comunque quasi subito smisero di sparare, erano più interessati ad entrare al più presto nella cascina che a far fuori tre fuggiaschi. Non ci colpirono, o almeno così pensavo. Mi accorsi solo a sera che un proiettile aveva centrato lo zaino, mi aveva forato una camicia, mutande e un paio di calze, fermandosi contro il tubetto del dentifricio. Ci fermammo quando le gambe e il fiato ci obbligarono alla sosta. Avevamo messo tra noi e la cascina più di un chilometro, ma ancora per molto tempo sentimmo sparare. Non posso immaginare cosa sia successo. Rimanemmo insieme sino a sera, quando trovammo rifugio dentro ad un vagone fermo sulla ferrovia. Dormimmo a turno in uno scompartimento, mentre uno rimaneva di guardia. Il mattino successivo i due ragazzi mi dissero che avrebbero cercato di aggirare Milano per andare in un paesino dove avrebbero tentato di rintracciare i genitori di lei. Ci abbracciammo commossi e prendemmo direzioni opposte. Avevo assistito ad una battaglia, anzi ne ero stato protagonista anche se non avevo sparato un colpo, il mondo ormai era popolato di lupi e se si voleva salvare la pelle bisognava diventare lupi, ma proprio non me la sentivo e lo sconforto mi prendeva ogni volta che pensavo a casa. Impiegai ancora quattro giorni per arrivare in vista di Torino. Avevo dovuto allungare più volte il tragitto per aggirare qualche agglomerato urbano, l’unico centro che non avevo potuto superare senza attraversarlo era stato Chivasso, la città era troppo grande e passarle all’esterno mi avrebbe fatto allungare troppo. 29 Arrivato quasi in centro mi portai su una strada interna, parallela alla via centrale. Camminavo rasente i muri per paura di ogni cosa. Ad un tratto, stavo per attraversare un incrocio quando delle voci, provenienti dalla via che intendevo superare mi bloccarono. Sbirciai dietro l’angolo facendo attenzione a non farmi scorgere. Due uomini con il fucile in mano stavano parlando con una donna che portava un piccolo fardello su una spalla. <<Cosa abbiamo dentro quel sacchetto bella signora?>> Chiese uno dei due. <<Lasciatemi andare>>, rispose la donna spaventata. <<Ho solo poco cibo da dare ai miei bambini, vi prego.>> I due figuri si misero a ridere e, con fare canzonatorio, la incalzarono. <<Dai cosa vuoi che sia quello che hai, tanto non ti servirà.>> E ancora una volta scoppiarono in una agghiacciante risata. <<Ma se non porto queste cose a casa io e i miei figli moriremo di fame. E’ l’unico cibo che sono riuscita a trovare.>> Implorava la donna. Dopo un’altra risata uno dei due le si avvicinò. <<No ti sbagli, tu non morirai di fame.>> La donna lo guardò con terrore e, togliendosi il piccolo sacco dalla spalla, lo sporse verso l’uomo che la stava incalzando. L’altro sempre sogghignando prese il sacco e aggiunse. <<Tu non puoi morire di fame, perché sei gia morta.>> E nel pronunciare quelle parole le sparò nel petto. A quella vista mi voltai dalla parte opposta appoggiandomi al muro per paura di cadere e tenendomi una mano sulla bocca per evitare di vomitare. Mentre ero appoggiato al muro sentii i due fare commenti sulla donna, uno diceva che avrebbero potuto divertirsi con quella, prima di ucciderla. 30 L’altro prometteva che la volta prossima avrebbero approfittato. Non era possibile che ci fossero uomini che potessero comportarsi in quel modo, eppure lo avevo appena visto, era lì davanti ai miei occhi. Quell’orrore era reale ed era lì, in quel luogo, in quel tempo. Temetti ad un tratto che i due prendessero per la mia direzione. Guardai, facendo ancora più attenzione a non farmi scoprire, verso quel luogo infausto. I due assassini stavano guardando nel fardello il loro misero bottino, quando una voce si levò forte nella via. <<Voi due state fermi, alzate le mani e giratevi verso il muro. Non provate a toccare i fucili.>> Questo suono proveniva dalla finestra di una casa, proprio di fronte a dove i due avevano compiuto il loro omicidio. <<Teneteli sotto tiro mentre io vedo chi sono>>, continuò la voce, evidentemente rivolta a qualche suo sodale. Dopo poco un giovane sui trent’anni si presentò in strada, mentre i due tenevano le mani alzate e si guardavano alle spalle per capire da dove veniva il pericolo. Anche questo terzo individuo era armato, raggiunse i due tenendoli sotto tiro. <<Senti, possiamo fare a metà. Dividiamo tutto e ognuno per la sua strada.>> Disse lo sparatore cercando di girarsi e di abbassare le mani, che però tirò immediatamente su quando vide il gesto dell’altro che alzava il fucile minaccioso. <<Perché dovremmo dividere con voi qualcosa che non è nemmeno vostro.>> E lo disse mentre guardava, piegando la testa da una parte, il povero corpo martoriato della donna, steso sull’asfalto. <<Va bene prenditelo e amici come prima.>> Grugni scocciato il primo. <<Penso che farò così.>> 31 E senza dire altro, e senza spostarsi di un passo, sparò due colpi di seguito, uccidendo i due colpendoli alla schiena. Rimasi ancora fermo, in attesa, mi aspettavo di vedere uscire altri uomini che dovevano essere nascosti, ma nessuno si fece avanti. L’uomo si chinò a recuperare la causa di quel massacro, guadò il povero corpo della donna scuotendo la testa e poi se ne andò. L’unica cosa che mi venne in mente fu quella di chiedermi: ma che razza di bestie siamo? Ma dov’era “l’umanità” tanto decantata? Dov’era finita la pietà? Dove si erano nascosti gli uomini giusti? Tutto ciò mi terrorizzò, non avevo un gran chè, ma sapevo che quel poco sarebbe bastato a farmi uccidere. Ormai era chiaro che chiunque poteva essere un potenziale pericolo. Ero comunque armato, avevo una pistola che non sapevo come usare, ma almeno potevo tentare di difendermi. 32 3 La Mole Antonelliana si vedeva da lontano, la tenevo come punto di riferimento, l’altro riferimento l’avevo nel grattacielo di Porta Susa. Era stato appena ultimato, ma era già inconfondibile, non potevo sbagliarmi. Entrai in città da est, subito osservai la devastazione che doveva essere stata perpetrata nella settimana precedente, tutte le saracinesche dei negozi erano sventrate, macerie, mobili e suppellettili scaraventati dai balconi. Nessuno in giro; dentro ad un supermercato scorsi un corpo, non mi fermai, ne vidi altri in vari luoghi. Trovai in un androne una bicicletta. Non mi feci scrupoli, la presi e nel giro di mezz’ora ero davanti a casa mia. Non sapevo cosa aspettarmi, sapevo per certo che non poteva esserci nessuno, ma mi chiedevo se avrei trovato qualche indizio che mi avrebbe permesso di scoprire dove si fossero rifugiati. Salii le scale, passando tra porte divelte e mobili distrutti, in alcuni appartamenti si notavano i segni di un incendio. La porta di casa era stata scardinata, entrai, non c’era più nulla al suo posto, tutto era stato scaraventato a terra ed era a pezzi, evidentemente avevano cercato ovunque qualcosa da mangiare. Solo la libreria era rimasta in piedi, ma i libri erano tutti rovinati a terra. 33 Mi aggirai senza trovare nulla che mi desse qualche idea di dove potessero essere finiti i miei famigliari. Dove potevano essere? Dovevo assolutamente sapere. Si era ormai fatto tardi, così decisi di rimanere per la notte. Accostai la porta e spostai la credenza perché la tenesse in posizione, poi sistemai come potevo il letto. Mi erano rimaste due scatolette di carne ed una di frutta sciroppata, mangiai e mi misi a letto. Ero arrivato troppo tardi, ed ora non sapevo cosa pensare. Non potevo immaginare cosa potesse essere accaduto, cercavo di convincermi che non era accaduto niente, che i miei si erano arrangiati e si erano rifugiati in un luogo sicuro, ma i pensieri erano tra i più nefasti. La città era completamente devastata e da quello che si poteva vedere si erano scannati gli uni con gli altri per accaparrarsi quei pochi viveri che si potevano reperire in giro. Avevano sicuramente cominciato con assaltare i supermercati e i magazzini, poi i negozi, poi erano passati agli alloggi. Finite le scorte si erano certamente spostati verso la campagna alla ricerca di cibo, non poteva che essere una guerra di morti di fame, i più duri potevano sperare di sopravvivere, gli altri erano destinati a soccombere, uccisi da chi li derubava o morti di stenti, comunque sarebbe stata una mattanza. In questo panorama e in quel mondo si erano mossi i miei figli e mia moglie, i brividi mi prendevano al solo pensiero. Pensai al Generale, aveva ragione, chi sopravviveva al primo anno avrebbe avuto qualche speranza, ma certamente sarebbero morte milioni di persone. Dormii a spizzichi, consapevole che sarebbe stata l’ultima volta che mi sarebbe capitato di rimanere in quella casa. L’avevamo voluta fortemente, ci era piaciuta sin da subito 34 con quello strano ingresso che sembrava quasi un vestibolo, il salotto con il balcone finestra con i serramenti bianchi, le camere ben dimensionate e, soprattutto la grande cucina in cui potevamo pranzare comodamente con gli amici. Ci eravamo indebitati, ma quel sacrificio non ci pesava, avevamo quello che desideravamo. Ed ora tutto questo doveva essere abbandonato e non sapevo neppure perché. Non avevano lasciato alcun indizio, ne ero certo, lo avevo cercato in ogni angolo della casa, o meglio, se c’era un indizio di dove fossero andati era sparito nella confusione della devastazione. Il mattino seguente decisi che sarei andato a vedere cosa ne era della casa dei miei genitori, scesi le scale e ad un tratto sussultai. <<Fasto! Andrea Fasto!>>, mi sentii chiamare. Riconobbi la voce del signor Borsi del terzo piano, la porta si aprì. Non avevo notato, salendo, che era l’unica che in qualche modo era stata chiusa. Mi guardò sorridendo da dietro la porta. Mi fece entrare, aveva sistemato come poteva ed era rimasto in casa da solo. Mi spiegò che si era nascosto in un anfratto del solaio, si era portato dietro tutto ciò che aveva, ed intendeva dire i viveri, ed aveva atteso che tutto si fosse calmato. Mi disse che prima che si scatenasse tutto quel putiferio tutti gli inquilini avevano preso la decisione di andarsene. Mia moglie era passata a salutarlo. <<Mi chiese se volevo andare con loro. Sua moglie è sempre stata gentile.>>, disse con un mezzo sorriso. <<Le ho risposto “Dove vuole che vada con questa gamba”.>> Zoppicava da sempre e si appoggiava ad un bastone per sostenersi. Da giovane aveva avuto un brutto incidente d’auto, era rimasto in coma per diverso tempo, ma, come diceva lui, se l’era cavata cedendo solo una gamba. 35 Aveva ringraziato e li aveva visti andare via, ognuno con uno zaino sulle spalle, insieme ad altre due famiglie del palazzo. Mi disse che mia moglie accennò che sarebbero andati verso “giù”, nient’altro, anche perché gli altri le stavano mettendo fretta. Era successo otto giorni fa. Il giorno successivo un orda di affamati si era riversato nelle strade alla ricerca di tutto ciò che poteva servire, contendendosi a suon di bastonate, di colpi di pistola, fucile, colpendo e uccidendo per accaparrarsi quel poco che era rimasto. Alla fine di quella giornata e della mattanza che ne era scaturita tutto era tornato tranquillo, da quel giorno Borsi aveva sentito solo qualche rumore, ma non aveva più visto nessuno. Sarebbe comunque rimasto in quella casa fin che non fosse rimasto senza viveri, e mi fece capire che ne aveva ancora per circa dieci giorni. Gli chiesi cosa avrebbe fatto poi. Alzò le spalle atteggiando il viso ad un sorriso che voleva essere malizioso, ma che trovai terrificante. Ci salutammo con calore, lui mi augurò buona fortuna, io non seppi cosa dire. Uscii, ritrovai la bicicletta che avevo lasciato al pian terreno, in un quarto d’ora arrivai a casa dei miei, attraversando una città spettrale, punteggiata da cadaveri e macerie. Salii le scale e arrivato al quarto trovai ciò che mi aspettavo e che era la norma ormai in quella città, l’alloggio devastato, tutto a terra, tutto rotto. Raccattai da terra due foto, una di noi quattro, io, mia moglie e i miei due figli, che i miei genitori tenevano sulla libreria in salotto; nella seconda c’era proprio tutta la famiglia, noi con loro due, il giorno del loro anniversario di matrimonio. Le guardai a lungo, cosa che ho fatto spesso nei mesi seguenti, mi salirono le lacrime agli occhi, e così le misi subito nella tasca esterna dello zaino. 36 Solo in quel momento mi accorsi che non avevo il portafoglio, non ricordavo di averlo perso o lasciato da qualche parte, semplicemente era un accessorio che non serviva più, e mi venne alla mente che il denaro non aveva più alcun valore. Mentre facevo queste ed altre considerazioni mi venne in mente, come un flash, di un particolare della vita di mio padre che fino ad allora avevo considerato come una stranezza o una piccola follia e quasi me ne ero dimenticato. Era ormai, qualche anno, cioè da quando si era trasferito in quella casa, che mio padre aveva un piccolo ripostiglio segreto in cantina. A dire la verità gli era venuto in mente guardando la conformazione della cantina; su un lato vi era una rientranza non più larga di 40 centimetri alta fino al soffitto. Mio padre aveva sistemato davanti a questa rientranza un armadio e aveva ricavato una porta nascosta nel fondo. Periodicamente sistemava in questo vano generi che lui chiamava “di prima necessità”, cibarie soprattutto. Mia madre lo prendeva in giro e diceva che era un po’ paranoico, mio padre si difendeva sostenendo che quel ripostiglio era un posto come un altro per tenerci della roba che poi sarebbe servita. Scesi, con una certa apprensione fino alle cantine. Ormai anche per me il problema cibo era sicuramente al primo posto nei miei pensieri, e l’idea che nessuno avesse scoperto il nascondiglio di mio padre mi fece fare con una certa precipitazione quelle rampe di scala. Ovviamente la porta era aperta, non scardinata, ed era l’unica, la cosa mi stupì non poco, la cantina era sottosopra come tutte quelle precedenti, l’armadio era aperto, il cuore mi venne in gola. L’armadio era aperto, tutto quello che conteneva era riversato sul pavimento, ma la parete di fondo era intatta, appoggiai la mano dove sapevo che avrei trovato la piccola 37 leva che apriva lo scrigno. La parete si girò senza sforzo, dietro il pannello c’erano: pacchi di pasta, biscotti, latte, scatolette varie e una busta. Tesi l’orecchio per sentire se si avvertivano rumori, nulla. Presi la roba dal buco e la infilai nello zaino, da cui estrassi indumenti che mi sembravano meno importanti e che lasciai lì. Guardai la busta vidi che dentro c’era una lettera, la infilai in tasca ed uscii. Ora capivo perché la porta della cantina era aperta, mio padre era stato certamente in quel luogo ed aveva lasciato apposta la porta aperta e forse aveva messo lui tutto all’aria, affinché chi fosse entrato dopo avrebbe percepito che non era il primo e che non avrebbe trovato più nulla e a maggior ragione non si sarebbe accanito in quel buco, ma sarebbe proseguito a quello successivo. Grandioso pensai e lo benedissi in cuor mio. Quando arrivai all’esterno non trovai più la bicicletta, mi allarmai, presi immediatamente la pistola in mano e guardandomi intorno, costeggiando i caseggiati, mi diressi verso la periferia della città. Ero confuso e non avevo un piano preciso, dovevo prima trovare un mezzo di locomozione, poi capire cosa mi conveniva fare. Mi ricordai di un ciclista a qualche isolato da quella casa, avevo portato una volta una bicicletta a riparare, mi aveva fatto notare che se compravo le biciclette nei supermercati per forza si rompevano e lo diceva con aria di sufficienza. Non mi era simpatico, ma in quel momento il suo negozio mi forniva una bicicletta, evidentemente vecchia, ma a prima vista funzionante; probabilmente era stata portata a riparare, ed era ciò che mi serviva. Saltato sul mezzo mi diressi velocemente verso sud. Dopo circa un’ora, appurato che nessuno mi seguiva, mi fermai ed entrai nel portoncino sfondato di una casa, salii 38 fino al primo piano, portandomi dietro, con non poca fatica, la bicicletta, mi sedetti su un divano e tirai fuori la lettera. Mio padre mi diceva che avevano deciso di lasciare la città insieme ai loro amici, sarebbero andati in campagna, non scriveva dove, ma io sapevo, lui ne era certo. Aggiungeva che avevano visto il giorno precedente la mia famiglia, ma che la situazione era precipitata e non sapeva più nulla di loro, mi incitava a cercare mia moglie e i miei figli e a non pensare a loro. Chiudeva augurandomi da parte sua e della mamma ogni bene, poi aggiungeva “scusa, ma abbiamo preso noi alcuni viveri.”. Mi chiedeva scusa, io che lo avrei baciato per quello che mi aveva lasciato, io che lo avrei baciato per la certezza che aveva e per la sua lungimiranza. Ho ripensato a lui e a mia madre tante di quelle volte, chissà se ce l’hanno fatta. Loro che avevano fatto una vita di sacrifici per farmi studiare, senza mai un giorno di ferie, senza un di più per loro. Mi resi conto in quel momento che non avrei più potuto ringraziarli e, cosa che mi angustiò maggiormente era che non lo avevo neppure mai fatto prima e me ne pentii amaramente. Pensai e ripensai a dove poteva essere andata mia moglie, aveva detto “giù” al nostro vicino di casa. Lei era pugliese, possibile che avesse l’intenzione di andare dai suoi? Tutto era possibile ed era anche plausibile. Poi mi venne in mente che “giù” poteva anche essere la nostra casetta nell’entroterra ligure. Anche questa poteva essere una scelta intelligente. Dovevo prendere una decisione, e anche subito, avevo un ritardo di otto giorni, ormai nove, da quando erano partiti. Puglia o Liguria. Più di mille chilometri o meno di duecento. Avevamo un piccola casetta nelle vicinanze di Dolceacqua sopra Ventimiglia, aveva un senso andarci, c’era un piccolo 39 terreno su cui si poteva coltivare un orto, sarebbe stato importante nei mesi successivi. Non sarebbe stato agevole raggiungerla e se non fossero stati in quel luogo avrei allungato non di poco il mio viaggio verso il sud. Ma d’altra parte era senz’altro meglio provare prima nel punto più vicino, piuttosto che fare il contrario. Presa la decisione scesi le scale con sulle spalle la bicicletta, arrivato in fondo della rampa una serie di colpi di fucile schiantò gli stipiti del portoncino della casa. Una pallottola aveva centrato anche la bicicletta che avevo gettato immediatamente a terra e, senza pensarci, ero risalito al piano di sopra. Qualcuno mi stava sparando addosso, estrassi la pistola, avrei venduto cara la pelle. Così si diceva nei film western, ma la cosa non mi fece ridere. <<Esci fuori con le mani alzate, non ti faremo del male, vogliamo solo la tua roba.>>, urlò una voce maschile. Si lo avevo visto come si prendeva la roba altrui. Si assicurava l’incolumità, poi una volta accaparrata la mercanzia, un colpo in testa e via. Questa volta, lo pensai seriamente, non mi avrebbero preso facilmente. Non sapevo quanti erano, né quante armi avessero. Non li vedevo, ma sentivo che parlavano e potevano essere almeno in tre. Guardai da una finestra per rendermi conto della situazione. Non mi resi conto di nulla, non c’era niente da vedere, erano ben nascosti. Non potevo certo fare una sortita alla Pat Garret e Billy the Kid, anche perché a loro non era andata bene, dovevo escogitare qualcosa di meno cruento e, possibilmente più sicuro. Potevo attendere la notte e sperare di sgattaiolare senza essere visto, ma questo voleva dire aspettare per molte ore 40 senza la certezza che quella strategia avrebbe portato a buon frutto. Mi venne in mente di vedere se si poteva uscire passando dalle cantine, ma la porta d’accesso era sotto la rampa che portava al pian terreno ed avrei dovuto passare nell’androne, cosa che avrebbe permesso ai miei assedianti di vedermi e colpirmi. C’era il tetto; le case erano l’una affiancata all’altra ed avrei potuto spostarmi di almeno una trentina di metri, con il rischio, però di essere visto e, ancora peggio, di essere colpito. Guardai sul retro, il balconcino della cucina si affacciava su un piccolo cortile, sulla destra un muretto alto circa due metri si dipartiva dal fianco del balcone, divideva dal cortile della casa a fianco e finiva contro i box ricavati nella parte terminale del cortile. Non ci pensai un attimo, non avevo tempo, mi assicurai sulle spalle lo zaino con le cinghie ben tirate, scavalcai la ringhiera e combattendo con il mio senso dell’equilibrio attraversai fino ai box e senza sforzo mi calai sul retro. Mi trovai nel cortile di una casa che dava sulla via parallela a quella da cui io ero entrato, uscii facendo attenzione che non ci fosse nessuno e corsi a perdifiato, credo per almeno dieci isolati. Per quello che ne so quei tre o quattro sono ancora la fuori ad aspettarmi, si fottano. Camminai a lungo cambiando spesso direzione e voltandomi ogni momento per verificare di non essere seguito. Nel mio peregrinare trovai un altro ciclista ed anche un’altra bicicletta così mi fu possibile riprendere il cammino. La ragione mi indicò la strada, ripresi immediatamente la strada e mi diressi in direzione di Cuneo, il Colle di Tenda e la Liguria. 41 Misi due giorni ad arrivare al Colle, non era tanto per i chilometri, quanto il peso dello zaino che mi portavo dietro. Avevo anche dovuto un paio di volte fare giri intorno ad abitati per evitare di venire intercettato, sapevo quanto fosse pericoloso e non volevo correre rischi. Dormii in una casa nei pressi del tunnel, riuscii persino a farmi una pasta utilizzando un fornelletto che avevo scovato in un armadio dell’appartamento in cui mi ero rifugiato, che mi diede vigore, ma soprattutto morale. Il mattino seguente entrai nel tunnel, la bobina della bicicletta girava e produceva la corrente necessaria alla lampadina del faro sul davanti. La luce fioca rischiarava non più di un metro davanti a me. Sembrava proprio di entrare nelle viscere di un mostro. Impiegai quasi un’ora ad attraversare il tunnel, poi presi per la discesa e dovetti fermarmi più volte perché mi dolevano le mani a forza di frenare e poi, all’improvviso, proprio su una curva, si ruppe il cavo del freno posteriore, scivolai a terra senza farmi troppo male, giusto una mano spelata e un colpo al ginocchio, ma fui preso dal panico pensando a cosa sarebbe potuto succedere se mi fossi rotto una gamba o un braccio. Cacciai quell’idea, ma non salii più in bicicletta, legai lo zaino al tubo e con un certo sollievo alle spalle proseguii fino a quando non arrivai all’imbocco della strada che dalla statale portava verso Dolceacqua. Ci misi più tempo a fare quel pezzo di strada, che non era più di nove chilometri, che a scendere dal colle. Era ormai pomeriggio inoltrato quando imboccai la stradina che portava alla nostra casetta. Conoscevo quel tratto come le mie tasche, ogni volta che volevamo rilassarci e avevamo un paio di giorni ci rifugiavamo in quel piccolo eden, trascorrendo giornate di quiete e giochi con i figli che mi struggono ancora oggi al solo pensiero. 42 Arrivai al cancello che trovai chiuso, chiamai, una, due, tre volte, poi dalla porta di casa uscì un uomo con un fucile al braccio. Non lo conoscevo, non lo avevo mai visto prima e usciva da casa mia con un fucile in mano. Il mondo mi crollò in testa. Era un uomo grasso, non tanto alto, con pochi capelli e lo sguardo di chi ha paura. Mi disse subito di andare via, facendomi notare il fucile, come se non fosse stata la prima cosa che avevo visto. Gli chiesi se aveva visto qualcuno della mia famiglia, se fossero passati di li, se qualcuno li aveva visti. Gli chiesi, per pietà, se sapeva qualcosa di mia moglie e dei miei figli. L’uomo era agitato, spostava il peso da un piede all’altro; dietro di lui apparve una donnina con indosso un grembiule da cucina, era piccolina con i capelli bianchi raccolti a crocchia, aveva in mano qualcosa, ma non riuscivo a capire cosa, disse qualche parola all’uomo che scrollò il capo, si capiva che lei insisteva, allora lui mi chiese se ero Andrea. Risposi ovviamente di si in attesa di qualche accadimento e con una grande apprensione nel cuore, l’uomo prese dalle mani della donna quello che teneva stretto e ordinandomi di allontanarmi dal cancello si avvicinò fino a lanciarmi una busta oltre le inferriate. Corsi subito verso il cancello, incurante del fucile e presi la busta bianca che mi aveva lanciato. Sul davanti c’era una grande ics seguita dal mio nome. Per Andrea. L’aprii con un misto di gioia ed angoscia. Era di mia moglie, lo capii subito dalla grafia, diceva che era stata in quella casa qualche giorno prima insieme ai nostri vicini, i De Novo, avrebbero proseguito per il sud, verso la Puglia, con la loro barca. Mi assicurava che i bambini stavano bene e mi pregava di raggiungerli il più in fretta possibile e che le mancavo. Anche lei mi mancava. 43 Tutti loro mi mancavano. Mi ero seduto sotto un albero, più che seduto mi ero accasciato appoggiandomi al tronco di un ulivo che era il nostro rifugio quando volevamo parlarci guardandoci negli occhi. Leggevo quelle righe e dovevo asciugarmi spesso le lacrime dagli occhi perché le parole scritte si scioglievano davanti a me. Non so quanto rimasi con quella lettera in mano e quanto piansi. Piangevo perché sapevo che erano ancora vivi, piangevo perché non ero riuscito a raggiungerli in tempo, piangevo perché eravamo così distanti. Ad un tratto ebbi la sensazione di qualcuno vicino a me, mi voltai lentamente, era la donnina con il grembiule, mi stava guardando con espressione compassionevole, con le mani giunte sul grembo; mi fece un lieve sorriso e mi disse semplicemente: <<Ho preparato cena, se lo gradisce, ce n’è anche per lei.>> Mi alzai dicendole semplicemente grazie e la seguii. Era una delle poche gentilezze in quei giorni feroci. Erano fuggiti da Ventimiglia e si erano rifugiati nell’entroterra per cercare di sfuggire a quel delirio che aveva portato la maggior parte degli abitanti a scannarsi gli uni con gli altri. Avevano assistito ad una vera e propria carneficina davanti ad un supermercato; perfino dei loro amici si erano presentati a casa loro armati nel tentativo di prendere loro ciò che avevano, erano riusciti ad allontanarli solo minacciandoli con il fucile da caccia. La notte stessa avevano messo tutto quello che avevano dentro ad un carrello della spesa e una sacca e si erano diretti verso l’entroterra sperando di trovare riparo da qualche parte. Giunti di fronte alla mia casa avevano trovato il cancello accostato e la chiave sul gradino della porta. 44 Pensai che mia moglie aveva ragionato bene, era inutile chiudere e sprangare la porta, avrebbero spaccato tutto per riuscire a penetrare all’interno nella speranza di trovare qualcosa da mangiare. Avevano pensato che quella poteva essere un rifugio abbastanza sicuro. In effetti avevo fatto installare alle finestre delle inferriate, in quanto noi frequentavamo il luogo solo per alcuni week-end all’anno e circa un mese durante l’estate, la porta dell’ingresso era blindata. La proprietà era circondata da un recinto in ferro, come il portone e per quel motivo era abbastanza facile difendersi dall’interno. Mi chiesero scusa per aver approfittato della mia casa, ma io dissi loro che avevano fatto bene, in quel momento tutto sembrava lecito, quello a cui non riuscivo a rassegnarmi era quella furia animalesca che aveva preso tutti e loro erano d’accordo con me. Mangiammo fagiano, lo aveva preso l’uomo cacciando il giorno precedente, mi raccontarono che era abbastanza facile trovare insalata e asparagi selvatici. Quando fu ora di andare a dormire mi fecero accomodare, mi diressi automaticamente verso la mia camera da letto, ma quando già avevo la mano sulla maniglia, mi fermai e mi girai verso la camera dei miei figli. I due, che erano dietro di me, mi guardarono e ringraziarono con gli occhi, la mia stanza, la nostra stanza era diventata la loro. La stanza dei ragazzi era come l’avevamo lasciata l’ultima volta, circa due mesi prima, c’era il peluche di Giulia sul suo letto, il pigiama di Marco sotto al cuscino, le loro foto appese ai muri: Giulia che si tuffava da uno scoglio, Marco con il casco in testa su un go-cart, noi quattro su una roccia durante una gita in montagna. Staccai le foto e le misi con le altre che avevo preso dai miei. Poi dormii un sonno agitato. 45 4 Il mattino seguente me ne andai, l’uomo mi strinse energicamente la mano destra senza dire nulla, mentre serrava le labbra muovendo impercettibilmente il capo in segno di assenso. La donna mi abbracciò augurandomi buona fortuna, vidi nei suoi occhi una lacrima, non so cosa potesse significare, ma la sentii vicina e ne fui contento. Scesi verso il mare, prendendo sentieri tra i campi. Camminavo nei tratturi col pensiero alla mia famiglia, li vedevo in quei luoghi, ma ero arrivato troppo tardi. Mi figuravo il loro viaggio, i pericoli a cui andavano incontro ed il cuore mi si stringeva nel petto. Avvicinandomi ad un agglomerato di case sentii dei colpi d’arma, non me ne intendo e quindi non capii che tipo di arma fosse, comunque decisi di passare nel centro del paesino per evitare di essere troppo visibile in mezzo ai campi. Potevo nascondermi tra una casa e l’altra. Stavo scendendo in un piccolo carruggio cercando di non far rumore quando ad un crocicchio mi trovai di fronte una scena a cui non ero preparato. Due ragazze mi puntarono contro un fucile ciascuna, al loro fianco una ragazza stava rannicchiata su uno scalino di pietra e piangeva, un’altra le si era inginocchiata al fianco e stava evidentemente cercando 46 di consolarla, ma quello che più strideva erano i corpi di tre uomini che giacevano bocconi colpiti da una scarica di fucili, che sicuramente erano gli stessi che mi stavano puntando addosso le due tipe. <<Chi sei?>>, mi chiese quella più alta. Era bionda con un corpo fino, ma con un’espressione feroce. <<Mi chiamo Andrea Fasto se può servire.>>, risposi. <<Cosa fai qui?>> Mi incalzò la stessa. <<Sto andando verso sud a cercare la mia famiglia.>>, replicai temendo un colpo da un momento all’altro, avevo già visto la scena e temevo fosse la fine. <<Li conosci?>> e mi indicava con la canna del fucile i tre stesi a terra. <<No, mai visti prima, chi sono?>> <<Tre stronzi che hanno cercato di stuprare quella>>, e indicò con la testa la piangente. <<Ora non potranno più fare porcate.>>, aggiunse sprezzante. <<Amen>> ,dissi io. E non mi veniva proprio in mente nulla di più, ormai qualunque cosa era normale, anche che tre ragazze andassero in giro armate a sparare a degli stronzi che nel marasma più totale si mettevano a stuprare la prima donna che gli capitava tra le mani, e non erano ancora le nove di mattina. Quel pensiero sull’ora mi parve grottesco, ma mi venne proprio in quel momento. <<Hai da mangiare?>> Mi chiese la bruna un po’ più bassa, che indossava una salopette di jeans da cui sbucava il manico di un coltello. <<Me lo chiedi con il fucile?>> Fu la mia risposta un po’ avventata, mentre indicavo con il mento l’arma. 47 Le ragazze si guardarono e abbassarono le canne dei fucili verso terra, poi, quella che stava consolando la vittima, si alzò e disse. <<Scusa noi non vogliamo diventare come loro, ma se ci puoi dare qualcosa te ne saremmo grate.>> Mi tolsi lo zaino, e diedi loro un pacco di pasta e quattro scatolette di tonno. Ci sedemmo un po’ distanti da quei corpi martoriati. Erano studentesse che venivano da Brescia, non erano riuscite a tornare a casa e cercavano di resistere con ogni mezzo. Non feci fatica a creder loro guardando come si destreggiavano con i fucili. Mi ringraziarono per il cibo e mi augurarono buona fortuna. Con tutto quello che stava accadendo ne avevo proprio bisogno. Uscii dal piccolo borgo frastornato e ripresi il mio cammino. Mia moglie mi aveva dato un’indicazione, certo che se avessi trovato una barca anch’io avrei potuto andare verso sud molto più celermente. Così ripresi a dirigermi verso il mare alla ricerca di un natante, mi venne da pensare che forse la furia devastatrice non era arrivata fino all’acqua. Arrivai, facendo attenzione a non farmi scorgere, fino ad un porto turistico. Fu subito chiaro che anche lì la furia era arrivata e non aveva risparmiato nulla. Nel piccolo porto erano rimaste solo alcune imbarcazioni, vi erano cabinati mezzo sommersi, due erano addirittura rovesciati, tutti gli altri avevano il portellone d’ingresso divelto ed erano in uno stato disastroso. Un uomo immobile, cadavere, era riverso sulla scaletta che dava alla cabina di un piccolo yact. Mi guardai intorno; a riva, sulle pietre a pochi metri dal bagnasciuga c’era un 470 lo osservai con interesse, a fianco una barca a vela un po’ più tozza, sul fianco aveva una scritta “Fusilla”, non so se indicasse il modello di barca o il suo nome di battesimo, a occhio sembrava più stabile del 48 470 che è una barca per regate. Nel gavone non c’erano vele né il timone, mi aggirai per il porto e, sotto un porticato, entrai in un ripostiglio in cui certamente si riponevano le telerie e gli accessori delle barche. Era, ancora una volta, tutto sottosopra; a terra vidi una sacca con su scritto 470, ma non c’era traccia del timone. Ribaltati a terra c’erano diversi armadi di ferro, provai a rigirarli e dentro uno di essi trovai un sacco di iuta con sopra scritto “Fusilla” e, poco distante, un timone in legno con a fianco una deriva, che mi parve potesse adattarsi alla barca. Presi anche due remi e una canna da pesca. Poi trovai una scatola da scarpe in cui vi erano alcuni ami e un barattolo di esche. Con tutta quell’attrezzatura mi diressi alla barca. Con un certo sforzo, trascinai la barca in acqua, facendola scivolare su dei rulli che erano adagiati a terra; ne presi due, che avrei potuto usare in seguito per alare la barca quando mi fossi fermato. Una volta in acqua spinsi la barca fuori dal porto a remi, non mi fidavo a tirare su le vele a riva. Era una giornata con mare calmo e non feci fatica ad issare la vela e fare rotta verso est. Il mare liscio e una leggera brezza proveniente da sud mi permetteva di navigare di bolina parallelo alla costa. Veleggiai per tutto il giorno passando a qualche centinaio di metri dai paesini che erano stati meta di villeggiatura fino a poco tempo prima; ora le spiagge erano deserte, si potevano osservare, invece, diverse persone che pescavano sui moli e sulle rocce. Incrociai anche alcune barche su cui febbrile era l’attività della pesca; alcuni pescavano con canne, altri con reti, tutti si industriavano nel cercare di portare a casa qualcosa da mangiare. Io non fui da meno, misi su un amo un’esca che a occhio mi sembrava adatta, non avevo mai pescato prima di allora e non avevo idea di come comportarmi. 49 Dopo diverso tempo mi resi conto che l’esca non c’era più, in compenso nessun pesce era rimasto attaccato al mio amo al traino. Cambiai quattro volte tipo di esca e amo, fino a quando un pesce, neanche tanto grande, intorno ai trenta centimetri, fece tendere il cavo. Misi la barca alla cappa e tirai lentamente la preda verso di me. Ci misi un po’ a far entrare il pesce all’interno dello scafo, poi quando fu dentro non sapevo come finirlo, si dibatteva furioso con l’amo conficcato in gola. Credo di averlo fatto soffrire inutilmente prima di riuscire a dargli il colpo di grazia. Fu più facile nel pomeriggio con un pesce un po’ più piccolo, e ancora di più nei giorni seguenti. A sera avevo percorso un buon tratto, o così a me sembrava. Accostai cercando una baia con una spiaggia protetta dalla roccia. Ammainai la vela e mi diressi verso un piccolo anfratto riparato, non avevo nessuna voglia di attirare l’attenzione. Faticai a tirare a riva la barca, ma dopo molti sforzi riuscii nel mio intento. Non avevo pensato a come avrei passato la notte, l’unica certezza era che non avrei abbandonato la barca, quindi mi toccava dormire nei pressi, anche perché sulla scafo era impossibile. Non mi ero procurato una tenda, né un materassino, dovetti provvedere con una soluzione di fortuna usando le vele per ripararmi in qualche modo. Accesi un fuoco con pezzi di legno che la risacca aveva trascinato sulla spiaggetta, su cui cucinai i miei due pescetti. Con un certo schifo sviscerai i pesci e li aprii in due, li misi su una pietra liscia che avevo lavato in mare; poi, per dare un gusto che sapesse un po’ meno di mare, provai a versare sopra la salamoia di un sacchetto di olive, ma non ottenni un gran risultato, però tutto sommato avevo potuto mangiare e saziarmi. 50 Il mare poteva aiutarmi e, il pensiero mi fu di conforto, avrebbe potuto aiutare anche i miei figli. Dormii malissimo su ciotoli che si conficcavano dappertutto, l’umidità poi era terribile. Mi svegliai prima dell’alba e alle prime luci del giorno ero già in acqua dopo aver mangiato giusto due biscotti. Il mare aveva preso ad agitarsi leggermente, le onde alte poco più di mezzo metro facevano ondeggiare la barca che, comunque, solcava il mare senza difficoltà. A metà mattina il vento si fece un po’ più teso e soprattutto aveva cambiato direzione, ora proveniva da est, cosa che mi costringeva a fare lunghi bordi rallentando notevolmente l’avanzamento verso la mia meta. La seconda notte dormii all’interno di un locale di uno stabilimento balneare; finalmente riuscii a riposare perché avevo trovato una brandina su cui potei sdraiarmi. Il mattino dopo, con sgomento, osservai il mare che si era ingrossato, al punto che mi fu subito chiaro che non sarei stato in grado di mettere in acqua la barca. Rimasi interdetto se proseguire via terra o aspettare il miglioramento delle condizioni del mare. Mi convinsi che il percorso fatto i due giorni precedenti mi sarebbe costato via terra più del doppio del tempo, per non contare la fatica. Rimasi chiuso tutta la mattina nel locale che dava sul mare ad osservare le onde che si frangevano sulle rocce, ad un tratto entrò nella saletta, senza che mi fossi accorto del suo arrivo, un uomo che mi guardò stupito. Aveva in mano una canna e un cestino tipico dei pescatori, mi guardò e vidi che notò subito la pistola che tenevo al fianco. Sorrise, poi mi chiese se poteva pescare sugli scogli a lato dello stabilimento. Gli risposi di si ed anzi gli chiesi se potevo pescare al suo fianco. Rispose soltanto: <<Il mare è grande.>> e ci avviammo insieme. 51 Rimanemmo tutto il pomeriggio a chiacchierare come fossimo stati amici da sempre, ci raccontammo le nostre vicissitudini e le disgrazie del mondo, mentre le nostre reti si riempivano. Mi disse che quello era un luogo molto adatto per la pesca, da sempre. Alla fine lui aveva preso sette bei pesci, io tre, ma per quella sera era senz’altro sufficiente. Mi salutò rassicurandomi che il giorno successivo il mare sarebbe tornato liscio come l’olio. Non si sbagliava, e il mattino successivo la barca solcava dolcemente onde piccolissime. Mentre veleggiavo mi vennero alla mente gli amici. Con il pensiero costante alla mia famiglia avevo accantonato tutto ciò che era naturale solo un mese prima. Gli amici con cui trascorrevamo le vacanze, con cui passavamo gran parte del tempo libero, che ci confortavano nei momenti di necessità e con cui condividevamo gioie e dolori della vita. Avevamo attraversato le varie fasi della nostra esistenza insieme, prima come gruppo di giovani con le ragazze, poi i matrimoni, i figli e tutta la vita insomma. Che fine avevano fatto? Come se la stavano cavando? L’angoscia mi fece pensare: saranno ancora vivi? Il vento non mi agevolava molto, ma se si viaggia con una barca a vela si deve dare per scontato che il vento bisogna cercarselo, fortuna che avevo una certa dimestichezza con le derive. D’estate mi piaceva veleggiare per brevi percorsi, durante le vacanze, e quell’esercizio mi tornò veramente utile. Il tempo in barca passava lentamente, la tranquillità del mare e le onde lievi mi permettevano di rimuginare sugli avvenimenti di quei giorni. Com’era possibile che fossimo finiti in una tale situazione? Nessuno si era reso conto del baratro su cui stavamo 52 viaggiando, nessuno aveva previsto quanto era avvenuto, e poi cosa era successo in realtà? Perché all’improvviso il mondo era scivolato in quel baratro? Cosa aveva scatenato quella furia? Mi facevo mille domande e non mi riusciva di trovare mai una risposta. Ce la mettevo tutta, ma quando ero certo di essere sul punto di capire, la mente finiva al pensiero dei miei figli e di mia moglie. Li vedevo in mezzo a pericoli continui: prima nella città saccheggiata, poi nelle colline dell’entroterra ligure con loschi figuri che stupravano le ragazzine di passaggio. Li immaginavo su una barca a vela assaltata dai pirati, proprio quelli classici, con la benda sull’occhio e la bandiera nera con il teschio. Ogni tanto un pesce mi distraeva e l’attività di recupero della preda mi permetteva di pensare ad altro, poi l’angoscia ricominciava e le domande si affollavano sempre più nella mia testa. Alla fine di quella giornata mi fermai su una piccola spiaggia a ridosso della roccia. La spiaggia era raggiungibile dalla strada statale per mezzo di una scalinata in cemento che era stata ricavata proprio contro la scogliera. Sperai che nessuno mi avesse visto approdare, ma, circa un’ora dopo, mentre mi stavo preparando la cena, cocendo uno dei quattro pesci che avevo tirato su durante la giornata, alzando la testa verso la scalinata vidi, sull’ultima rampa, due figure scure nell’ombra della sera. Sembravano alla prima fantasmi, la mano mi corse immediatamente alla pistola poi, osservando con più attenzione, notai che sulla rampa stavano scendendo lentamente una donna e un ragazzino. Erano in cattive condizioni, a giudicare dall’aspetto; la donna aveva un vestito lacero e abbastanza sporco, i capelli 53 castano chiari che, senza nessuna forma, le cadevano sugli occhi, mentre il ragazzino, con i capelli lisci incollati alla testa, era magro da far paura. Lo stavo osservando mentre lui non aveva occhi che per il pesce che stavo preparando sul fuoco. La donna si avvicinò e senza lasciar passare un attimo disse: <<Se ci dai qualcosa da mangiare poi potrò essere gentile con te>> e, mentre lo diceva, aveva portato una mano ad un bottone del vestito nell’atto di chi sta per sbottonarlo, ma nello stesso tempo abbassava gli occhi e si vedeva che le veniva da piangere. Dissi loro che potevano sedersi e che avrei diviso con loro quello che c’era. Il ragazzo spalancò gli occhi in un sorriso patetico e lei mi guardò negli occhi ringraziandomi silenziosamente. Mangiammo, nella quiete, senza parlare, tutti i pesci che avevo pescato, aprii anche una scatola di biscotti e una scatoletta di pesche sciroppate. Io, che fino a quel momento non avevo sofferto particolarmente la fame, mangiai come al solito, ma i due divorarono tutto ciò che mettevo loro dinanzi. Dopo un po’ i due si sciolsero e cominciarono a raccontare, il ragazzo che si chiamava Luca aveva otto anni ed era quello più loquace, parlava a raffica passando da un argomento all’altro, ma era difficile capire completamente ciò che diceva perché parlava e nello stesso tempo mangiava. La madre lo osservava con amore, ma in lei si leggeva l’angoscia di quella situazione. Alla fine della cena dissi al ragazzo di raccontarmi tutto dall’inizio e così fu. <<Quando è successo quello che è successo, noi eravamo a casa nostra a Saluzzo, papà>> e quando nominò suo padre guardò diretto la madre negli occhi, <<diceva che era meglio se andavamo giù al sud dai suoi. Sai mio papa era di un 54 paese vicino ad Orvieto. E allora voleva che noi andassimo proprio laggiù. Abbiamo caricato la macchina, ma in autostrada non si poteva entrare, così abbiamo preso per la Liguria. Siamo passati dal passo di Nava, ma quando eravamo già in vista del mare siamo arrivati in un punto che la strada era sbarrata, c’erano due auto rovesciate e dei bidoni dell’immondizia. Siamo scesi per farci strada, ma quando siamo stati a terra sono uscite delle persone con i fucili e ci hanno detto di lasciare lì tutto e di andarcene. Così abbiamo perso i vestiti e tutti i viveri.>> Si fermò un attimo per andarsi a sedere tra le braccia di sua madre che lo baciò sui capelli. <<Papà diceva che sarebbe andato tutto bene, saremmo andati sul mare e avremmo trovato una barca che ci avrebbe portato a sud. Siamo arrivati in un paese, non so come si chiamava. Come si chiamava mamma?>> Chiese rivolgendosi a sua madre, ma lei scosse le spalle come a dire che non lo sapeva. <<Eravamo a piedi>>, continuò il bimbo. <<Abbiamo visto che c’erano delle persone che stavano portando via da un capannone, non so, a noi sembravano scatole di pasta o cose simili. Papà ci ha detto di aspettarlo ed è andato in quel posto, poi, dopo un poco, è arrivato un fuoristrada, sono scesi quattro e hanno cominciato a sparare. Papà stava uscendo con in braccio una scatola, non ha fatto tempo a dire o fare nulla che gli hanno sparato.>> A questo punto si fermò alzando la testa verso sua madre che lo stava tenendo stretto con le lacrime agli occhi. <<Mamma ha detto che dovevamo comunque andare a casa dei nonni e così abbiamo camminato, quasi sempre di sera, per non farci prendere. Abbiamo mangiato quello che abbiamo trovato, anche pesci crudi che abbiamo trovato sulla spiaggia.>> 55 Raccontato tutto quel che era loro successo parlando a raffica, si fermò e si strinse nelle spalle. La donna, il cui nome era Vera, mi guardò intensamente e mi disse solo: <<Grazie>> Le dissi che io andavo verso sud e, se volevano, avremmo potuto viaggiare insieme; la barca era abbastanza comoda per tre persone e dissi che il mare poteva procurarci il cibo. Lo dissi mentre mostravo loro la lenza. E poi c’erano ancora una piccola parte dei viveri che mi aveva lasciato mio padre; non c’era più molto, ma avremmo potuto comunque farci due belle spaghettate che, ero sicuro, avrebbero rinfrancato almeno il piccolo. Dormimmo a ridosso della scogliera, la vela ci riparava dall’aria esterna, lasciai il mio saccopelo ai due che si strinsero l’uno con l’altro e si addormentarono in un batter d’occhio. 56 5 La barca non aveva problemi con il nuovo equipaggio; durante la prima mattinata entrammo in un porticciolo a remi, non volevo fare svettare troppo la vela; attraccammo in fondo ad un molo galleggiante. Ci mancava acqua e contavo di trovarla nel porto. Dissi al ragazzo di tenere la barca vicino a molo con una piccola cima, mentre alla donna dissi di rimanere in barca con i remi pronti per ogni eventualità. Trovai una gomma, la attaccai al rubinetto che era in un piccolo tombino all’inizio del molo, riempii una tanica da dieci litri e la misi sulla barca. Vera mi chiese se avevo del sapone, dissi di no, ma avevo osservato proprio all’inizio del piccolo porticciolo l’insegna di un negozio di pesca subacquea e sport, mi diressi verso quella parte facendo attenzione se arrivava qualcuno, pronto a fuggire al primo movimento sospetto. Entrai nel negozio che, come sospettavo, era completamente sottosopra. C’erano bombole, pinne e maschere a terra nella confusione, su uno scaffale vidi le sacche di tre tende, ne presi una, pensando alla possibilità di ripararsi meglio all’interno di un igloo. Presi anche due sacchi a pelo e misi in un borsone alcune maglie, dei costumi, pantaloncini, asciugamani e due tute da ginnastica. Nel bagno trovai un 57 sapone liquido e subito, di corsa, uscii con tutto quel ben d’Iddio. Sul molo, intanto la madre stava lavando il figlio, credo fossero settimane che non si lavavano, le porsi il sapone, mi sorrise e comincio a fregare il bambino che cercava di resistere ai suoi tentativi di spogliarlo. Dissi loro che nella sacca c’era qualche indumento e mi voltai verso l’ingresso del molo a far la guardia, lasciando che si lavassero. Impiegarono circa mezz’ora, poi mi dissero che potevo girarmi, erano diventati due altre persone, lei si era lavata i capelli e li stava asciugando con un bell’asciugamano blu; si erano rivestiti con indumenti puliti e, se non avessi saputo in che frangenti ci trovavamo, avrei detto che erano in vacanza. Lei era decisamente carina, l’avevo conosciuta che era al limite dello spaventevole, con quei capelli unti e filacciosi e quel vestito stracciato che la facevano sembrare uno spaventapasseri. Ora la vedevo sotto un’altra luce, una donna attraente; in quelle tragiche circostanze non avevo fatto caso a questo, anche perché il mio pensiero continuava a tornare sulla mia meta e su chi, ad ogni costo, volevo raggiungere. Decisi di approfittare dell’acqua e del fatto che nessuno si era ancora presentato a disturbarci, così mi lavai anch’io, dalla testa ai piedi facendo una doccia lì all’aperto. Ripartimmo rinfrancati, almeno esternamente potevamo dirci che il nostro aspetto era tornato umano. I tre giorni successivi furono di facile navigazione, era persino rilassante veleggiare in compagnia; chiacchieravamo tutto il giorno raccontandoci della nostra vita, qualche volta con tristezza, altre con un piccolo tocco di allegria amara, eravamo persino arrivati a dividere una certa complicità io e Vera, una reale amicizia che solo in casi come questi può sfociare in così breve tempo. 58 Il cibo non era un problema, anche se Luca cominciava a dirsi stufo di mangiare sempre la stessa cosa, ma non avevamo grandi alternative. La sera del quarto giorno ci fermammo qualche chilometro dopo Livorno, avevamo visto dal mare una pineta che si affacciava sulla spiaggia, decidemmo di accamparci in quel luogo per la notte. Tirammo la barca in secca, poi feci un giro d’ispezione, come facevo ogni volta che ci fermavamo, per evitare di avere sorprese. Montammo la tenda fra gli alberi e ci cucinammo una discreta cenetta, aggiungendo un pugno di riso a testa ai pesci pescati. Il ragazzino faceva le smorfie, non ne poteva più di pesce, ma io gli dissi, canzonandolo, che non doveva comportarsi così, stava mangiando una “paella” un piatto tipico spagnolo, tra i più prelibati, mi guardò con stampato sul viso un punto interrogativo mentre nel contempo osservava il suo piatto di riso e pesce. Vera si mise a ridere, ed era la prima volta che lo faceva da quando la conoscevo, e gli disse che lo stavo prendendo in giro. Anche Luca rise, mentre affermava che lo aveva capito. Dormivamo nella tenda con il bambino fra noi; al mio fianco tenevo la pistola pronta per ogni evenienza. La luce del sole ci risvegliò, mangiammo un paio di biscotti a testa. Avevo convinto i miei due compagni che era meglio non mangiare troppo quando si navigava e fino a quel momento nessuno di noi aveva patito il mal di mare. Misi su le vele come ogni mattina, cominciai a caricare la tenda e, mentre raccoglievo il mio zaino, e loro il borsone e i sacchi a pelo, arrivarono alla spiaggia due figuri di corsa, uno più giovane, avrà avuto si e no vent’anni, una camicia stracciata e con in mano un bastone; l’altro sulla cinquantina, portava un maglione girocollo blu, non aveva 59 quasi capelli, ma aveva una barba grigio nera che gli circondava il viso. Quest’ultimo, però, aveva in mano un fucile e lo rivolgeva verso di noi. Tirai fuori velocemente la pistola, l’uomo la vide, in quel momento ebbi paura e assurdamente mi venne in mente la famosa frase di Clint Eastwood, “quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto”. Valutai la situazione, era vero che io avevo una pistola e l’altro un fucile, ma io ero in una posizione più favorevole, ero al coperto tra gli alberi e l’altro era allo scoperto sulla spiaggia. I due non dissero nulla, il più vecchio incitò a gesti il giovane che si mise di buona lena a spingere la barca in acqua, anche l’uomo armato lo aiutò spingendo con una mano, mentre con l’altra teneva il fucile puntato nella nostra direzione. Saltarono sulla barca, cazzarono le vele ed in un amen la deriva prese a correre sulle onde, perpendicolare alla spiaggia. Stavo uscendo dal nostro riparo, veramente arrabbiato, quando sulla spiaggia si materializzarono altri quattro uomini; il primo che era arrivato fin sul bagnasciuga sparò un colpo di fucile in direzione dei due bastardi, uno degli altri disse che erano fuori tiro ormai. Si accorsero di noi e si fermarono. Quello che sembrava il capo stava per incamminarsi verso di me quando si fermò, aveva notato la fondina che portavo al fianco, la pistola la tenevo fuori dalla vista, in mano lungo il mio fianco destro, dietro ad un albero. <<Era vostra la barca?>> Ci chiese. Feci cenno di si. 60 <<Potevate fermarli>>, mi disse quasi come fosse un rimprovero. <<Erano armati.>>, dissi io. <<Non avevano munizioni>>, mi informò. <<Merda, come facevo a saperlo? Merda, merda, merda.>> Ci avevano rubato il nostro mezzo di trasporto con l’inganno. I quattro ci dissero che non ce l’avevano con noi, che potevamo proseguire in pace, e girandosi tornarono da dove erano venuti, mentre la nostra barca era ormai un puntino nel mare. Non riuscimmo a capire cosa fosse successo tra i due gruppi, l’unico risultato era che noi eravamo stati quelli penalizzati dal loro conflitto e avevamo perso il nostro mezzo di locomozione. Ci incamminammo mesti lungo il bagnasciuga, non avevamo più la barca a vela, ma ci era rimasto tutto il resto: la canna da pesca, lo zaino e i sacchi a pelo. Speravamo di trovare ancora una barca e comunque non ci conveniva abbandonare il mare, era la nostra unica fonte di sostentamento. Ci fermavamo sulle rocce a pescare, quando trovavamo un posto che ci sembrava adatto. A volte era davvero quello buono, altre rimanevamo per più di un’ora senza che nemmeno un pesce tentasse di mordicchiare l’esca che avevamo preparato per lui. D’altra parte la nostra inesperienza era palese e riuscire a prendere un pesce era pur sempre un colpo di fortuna. Nel pomeriggio attraversammo un lungomare che una volta era pieno di villeggianti, ora due uomini pescavano con la canna seduti in fondo ad un piccolo molo, ci guardarono passare con scarso interesse. Di fronte al mare vi erano una lunga fila di negozi, tutti rigorosamente all’aria e con le vetrine infrante. Passammo di 61 fronte ad un negozio di articoli sportivi, entrammo, intendevo trovare due zaini per permettere a Vera e Luca di avere il loro bagaglio comodo sulle spalle invece che nel borsone che avevamo preso qualche giorno prima. Mentre rovistavo tra le macerie Luca mi chiamò eccitato, stava osservando dei cartoni rettangolari buttati a terra. Lo guardai cercando di capire, e lui, per tutta risposta, ne aprì uno e tirò fuori un monopattino. Aveva trovato un nuovo mezzo di trasporto seppur non eccessivamente veloce, ma che ci avrebbe permesso di percorrere più strada con minor fatica, almeno su quei lungomare asfaltati. Approfittammo per cambiarci con indumenti nuovi e puliti, prendemmo due piccoli zaini, poi partimmo come tre ragazzini in vacanza sui monopattini. La prima ora fu quasi esilarante, per quanto potesse essere, tenuto conto delle circostanze, Luca si divertiva e per un po’ dimenticammo i nostri guai. Il viaggio non procedeva più spedito come nei giorni precedenti, dovevamo fermarci spesso e, quando dovemmo attraversare un parco naturale molto grande, con dispiacere di Luca, dovemmo abbandonare i monopattini. La seconda sera arrivammo in prossimità di un campeggio, pensammo che avremmo potuto fermarci e dormire in una roulotte, almeno avremmo avuto un letto decente. Entrammo da un cancello prospiciente la spiaggia e fatti pochi metri vedemmo uscire da una casa mobile un uomo che imbracciava un fucile e ce lo puntava addosso senza tanti complimenti. Alzammo istintivamente le mani in alto. Ci domandò chi eravamo, cosa volevamo e quali erano le nostre intenzioni. Risposi con calma e l’uomo parve accettare le mie spiegazioni, abbassò il fucile e mi venne incontro stringendomi la mano. La tensione si attenuò e riuscimmo perfino a sorridere. <<Potete uscire ragazzi>>, disse l’uomo, e a quelle parole si 62 materializzarono due ragazzi che imbracciavano a loro volta un fucile ciascuno. Avevano pronta un’imboscata, se avessimo tentato un qualunque gesto saremmo stati uccisi, senza tanti complimenti. <<Vi avevamo visto da un po’ di tempo e quando vi abbiamo visto entrare nel nostro territorio…>> e lasciò in sospeso la frase allargando le braccia con le mani rivolte verso di noi. Poi sorridendo: <<Comunque questa sera siete nostri ospiti per cena.>> Fu davvero una cena gustosa, dopo tanti giorni di pesce mangiammo carne di cacciagione. L’uomo viveva in quel luogo insieme alla moglie e ai suoi due figli, non avevano patito la fame perché tra la pesca e la caccia se la cavavano abbastanza bene, avevano anche molta farina e patate per cui anche il primo fu servito per cena con dei gnocchi conditi con erbette che trovammo veramente squisiti. Quella sera confrontammo le nostre idee e impressioni su ciò che era successo nelle settimane precedenti, nessuno di noi aveva chiaro cosa avesse innescato quella follia, provammo ad immaginare che ci fosse stato un forte calo nella produzione del petrolio e l’Italia fosse stata penalizzata nei rifornimenti. Si ipotizzò che gli Stati Uniti certamente si erano accaparrati un buona parte del greggio, così come pensammo per la Cina e forse la Russia. Eravamo comunque tutti certi che avremmo ripreso la nostra vita, magari non proprio come quella precedente, ma che saremmo riusciti a trovare un modo per vivere. Finimmo la cena con un amaro che gradii particolarmente. La notte trascorse tranquilla, dormimmo in una roulotte, ed al mattino, dopo un’abbondante colazione ripartimmo verso sud. 63 Camminammo tutto il giorno compiendo però un tragitto modesto. Dovevamo fermarci spesso perché il ragazzino si lamentava che era stanco, cercavo di approfittare di quelle soste per pescare, ma in tutta la giornata riuscimmo a prendere solo due pesci e neppure molto grossi, ma catturammo anche tre granchi che a sera cocemmo sul fuoco; non c’era molta carne, ma erano abbastanza gustosi. Dormimmo, quella notte, in un chiosco di un bar sulla spiaggia. Il mattino seguente ripartimmo senza mangiare nulla. Dopo circa un’ora scorgemmo una barca a vela che era attraccata ad un piccolo imbarcadero; era un piccolo cabinato di circa nove o dieci metri con un albero. Vedemmo da lontano che vi erano alcune persone affaccendate intorno allo scafo. Ci avvicinammo e, quando fummo a circa cento metri, ci videro ed ogni attività si interruppe. Consegnai a Vera la pistola e le dissi di rimanere indietro, io sarei andato a parlare con quella gente. Mi avvicinai mostrando le mani bene in vista, sul ponte della barca c’era un uomo armato, un altro si era piazzato a poppa, mentre potei osservare che a terra c’erano due donne ed un terzo uomo che si indaffaravano intorno a due taniche. Un tubo di gomma usciva dal pontile ed era dentro ad una delle taniche. Stavano rifornendosi di acqua. Chiesi se andavano verso sud e se potevano darci un passaggio. Quello a prua mi chiese se sapevo portare una barca a vela, risposi di si. Mi disse, guardando alle mie spalle, che avevano un solo posto in barca. Mi fece osservare che la barca era piccola, e loro erano già in otto, e più di una persona non avrebbero potuto portare. 64 Feci cenno di si, capivo. Dissi loro che magari un bambino in più poteva sempre starci. Si guardarono tra loro e capii che li avevo convinti. <<Puoi salire, tu e il bambino>>, mi disse l’uomo con il fucile, gurdando di sottecchi Vera e fece per darmi la mano per aiutarmi a salire. Voltandomi vidi Vera che stava osservando la scena con una mano sulla bocca e lo sguardo sgomento. <<Non vengo io.>>, risposi. <<Vengono loro due>>, indicando madre e figlio. E aggiunsi, prima che dicessero qualcosa. <<Anche lei sa governare una barca.>> Non ci fu bisogno d’altro, tutti accettarono con un “va bene”, quasi collettivo, mi dissero solo che dovevano sbrigarsi, non avevano intenzione di farsi sorprendere da qualche malintenzionato. Ero d’accordo con loro, anche se voleva dire separarsi da quella compagnia. Prima di salire Vera chiese se poteva avere una matita e un foglio di carta. Dalla cabina uscì una donna che le porse un bloc-notes e una matita. Vera scrisse qualcosa su un foglio, lo strappò dal blocco, lo piegò in quattro e me lo infilò nel taschino della camicia. <<Ti auguro di trovare quello che cerchi, ma in caso contrario…>> e, lasciando incompiuta la frase, passò due dita sulla mia guancia e prima di mettersi a piangere salì sulla barca. Luca mi volò al collo senza dire nulla. Non avevo parole, ma mi sforzai e gli dissi soltanto: <<Stai attento alla mamma.>> Mi fece cenno di si, una lacrima gli scivolava sul volto, lo issai a bordo. Mi sedetti sul molo a pescare mentre la vela prendeva il vento e rimasi lì fino a quando scomparve alla mia vista. 65 La tristezza mi avvolse, avevamo trascorso una settimana insieme e l’amicizia con quelle due creature era diventata un conforto per me, ed ora avevo perso anche questo riferimento. Ero di nuovo da solo, aprii il biglietto, c’era il nome di un paese, un indirizzo e un cognome, null’altro. Ripartii con il morale sotto i piedi, ma con la determinazione che dovevo arrivare al più presto dai miei. Claudia, Marco Giulia, dove siete? Confidavo che fossero già arrivati a destinazione e li immaginavo al sicuro in attesa del mio arrivo. 66 6 Quella sera mangiai poco e mi addormentai di malumore. Il giorno seguente ripresi a camminare e all’imbrunire entrai in un’officina e mi rifugiai nel locale adibito ad ufficio. Come ormai d’abitudine mi cucinai pesce che non trovai particolarmente di mio gradimento, sarà stato per l’umore. Finito di nutrirmi cercai di distrarmi guardadomi intorno, sapevo che non potevo trovare del cibo, ma avevo bisogno di qualcosa per passare il tempo, qualcosa che mi distogliesse dal mio stato catatonico. In uno sgabuzzino trovai una vecchia vespa 50 appoggiata al muro, la tirai fuori, mi sembrava un rottame, ma mi dava l’aria di essere funzionante; provai a scuoterla, c’era ancora un po’ di benzina. Cercai nell’officina ed in un cassetto trovai una chiave con un biglietto attaccato “vespa”. Non sarei stato in grado di farla partire senza le chiavi, pensai, ma non sapevo, comunque, sesarei riuscito a metterla in moto. Tirata l’aria, provai una, due, tre volte a spingere sul pedale d’avviamento, sembrava ingolfata. Allora la portai fuori mi misi a spingerla correndo e dopo aver messo la seconda, al terzo tentativo si mise in moto sobbalzando. 67 Il motore girava e fui subito contento, avrei potuto percorrere molti chilometri in poco tempo, ma c’era un “ma”, avrei dovuto trovare della benzina. Rivoltai completamente tutti i locali e alla fine trovai, nello stesso sgabuzzino dove era stata sistemata la vespa, dietro un cartone, una tanica da cinque litri con sopra scritto: “miscela”, era piena. Feci un piccolo conto mentale, immaginai che con la poca benzina che era rimasta nel serbato e quella nella tanica avrei potuto fare dai cento ai cento cinquanta chilometri, era un bel passo avanti e me ne rallegrai. Andai a dormire pensando fino dove avrei potuto arrivare il giorno successivo. Ebbi difficoltà ad addormentarmi, il pensiero del giorno dopo mi rendeva inquieto. Comunque ero riuscito ad addormentarmi e stavo dormendo come un sasso quando mi risvegliai di colpo, mi era venuta una folgorazione. Avevo fino a quel punto immaginato di procedere verso sud lungo la costa, per poi trovare un modo di attraversare la penisola dal Mar Tirreno all’Adriatico, ben sapendo che avrei dovuto attraversare gli Appennini e che l’inverno non era poi così lontano. Con un mezzo meccanico, pensai, avrei potuto attraversare subito le montagne, che comunque in quel luogo non erano poi tanto alte, e una volta sulla riviera adriatica avrei potuto proseguire agevolmente verso sud. Si, mi dissi, avevo avuto proprio una magnifica idea. Mi alzai presto, ero intenzionato ad attraversare le montagne in un solo giorno, speravo che la vespa mi avrebbe portato fino a scavalcare la catena, avrei approfittato di ogni discesa per spegnere il motore e risparmiare carburante. Questo era ciò che mi ero prefissato e facevo conto sulla buona sorte, ma non avevo fatto il conto con tutte le variabili possibili e con tutte le avversità in agguato. 68 Il cielo era plumbeo, nella notte si era coperto e ora non prometteva niente di buono. Non importa avevo una mantella e se anche avesse piovuto avrei proseguito fino a quando c’era una goccia di benzina. Misi la miscela nel serbatoio, ne avanzai poco più di mezzo litro che misi in una bottiglia di plastica, speravo di più. Il motociclo si mise in moto al secondo tentativo e, baldanzoso, saltai in sella e partii. Mi ero fatto un itinerario guardando su una cartina che avevo trovato nell’officina, era abbastanza dettagliata e mi consentiva di rilevare le varie strade che portavano verso est. Scelsi quella che mi sembrava la più diretta, era certamente una via secondaria, che si inerpicava fino ad una certa altezza, ma sembrava decisamente la più breve. Imboccai la strada provinciale e cominciai ad inoltrarmi nell’entroterra e, dopo una ventina di chilometri, la strada cominciò a salire. Viaggiavo a velocità moderata per non consumare benzina. Circa due ore dopo la partenza fui raggiunto da un forte vento che aumentò di intensità man mano che avanzavo. Fortunatamente non era frontale, ma piuttosto proveniva da ovest e da nord, con folate sempre più impetuose. In certi momenti ero scaraventato da una parte all’altra della strada, ringraziai il fatto che non ci fossero altri veicoli. Procedevo sempre più lentamente e, dopo un tuono fragoroso, cominciò a piovere sempre più forte. Mi fermai e misi, il più in fretta possibile la mantella, risalii sulla sella ed andai avanti nella bufera. Ormai l’andatura era pressappoco quella di un uomo a piedi, cominciai a disperare e, mentre pensavo che dovevo resistere e dovevo a tutti i costi proseguire per superare le montagna, tutto d’un colpo il motore si ammutolì. Fui colto dalla disperazione, provai e riprovai a rimettere in moto la vespa, guardai nel serbatoio, c’era ancora benzina, 69 ma non c’era verso di farla ripartire. Girai la vespa verso la discesa, contavo di metterla in moto a spinta, ma non ci fu verso, in compenso ero tornato indietro di cinque o seicento metri in quel tentativo di riavviarla, che fu assolutamente vano. Probabilmente l’acqua aveva bagnato la candela, o qualcosa di simile, e in quelle condizioni non era proprio possibile rimediare. Cercai di ragionare a cosa dovevo fare, mi ricordai che avevo visto alcune case circa trenta chilometri prima, troppo, mi dissi e pensai, ci sarà certamente qualche casa più avanti, non posso tornare indietro, quando smetterà questo temporale potrò proseguire, e magari recuperare la vespa. E mentre cercavo di concentrarmi su cosa fare, la furia del vento e della pioggia mi flagellava. Andai avanti sulla strada cercando un riparo, ero completamente bagnato nonostante la mantella. L’acqua si infilava dappertutto, dal collo, dalle maniche e, quando il vento la alzava fin sopra la testa, venivo trafitto da scrosci sempre più violenti. Non vedevo a più di venti metri davanti a me, mi venne paura che avrei potuto passare davanti ad una casa senza accorgermi che c’era. Erano caduti anche degli alberi sulla strada, volava qualsiasi cosa, dai rami ai cartelli stradali, ero in mezzo ad una tempesta e dovevo assolutamente trovare riparo. Una raffica di vento mi scaraventò di lato fino a ridosso di un albero, cominciavo ad avere un freddo cane, mi aggrappai al tronco dell’albero e, mentre cercavo di raddrizzarmi, vidi a terra un cartello segnaletico che era stato piegato dalla furia del vento; indicava un campeggio a cinquecento metri. C’era una stradina non asfaltata che si dipartiva da quel punto, non l’avrei vista se non fossi stato spinto dalle raffiche. 70 Mi incamminai in quella direzione, nel fango, facendo attenzione ai rami che cadevano da ogni parte. Arrivai al cancello del camping in un tempo che non riesco a calcolare, era chiuso, lo scavalcai dopo aver lanciato dall’altra parte lo zaino. C’era, a pochi passi dal cancello, una costruzione bassa, una insegna di legno indicava “Direzione – Bar – Market”. Era tutto chiuso, provai a forzare la porta, ma non avevo nulla che potesse aiutarmi, girai intorno al piccolo edificio; sul retro c’era una piccola finestrella chiusa da un’anta in legno. Presi un grosso ramo caduto, lo incastrai tra l’anta e il davanzale e con un certo sforzo riuscii a scardinarla. Ruppi il vetro ed in quel modo riuscii ad entrare. Ero completamente fradicio ed ero frastornato dal freddo. La prima cosa che desideravo era cambiarmi, perché addosso non avevo neppure un indumento asciutto. Aprii lo zaino, ma al suo interno tutto era bagnato, mi insultai per non aver pensato di mettere il coprizaino che avrebbe permesso di mantenere asciutte le cose al suo interno. Cercai intorno qualcosa da infilarmi, ma trovai solo un camice da lavoro e una coperta con cui tentai di asciugarmi e riscaldarmi. Mi sedetti su una brandina che era nell’ufficio, e fui colto da un tremito violento, mi sentivo spossato ed ad un tratto fui preso dal panico, mi sentivo addosso la febbre, anzi ero certo di avere la febbre. Non potevo rimanere bagnato e al freddo, dovevo assolutamente trovare una soluzione. Mi alzai e mi avvicinai alla scrivania, alle spalle della poltroncina, dietro la scrivania, c’era una bacheca, conteneva le chiavi di tutte le porte del campeggio. Osservai le chiavi, ognuna aveva un cartellino che indicava a cosa servivano. Un gruppo era contrassegnato da nomi e mi venne subito in mente che 71 poteva trattarsi delle chiavi delle roulotte che erano ferme nel campo. Pensai che avrei potuto trovare qualche indumento al loro interno. Mi feci forza e mi decisi ad uscire nella bufera; speravo anche di trovare una roulotte con la stufa al suo interno, dato che avevo notato che nei locali della direzione non vi era alcun mezzo per scaldarsi. Fuori fui colpito dalle raffiche di vento e dall’acqua gelata, mi avvicinai alla prima roulotte con il mazzo di chiavi, e dovetti provare otto chiavi prima di trovare quella che apriva, sforzandomi di resistere alla furia del vento e all’incalzare della pioggia. Aprii ad una ad una le roulotte, cercando di resistere alla spossatezza ed alla febbre che ormai mi stava divorando e mi aveva anche procurato un mal di testa feroce, però sapevo che se non avessi fatto subito quello che stavo facendo avrei potuto pentirmene amaramente. Rientrai ancora più raggelato e bagnato di quando ero uscito, scottavo, ma avevo trovato molte cose che potevano servirmi. Biancheria, vestiti, asciugamani, sacchi a pelo, un accappatoio e, molto importante, medicinali. Mi spogliai nel freddo di quella stanzetta e mi asciugai con quello che avevo racimolato, poi, tremando mi vestii mettendomi addosso tutto quello che avevo di più caldo: canottiera di lana, maglione, pantaloni di tuta sopra ad un pigiama di lana. Il freddo e la febbre però non mi permettevano di connettere, dovevo sforzarmi. Avevo trovato una tendina ad igloo e pensai che sarebbe stato più facile scaldare un luogo più piccolo come quello. Spostai la scrivania e nel centro dell’ufficio montai la tenda, vi infilai dentro il materasso che era sulla brandina, buttai dentro anche tre sacchi a pelo, e poi, stavo per infilarmi 72 dentro per cercare di recuperare, ma la febbre mi aveva fatto venire sete. Entrai nel locale adibito a market, non c’era molta roba, ma gli scaffali non erano vuoti, c’erano anche generi alimentari, quelli che non avevano la necessità di rimanere in un frigorifero ed avevano una scadenza non prossima. Ad un primo sguardo vidi della pasta, del riso. Trovai pacchetti di minestre liofilizzate, ne presi quattro, presi una confezione di piatti sfogliabili, aprii una confezione di sei bottiglie di acqua minerale. Nel reparto attrezzi trovai piccole bombolette di gas, un fornelletto e una lampada funzionante a gas. Presi ciò che mi serviva e portai il tutto nella tendina che era aperta nel centro della stanza. Era una piccola tenda da tre persone, per me abbastanza ampia; da una parte spostai il materasso, introdussi una cassettiera con ruote su cui misi il fornelletto a gas, accesi la lampada poggiandola anch’essa sulla cassettiera. Non ce la facevo più, mi provai la febbre con un termometro che avevo preso chissà in quale roulotte, segnava trentanove e otto. Mi venne il sangue alla testa, quel poco che riusciva ancora a circolare. Aprii un flacone di tachipirina, rimasi un attimo indeciso, poi presi tre pastiglie e le ingurgitai senza pensarci, poi mi infilai in un sacco a pelo di piumino e mi ricoprii con gli altri due. Il tremito mi faceva sbattere i denti con un’intensità e una violenza che non avevo mai provato, avevo un freddo incredibile e nello stesso tempo scottavo, non riuscii più a concentrarmi e caddi in una specie di coma. Non so quanto rimasi addormentato, ad un certo punto mi svegliai, ero fradicio di sudore. Nell’immediato non riuscii a ricordare dove mi trovavo, poi vidi la lampada accesa sul tavolino improvvisato ed ebbi una chiara visione della mia condizione. 73 Fuori la tempesta continuava ad infuriare, sentivo le raffiche di vento e gli scrosci d’acqua che investivano le persiane. Mi riaddormentai senza accorgermene, mi risvegliai a notte fonda, avevo un bisogno urgente, ma nessuna voglia di alzarmi. Mi costrinsi, mi alzai, la temperatura all’interno della tenda era discreta, indossai l’accappatoio per uscire. La temperatura della stanza, invece, era glaciale, c’era un bagno, ma non potei utilizzarlo, era il vano da cui ero entrato e avendo infranto la finestra il finimondo era entrato con me. Trovai un secchio nel market e lo usai per la bisogna. Rientrai nel mio accogliente rifugio, la lampada aveva riscaldato l’interno portandolo ad una temperatura accettabile, lasciai slacciata la cerniera che dava all’esterno in modo che potesse entrare aria per il ricambio. Misurai la febbre era poco sopra i trentotto, decisi che era meglio mangiare qualcosa, misi in un pentolino dell’acqua e vi versai dentro una bustina di minestrone. Dopo qualche minuto ero seduto sul materasso con in mano un piatto fumante che mangiai con gusto, alla fine presi un’altra pastiglia e mi rimisi a letto. Non riuscii a calcolare il tempo che passava, fuori la tempesta continuava ad infuriare, mi alzavo solo per i miei bisogni, mangiavo, mi imbottivo di medicine. Credo fossero passati quattro giorni, fuori era buio, quando ad un tratto smise di piovere ed il vento cessò, lo percepii mentre stavo dormendo, mi svegliai, sentivo che la febbre se ne era andata insieme alla tempesta, mi rallegrai, pensai al giorno dopo. Sarei tornato sulla strada avrei cercato la vespa ed avrei tentato di asciugare la candela, l’avrei fatta ripartire e mi sarei finalmente diretto verso l’Adriatico. Il pensiero mi sollevò il morale e mi riaddormentai contento. Il mattino successivo mi risvegliai nella quiete più assoluta. Fuori della tenda, un termometro appeso alla parete 74 dell’ufficio segnava due gradi, non avevo più la febbre, mi ero vestito in modo adeguato, decisi di prepararmi una buona colazione e poi di partire al più presto. Mi feci un tè che accompagnai con biscotti, fette biscottate con marmellata e un succo di frutta, ora potevo pensare alla partenza, non rimaneva che prendere tutto il cibo che potevo dal market infilarlo nello zaino e partire. Dalle ante chiuse delle finestre traspariva abbastanza luce per vedere all’interno, ma non permettevano di vedere fuori, doveva essere una giornata chiara, ma non sembrava che risplendesse il sole. L’importante era che non piovesse. Aprii la porta per dare uno sguardo fuori e rendermi conto delle condizioni del tempo. Un treno in corsa mi colpì nell’attimo stesso in cui aprii, l’impatto fu di una violenza esagerata, per un lungo attimo mi mancò il fiato. Stava nevicando e nella notte la coltre di neve aveva superato i cinquanta centimetri. Rimasi sull’uscio a bocca aperta. Non era possibile. Prima l’alluvione, poi la neve. Pensai che erano i primi giorni di novembre, probabilmente era la coda della perturbazione, avrebbe certamente smesso presto. Che pensiero infausto. Rientrai nel mio piccolo luogo riscaldato, la tenda, volevo pensare, ma non mi veniva in mente nulla. Decisi di farmi un’idea di qual’era la situazione, andai nel market e feci un inventario veloce, c’era da mangiare per molti giorni. Passai nel bar, anche dal lato bibite e liquori non avrei dovuto aver problemi. Guardai ancora fuori, aprii le persiane in modo che potessi vedere anche da dentro come evolveva la situazione, il cielo 75 era plumbeo e non dava l’impressione che avrebbe smesso di lì a poco. Rimasi a pensare tutta la mattina mentre guardavo la neve che stava per raggiungere il metro d’altezza. Mi preparai un pranzo che sognavo da giorni, poi decisi che era necessario trovare il modo di scaldare il locale. Nelle roulotte, lo sapevo, non c’erano stufe a gas, mi serviva qualcos’altro. Una piantina appesa ad un muro descriveva la topografia della zona, rintracciai il sito del campeggio, vidi che poco oltre il bivio che portava in quel luogo erano segnate tre o quattro costruzioni, case probabilmente, decisi che sarei andato a vedere. Non era pensabile camminare sulla neve appena caduta senza sprofondare, avrei dovuto avere degli sci o delle racchette da neve, ma in quel luogo non vi era nulla di tutto ciò. C’erano nel market, nel ripiano dei giocattoli due racchette di plastica, quelle che si usano per giocare con le palline di spugna, ci ragionai su. Presi dei lacci e me le assicurai agli scarponcini, non erano il massimo e non erano nemmeno belle da vedere, non avrei vinto il concorso per l’uomo più elegante, ma avrebbero fatto il loro dovere. Mi inoltrai nella stradina alla volta della strada principale, in mezzo ad una nevicata natalizia. Adoravo la neve, ma in quel momento non me la sentivo di apprezzare il paesaggio. Poco oltre il bivio intravidi la sagoma di una casa, mi avvicinai, avevo con me lo zaino vuoto e un palo di ferro lungo circa un metro, lo avrei usato come grimaldello. Visitai, se così si può dire, quattro case in quel pomeriggio; mi dava una certa sensazione violare l’esistenza altrui mentre aprivo i cassetti e gli armadi. Potevo intuire, anche se si trattava di case per vacanze che venivano utilizzate, probabilmente nei fine settimana, quasi la vita delle persone 76 che vi avevano soggiornato. C’erano le fotografie appese ai muri che mi permettevano di vedere i volti di quella gente, i giornali che leggevano e cosa mangiavano. Mi rendevo conto se tenevano degli animali, in una casa certamente c’era almeno un gatto, lo si capiva da tante piccole cose, non ultimo il divano rovinato dalle unghie; in un’altra casa avevano un cane, anche lui nelle foto, la sua cuccia e il cibo nel sottolavello. Feci un’ispezione completa e mi feci anche un piccolo inventario di cosa poteva tornarmi utile: cibo non deperibile, c’era anche una cassetta di patate; molti vestiti, ma furono due gli oggetti che decisi di prendere subito. In un armadio trovai un fucile da caccia a doppia canna e una scatola con venticinque cartucce. Nella cucina della terza casa c’era una stufa a legna, non era grande, era semplicemente una stufa cilindrica in ghisa che poggiava su quattro piedi, con un diametro di non più di trenta centimetri che permetteva di scaldare quel locale. Tolsi i tubi dello scarico, feci scendere dalle scale la stufa trascinandola, ruppi anche due gradini delle scale, ma non me ne preoccupai, ormai tutto aveva un valore relativo. Per portarla fino al campeggio smontai il coperchio di plastica di un cassonetto della spazzatura a cui fissai una corda e così ottenni una slitta. Non fu comunque facile e mi costò molta fatica, ma contavo che avrei dovuto fermarmi in quel luogo ancora per almeno due o tre giorni. Tornai che stava facendo buio, non aveva smesso un momento di nevicare, impiegai circa due ore a sistemare la stufa e a montare i tubi, fortunatamente c’era già un buco in cui era inserita una ventola per arieggiare l’interno dell’ufficio. Tolta la ventola potei infilare il tubo che portava il fumo sull’esterno. 77 Presi della carta, spaccai un pallet che era all’interno del market, in poco tempo accesi la stufa e nel giro di qualche minuto l’ambiente cominciò a riscaldarsi. Mi cucinai una minestra direttamente posizionando il pentolino sulla stufa e mi feci anche una bella padella di piselli e tonno, il tutto innaffiato con un discreto vino rosso. Potevo perfino mangiare ad un tavolo senza più la giaccavento addosso, in qualche modo mi sentivo bene, in quel momento la situazione che, sembrava potesse precipitare qualche giorno prima, si stava stabilizzando ed ero perfino quasi sereno con me stesso. 78 7 La neve continuò a scendere ininterrottamente per otto giorni, coprendo il terreno con un manto di oltre quattro metri. Dopo i primi giorni mi resi conto che avrei dovuto fermarmi per un certo tempo prima di poter riprendere il mio cammino per cui cercai di organizzarmi. Avevo cibo per più di trenta giorni, il secondo giorno avevo spaccato i rami di un albero caduto e mi ero rifornito di legna da ardere. In qualche modo cercavo di trovare qualche cosa con cui occupare il pensiero, spalavo la neve davanti alla porta d’ingresso e alla finestra, cercavo di togliere il più possibile la neve caduta sul tetto, temevo si potesse sfondare, mi cimentavo nella preparazione di pranzi cercando di trovare le variazioni più improbabili tenendo conto della poca varietà di cibo che avevo trovato sugli scaffali del market, nelle case e nelle roulotte. Avevo sostanzialmente molte scatolette: legumi, carne, tonno, frutta, sughi; pasta e biscotti e le patate. Dovevo per forza occupare il tempo, avevo paura di dare fuori di testa, ero solo, in un mondo che era impazzito. Impazzito in tutti i sensi. 79 Avevo visto uomini e donne scannarsi per i motivi più futili, saccheggiare grandi magazzini e ipermercati, dove prima di questa crisi si andava anche solo per passare il tempo. Non potevo non ripensare a quando si andava tutta la famiglia, quasi fosse una spedizione, all’ipermercato, tutti e quattro insieme come nelle pubblicità. Di solito, il sabato, giravamo almeno un quarto d’ora alla ricerca di un parcheggio nel grande piazzale del centro commerciale. Ci infilavamo in una specie di girone infernale insieme ad altre migliaia di persone alla ricerca di un’occasione o dell’ultima trovata inutile da acquistare. Mi venne solo in quel momento in mente l’inutilità di tutti quei riti. Si passava più tempo nei centri commerciali che con gli amici. I ragazzi tagliavano da scuola per poi ritrovarsi a ciondolare tra negozi di intimo e rivendite di videogiochi. Che spreco di vita. Eppure allora ci sembrava di non poterne fare a meno delle promozioni, dei saldi o dei grandi ribassi. Poi, se non eravamo proprio sfiancati dall’andare avanti e indietro per quei corridoi, non ci facevamo mancare un giro all’Ikea. Da quel magazzino di mobili in kit uscivamo sempre con qualche cosa, di solito inutile: lampade portacandele, set di forbici colorate, piatti di forma particolare, contenitori in plastica e qualsiasi cosa che la fantasia svedese aveva partorito. Che poi se uno ci pensa la fantasia svedese a noi italiani dovrebbe proprio farci ridere, ma non potevamo mancare alla grande chermes dei prodotti scandinavi. Io per la verità cercavo sempre una qualche scusa per evitare quei pomeriggi, ma immancabilmente mi piombava addosso la mancanza di disponibilità nei confronti della famiglia a partecipare alle necessità dei figli e della moglie. 80 Cazzate, ma quanto mi mancavano in quel paesaggio innevato, sperso in un luogo a me sconosciuto. Il tempo, quello meteorologico, poi si era accanito contro me, non ricordavo di aver sentito di nevicate così intense negli ultimi anni, mi ero pure sorbito una tempesta e un diluvio, la sfortuna mi perseguitava, magari se avessi continuato lungo la costa avrei trovato un tempo più clemente. Non potevo farci niente, ma mi arrabbiavo lo stesso. Avevo trovato fortunatamente anche dei libri che divorai nelle lunghe giornate in attesa che smettesse di nevicare. Nel cassetto della scrivania trovai un lettore CD con alcuni compact, così ascoltai musica sino a quando le pile a mia disposizione me lo permisero. Mi aggiravo per il campeggio con le mie improbabili racchette da neve alla ricerca di legna da ardere e di qualunque cosa potesse servirmi, mi inoltravo fin sulla strada dove c’erano le quattro case isolate con l’intento di curiosare su qualcosa che mi era sfuggito la prima volta e le volte successive. Ogni volta che entravo in un alloggio chiedevo mentalmente scusa ai proprietari, salutandoli rivolto verso le fotografie appese, stavo diventando matto ed il tragico è che me ne rendevo conto. Parlavo anche tra me e me, ad alta voce, poi, quando mi accorgevo di ciò, tacevo cercando di darmi un tono, ma era tutta una finta con me stesso. Smise di nevicare ed il cielo si aprì con un sole accecante, la temperatura che si era mantenuta sullo zero nei giorni delle precipitazioni, scese bruscamente; il termometro, che reclamizzava un amaro del luogo e che era posizionato sul muro esterno della reception, segnava meno dieci gradi durante il giorno e scendeva abbondantemente sotto i quindici di notte. 81 La neve e il gelo avevano spezzato molti rami degli alberi del campeggio, alcuni erano già secchi e potevo utilizzarli subito nella stufa, gli altri provvedevo a tagliarli e a sistemarli a fianco della stufa in modo che si asciugassero il più possibile prima di poterli mettere nel fuoco, affinchè non producessero un fumo eccessivo. Tutto sommato la stufa funzionava bene e non soffrii più il freddo. Passarono circa dieci giorni con un freddo polare, la neve si era consolidata e così alta che non si vedevano più le roulotte, l’undicesimo giorno la temperatura si alzò, il cielo si riempì di nuvole e nel pomeriggio ricominciò a nevicare. Fu una giornata di vero sconforto. Dove ero finito? Non c’era speranza avrei dovuto sostare ancora a lungo, c’erano più di tre metri di neve ghiacciata su cui si stava posando altra neve. Cominciai a dubitare di avere cibo a sufficienza per resistere, decisi subito di tornare nelle case poco lontane. Infatti, a parte le patate che avevo preso da uno scantinato, non avevo preso altro cibo che era contenuto nelle dispense, pensavo che quanto si trovava nel market del camping fosse sufficiente per i pochi giorni che contavo di restare, le mie visite precedenti erano un passatempo, ma in quel momento avevo bisogno di accumulare tutto il possibile. Riempii lo zaino con la pasta e le scatole che trovai. Tornato al campeggio feci un censimento e mi resi conto che se mi razionavo ciò che avevo potevo contare di resistere per almeno altri venti giorni. Se avessi fatto razioni minime, pensai, ma non terminai neppure il pensiero. Guardai la neve fuori e mi venne paura. Erano tre giorni che non smetteva, avevo pranzato da circa un’ora, ero seduto sulla poltroncina e stavo leggendo un libro quando sentii un 82 rumore inaspettato, mi sembrava che qualcosa avesse toccato la porta. Pensai ad un ramo caduto mosso dal vento. Un’altra volta lo stesso suono, e poi, mentre i miei sensi si erano tesi, udii come se qualcuno grattasse sulla porta. Il cuore mi balzò in gola, non sapevo cosa pensare, mi avvicinai guardingo alla finestra e, con cautela, sbirciai verso la porta. Riuscivo a vedere il fondo schiena di un animale, poi compresi che era un cinghiale, non era tanto grande sembrava un maiale di mezza stazza, rimasi bloccato per un momento, poi mi mossi, cercando di non far rumore, presi il fucile, lo caricai con due cartucce, richiusi e mi avvicinai alla finestra. Non avevo mai sparato con un fucile da caccia, non sapevo nemmeno se il fucile che avevo tra le braccia fosse adatto per un animale di quella stazza, o se invece fosse un fucile per la caccia alle quaglie. Non avevo idea se avrei ricevuto un contraccolpo molto potente oppure no. Comunque ero più che deciso a conquistare quella preda. Aprii molto lentamente la finestra, misi fuori con cautela le canne, urtai leggermente il bordo della finestra, il rumore fece girare l’animale che, per un attimo, mi guardò e subitamente si girò per fuggire, ma io nello stesso istante sparai un colpo, che fece un frastuono assordante all’interno della piccola stanza. Subito dopo, nonostante fossi quasi stordito dal rumore, sparai la seconda cartuccia. Nonostante la mia inesperienza tutti e due i colpi arrivarono al bersaglio. L’animale fece tre passi e si adagiò ansimante nella neve. Aprii la porta e lo vidi a terra che respirava affannosamente, mentre il sangue gli usciva da più parti, mi venne paura che potesse rialzarsi e potesse caricarmi con quelle zanne appuntite. Rientrai, caricai di nuovo il fucile, uscii e lo 83 puntai verso la bestia, ma non riuscii più a sparare. Forse sarebbe stato meno crudele ucciderlo subito, ma non me la sentivo di sparare guardandolo negli occhi, e così, per vigliaccheria, lo lasciai morire senza il colpo di grazia. Dopo circa un’ora lo toccai con un piede per vedere se si muoveva ancora. Non dava segni di vita e in quel momento mi chiesi. “E adesso?” “Cosa dovevo fare?” Non avevo mai ucciso animali. Non avevo mai visto smembrare o squartare altro che polli. Mi ingegnai, pensando a come probabilmente si doveva fare quel lavoro, che certo non mi piaceva. Legai le zampe anteriori dell’animale, lo trascinai, mentre stava sempre nevicando, e lo fissai tirandolo su tra due alberi vicini. Quando fu appeso in quel modo, che pareva orribile a vedersi, presi un coltellaccio e con un grande senso di nausea gli aprii il davanti. Le interiora uscirono di colpo insieme ad una grande quantità di sangue, feci un salto indietro schifato. Lo lasciai lì, in quella posizione, col ventre squartato per altre due ore, poi tornai; con una pala, presi le interiora e le andai a mettere in un buco nella neve, lontano. Il corpo si era praticamente dissanguato, con molta fatica tolsi la pelliccia e, senza sapere se quello era il metodo giusto cominciai a tagliare fette di carne, dalle cosce prima e poi dal dorso e da tutto il corpo. Sistemavo le strisce sulla neve, quando ne ebbi una certa quantità pensai che era meglio se mi fossi predisposto una specie di frigorifero. Così scavai nel ghiaccio, a lato della casa, un frigorifero fatto di ghiaccio, dove misi una accanto all’altra le fette di carne che man mano tagliavo. Mi ci volle tutto il pomeriggio per riuscire a togliere la maggior parte della carne dalla carcassa dell’animale, alla 84 fine chiusi con una lastra di ghiaccio la carne, però tenni per quella sera due fette che mi sarei cucinato. Il taglio non doveva essere dei migliori, ma in compenso la carne era veramente gustosa. Questa inaspettata manna fu ciò che mi salvò dalla morte certa, rimasi bloccato in quel luogo per più di cento giorni, mentre continuava a nevicare intervallando giornate serene con gelate che duravano anche dieci giorni. Una notte stavo per andare a letto, quando, chiudendo le persiane, mi si presentò uno spettacolo che non avevo mai visto se non sui libri. Un’aurora boreale illuminava il cielo con strisce biancastre e fluorescenti, era un vero spettacolo e mi venne spontaneo uscire per osservare quella meraviglia. La natura si era scatenata con tutto il repertorio, tifoni, bufere di neve, gelo ed in quel momento l’aurora boreale. Sapevo che alle nostre latitudini non era solito assistere ad uno spettacolo del genere ed il fatto mi turbò. Non sapevo a cosa pensare, la mia ignoranza nella meteorologia era abissale, forse da quelle parti era naturale, ma qualcosa mi diceva che non era così. 85 8 Ai primi di aprile, decisi di muovermi, non potevo rimanere in quel luogo remoto all’infinito, dovevo per forza prendere una decisione e la mia malinconia verso la mia famiglia mi spingeva a non indugiare oltre. C’era ancora moltissima neve, ma non nevicava più da quindici giorni. Avevo preparato un piano, che avevo studiato per giorni. Mi ero convinto che non mi conveniva tornare indietro; dalle cartine che avevo sapevo che dovevo percorrere circa sessanta chilometri per superare i monti, poi sarei stato in pianura e avrei potuto raggiungere il mare e avrei così potuto riprendere il mio cammino verso sud. Contavo di impiegare quattro giorni per arrivare alla pianura, dovevo camminare nella neve: nei giorni precedenti feci una variante alle racchette che tanto mi erano state utili. Con della plastica molto resistente avevo applicato delle strisce sotto le racchette stesse che fungevano quasi da piccoli sci, due bastoni di scopa a cui avevo aggiunto due rondelle, sempre di plastica, mi facevano da bastoncini. La decisione di partire era anche impellente in quanto ormai avevo viveri per non più di una settimana e quindi era indispensabile arrivare al più presto al mare dove, se non altro, avrei potuto pescare. 86 Riempii lo zaino esclusivamente con il cibo, nella parte superiore legai la tendina e sotto fissai un sacco a pelo di piumino; non avevo posto per il vestiario, feci quindi stare in una tasca laterale solo alcuni capi di biancheria. Poi, una mattina, dopo un’abbondante colazione, presi lo zaino e il fucile e mi chiusi alle spalle il rifugio che mi aveva ospitato per così tanto tempo. Ero arrivato in quel luogo pensando di rimanervi una notte e ne uscivo dopo mesi. Mi incamminai certo del mio obiettivo, all’inizio mi sembrava di procedere abbastanza celermente, ma dopo poco mi resi conto che, anche con quelle calzature, che mi ero preparato, non potevo andare avanti con un passo molto spedito. Ero rimasto molto tempo senza muovermi eccessivamente e dopo poco che camminavo già avevo il fiatone. La salita era dura e la neve, a tratti soffice ed a tratti ghiacciata, mi rallentava. La fatica si faceva sentire e dovevo fermarmi spesso per riprendere fiato, comunque a sera arrivai nel punto che mi ero prefissato. Tre case a lato della strada, vidi subito che due di esse avevano la porta d’ingresso aperta, mi accorsi anche che davanti alla terza era stata chiaramente tolta almeno parte della neve, anche se c’era comunque un cumulo abbastanza alto e non c’erano impronte di sorta. Entrai nella prima e mi rifugiai nel salotto, montai subito la tenda dove accesi la lampada a gas che mi ero portato via proprio per poter scaldare la tenda. Sistemai il tutto e feci anche una discreta cenetta, poi feci il giro della casa. Qualcuno era stato sicuramente lì prima di me. Decisi di esplorare anche le altre due case, così uscii, entrai nella villetta vicina con la porta aperta, feci il giro, non c’era nulla di utile, anche qui era stato asportato tutto quello che poteva servire, anche se non era stato messo nulla a 87 soqquadro, evidentemente chi era passato non aveva fretta e non voleva rompere nulla. Mi spostai verso la casa con la porta chiusa, provai ad aprire, nulla. Pensai che avrei potuto rompere un vetro visto che le persiane erano aperte. Mi avvicinai ad una finestra, prima di infrangere il cristallo volli guardare dentro. Misi le mani a coppa e appoggiai la testa al vetro e subito sussultai. L’interno era quello di una cucina, ma la cosa spaventosa era che c’era un uomo, seduto su una sedia con la testa appoggiata sul tavolo e rivolta verso di me. Aveva gli occhi aperti e la bocca semispalancata ed era indubbiamente morto. Non entrai, provai solo ad immaginare quello che poteva essere successo, aveva finito i viveri e non aveva più avuto la forza di andarsene. Feci il giro intorno alla casa, arrivato sul retro mi accostai alle due porte finestre che davano su quel lato, dalla prima vidi una stanza che poteva essere di un adolescente, con un letto, un piccolo armadio una scrivania e una libreria su cui, oltre ai libri, erano esposte automobili e aerei in miniatura. Guardando nella finestra successiva ebbi un’altra immagine agghiacciante. Su un letto matrimoniale era distesa una donna, aveva le mani giunte sul petto e teneva una corona del rosario in mano. Evidentemente lei era morta per prima e l’uomo l’aveva composta in quel modo e poi era toccato a lui. Dormii un sonno agitato quella notte e l’indomani mi rimisi in cammino di buon ora, non mi andava di rimanere ancora in quel luogo per altro tempo. In quanti posti avrei trovato la morte ad aspettarmi? La domanda mi apparve angosciosa, la tragedia era tutto intorno. 88 L’inverno, in quella zona, doveva aver mietuto diverse vittime, tutta gente che, come me, era rimasta intrappolata su quelle montagne. Camminai per cinque ore filate; dalla cartina avevo rilevato che avrei trovato due o tre case, mi sarei fermato nei pressi per un boccone e avrei poi proseguito fino al punto che mi ero prefissato, altre tre case isolate lungo la strada. Ero contento perché stavo mantenendo, anche se con fatica, la mia tabella di marcia. Arrivai in vista delle case, erano solo due ed erano una a fianco dell’altra, mi stavo avvicinando e in quel momento stavo armeggiando con una cinghia dello zaino e la mia attenzione era tutta concentrata su quella cinghia, quando alzai lo sguardo mi venne un colpo. Davanti alla porta di una delle due case si era materializzato un fantasma. Mi bloccai all’istante, terrorizzato a quella vista, non avevo ancora rimosso le macabre figure della sera prima ed ora davanti ai miei occhi c’era un essere infernale. Guardai con più attenzione e mi resi conto che la mia immaginazione mi aveva giocato un brutto scherzo. Davanti a quella casa c’era una persona che aveva sopra la testa una coperta che la ricopriva quasi fino ai piedi. Era assolutamente immobile, mi guardava con uno sguardo perso, gli occhi infossati, la bocca viola, piccola e sottile. Mi avvicinai adagio, e vidi che si trattava di una donna. <<Salve>>, le dissi. Non rispose e fece solo cenno di si abbassando impercettibilmente il capo. Quando le fui vicino mi avvidi che si trattava di una ragazzina. Ci guardammo per un po’ negli occhi senza dire nulla, poi lei fece cenno di entrare. Mi precedette in cucina e si sedette su una sedia davanti al tavolo. Sul tavolo davanti a lei c’era 89 una scatoletta di sugo, pelati, aperta e con una forchetta dentro. Osservai l’interno e immaginai che non aveva altro da mangiare e probabilmente quella era l’ultima razione a sua disposizione. Le chiesi se aveva fame, e dall’espressione che fece e da come allargò gli occhi capii. Tirai fuori della carne che avevo già cotto e dei biscotti, cercai due piatti sopra l’acquaio ed uno lo misi davanti a lei. Mangiò voracemente, come c’era da aspettarsi, le diedi anche una seconda razione. Quando ebbe finito di mangiare provai a fare qualche domanda. <<Sei sola?>> Scosse la testa. Dunque c’era qualcun altro e dov’era? <<Sei con i tuoi genitori?>> La testa si abbassò due volte. <<Dove sono?>> Le chiesi sempre più incuriosito. E lei con un leggero cenno del capo mi indicò verso il corridoio dove c’era una porta chiusa. Mi alzai e mi diressi in quella direzione, ma quando misi la mano sulla maniglia, la ragazza, che si era alzata e mi aveva seguito, mise la sua mano sulla mia e mi guardò negli occhi. Capii e non abbassai la maniglia. Le dissi che doveva venire con me, non fece obbiezione, la aiutai a preparare un piccolo zaino in cui mise degli indumenti e sopra fissai la coperta con cui si era riparata. Diedi a lei quel simulacro di racchette da neve e presi due manici di scopa per fare altri bastoncini. Lasciammo la casa senza voltarci, mentre lei piangeva. Camminammo in silenzio per tutto il pomeriggio. Spesso sprofondavo nella neve, ma tutto sommato riuscivamo a procedere ad un ritmo abbastanza buono. La sera arrivammo ad una casa che trovammo con la porta divelta, ci accampammo per la notte, nel salotto c’era un 90 camino che accesi con alcuni ceppi che erano li a fianco. Montai la tenda su un grande tappeto di lana nel salotto, misi dentro due materassi che avevo recuperato in una stanza. Mangiammo in silenzio, poi versai in due bicchierini un liquore al mandarino che avevo trovato su uno scaffale, lei lo bevve a piccoli sorsi, mentre seduta davanti al camino osservava le fiamme. Non osai disturbarla. Quando fu ora di coricarci lei rimase un attimo titubante, la rassicurai e le dissi di non avere paura. Era un’idiozia, se avessi voluto farle del male non avrebbe potuto difendersi, lei abbassò gli occhi ed entrò nella tenda. Avevo aperto il sacco a pelo in modo che coprisse entrambe ed avevo messo sopra un copriletto spesso che avevo trovato in una stanza sul retro. La ragazza si mise sul materasso e si girò verso la parete della tenda, io mi infilai cercando di non toccarla, non volevo che si spaventasse più di quanto già lo era. Nel buio ebbi la percezione che non stesse dormendo. <<Come ti chiami>>, chiesi. E dopo un po’ lei rispose. <<Erica>> <<Io sono Andrea, quanti anni hai?.>> <<Diciassette>>, rispose. Riuscii a farle dire ancora poche cose, poi lei si addormentò. Il giorno dopo camminammo, io davanti, lei subito dietro, ci fermammo solo per mangiare poi, verso sera, arrivammo ad una villetta in cui pensavo di fermarmi. Il cancello era chiuso, ci avvicinammo e, mentre stavo accertandomi da che parte ci conveniva passare, il portoncino di casa si aprì, uscì un uomo sui sessant’anni con un fucile in mano. Rimase per un po’ fermo sulla soglia, si avvicinò imbracciando il fucile tenendo le canne verso terra, ma nella nostra direzione. 91 <<Cosa volete?>> Chiese quando fu nei pressi del cancello. <<Cerchiamo ospitalità>>, risposi io. L’uomo guardò prima me e subito dopo osservò con attenzione Erica. Alzando il fucile indicò quello che tenevo su una spalla. Capii cosa voleva, mi tolsi il fucile dalla spalle e lo feci passare all’interno del cancello e lo appoggiai ad una delle colonne che sorreggeva i battenti. L’uomo, che nonostante l’arma che brandiva aveva un’aria pacifica rimase perplesso. Gli feci cenno di aspettare, aprii la giaccavento, estrassi lentamente la pistola che tenevo nella fondina e la depositai vicino al fucile. L’altro si avvicinò, tirò su fucile e pistola, poi estrasse da una tasca una chiave, aprì e ci fece entrare. Attraversammo il giardino ed entrammo attraverso la porta che mostrava chiari segni di arma da fuoco. Ci presentammo, dopo che l’uomo aveva sistemato le mie armi in un armadio nell’entrata. Accese la luce e questo mi stupì, evidentemente lesse il mio pensiero e mi disse che aveva dei pannelli fotovoltaici che gli davano una piccola fonte di energia. Aveva una riserva di cibo abbondante e ci preparò una cena che veramente mi mancava da diverso tempo. La ragazza mangiò in silenzio, mentre noi ci scambiavamo informazioni e pareri. Giovanni Ristori aveva un aria importante, capelli brizzolati, occhiali rotondi e la faccia ben rasata, era un ingegnere civile, si era rifugiato in quel luogo con sua moglie. Lo guardai interrogativo quando accennò alla donna. <<Mia moglie aveva bisogno di una medicina particolare che doveva prendere ogni giorno, avevamo scorte per circa cinquanta giorni, non ci abbiamo pensato subito e quando finì l’ultima pastiglia cominciò a stare male.>> Si fermò per un po’. 92 <<Ha resistito venti giorni. L’ho seppellita la.>> e, avvicinandosi alla finestra indicò un albero che era in mezzo al giardino. Poi disse che vicino a lei, nel girdino, erano seppellite altre tre persone. Avevano tentato di entrare con la forza, li aveva ammazzati senza pietà. Trasalii, ma non feci domande. Finita la cena accese la televisione e mise un dvd in un lettore, apparve sullo schermo un cartone dei “Simpson”, la ragazza si raggomitolò su una poltrona e si mise a fissare la trasmissione. Noi ci sedemmo un po’ in disparte a chiacchierare, con un bicchiere di whisky in mano. Mi chiese se sapevo cosa era successo, al mio diniego, mi spiegò. Aveva, in un’altra stanza, un apparecchio radio con cui, per diletto, si era negli anni messo in comunicazione con tutte le parti del mondo; con quella radio si era messo in contatto con diversi interlocutori ed aveva potuto farsi un’idea di cosa era successo nel mondo. Cominciò il suo racconto. Nei mesi di luglio e agosto dello scorso anno alcuni pozzi petroliferi si erano esauriti, la notizia fu tenuta nascosta in quanto contavano di supplire con un maggior sfruttamento dei pozzi ancora produttivi, ma anche questi ad uno ad uno si erano esauriti. A metà settembre la metà dei pozzi aperti nel mondo si era esaurita, alla fine dello stesso mese la produzione era calata dell’ottanta per cento e d’un tratto quello che veniva prodotto non fu più sufficiente. Gli stati avevano gettato sul mercato tutte le riserve che possedevano nella speranza del ritrovamento di nuovi pozzi da sfruttare, ma l’inevitabile si era avverato. Il collasso fu repentino ed inaspettato, le popolazioni erano state tenute all’oscuro e non avevano potuto organizzarsi. Anche se, aggiunse il mio interlocutore, questo avrebbe 93 soltanto anticipato ciò che poi era avvenuto in tutto il mondo. Mancando il petrolio, gli approvvigionamenti di derrate alimentari, la corrente elettrica e le forniture di gas vennero a mancare di colpo e, come avevo potuto constatare di persona, ognuno pensò per se e cercò il modo di sopravvivere. Gli Stati Uniti tentarono anche di occupare i pozzi ancora operativi dell’Arabia Saudita, avevano mandato una flotta con portaerei, cacciatorpediniere e marines per attuare un piano che avrebbe permesso loro di impadronirsi del petrolio rimasto, ma quando arrivarono nella penisola arabica era tutto esaurito, non avevano neppure più il carburante per tornare indietro, così travasarono tutto il carburante rimasto nelle varie navi e lo misero nei serbatoi di una portaerei. Buttarono in mare gli aerei e caricarono la maggior parte dei soldati e dei marinai e fecero rotta verso la patria. Chiesi come facesse a sapere tutte quelle notizie. Accennò ancora una volta alla radio, poi mi disse di seguirlo. Mentre la ragazza continuava a seguire i cartoni sulla televisione, entrammo in una stanza in cui vi erano diversi apparecchi elettronici, campeggiava tra essi una radio che aveva un microfono sul davanti. Ristori accese un apparecchio e, prima mi chiese se conoscevo l’inglese, alla mia risposta affermativa, mi spiegò che mi avrebbe fatto sentire una registrazione di una conversazione tra lui ed un militare statunitense. Dopo le solite domande e risposte di riconoscimento, la voce del mio ospite chiedeva con chi stesse parlando e cosa era successo a lui. Colui che parlava era un sergente dei marines americano. “Be! non so se sarò vivo la prossima ora”, cominciò la voce, “per cui le posso raccontare tutto quanto ci è successo sin dall’inizio. Quando è stato chiaro che la crisi del petrolio era irreversibile il governo ha deciso di 94 mandare l’esercito a procurarsi la fonte di energia che serviva per il nostro paese. Siamo partiti dagli Stati Uniti il 28 settembre per cercare di occupare l’Arabia Saudita. Noi, cioè io e il mio gruppo, eravamo su una nave d’appoggio e dovevamo proteggere le portaerei in mare e lo sbarco delle truppe a terra. Una parte della flotta si è diretta verso il Golfo Persico mentre l’altra parte è entrata nel Mar Rosso, noi eravamo con questa seconda parte della flotta. Ci siamo attraccati per qualche giorno nel porto di Jiddah, poi, dato che lì non c’era più carburante spostammo la maggior parte di quello che c’era nel nostro serbatoio su una portaerei, l’idea era che ci saremmo trasferiti tutti sulla portaerei e saremmo tornati a casa. Nella notte successiva ci fu una sommossa e la portaerei è stata assaltata da una miriade di imbarcazioni. Non so cosa sia successo su quella nave, comunque ha levato le ancore e se ne è andata. Noi, visto l’accaduto, siamo usciti dal porto e, dato che non avevamo abbastanza carburante, il capitano ha diretto l’imbarcazione verso il continente africano. Abbiamo avuto motori per circa quattro ore, poi tutto si è spento e con l’abbrivio che avevamo preso ci siamo arenati su una spiaggia della costa del Sudan. A quel punto non avevamo altra alternativa che abbandonare la nave. Siamo scesi a terra con tutto l’equipaggiamento che potevamo portare con noi, mentre dal mare arrivavano diverse imbarcazioni di sudanesi che ci avevano visto arenare e che si preparavano a saccheggiare la nave. Noi eravamo in quarantacinque, avremmo anche potuto rimanere sullo scafo e difenderlo con le armi di bordo, ma non aveva nessun senso, saremmo rimasti bloccati senza speranza di aiuto. Ci siamo inoltrati all’interno, la prima notte ci siamo accampati in una radura. Il comandante ha posizionato le sentinelle, poi dopo aver mangiato la razione che ognuno 95 aveva, siamo andati nelle tende. Nel cuore della notte è iniziato l’inferno, si sparava da ogni parte. Dopo più di mezz’ora di battaglia siamo riusciti a prendere il controllo della situazione e ci siamo asserragliati dietro ad un cumulo di massi. La mattina dopo ci siamo contati, tredici erano morti, sei i feriti gravi e otto feriti più o meno gravemente. Ci avevano attaccato per prendere cibo e armi, erano riusciti a portare via alcune armi e una certa quantità di cibo. Il comandante si convinse che non potevamo rimanere così allo scoperto e ci dette ordine di procedere verso le alture che erano di fronte a noi. I sei feriti gravi non si tentò neppure di muoverli, gli fu somministrata della morfina in dose letale e furono seppelliti vicino agli altri in fosse scavate poco profonde. Nel pomeriggio siamo arrivati alle prime colline, giunti a circa un centinaio di metri dalla prima siamo stati bersagliati da un gruppo nutrito di combattenti. La prima salva fu quella che ha fatto il maggior disastro. Sono caduti nell’immediato undici uomini, ci siamo difesi e con qualche difficoltà siamo riusciti ad aggirarli e a guadagnare un’altura. Quando ci siamo riuniti eravamo rimasti in dodici di cui tre feriti. Non avevano ferite eccessivamente gravi, ma non potendoli curare adeguatamente si sono resi conto che non avevano speranze e così ci hanno chiesto di lasciarli in quella postazione con le loro armi. Siamo corsi così verso la montagna, mentre dietro di noi è scoppiata una vera e propria battaglia che è durata per quasi un’ora. I nostri ragazzi ci avevano fatto guadagnare un bel po’ di tempo, in questo modo siamo riusciti a raggiungere le pendici di un monte, siamo saliti e ci siamo rifugiati in una grotta. E’ da qui che sto trasmettendo. 96 Adesso il tenente ci ha detto che, dato che siamo circondati e non abbiamo speranza se restiamo qui, la nostra unica risicata possibilità è quella di uscire, armi alla mano e cominciare a sparare su tutto quello che si muove, o la va o la spacca. Se li facciamo fuori tutti abbiamo qualche speranza se no la facciamo finita in fretta. E dire che i miei hanno una piccola fattoria nel Montana e se non avessi ascoltato un mio amico che insisteva, ora sarei tranquillo a mungere una vacca e a bermi un whisky insieme ad una bella ragazza. Che coglione! Beh. Signore, la devo salutare, qualunque cosa avvenga non torneremo indietro quindi non saprà mai come va a finire. La radio la lasciamo qui, è troppo ingombrante. Le auguro tutto il bene del mondo.” A questo punto si sentiva la voce di Giovanni che gli augurava “Che Dio ti protegga” e l’altro rispondere. “Non so se Dio esista, se c’è di sicuro non è qui. Comunque grazie”. La trasmissione si chiudeva così e rimanemmo per un lungo tempo in silenzio guardando il liquido giallo nel bicchiere che tenevamo in mano. Ci voltammo insieme, nessuno di noi due si era accorto della presenza della ragazza che era in piedi appoggiata allo stipite della porta, Giovanni si alzò e le chiese se voleva da bere, indicandole la bottiglia posata sulla scrivania. La ragazza rifiutò e chiese se poteva rimanere con noi. Ci spostammo nel salotto e sedemmo io ed Erica sul divano e il padrone di casa su una poltrona; si era portato dietro la bottiglia e prima di sedersi aveva riempito il mio bicchiere. Parlammo del più e del meno, accennai al tempo e Giovanni mi disse che la situazione metereologica che avevamo avuto noi era comune a tutte le parti del mondo. Sentendo vari corrispondenti tutti avevano parlato di uragani, tempeste e abbondanti nevicate in ogni parte del mondo. 97 Dall’Egitto all’Australia, in Cina e in Canada, nel Messico, Brasile e Argentina, in India e Viet Nam oltre che in tutta l’Europa. Aveva avuto contatti anche con due metereologi, uno statunitense, l’altro danese, che gli avevano espresso l’opinione che probabilmente questa situazione era stata generata dall’improvviso stop di tutte le fonti inquinanti. <<Come è possibile?>> Chiesi. Secondo questi due, che più o meno avevano lo stesso pensiero, anche se non si erano sentiti, si era incrinato l’equilibrio atmosferico in tutto il mondo. Un equilibrio che si era creato con l’inquinamento. Nessuno aveva previsto che venendo a mancare questa componente si sarebbe scatenata una reazione tale. In pratica, secondo questi due, l’inquinamento non era più stato alimentato, ciò aveva cambiato i valori e le temperature sopra i grandi agglomerati urbani e le correnti e le perturbazioni avevano preso un piega del tutto inaspettata. Naturalmente i due avevano detto che non erano in possesso di nessun dato che avvalorasse quello che dicevano e che la loro era solo una supposizione. L’unico dato certo è che in tutto il mondo si era scatenata una forza della natura che nessuno poteva immaginare. <<Ho potuto appurare, parlando con i miei interlocutori>>, aggiunse Giovanni, <<che in tutto il mondo ci sono stati cataclismi climatici, per quello che posso pensare io è plausibile che si sia scatenata una reazione a catena che ha innescato questa situazione>>. Dissi che speravo che questo non si ripetesse più. <<Comunque deve essere stato orribile. In ottobre avevo trentun corrispondenti con cui mi sentivo ad intervalli regolari, nel mese di novembre il numero ha cominciato a diminuire ed ora, a distanza di tre mesi, sento soltanto tre persone>>, concluse. 98 Lo guardai sgomento e chiesi stupidamente: <<E cosa ne è stato degli altri?>> Giovanni alzando le spalle disse che non aveva avuto più notizie di loro, i contatti si interrompevano improvvisamente, e non poteva che far viaggiare l’immaginazione per spiegare ciò che poteva esser avvenuto. <<Sono sicuro che non si è trattato di niente di buono>>, disse alla fine. Dopo un attimo di pensieri che si accavallavano, mi tornò in mente quello a cui aveva accennato il nostro ospite prima della cena e sfacciatamente gli chiesi cosa era successo con gli uomini che erano sepolti nel giardino. Giovanni guardando il bicchiere che ancora teneva in mano sorrise. E poi cominciò a raccontare. <<Era un pomeriggio, aveva appena cominciato a nevicare, mia moglie mi chiama e mi indica tre uomini che sono in giardino. I tre erano armati ed avevano un atteggiamento furtivo e per niente rassicurante. Presi subito il mio fucile. Lo ha visto è un’arma a nove colpi, si può quasi dire che è un fucile di precisione. Sono andato alla porta ed ho aperto senza far rumore, tenendomi dietro lo stipite ho gridato, intimando loro di lasciare i fucili o di andarsene; per tutta risposta hanno sparato contro la porta. Con un calcio ho richiuso e sono corso sopra, sono andato alla finestra della camera da letto, ho aperto senza farmi vedere. Erano nel mezzo del giardino e stavano pensando a cosa fare, credo sia stata l’ultima cosa che gli è passata per la testa. Tre bersagli, tre colpi, tre centri ed è tutto finito. In un attimo. Sono sceso dabbasso, ai piedi della scala c’era mia moglie che mi ha guardato e mi ha detto “Sembri Mel Gibson”.>> si fermò e ci mettemmo a ridere. 99 In un altro momento della vita, in un altro periodo, in un’altra epoca sarei inorridito a quel racconto, in quella casa, in quel momento, mi faceva ridere. <<Siamo riusciti a distruggere un mondo che era meraviglioso>>, disse tra sé e sé Giovanni. <<Credo sia insito nell’uomo. E dire che tutti i sintomi erano presenti e ben noti. Come si poteva pensare che il petrolio sarebbe stato estratto all’infinito? Abbiamo per anni continuato a far viaggiare le merci con camion e auto. Non ci è mai venuto in mente che molti spostamenti, specialmente di beni di consumo, non avevano nessun senso. L’acqua che viaggia su e giù per l’Italia, i pomodori che arrivano da ogni parte, mentre i nostri li buttiamo perché non sono convenienti. Pensi a quello che si vedeva nei supermercati, praticamente non c’erano più stagioni. Si potevano mangiare asparagi in pieno inverno, ma li facevamo arrivare dal Sud America, e a nessuno veniva in mente lo spreco di carburante per permetterci di mangiare un prodotto come quello, fuori stagione. Non ha mai comprato ciliegie a dicembre?>> <<No>>, risposi. <<Però si potevano comprare, così some le fragole, e l’assurdo era che quando la frutta o la verdura era di stagione non la trovavi ad un prezzo minore, anche quella proveniva dall’estero, perché per i nostri contadini non era più conveniente raccoglierla, dati i prezzi.>> Incalzò infervorandosi il mio interlocutore. <<Non avevo mai pensato in questi termini>>, mi venne da dire, quasi vergognandomene. <<La colpa non è sua, ma di chi avrebbe dovuto prendere le decisioni giuste. Tutti i governanti, e quando dico tutti intendo dire quelli di tutto il mondo, avevano una visione troppo ristretta, troppo rivolta all’immediato. Quando si facevano programmi, che alla fine erano solo proclami, 100 erano sempre a lunga scadenza e mai rispettati. Pensi al protocollo di Kyoto, siamo arrivati al duemila e dodici e nessuno dei propositi presi è stato attuato. Abbiamo continuato a comportarci come cicale, con l’aggravante che le formiche non esistono ed il mondo è collassato.>> Si fermò un attimo e poi aggiunse <<Il mondo che conoscevamo non c’è più, magari ora sarà possibile ricominciare, se non siamo completamente deficienti la lezione dovremmo averla imparata, anche se non sono per niente ottimista.>> Bevemmo ancora un bicchiere di whisky poi, dato che si era fatto tardi, decidemmo che era ora di andare a riposarci. Il padrone di casa ci accompagnò al piano di sopra e aprendo una porta che dava su una camera con due letti disse alla ragazza che poteva dormire in quella stanza. Erica si appoggiò alla porta, ma non entrò, mi guardò con uno sguardo abbattuto, allora chiesi se preferiva che dormissi con lei e lei annui. Dormimmo veramente bene e il risveglio fu ancora meglio. Giovanni ci aveva preparato una colazione di lusso; c’era pane fresco, prosciutto, formaggi e frutta sciroppata. Mentre eravamo a tavola chiese ad Erica se voleva rimanere, in quella casa, lui aveva ancora viveri a sufficienza, anche se non aveva piani per il futuro. La ragazza rimase interdetta, mi guardava come a chiedere aiuto, le dissi che poteva scegliere in libertà. Disse che voleva rimanere con me, se io ero d’accordo. Giovanni ci rifornì di ogni ben d’Iddio, aveva salami, prosciutti e perfino del parmigiano. Prima di uscire mi riconsegnò il fucile e la pistola, poi ci accompagnò al cancello, lo ringraziai con una cordiale stretta di mano, Erica si avvicinò per salutare e Giovanni la abbracciò e prendendole il viso tra le mani la baciò sulla fronte, ma non 101 disse niente, aveva le lacrime agli occhi e rimase a guardarci fino a quando sparimmo dalla sua vista. Camminammo per tutta la mattinata, arrivati nei pressi di un ponte su un fiumicello lo trovammo abbattuto e dovemmo compiere una deviazione, non era possibile continuare verso est, dovemmo prendere verso sud e rimanere in mezzo alle montagne alla ricerca di una via verso il mare. Girammo a vuoto per tutto il giorno e a sera trovammo rifugio in un capanno di legno. Montai ancora una volta, al suo interno, la tenda e dopo aver mangiato ci coricammo. Ci infilammo nel sacco a pelo, le diedi la buona notte e mi voltai verso la parete esterna, lei dopo pochi minuti si strinse a me, probabilmente aveva freddo o paura, cercava il calore di un corpo e il conforto che poteva trarne. Pensai a Giulia, mia figlia, e mi chiesi se qualcuno la stava scaldando e le teneva compagnia, fui certo di si, sua mamma era certamente con lei e suo fratello, e vegliava su di loro. Il pensiero mi fece star meglio e poi mi dissi che Erica sarebbe venuta con me ed avrebbe fatto parte della famiglia. Quella ragazzina non aveva più nessuno e non potevo certo abbandonarla. Riprendemmo il cammino il giorno seguente, avevo paura di essermi perso, ma almeno una delle due direzioni che mi ero prefissato era quella giusta, ma non mi avvicinava al mare. Verso le dieci passammo in prossimità di due case, non avevamo intenzione di fermarci quindi stavamo proseguendo quando ad un tratto sentimmo gridare. <<Hei voi! Laggiù! Eilà sono qua! Di qua!>> Ci voltammo verso quel suono, un uomo su un balcone di una delle case si stava sbracciando. <<Aspettate!>> Aggiunse e rientrò. Ci fermammo e, dopo qualche secondo, lo rivedemmo uscire dalla porta d’ingresso e mettersi a correre verso di noi. 102 Non sapevo se considerarlo un pericolo oppure no. Non aveva nulla in mano e man mano che si avvicinava potei osservarlo meglio. Era un ragazzo in jeans e maglione girocollo, si fermò a circa due metri e cominciò a mitraglia: <<Non sapete quanto sono contento, non potete nemmeno immaginare, sono qui da più di tre mesi, non c’era la luce, ha nevicato per settimane e prima c’è stato una specie di tifone, io ero venuto perché...>> Lo bloccai e gli dissi di prendere fiato, sapevamo cosa era successo e gli chiesi di calmarsi e di raccontarci tutto con calma. Era arrivato in quella casa in moto, dopo i disordini e i saccheggi si era rifugiato con i suoi genitori in una casa alla periferia di Siena, erano rimasti senza viveri quindi avevano deciso di mandarlo nella loro casa in montagna dove avevano delle scorte. Lui era arrivato proprio quando il tempo aveva cominciato ad impazzire e non era più riuscito ad abbandonare quel luogo, raccontò di una solitudine terribile, di notti insonni e di disperazione. Non feci fatica a credergli, aveva vissuto quello che io ed Erica conoscevamo bene. Gli dissi che, naturalmente se voleva, poteva venire con noi. Non se lo fece ripetere due volte, mise in uno zaino quello che gli serviva e nel giro di cinque minuti fu pronto. Si chiamava Lucio aveva vent’un anni frequentava l’università ed era decisamente simpatico. Si faceva un po’ fatica a farlo tacere, ma mi sembrò che fin da subito fosse entrato in sintonia con Erica e questo non mi dispiacque, la ragazza aveva bisogno di una compagnia della sua età. Lucio conosceva quei luoghi, gli dissi che il ponte più a valle era crollato e lui ci portò su una stradina che passava all’interno di un bosco. Ci fermammo in una casetta e il giorno dopo ci dirigemmo finalmente verso est. 103 I due ragazzi camminavano sempre vicini e spesso si parlavano, a volte ridevano ad alta voce, in altri momenti si raccontavano qualcosa sottovoce. Erica aveva preso un espressione più serena, ero contento. Arrivammo la sera successiva in un casolare, era deserto, ci piazzammo in cucina dato che c’era una stufa a legna che accendemmo con grande piacere. Montammo la tenda e mentre la sera prima avevamo dormito tutti e tre insieme, anche per avere più caldo, quella sera mi sistemai sul divano con una coperta e lasciai la tenda ai due ragazzi. Nella notte fui svegliato da strani rumori, subito fui preso dal panico, nel buio non riuscivo a capacitarmi di cosa potesse essere, poi capii che non c’era nulla da temere, i due ragazzi stavano facendo conoscenza e girandomi dall’altra parte li invidiai, e non potei fare a meno di pensare a mia moglie. 104 9 Camminammo tutta la mattina abbastanza agevolmente, stavamo scendendo verso la pianura e il mare, anche se la neve ostacolava alquanto il cammino. I due ragazzi parlavano tra di loro tenendosi per mano, ogni tanto li sentivo ridere; mi faceva piacere vedere che nonostante tutto la vita, forse, poteva riprendere il suo corso. Due giovani che cercavano conforto in quella tenebra era certamente un inizio di ottimismo. Nel primo pomeriggio, mentre avanzavamo sulla strada provinciale, vedemmo sulla nostra destra una stradina che portava, dopo circa duecento metri, ad una cascina. Il portone era aperto e si vedeva al suo interno una certa attività. Ci guardammo, poi dissi ai ragazzi di aspettare ed andai a controllare. Avevo tirato giù il fucile dalla spalla ed avevo, per sicurezza, controllato che fosse carico. Mi ero anche slacciato la giacca in modo da poter poi prendere agevolmente anche la pistola, se fosse stato necessario. Dall’esterno sembrava di vedere una grande cascina circondata da numerose stalle, fienili e magazzini, una tipica cascina toscana o emiliana. 105 Arrivato al portone mi fermai; dentro alcune persone erano intente in lavori vari, mi videro ed alcuni di loro mi sorrisero. Mi si fece incontro un uomo più o meno della mia età, portava la barba tagliata corta e i capelli a spazzola castani, vestiva un giubbotto di pile e jeans, mi guardò e porgendomi la mano si presentò. Si chiamava Bruno Lai ed insieme ad altri si era stabilito in quella cascina con molte provviste e animali: mucche, capre, conigli e galline. Si disse felice del nostro arrivo e ci fece subito capire che se volevamo potevamo restare. Mi stupii subito del fatto che non si vedevano armi, mi ero così abituato all’atmosfera da far west, che quella pace bucolica mi aveva preso alla sprovvista. Fummo subito trattati come amici da tutti i componenti di quella comunità. A cena si presentarono tutti uno ad uno dandoci il benvenuto ognuno a suo modo. La cascina, che si trovava in una valletta poco frequentata e conosciuta, era di una coppia sui sessant’anni, avevano aperto la porta della loro casa a chi si era presentato ed ora vivevano in quel luogo quarantun persone. Tra loro c’erano anche nove bambini, e tutti gli abitanti provenivano dalle zone limitrofe e avevano potuto sopravvivere a quell’inverno terribile grazie alle riserve ed agli animali. Mi spiegarono che a breve avrebbero cominciato a seminare: granturco e soia, avevano già una bella serra in cui coltivavano un orto con ogni ortaggio possibile nella stagione. Si percepiva che erano riusciti a ricostruire una comunità felice e laboriosa, ciò mi dette speranza per il futuro. Dopo cena ci chiesero delle nostre vicissitudini; furono molto scossi dal racconto di Erica rimasta sola dopo che i suoi genitori erano morti di stenti; un po’ più allegramente fu preso il racconto di Lucio, non tanto per ciò che diceva, 106 quanto per il modo con cui enfatizzava ogni fatto che gli era accaduto. Ma la discussione si scatenò quando formulai le tesi su ciò che era avvenuto nel mondo, secondo quanto avevo apprerso solo due giorni prima da Ristori. Alcuni furono colpiti dal fatto che tutta questa devastazione fosse dovuta al solo fatto che il petrolio era finito, altri, ed erano la maggior parte, si dimostrarono preoccupati del possibile cambiamento repentino del clima, si chiesero se non fossero anche cambiate le stagioni, cosa che li inquietava oltremodo, dato che contavano di vivere dei frutti della terra e del loro lavoro. La discussione si fece vivace quando l’argomento si spostò su a chi attribuire le colpe di quanto era avvenuto. La mia opinione e quella della maggior parte degli interlocutori era che chi aveva in mano i destini del mondo non si era occupato del futuro, aveva vissuto nel presente senza vedere ciò che era evidente, bastava guardare e mettere in fila tutti i fattori che erano lì a disposizione e bastava fare uno più uno per avere un’idea di ciò che stava per accadere. Bruno Lai, colui che sembrava il capo di quella comunità, fu il più duro a condannare l’insipienza dei politici che ci avevano governato. <<Hanno pensato solo a se stessi, non hanno mai pensato al bene comune, e toccava a loro prevedere ciò che poteva accadere, loro avevano tutti i dati per capire e, o non hanno capito o hanno fatto finta di niente, e dire che li abbiamo votati noi>>, disse scuotendo la testa. Ora lo so anch’io e lo vedo chiaramente, ma prima che accadesse quello sconvolgimento, non avevo nessuna idea in proposito. Vivevo la mia vita pensando a quale auto avrei acquistato, dove sarei andato in ferie e dove saremmo andati per la settimana bianca. 107 Eppure, non mi davo pace, era tutto lì a portata di vista, se solo non avessimo avuto il salame sugli occhi. Il susseguirsi di crisi economiche avrebbe dovuto dire già qualcosa; il prezzo del petrolio sempre in crescita ci avrebbe dovuto far pensare al fatto che prima o poi sarebbe finito, e quando ci fu la crisi mondiale del prezzo dei cereali, questo da solo avrebbe dovuto farci riflettere, ma noi a pensare ad un telefonino nuovo o ad un nuovo televisore a cristalli liquidi. Non so darmi pace anche se non so cosa avrei potuto fare. So solo che non mi sono mai preoccupato di queste cose, il mio universo era la carriera e i beni più o meno inutili da portare alla famiglia e da ostentare con gli amici. Non riesco neppure ad insultarmi, qualunque epiteto sarebbe troppo riduttivo. La mattina seguente facemmo colazione tutti insieme, una cosa davvero piacevole; Lucio mi prese in disparte e mi comunicò che lui ed Erica sarebbero rimasti in quel luogo. Dissi loro che facevano bene perché quello era davvero il paradiso e che ero contento che potessero finalmente trovare una famiglia così disponibile. Ci abbracciammo, Bruno e tutti gli altri vennero a salutarmi e mi dissero che sarebbero stati lieti se io fossi tornato da loro con la famiglia. Li ringraziai commosso, ma contavo veramente di ritrovare i miei e rimanere con loro dove speravo si trovassero. Mi volsi alla volta del mare e ripresi la mia odissea. Avevo preso una direzione che mi portava verso sud est, così nello stesso tempo mi avvicinavo al mare e al meridione. Seguendo la strada provinciale giunsi ad un fiume, ero già passato da quelle parti una volta che andavamo in ferie nel casale dei miei suoceri, da come me lo ricordavo era un piccolo corso d’acqua, ma ciò che vedevo mi sembrava il Rio delle Amazzoni, è esagerato, ma 108 il pensiero mi venne osservando la dimensione e la portata del fiume che avevo di fronte. La strada terminava proprio dentro all’acqua, del ponte non vi era più traccia. Immaginai la furia che doveva essersi scatenata in quel luogo. Mi convinsi che l’alluvione che aveva prodotto quello scempio si era scatenata durante la tempesta del novembre precedente. In quel momento l’acqua scendeva a valle impetuosa alimentata dalle copiose nevicate che avevano ricoperto i monti e tutte le terre circostanti nei mesi precedenti. Non c’era modo di guadare, per cui mi decisi a scendere lungo gli argini del fiume per cercare un modo per attraversare. Nel mio vagabondare cominciai a vedere luoghi che erano stati abitati; alcuni erano stati devastati dalla furia delle acque ed erano completamente in rovina. Nelle cascine isolate e risparmiate dalla furia delle acque vi erano ovunque cadaveri. Gente che probabilmente si era rifugiata in quei luoghi, ed era stata colpita prima dalla tempesta, che sicuramente in qualche luogo si era trasformata in uragano, poi dalla neve e il gelo che avevano completato l’opera uccidendo chi era sopravvissuto al diluvio, e davanti ai miei occhi non c’erano che morte e desolazione. In una casa trovai, al primo piano, otto persone, tra cui tre bambini, tutte nella stessa stanza, la scena era agghiacciante, fuggii spinto dal terrore che si intravedeva in quegli occhi aperti nel nulla. Morti di stenti, morti di fame, morti di paura, morti di freddo. Passai la notte in un casello della ferrovia, almeno non c’erano nelle vicinanze presenze di fantasmi. L’indomani continuai la mia ricerca di un possibile attraversamento del corso d’acqua. Tutti i ponti erano crollati, arrivai in vista del mare e fui colto dal panico; 109 quello che mi si presentava davanti era di una desolazione assoluta, la furia delle acque del mare era penetrata all’interno per almeno due chilometri distruggendo case, strade, ponti e coltivazioni. Il fiume entrava nel mare in un enorme estuario e si allargava in una laguna che ad occhio non era possibile oltrepassare. Cercai tutta la giornata un modo per poter raggiungere la riva opposta e poter proseguire, ma non trovai barche o mezzi galleggianti che mi potessero traghettare. La sera disperato mi rifugiai in un magazzino, mangiai quello che avevo appresso e cercai di trovare una soluzione, ma per tanto che mi sforzassi non riuscivo a venirne a capo. Decisi che ci avrei dormito su, ma la notte passò senza che riuscissi veramente a riposare, mi sentivo bloccato e lo ero, dovevo per forza trovare un modo per proseguire. Il giorno seguente mi persuasi che l’unico modo per attraversare quel fiume era quello di trovare un mezzo galleggiante o di costruirmelo. Entrai in vari magazzini, in uno dei quali trovai anche due cadaveri di persone che erano state uccise a fucilate; in ultimo entrai in un’officina in cui vi erano anche vari copertoni e, guardando due grosse gomme di un camion appoggiate alla parete, mi figurai un grosso salvagente o qualcosa di simile. Cercai sugli scaffali e trovai delle camere d’aria, ne presi due, le gonfiai, non senza fatica, con un pompa da bicicletta; non erano perfettamente rigide, ma pensai che avrebbero comunque fatto la loro parte. In mancanza d’altro, mi dissi, queste possono andare bene. Mi avvicinai al fiume e valutai la situazione; non mi piaceva affatto buttarmi in quell’acqua con due copertoni neri, dovevo tenere conto che avevo l’assoluta necessità di preservare lo zaino con quello che c’era dentro, la perdita dello zaino sarebbe stata una catastrofe. 110 Avevo ancora cibo per quattro o cinque giorni, avevo la canna da pesca, con gli ami e le esche, che contavo mi avrebbe sfamato per i giorni a venire, avevo le armi che mi avrebbero protetto dalle mie paure, insomma tutti i miei averi erano in quelle poche cose e in quella situazione perdere anche solo una parte di ciò che possedevo avrebbe potuto essere fatale. Dovevo assolutamente concentrarmi e valutare ogni possibilità. Misi lo zaino su una delle gomme e lo legai con delle corde, non era possibile legarlo in modo molto stretto in quanto la gomma era molto flessibile, ma cercai di assicurarmi che stesse comunque sopra e non a contatto con l’acqua. Misi le cartucce sia della pistola che del fucile dentro un sacchetto di cellophane che chiusi ermeticamente e che misi poi all’interno dello zaino, stessa cosa feci per la pistola. Per il fucile non avevo un contenitore che potesse difenderlo dall’acqua quindi decisi dei metterlo sopra lo zaino, lo avrei tenuto con le mani. Mi spogliai, benchè non facesse affatto caldo e fu ancora peggio quando cominciai ad immergermi nell’acqua, ma non potevo certo bagnare anche i vestiti, sarebbe stato peggio e per quanto riguardava il freddo non avrebbe comunque significato un gran differenza. Legai tra di loro le camere d’aria, mi misi al centro di una e spinsi avanti quella su cui avevo sistemato lo zaino. Subito la corrente mi prese, ma cominciai a forza di braccia e di gambe a spingermi verso l’altra sponda, facevo una fatica infernale a cercare di guadagnare metri, nello stesso tempo il freddo mi attanagliava al punto che pensai che mi sarebbe venuta una sincope. Non avevo assolutamente immaginato una situazione del genere, mi era praticamente impossibile governare le camere d’aria e l’unica cosa che potevo fare era scalciare per guadagnare la riva opposta. 111 Quando fui al centro del fiume fui colpito da un tronco galleggiante che viaggiava sulla superficie dell’acqua, misi tutta la mia forza per cercare di tenere a galla i miei averi, ma mi fu impossibile trattenere il fucile che mi scivolò di mano e sparì immediatamente tra i flutti. Impiegai un tempo infinito a raggiungere la riva opposta che toccai stremato. Non potevo abbandonarmi sdraiato sull’erba, non dovevo ammalarmi un’altra volta, mi obbligai ad alzarmi, cercai nello zaino qualcosa per asciugarmi, fortunatamente avevo messo buona parte dei vestiti dentro sacchetti impermeabili, così li trovai asciutti e mi vestii in fretta anche se dovette trascorrere almeno mezz’ora prima che il mio corpo smettesse di tremare. Non avevo più alcun allenamento alla fatica fisica, i mesi trascorsi bloccato sui monti mi avevano rammollito. E dire che, nella vita precedente, ormai questa era la mia considerazione; nella vita precedente, due volte la settimana frequentavo una palestra per tenermi in forma. Quella della palestra era una moda a cui nessuno poteva rinunciare, se non voleva essere tagliato fuori. La palestra, che assurdità, pensandoci ora; correre su un tapis-roulant per fare fiato, alzare pesi per rassodare i muscoli, prendere a pugni un sacco per mantenere i riflessi, il tutto con i consigli di un preparatore che ti fa notare la tua pancetta, il fiato corto e la scarsa elasticità. Tutto per essere alla moda, non perché serva. Forse fare una camminata in montagna, o una bella nuotata al mare mi avrebbero fatto meglio e, nel frangente in cui mi trovavo, mi avrebbe aiutato nell’attraversamento di quel fiume. Avevo comunque raggiunto il mio scopo, potevo proseguire verso la mia meta. La perdita del fucile non era grave, era una perdita accettabile, o almeno mi convinsi che fosse così. Giunsi in tarda mattinata sul mare, potei osservare lo sfacelo 112 che doveva aver colpito quella costa. Tutto ciò che era vicino al mare era stato distrutto e la distruzione si inoltrava nell’entroterra. Verso la fine del pomeriggio vidi sulla spiaggia un certo numero di persone che stavano armeggiando intorno ad assi di legno e pali, avvicinandomi gli uomini si accorsero della mia presenza e smisero i loro lavori. Il loro atteggiamento non era ostile, anzi fu subito amichevole, mi vennero incontro e vollero subito sapere da dove venivo. Raccontai per sommi capi la mia odissea e loro mi resero partecipe della loro. Stavano ricostruendo un capanno a palafitta sul mare dal quale intendevano calare una rete a bilanciere, come quelle che già esistevano precedentemente, contavano così di poter pescare a sufficienza. Mi fecero entrare in una costruzione che avevano riattato con legno, pannelli prefabbricati ed ogni cosa che potesse tornare utile. Mi raccontarono che anche qui avevano subito la furia del tornado. <<Cominciò a piovere con un’intensità mai vista, poi il vento cominciò a scoperchiare i tetti e a far volare tutto ciò che veniva sradicato>>, iniziò a raccontarmi Francesco, un uomo sui trentacinque anni, muscoloso come lo sono gli scaricatori di porto, con una lunga barba e che vestiva una logora tuta ed evidentemente era molto considerato dai suoi amici che ascoltavano annuendo. <<Mentre il cielo si scatenava su di noi, dalla montagna scese una valanga d’acqua, i più piccoli rigagnoli si trasformarono in fiumi in piena portando a valle ogni sorta di detriti e facendo scivolare verso il mare case, campi e borghi. C’erano camion e trattori trascinati insieme a silos e container che sono finiti in mezzo al mare. Dopo tre o quattro giorni di questa apocalisse l’acqua che aveva travolto tutto è ritornata indietro con gli interessi. 113 Il mare è cresciuto come non l’avevamo mai visto, ad un tratto un’onda immane alta più di dieci metri ha travolto tutto ciò che ancora era rimasto in piedi. Ci siamo visti arrivare addosso uno tzunami che si è ripetuto per cinque volte. Cinque volte di seguito, a distanza di poche ore l’una dall’altra, le onde si sono riversate sulla costa entrando nell’entroterra fino a venti chilometri e più.>> Mi sorse spontaneo chiedere come avessero potuto sopravvivere. Mi indicarono una collina non più alta di trenta metri a circa quattro chilometri dal mare, si erano rifugiate su quell’altura una dozzina di famiglie e da quel luogo avevano visto lo sfacelo di tutta la zona ed avevano, nello stesso tempo, potuto vedere la completa distruzione di tutta la popolazione che viveva in quei luoghi. Milioni di persone erano sparite ingoiate dalle acque. <<Molti di quelli che erano riusciti a sopravvivere, però, sono morti nei giorni e nelle settimane seguenti>>, proseguì Francesco. <<Appena terminata l’acqua ha cominciato a nevicare.>> Questa storia la conoscevo e riuscivo anche ad immaginare cosa aveva dovuto comportare in una situazione come quella questo ulteriore peggioramento del clima. <<Ha nevicato per settimane, noi avevamo conservato del pesce che era stato pescato nei giorni precedenti l’alluvione e con quello ed altro che avevamo potuto trovare siamo riusciti, con grandi sacrifici e sofferenze, ad arrivare fino al momento in cui abbiamo potuto riprendere a pescare. Ora però possiamo solo pescare con le canne perché non abbiamo più barche ed è per questo che stiamo ricostruendo il bilanciere così potremo avere cibo a sufficienza anche per quei periodi in cui sarà difficile pescare.>> 114 Vivevano in trentacinque in quelle povere baracche, ma si stavano riprendendo. Si capiva che avevano avuto una paura immensa e che avevano disperato di farcela, ma in quel momento erano pieni di nuova speranza e voglia di ricominciare. La maggior parte di loro non si conosceva prima di quella catastrofe, si erano ritrovati per caso su quella collina ed insieme si erano dati da fare per aiutarsi l’un l’altro, forse c’era ancora speranza negli uomini, o almeno in quelli che erano rimasti. Mi ospitarono per la notte e, l’indomani, dopo una colazione di pescetti fritti mi congedai da quella comunità. 115 10 Dovetti ritornare verso l’interno, il litorale non era agibile, le strade non esistevano più e al posto delle case c’erano solo macerie, tutto il paesaggio era sconvolto e, sono certo, neppure chi viveva in quei luoghi prima della catastrofe avrebbe potuto riconoscere quei luoghi. Vidi Pescara dall’alto, o meglio vidi quello che era rimasto di Pescara: solo macerie. Il porto era trasformato in un ammasso di ferraglia, una nave, probabilmente un traghetto, era rovesciata con un fianco su una banchina, altre imbarcazioni erano a pezzi o affondate in un tripudio di lamiere, pennoni e gru. C’erano resti di imbarcazioni fino oltre il limite delle case e dei palazzi o per meglio dire fino oltre le rovine della città. La città era stata sconquassata da un cataclisma di proporzioni immense, l’acqua aveva raso al suolo interi quartieri e aveva portato la morte e la distruzione ovunque. Non si notava alcun movimento, nessuna persona, nessun animale, niente che avesse una vita propria, la desolazione più assoluta, anche la vegetazione era scomparsa, solo qualche albero aveva resistito a dispetto di tutto. Nel mio procedere verso sud, potevo pescare solo dove c’erano promontori rocciosi che si inserivano nel mare, altrove era praticamente impossibile, per l’impraticabilità delle spiagge. 116 Mi resi conto che non possedevo una canna adatta alla pesca dalla spiaggia o ciò che era rimasto delle spiagge. In un modo o nell’altro comunque riuscii sempre a procurarmi qualcosa da mangiare che integrasse quelle poche provviste che ancora avevo conservato. Impiegai una settimana a giungere in Puglia e, come altre volte mi era capitato, pensai di essere arrivato, poi mi ricordai della lunghezza di quella regione ed io dovevo proprio andare in fondo allo stivale, nel Salento, quella era la mia destinazione. Attraversai tutte quelle terre che conoscevo, quella era la terra di mia moglie, vidi il disastro provocato in tutte le città ed i paesi rivieraschi. Il colpo peggiore lo ebbi arrivato ad Trani. Ricordavo quella splendida cattedrale sul mare, l’avevo amata per la sua posizione, su un isola legata alla terra da un piccolo istmo; per la sua architettura, un gotico stupefacente e per la magia che il suo insieme sapeva esprimere. Non c’era più, non si scorgevano, la dov’era stata, che poche pietre grigie che non davano l’idea della maestà che in quel luogo era albergata. La tristezza ancora una volta mi calò sulle spalle come una nebbia grigia, pensai a tutte le meraviglie che nei secoli avevamo costruito e che nel giro di poco tempo erano andate perdute. Sperai, con tutto il cuore, che si trattasse solo dei monumenti nelle città costiere. Mi rendevo conto che, in un momento di grande tristezza per l’umanità, mi stavo preoccupando delle pietre, ma quelle perdite erano ai miei occhi una catastrofe nella catastrofe. Stavo attraversando il Gargano, avevo lasciato il mare da qualche ora, dopo aver pescato alcuni pesci per garantirmi il cibo sino al ritorno sulla costa, mi ero inoltrato in un boschetto quando, all’improvviso, mi trovai nell’accampamento di un gruppo di uomini, sette per 117 l’esattezza, che al mio arrivo si alzarono guardandomi impauriti. Erano tutti ragazzi di colore e stavano cocendo una minestra in un pentolone sistemato su un focolare circondato da pietre. Alla prima sembrarono proprio spaventati, poi, vedendo il mio atteggiamento non ostile, vidi sui loro visi un certo rilassamento. Li salutai, mi invitarono a sedermi con loro, accettai e offrii a mia volta i pesci che avevo pescato poche ore prima. Mangiammo insieme, venivano dal Togo e dal Burchina Faso, erano venuti in Italia per raccogliere pomodori ed erano rimasti bloccati in quel luogo dalle condizioni avverse del tempo. Mi raccontarono che prima delle piogge erano più di cento, avevano appena finito di lavorare e molti di loro erano partiti poco prima che il tempo cambiasse, altri si erano allontanati poco prima che cominciasse a nevicare, loro invece non avevano avuto coraggio di muoversi con quelle condizioni, non erano abituati ad un clima come quello, erano rimasti e si erano costruiti un rifugio di fortuna nel bosco. Non dissi che neppure io ero abituato ad un clima come quello. Erano sopravvissuti scaldandosi con la legna che bruciavano in un bidone di ferro, ed erano riusciti a procurarsi del cibo uccidendo alcuni animali che avevano potuto catturare, mettendo a frutto le loro conoscenze sulla caccia. Chiesi loro perché non si fossero riparati in una casa. Mi rispose quello che parlava un po’ meglio la mia lingua: <<Tutti morti nelle case, noi non entriamo.>> Avevano avuto paura degli spiriti che aleggiavano su quelle residenze e non avevano avuto il coraggio di sfidarli. Poi volle chiedere lui a me: <<Cosa è successo, perché tutti morti?>> 118 Spiegai quello che sapevo; il petrolio era finito e nel mondo si era scatenata prima una guerra per la sopravvivenza che aveva risvegliato ogni istinto primitivo negli uomini nel tentativo proprio di sopravvivere, poi il clima era improvvisamente cambiato e le tempeste e la neve avevano fatto il resto. Quello che mi capiva meglio tradusse ai suoi compagni ciò che avevo detto. Uno di essi, quello che appariva il più giovane, doveva avere meno di vent’anni, si mise a piangere tenendosi la testa tra le mani, aveva intuito che la speranza di tornare a casa era quasi del tutto svanita, avrebbe dovuto continuare a vivere con i suoi compagni dimenticando la sua famiglia. Avevo preso alcune bibite tra le rovine di un capanno, offrii loro una birra, ma rifiutarono, erano mussulmani e non bevevano alcolici, fortuna che avevo preso anche due lattine di aranciata che si passarono l’un l’altro, con piacere, ringraziandomi a segni con il capo. Mi raccontarono che il ragazzo più giovane era la prima volta che veniva a lavorare in Italia, voleva guadagnare abbastanza per poi tornare nel suo villaggio dove intendeva sposare una ragazza di cui era innamorato. Gli altri erano già venuti a raccogliere pomodori gli anni precedenti, erano tutti sposati, chi con due, chi con tre figli. Risparmiavano il più possibile per poter portare a casa il necessario per vivere, dormivano in capannoni a terra su una stuoia, ma non se ne lamentavano, loro avevano uno scopo. Finito il pranzo li avevo salutati ed avevo augurato loro buona fortuna, anche se pensavo tra me e me che io avevo una meta, ormai prossima, da raggiungere, mentre loro avevano scarse possibilità di rivedere i loro cari e provai pena. Non avevo più avuto soverchi problemi ad attraversare i corsi d’acqua, anche perché un giorno, attraversando un 119 paesino, disabitato ero entrato in una specie di emporio che faceva un po’ da casalinghi, negozio di giocattoli e ferramenta, ed avevo trovato tra gli scaffali un canottino gonfiabile, avevo preso anche un gonfiatore ed al momento di attraversare un fiume o un canale impiegavo una decina di minuti a gonfiarlo poi salivo sopra e, vogando con una pagaia, attraversavo con una relativa facilità. La cosa buffa era che avevo arrotolato il canotto sullo zaino e la pagaia, che si divideva in due, la sistemavo ai lati, così, visto da fuori, sembravo un villeggiante che andava in spiaggia. C’è da dire che non incontravo molta gente che potesse criticarmi. Un pomeriggio entrai in un piccolo agglomerato di case, cinque persone sedute su delle sedie sistemate sul marciapiede sul fronte di una casa chiacchieravano tra loro. Tre donne e due uomini, erano tutti avanti con gli anni, le donne vestivano una veste nera lunga con un grembiule sul davanti, una era completamente senza denti e rideva mostrando le gengive. I due uomini, che si chiamavano entrambe Salvatore, facevano, l’uno il sarto e veniva chiamato Sasà, l’altro il barbiere, detto Salvo. Quando il secondo mi disse il suo mestiere mi venne spontaneo guardarmi in un vetro di una finestra. Erano mesi che non mi vedevo, o meglio, avevo guardato la mia immagine riflessa varie volte, ma era la prima volta, da un tempo lunghissimo, che mi vedevo veramente come ero. Avevo i capelli lunghi che mi arrivavano sulle spalle, la barba incolta mi copriva completamente tutto il viso e il collo, visto così ero davvero impresentabile, dovevo sembrare un pezzente. Chiesi all’uomo se era disposto a tagliarmi i capelli e la barba. 120 Fu subito felice ed in un batter d’occhio mise fuori, proprio sul marciapiede davanti casa, una poltroncina da barbiere. Prese una scatola di latta in cui teneva le forbici e i rasoi, mi fece accomodare con un inchino affettato, mi mise un asciugamano sul davanti e cominciò a tagliare. Gli altri quattro spostando le sedie su cui erano seduti, si misero intorno e tutti cominciammo a chiacchierare raccontandoci la nostra vita, sembrava proprio di essere in un salone da barba del sud, e la constatazione mi fece perfino ridere. Bastava proprio poco per ridare alla vita un senso. La popolazione del luogo aveva abbandonato la frazione nel momento in cui si era appresa la notizia della mancanza di petrolio e di rifornimenti alimentari. Loro, che erano vecchi, non se l’erano sentita di andarsene ed erano riusciti a passare l’inverno con le provviste che avevano. Alla fine della brutta stagione si erano dedicati a coltivare gli orti e, con quattro galline che producevano uova, riuscivano a mangiare tutti i giorni. Mentre venivo servito di barba e capelli mi fu offerto persino del rosolio, non è che mi piacesse molto, ma era tale la gioia di stare con quella gente che lo gustai sommamente. Quando ebbe terminato, dopo avermi fatto uno shampo ed avermi spruzzato sul viso un dopobarba che lasciava un piacevole profumo di talco mi alzai e, con modi eleganti, almeno credo, dissi: <<Quanto devo, signore?>> Tutti risero e il mio buon barbiere rispose: <<Per questa volta offre la casa.>> Lo abbracciai e fui ancora più stupito quando mi offrirono ospitalità per la notte. Vivevano insieme in una casa dove c’era una cucina con una bella stufa e due stanze da letto, gli uomini dormivano in una stanza e le donne nell’altra. 121 Fu quella una cena davvero unica, quei vecchietti erano davvero simpatici, tra di loro c’era armonia, e mi trattarono quasi come fossi stato figlio loro. Erano tutti vedovi e tutti avevano figli, in cinque mi raccontarono di quattordici figli e vent’un nipoti, di tutti mi fecero vedere le fotografie. Questo era andato al nord a lavorare alla Fiat, quest’altra faceva l’infermiera vicino a Roma, due erano emigrati in America e uno di essi aveva un ristorante a Detroit. Dei nipoti la maggior parte frequentavano le elementari o le medie, ma due già andavano all’università. C’era poi uno che aveva una fabbrichetta nel Veneto e ci tennero a farmi sapere che occupava ventisei operai. Due purtroppo erano morti, uno in un incidente stradale, solo due anni prima, mentre l’altro era caduto da un’impalcatura mentre lavorava alla costruzione di una casa. Insomma in quel luogo si poteva ritrovare la memoria di uno spaccato della storia che ci eravamo lasciati alle spalle. Tutti si augurarono, ma nelle loro parole si leggeva la certezza, che la loro discendenza fosse stata in grado di superare quei terribili mesi precedenti. Dormii la notte sul divano in cucina, il mattino successivo li lasciai col groppo in gola per il calore che mi avevano donato, mi augurarono ogni bene e so che erano sinceri. Due giorni dopo ero nei pressi della località in cui avrei rivisto i miei. Quando avevo visto i disastri provocati dalle alluvioni e dalle onde del mare avevo temuto per la mia famiglia, ma avevo ben presente che la casa di campagna di mio suocero era su un altopiano ad un paio di chilometri dal mare e che era praticamente impossibile il verificarsi di un’alluvione, proprio per la conformazione del territorio. Il terreno su cui sorgeva questo piccolo casale era principalmente coltivato ad ulivi, la terra era rossa e, ricordo quando mio suocero mi raccontava la fatica che aveva 122 dovuto sopportare per togliere tutte le pietre che disseminavano i campi, pietre che poi aveva utilizzato per costruire i muretti a secco che contornavano e delimitavano la proprietà. Nonostante cercassi di convincermi che non era successo niente, che i miei erano stati risparmiati dalle calamità e che mi ripetessi nella mente questo mantra, il timore si insinuava nei miei pensieri man mano che mi avvicinavo alla meta. 11 Ero ormai in prossimità della casa rurale dei miei suoceri, camminavo su un tratturo con lo sguardo fisso, la mente ottenebrata dalla speranza, il cuore che un po’ martellava violentemente e un po’ sembrava saltare qualche colpo. L’angoscia era la mia compagna ormai da qualche tempo, non volevo illudermi, ma nello stesso tempo l’attesa mi annullava. Ad un tratto vidi, su un sentiero parallelo al mio, due figure che si stagliavano contro sole. Un uomo camminava dietro ad una bambina, si capiva che la stava sgridando per qualcosa. La ragazzina era magrolina e portava un secchio che pareva alquanto pesante; camminava a testa bassa ed era evidente che era molto stanca. La bimba si voltò verso di me, alzò la testa, poi si bloccò sul posto; l’uomo, che era qualche passo dietro gridò ancora verso di lei, ma la piccola lasciò cadere il secchio e si mise a correre nella mia direzione. In quell’istante il mio cuore ebbe un sussulto e nello stesso tempo udii un grido, il grido più bello che avessi mai sognato. <<Papà>> E correva a perdifiato fin che mi arrivò tra le braccia. 123 124 Non sapevo cosa dire, non mi riusciva di dire nient’altro che <<Giulia, Giulia, Giulia.>> Rimanemmo abbracciati mentre ci baciavamo per un tempo infinito. L’uomo arrivò nei pressi, ci guardò torvo e mi accorsi che la mia bambina si stringeva a me quasi a difendersi. <<La mamma e Marco dove sono?>> Chiesi subito. <<Non lo so>>, fu la risposta che mi raggelò. <<Sono usciti una mattina e non sono più tornati, è successo prima della neve. Eravamo appena arrivati. Non so. Non lo so papà. Non so dove sono.>> E pianse mentre mi abbracciava freneticamente. Guardai l’uomo; non mi piaceva affatto. Lui disse che insieme a sua moglie si era preso cura della bambina. E mentre lo diceva Giulia mi stringeva e piangeva. Ci alzammo ed andammo con il contadino verso la casa che era stata dei miei suoceri. Mia figlia rimase al mio fianco, dalla parte opposta rispetto all’uomo, con la sua mano nella mia. Entrammo nella casa che conoscevo. La tavola era apparecchiata per cinque, tre ragazzini erano già seduti davanti ai piatti. Loro e la moglie ci guardarono con un’espressione interrogativa mentre attraversavamo la soglia. La donna dette uno sguardo furtivo verso la credenza. Sulla sommità c’era in bella vista un fucile da caccia, io pensai immediatamente alla pistola che avevo all’interno della giacca. Ormai ero pratico, avrei potuto estrarre l’arma e fare fuoco in meno di cinque secondi. L’uomo disse che ero il padre di Giulia e non vi furono commenti. Feci sedere mia figlia capotavola, era certamente il posto del padrone di casa, ma avevo notato che non era stato messo il piatto per lei. 125 Io sedetti, dopo aver tolto lo zaino e la giacca; tutti mi guardarono quando videro la pistola che portavo nella fondina, feci finta di nulla e mi misi con le spalle alla credenza. Ero il più vicino al fucile e questo mi dava qualche vantaggio. Chiesi che ne era stato dei miei suoceri. Mi dissero che quando erano arrivati non c’era nessuno. Loro erano scappati da Lecce e si erano insediati in quel casale circa un mese dopo l’inizio della catastrofe. Mia moglie e i miei figli erano arrivati poco prima dell’inverno, ma il secondo giorno mia moglie e nostro figlio erano usciti, proprio il giorno in cui si era messo a nevicare forte e a sera non erano tornati. Giulia si rimise a piangere. Le dissi che l’indomani saremmo andati insieme a cercarli. Quando feci questa affermazione i due adulti si guardarono, io li guardai a mia volta, ma l’uomo sedendosi disse alla moglie che era ora di mangiare. La donna portò in tavola una pentola con una minestra di pasta e verdure, ne versò un mestolo prima a me e poi a mia figlia. Giulia si buttò sul piatto come se non mangiasse da secoli, la guardai stupito e di colpo immaginai cosa avesse dovuto subire in quei mesi, ed una rabbia sorda mi salì nel petto fino a farmi sudare. Mangiammo in silenzio, la bimba si rimpinzava così velocemente, in una mano il cucchiaio, nell’altra una fetta di pane nero. Le toccai delicatamente il braccio, mi guardò sollevando appena gli occhi, le sorrisi e lei capì che poteva stare tranquilla e a quel punto cominciò a mangiare con più calma, ma senza fermarsi. La donna si alzò per portare via la pentola, con un gesto della mano le feci intendere che doveva lasciarla dov’era. Presi il mestolo e ne versai un altro nel piatto della mia piccola. Alzò gli occhi verso di me sorridendo mentre 126 muoveva avanti e indietro la testa. Finimmo il pranzo dopo aver mangiato frittata e frutta. L’uomo si alzò e, mentre lo faceva, mi fece cenno di uscire con lui. Evidentemente doveva parlarmi. Mi alzai a mia volta, rimasi un attimo a riflettere, poi voltandomi presi il fucile da sopra la credenza e mi diressi fuori. Giulia fece per alzarsi, le misi una mano sulla spalla e le feci capire che poteva rimanere, senza paura, ora c’ero io a proteggerla e lo avrei fatto ad ogni costo e lei questo lo comprese. Usciti sull’aia, l’uomo si schiarì la voce due o tre volte, poi con la mano sulle labbra cominciò a parlare. Le sue parole furono come una lama di ghiaccio che mi trafiggeva da parte a parte. <<I tuoi sono morti.>>, disse in un soffio. Non avevo saliva in bocca e non riuscii a profferire parola. <<Erano andati a raccogliere patate nel campo laggiù.>> e indicò appena con la mano. <<Quando sono andato a vedere perché non tornavano, li ho trovati distesi, uccisi da qualcuno che aveva rubato loro le patate.>> <<Dove sono?>> Mi uscì dalle labbra strette. <<Laggiù, non ho detto niente alla bambina.>> e si fermò aspettando gli eventi, mentre guardava il suo fucile che tenevo in mano. Sulle prime pensai che fosse stato lui ad ucciderli, poi la ragione mi disse che, se fosse stato un uomo di quel genere, avrebbe ucciso anche mia figlia e per il momento accantonai il pensiero perché un altro mi struggeva. Rientrai con il cuore a pezzi, mi avvicinai a mia figlia, le feci cenno di alzarsi, la condussi fuori. L’altro era rimasto nello stesso punto in cui lo avevo lasciato, gli dissi di portarci sul posto. 127 Presi per mano Giulia che si era fatta seria e attenta. Camminammo nella campagna seguendo l’uomo, quando fummo sul fondo di un campo, vidi sotto un ulivo due piccoli cumuli di terra. L’uomo si avvicinò ed indicando il cumulo di sinistra disse semplicemente, a bassa voce. <<Tua moglie.>> E poi abbassando ancora di più la voce ed il capo. <<Tuo figlio.>> Caddi con le ginocchia a terra, mentre sul volto di Giulia, accanto a me, cominciarono a scendere lacrime, poi si buttò addosso a me singhiozzando. Rimanemmo così per un tempo indefinito, mentre l’altro si era posto in disparte a testa bassa ad una decina di metri da noi. Avevamo vissuto felicemente quindici anni della nostra vita, avevamo avuto quello che avevamo sempre desiderato, due figli magnifici, una casa carina, amici fidati e tutto questo era svanito un giorno dell’anno precedente. Ed ora tutto era sepolto lì, sotto pochi centimetri di terra, tutto era finito, avevo fatto tutti quei chilometri ed avevo visto tutte quelle miserie per nulla. Questi pensieri mi travolgevano, ma un lampo mi ricordò che no, non era stato inutile, avevo avuto una perdita enorme: mia moglie e mio figlio, ma avevo mia figlia e con lei e per lei dovevo andare avanti. Mi alzai, presi due pietre grandi e le misi sui due tumuli, poi col coltello incisi i loro nomi; stavo finendo di scrivere che alle mie spalle Giulia mi sporse due mazzetti di fiori. Li aveva raccolti nei campi intorno a quelle due tombe, aveva le guance rigate dalle lacrime, ma aveva sulle labbra un sorriso malinconico. Appoggiammo i fiori sulle pietre, ci inginocchiammo tenendoci per mano, poi, dopo un certo tempo, ci alzammo e seguimmo ancora una volta l’uomo che ci precedeva. 128 Quando stavamo per entrare in casa, l’uomo mi fermò toccandomi il braccio e disse semplicemente: <<Cosa intendi fare?>> E, mentre lo diceva, guardava il fucile che tenevo sempre in mano. <<Ce ne andiamo domani>>, dissi senza pensare, e aggiunsi: <<Non vi farò del male, domani mattina partiamo.>> Entrando dissi che volevamo riposarci e stare un po’ da soli, i due fecero cenno di si, mentre i loro figli tacevano e ci guardavano. La piccola si diresse verso una scala in discesa, in fondo alla cucina che io sapevo portava al seminterrato, la fermai mettendole una mano sulla spalla, si voltò e mi disse che lei dormiva lì. La feci girare e la instradai verso la scala che portava al piano ammezzato. La casa era fatta su più livelli, la cucina grande si affacciava sul cortile. Sul retro, raggiungibile per mezzo di una scala di sette scalini, l’interrato che veniva usato come cantina. Sopra due camere a cui si poteva accedere per mezzo di una scala a due rampe. Sapevo che la stanza di sinistra era quella matrimoniale dei miei suoceri, quindi indirizzai Giulia a quella di destra. <<Ma quella è la stanza dei miei figli>>, disse la donna, che parlava per la prima volta con me. Mi voltai guardandola negli occhi. <<Questa notte ci dorme mia figlia.>> E lo dissi con un sibilo che mai avevo udito uscire dalle mie labbra, mentre la rabbia mi montava in corpo. Avevano fatto dormire mia figlia in una cantina, da sola, al buio, strinsi il fucile che tenevo in mano e dovetti farmi forza per frenare la collera. Entrammo, guardai per la prima volta con attenzione mia figlia, cercando di togliermi la patina di tenerezza che mi 129 offuscava gli occhi; era dimagrita, aveva i capelli unti e spettinati, era decisamente sporca, con le unghie nere, le braccia luride. La abbracciai ancora, poi aprii la porta e gridai di portarmi una bacinella, dell’acqua calda e del sapone. Era un ordine e fu eseguito senza discutere. La spogliai, la feci entrare nella bacinella e la lavai con delicatezza, mi lasciò fare senza parlare. Un anno prima non mi avrebbe neppure permesso di entrare in bagno mentre faceva la doccia, si sentiva una signorina con i suoi dodici anni. Ora di anni ne aveva tredici e trovava normale e confortevole che suo padre la lavasse, ogni tanto una lacrima usciva da uno dei suoi occhi stupendi, lei porgeva il viso verso di me ed io le passavo la spugna sul viso in modo che l’acqua confondesse l’acqua. La asciugai in un grande asciugamano bianco che era stato della nonna, le pettinai i capelli e trovai che era stupenda e glielo dissi. Ancora una volta mi abbracciò senza dire nulla. Nell’armadio c’erano gli abiti dei ragazzi, cercammo insieme quello che poteva andare bene per lei. Si provò, con fare quasi civettuolo, biancheria da ragazzo, mentre io la guardavo strabuzzando gli occhi e spostando di fianco la bocca in una smorfia che voleva essere comica. Era così buffo che ci venne persino da ridere e ridemmo per la prima volta. Trovò un paio di jeans che cinse con un foulard, una maglietta rossa e una maglia grigia con il collo a vu. Dopo aver trascorso un certo tempo in camera, ritornammo in cucina per la cena e tutti sollevarono lo sguardo verso Giulia. Non l’avevano mai guardata prima. Cenammo tutti insieme un po’ più rilassati, ma la tensione era sempre palpabile, io non mi ero mai tolto la pistola dalla fondina e lasciavo che quella presenza fosse ben visibile, il fucile lo avevo lasciato in camera che avevo chiuso a chiave; 130 avevo visto troppe brutture negli ultimi mesi, non avevo nessuna intenzione di lasciarmi prendere alla sprovvista ed avevo il preciso proposito di far sapere che non sarebbe stato facile sorprendermi. In camera avvicinai i due letti, ci sdraiammo e dormimmo abbracciati tutta la notte. Una stagione della mia vita era davvero finita, della famiglia mi era rimasta una pietra preziosa, ma le altre le avevo viste seppellite in un campo, sotto un ulivo. Il ricordo mi avrebbe seguito per sempre. Avevo deciso, senza riflettere, che era indispensabile andarsene da quel luogo; mia figlia in quella casa era stata senza dubbio sfruttata da quei due che l’avevano tenuta come una serva. Avevo temuto qualcosa di più brutto da parte dell’uomo, ma dalle informazioni che avevo carpito a mia figlia avevo capito che oltre qualche schiaffo e l’umiliazione di farla mangiare non a tavola ma poggiandole il piatto, sempre poco colmo, sul davanzale, non aveva subito altre violenze. Provai ad interrogarmi su che cosa avrei fatto in caso contrario; cacciai immediatamente quel pensiero perché quello che si affacciò nella mia mente mi fece paura. Per tutta la notte i ricordi della nostra vita precedente si accavallarono in testa, con una serie infinita e caotica di flash-back: una gita in montagna, il primo giorno di scuola di Marco, la nascita di Giulia, la prima volta che ho visto Clara, il matrimonio, le vacanze al mare, l’esame di laurea, la prima comunione, la prima volta che abbiamo fatto l’amore, il dente di Giulia, la torta della nonna, tutto, ma proprio tutto passava davanti alla mia mente. In quella triste ora dovevo pensare a cosa avremmo dovuto fare nel futuro, l’unica soluzione che trovavo plausibile era quella di tornare verso la Toscana nella comunità dove avevo lasciato Erica e Lucio. 131 Nonostante tutti i pensieri che mi assillavano riuscii a dormire. Ci svegliammo, preparammo uno zainetto che era nella stanza, con capi dei ragazzi per Giulia, scendemmo e facemmo colazione tutti insieme, in silenzio. Quando finimmo andammo a prendere i nostri zaini. Posai il fucile, che peraltro era stato sempre scarico, sul tavolo, mi bastava la pistola per darmi sicurezza e feci in modo che si vedesse. Avevo preso due borse da mettere a tracolla, dissi a Giulia di riempirle con viveri. La famiglia non fece una mossa, anche se si capiva che non era eccessivamente soddisfatta. Non avevo certo alcun rimorso; si erano insediati nella casa dei miei suoceri, avevano approfittato delle loro riserve e dei loro campi, ma soprattutto avevano fatto lavorare come una schiava mia figlia, trattandola come un cane. Loro erano consapevoli di cosa stavo pensando e rimasero in silenzio a testa bassa. Quando i panieri erano quasi pieni, Giulia spalancò gli occhi e sorridendomi mi fece cenno di aspettare. Si diresse verso la porta del seminterrato, ne uscì poco dopo con in mano due salami e una bottiglia di vino. La guardai complice e le sorrisi. Uscimmo con un cenno del capo che voleva essere in qualche modo un saluto. <<Il fucile ci serve>>, disse l’uomo mentre varcavo la soglia. <<Lo lascerò in fondo al campo dove ci sono le tombe>>, dissi, e aggiunsi: <<Non uscite per mezz’ora, se vi vedo da lontano mi porto via il fucile.>> E non dissi altro. Ci incamminammo verso il luogo dove erano i nostri cari. 132 Ci fermammo qualche minuto tenendoci per mano, poi diedi un bacio sui capelli a mia figlia e le dissi che dovevamo andare. Tutto ciò che era stato prima non c’era più, la nostra vita, i nostri affetti, il mondo intero non era più quello di prima, iniziavamo una nuova vita e non sapevamo cosa ci aspettava, la nostra era soltanto una speranza nell’ignoto. Gli occhi di Giulia cercavano nei miei quella sicurezza che non avevo, ma mi sforzai per mostrarmi all’altezza, volevo che la sua allegria tornasse, la volevo vedere di nuovo felice. L’avevo immaginata radiosa mentre l’accompagnavo all’altare ed ora non mi riusciva di pensare al suo futuro senza vedere solo una nebulosa informe, dovevo garantirle almeno una vita decente, ma non avevo idea di come avrei potuto fare. Attraversammo un fosso, aprii il fucile e lo immersi nel fango, in questo modo ci avrebbero messo del tempo per poterlo riutilizzare e anche se avessero avuto l’intenzione di seguirci avremmo avuto tempo per allontanarci, poi lo abbandonai in mezzo alle canne. 133 12 I primi due giorni viaggiammo senza grossi problemi, il nostro umore era velato, avevo mia figlia, ma ora dentro di me c’era anche la certezza di aver perso mia moglie e mio figlio. Avevo attraversato tutta l’Italia per ritrovare solo un pezzo della mia famiglia, ma Giulia mi dava la forza per andare avanti. Riuscivamo anche a trovare qualche momento di spensieratezza. Quando, ad esempio, dovevamo attraversare i corsi d’acqua, il gonfiare il canotto, la messa in acqua e l’inevitabile bagnata, ci facevano ridere, anche se subito dopo venivamo presi dallo sconforto. Il tempo, sperai, avrebbe attenuato le ferite che ci portavamo dietro; mia figlia mi stava attaccata, come un cucciolo che segue la madre quando ancora deve prendere il latte. Il terzo giorno ci fermammo nel piccolo borgo dove avevo conosciuto i cinque vecchietti. Ci accolsero con grandi sorrisi e trattarono mia figlia come una regina, non sapevano più cosa fare per renderla felice. Si rammaricarono molto nell’apprendere la sorte dei miei cari e avemmo da loro una grande comprensione. 134 Salvo volle sistemare i capelli di Giulia e glieli acconciò che più bella non poteva essere, anche se lei storceva un poco il naso. Per cena ci prepararono una frittata con le erbette e noi tagliammo uno dei salami che ci eravamo presi nella casa dei nonni, fu molto apprezzato e per l’occasione fu stappata una bottiglia del vino “buono”. Temo fosse l’ultima rimasta, ma la offrirono con gioia e la bevemmo con infinito piacere, ed insistetti perché anche Giulia ne bevesse un mezzo bicchiere. Ci sistemarono in cucina, ma soprattutto ci fecero sentire in famiglia, questo ci confortò più di ogni altra cosa. Ne avevamo proprio bisogno. Su consiglio di Sasà, il giorno seguente prendemmo per una strada che attraversava una grande boscaglia e nello stesso tempo ci permetteva di accorciare notevolmente il nostro tragitto. Circa quattro ore dopo la nostra partenza, mentre camminavamo su una strada asfaltata, vedemmo una scena assolutamente normale in un’altra epoca e assolutamente inusuale in quelle circostanze. Due bambini stavano giocando nel cortile di una casetta poco visibile dalla strada. Ci accorgemmo della loro presenza per il chiacchiericcio che i due facevano mentre giocavano seduti, uno di fronte all’altro. Anche loro si avvidero di noi quando gli eravamo ormai nei pressi, ci guardarono stupiti e corsero immediatamente in casa gridando. <<Aldo, Aldo>>, urlarono insieme. Dopo poco un uomo sui cinquanta, cinquantacinque anni si fece sulla porta, mentre si asciugava le mani in un asciugamano da cucina. 135 <<Salve>>, disse, venendoci incontro e tendendo la mano. Dietro di lui cinque bambini ci guardavano con occhi sgranati. Aldo ci presentò i piccoli: <<Le gemelle Luisa e Ida, Annina, Tonio e Toto.>> Erano tutti piccoli; il più grande, Tonio, aveva sette anni e teneva Toto per le spalle mentre ascoltava i grandi chiacchierare. Avremmo potuto proseguire oltre, c’erano ancora alcune ore di sole, ma mi resi conto della solitudine di quell’uomo con cinque bambini, dopo mesi di vita senza un adulto con cui confrontarsi e non ebbi cuore di abbandonarlo. La cena fu quasi esilarante, i bambini spalancarono gli occhi alla vista del salame che avevamo messo in tavola, lo mangiarono con appetito chiedendo più volte il bis, riuscendo a consumarne più della metà. I bambini erano teneri e si vedeva che pendevano dalle labbra di quell’uomo che però non era il loro padre. Toto rimase tutta la sera seduto in grembo a Giulia che se lo coccolava come avesse avuto un bambolotto. I piccoli dormivano tutti nella stessa stanza in cui c’erano solo letti e null’altro. Una volta messi a letto, ci sedemmo a chiacchierare. Così Aldo ci raccontò la sua storia, che cominciava ormai come ogni storia circa un anno prima. Lui che era un erborista e che si occupava di raccogliere erbe ed essenze da vendere ai negozi specializzati, si era recato, come faceva ogni anno, nella sua piccola casa nel bosco, dove preparava anche confetture di frutti di bosco e faceva essiccare funghi che in quel luogo erano abbondanti. Due giorni dopo essersi sistemato, l’erogazione della corrente elettrica si era interrotta; sulle prime non ci fece caso, a volte era già successo dato il luogo poco accessibile e poco frequentato, e comunque lui era attrezzato con lampade a gas e proprio non gli mancavano televisione e radio.. 136 Trascorsa una settimana pensò ad un guasto alla linea non rilevato, si convinse che era meglio così, sarebbe vissuto un mese come si faceva cent’anni prima e non ci pensò più. Si era fatto accompagnare sin lì da un amico, in quanto lui non aveva la macchina. Non aveva mai voluto prendere la patente perché non se la sentiva di caricarsi di quella responsabilità, per cui spesso chiedeva agli amici un passaggio o si serviva dei mezzi pubblici. Non potendo richiamare l’amico per farsi venire a prendere, in quanto il telefonino si era scaricato, decise di andare alla fermata dell’autobus che passava due volte la settimana sulla strada provinciale, a circa dieci chilometri da quel luogo sperduto. Intendeva tornare a casa sua per poi farsi riaccompagnare dal solito amico a riprendere le erbe che aveva raccolto. Scese il giorno ed all’ora giusta, aspettò alla fermata, ma non passò alcun pulman. A dire il vero si stupì del fatto che non passavano nemmeno auto o camion. Era pur vero che si trattava di una strada di scarso traffico, ma qualche mezzo ogni tanto passava; quel giorno non vide nessuno. Tre giorni dopo, mentre cominciava a piovere, ridiscese alla fermata del bus, ancora una volta non vide nessuno che arrivava e nessuno che transitava. Tornò alla sua casa nel bosco, sapeva che qualche chilometro più verso sud c’erano due case, decise di andare a chiedere a quella gente un passaggio per tornare in città. <<Sono arrivato alla prima casa>>, raccontò, <<mentre infuriava una tempesta. Voi non potete nemmeno immaginare che razza di pioggia veniva giù.>> Non lo interruppi, ma sapevo di cosa parlava. <<La porta non era chiusa a chiave, entrato in cucina trovo due bambine che stanno spalmando Nutella su fette biscottate. Le due gemelle. Mi salutano e mi dicono di fare 137 piano che la nonna dorme. Hanno sei anni e mi dicono che la loro nonna dorme da molti giorni. Ho dato giusto una sbirciata nella stanza della nonna. Solo in quel momento ho realizzato che doveva essere successo qualcosa di veramente grave. Com’era possibile che nessuno si fosse preoccupato di venire a vedere se le loro figlie stavano bene, dato che si trovavano con una donna anziana e non c’era possibilità di comunicare. Devo dire che fino a questa sera non avevo capito di cosa si trattava, le mie erano solo congetture. Mi sono portato via le due bambine, ho preso quel che c’era da mangiare e siamo tornati qui sotto un fiume d’acqua.>> <<E gli altri bambini?>> Chiese Giulia incuriosita. <<Dovendo provvedere anche alle gemelline ed essendomi ormai accorto della scarsezza delle nostre provviste, uscii, in quei giorni, nonostante il tempo inclemente, a cercare verdura selvatica commestibile. Le mie erbe non sono certo un alimento molto nutriente. Così il secondo mattino ti vedo un frugolo che cammina nella pioggia con la sua bella mantella rossa, gli stivalini gialli e con un cestino in mano. Toto, dice solo questo, non parla e non sono ancora riuscito a capire quanti anni ha. Così ad occhio e croce ne avrà tre o quattro. Capite, era lì da solo, in mezzo a quella tempesta con tuoni e fulmini. Ho preso la sua mano nella mia, mi ha seguito senza fare storie e quando è arrivato in casa si è seduto su una sedia, con le gambe penzoloni a guardarci serio. Invece Tonio me lo trovai davanti alla porta il giorno seguente, ha sette anni è molto sveglio e mi chiese se potevo andare con lui dalla zia che stava male, disse che aveva il fiato corto e che gli aveva detto di andare a cercare qualcuno che l’aiutasse. Gli ho chiesto dov’era la casa di sua zia, ma non sapeva proprio in che direzione si trovasse; vagava da 138 ore, aveva perso la strada e solo il caso lo aveva condotto alla mia porta. La storia, forse, più triste è quella di Annina; l’ho trovata il giorno prima che iniziasse a nevicare. Poi vi parlo di quanto ha nevicato qui, non potete neppure farvene un’idea. Prendo una strada, sempre sotto quell’acquazzone che non finiva mai, e, ad un tratto vedo una figurina seduta su una pietra, sul ciglio della strada. E’ lì seduta e quando mi avvicino mi accorgo che tiene nella sua mano la mano di una donna distesa ai suoi piedi. Quando mi vede mi dice che la mamma non vuole alzarsi. Pensateci, era lì che teneva la mano della mamma, morta chissà da quanto tempo. Le ho chiesto come si chiamava e quanti anni aveva. Annina e aveva cinque anni mi ha risposto. Le ho detto di venire con me e lei mi ha chiesto “E la mamma?” Ho sistemato quel povero corpo in un fossato e l’ho ricoperto come potevo con rami e foglie. Quando siamo arrivati qui, mi ha raccontato a modo suo che da un po’ di giorni c’era poco da mangiare, anzi la mamma non mangiava, dava a lei quello che era rimasto. Le diceva che sarebbero andate via quando finiva di piovere, ma poi un giorno aveva deciso di partire lo stesso, ma non ce l’aveva fatta. Credo abbia tentato di resistere fino all’ultimo sperando nell’arrivo di qualcuno, il marito o non so.>> A questo punto si fermò un attimo, poi riprese. <<Questi bambini hanno sofferto tanto, ma a parte Toto, non mi pare che gli altri ne abbiano risentito. Sono più forti di noi.>> E lo disse guardando me. Era prodigioso che un uomo, che non aveva figli, si fosse preso cura di quei piccoli al punto di diventare il loro padre 139 adottivo. Ero contento di trovare, finalmente, un uomo buono, in mezzo alla pazzia di questo mondo, che si era dedicato agli altri senza secondi fini. Fu sconvolto quando gli raccontai cosa era avvenuto nel periodo in cui lui aveva vissuto isolato in quel luogo; mi sembrò sgomento nel rendersi conto che quei bambini erano affidati a lui, per sempre, che lo volesse o meno. Gli suggerii di andare nel borgo dove avevamo conosciuto i cinque anziani, in fondo si trovava solo a quattro ore di marcia da quel luogo, e gli arzilli vecchietti lo avrebbero aiutato ad accudire quella numerosa nidiata. Si mostrò grato del mio consiglio e mi garantì che lo avrebbe messo in pratica. A ripensarci non gli avevo dato un’indicazione di distanza dicendogli quanti chilometri era lontano il borgo di cui gli avevo parlato, mi era parso logico dargli un’indicazione sul tempo percorso a piedi, anche questo faceva parte del nuovo modo di esistere. L’indomani lasciammo quell’asilo salutati dai bambini che festosi ci abbracciarono, tutti tranne Toto che rimase in disparte. Mi avvicinai a lui e, visto che non si muoveva, gli tesi la mano, lui mi pose la sua sulla mia, guardandomi negli occhi, poi d’improvviso si lanciò tra le braccia di Giulia e rimase così per qualche tempo. Le loro grida e il battito di mani ci seguirono per un breve tratto, ripassammo nei luoghi che avevo visto all’andata, feci solo un giro un po’ più lungo quando arrivai in prossimità del Gargano. Non so se il mio sia stato razzismo o cosa, il fatto è che temevo di portare mia figlia in mezzo a sette uomini, bianchi o neri che fossero, quindi decisi di proseguire senza fermarmi. Ritrovai i pescatori che avevano ormai terminato la struttura che reggeva la rete a bilancia, anche loro mi accolsero benevolmente e ci prepararono una frittura di pesce da 140 leccarsi le dita, le donne della comunità si presero a cuore Giulia e la accudirono come fosse la loro figlia; mi commuoveva vederla guardare quelle donne sapendo che pensava alla mamma. Per un lungo tratto avevamo viaggiato con due biciclette che avevamo trovato in una casa, le avevamo però dovute lasciare quando incontrammo un fiumicello che, come tutti gli altri, dovemmo attraversare con il nostro canotto. Ci inoltrammo verso l’entroterra dopo esserci riforniti di pesce, ormai ero diventato un provetto pescatore con la lenza; mia figlia si lamentava di dover mangiare sempre pesce, ma poi lo gustava e spesso chiedeva il bis. Da quando l’avevo rivista si era rimessa un po’ in carne, la lunga marcia l’aveva rinforzata e sembrava veramente in forma, ai miei occhi era stupenda, mi ricordava sua madre e questo mi infondeva ancora più amore verso di lei. Giulia mi aveva chiesto il secondo giorno dove eravamo diretti, le raccontai della comunità che avevo trovato in Toscana, le dissi che avevo conosciuto persone buone e che in quel luogo c’erano uomini, donne, ragazzi e bambini, sarebbe stata la nostra nuova casa e avremmo potuto vivere in pace protetti da quel nucleo di nuova civiltà. Una sera ci eravamo accampati nella cucina di una casa abbandonata, era abbastanza accogliente e la stufa ci infondeva un calore che in qualche modo ci confortava. Quando ci coricammo, dopo qualche minuto di silenzio Giulia cominciò a parlare nel buio: <<Siamo partiti quel giorno perché la gente era impazzita, sparavano da tutte le parti, tu eri via e non eravamo riusciti a telefonarti. I De Novo sono venuti da noi e ci hanno detto che sarebbero partiti subito per andare a prendere la loro barca e andare in Sicilia dove, come sai, era nato Michele. La mamma ha detto che ci avresti raggiunto. Non so come 141 facesse a sapere che avresti capito dove eravamo diretti, comunque siamo partiti con loro. Bighy era scappato il giorno prima quando avevano cominciato a sparare da tutte le parti. Papà ti giuro l’ho cercato ovunque, non l’abbiamo più ritrovato e siamo partiti senza di lui.>> Bighy era il nostro cane, lo avevamo preso al canile un giorno che Giulia era tornata da scuola con un foglio nel quale si diceva che una cucciolata di Beagle sarebbe stata soppressa, per mancanza di fondi, se non avessero trovato una famiglia disposta a prenderli. Io non ero del tutto d’accordo nel caricarmi della responsabilità di un cane, temevo che alla fine sarebbe toccato a me portarlo a spasso il mattino e la sera, con la pioggia, con il sole e con il vento; conoscevo i miei polli. Giulia si mise a piangere e Marco le dette corda. Promisero che si sarebbero occupati loro di tutto, che io non avrei dovuto preoccuparmi di nulla. Così andammo al canile, i cuccioli erano quattro: piccoli, buffi e amorevoli. Devo dirlo, appena li ho visti ho capito che non avremmo potuto farne a meno. Giulia prese in braccio il primo che le si era avvicinato ad annusarla ed aveva deciso di prendere quello. Bianco e marrone, con le sue orecchie pendule era proprio tenero e, bisogna ammetterlo, non ce ne pentimmo mai. Poi, come previsto, toccò quasi sempre a me portarlo fuori, ma questo non mi disturbava, anzi era un vero toccasana staccare da tutto, da quegli stronzi sul lavoro, dal traffico e dalle beghe politiche in televisione, camminare senza meta con l’animale che tirava. Una vera cura rilassante. Marco era quello che si era affezionato di più e penso abbia patito la perdita in quei giorni. 142 Giulia continuò il suo racconto:<<Siamo saliti in sei sulla loro macchina, avevamo tutto quello che eravamo riusciti a portare in braccio e nel bagagliaio. Dovevi vedere come era stracolma quell’automobile. Michele ha guidato come un pazzo per tutta la strada, quando siamo passati vicino a Limone, prima del Colle di Tenda, c’erano delle persone in mezzo alla strada, volevano fermarci, Michele non ha diminuito la velocità e gli altri si sono spostati, ma ci hanno sparato. Fortunatamente non ci hanno colpito. Non hanno colpito noi, intendo, hanno però preso l’auto. Subito dopo il tunnel siamo rimasti senza benzina, abbiamo provato a scendere in folle, ma non so perché i freni con il motore spento non funzionavano, così siamo finiti contro un terrapieno. Andavamo piano e non ci siamo fatti niente. Allora dato che non potevamo arrivare al mare, la mamma ha detto che potevamo fermarci nella nostra casa di Dolceacqua. E ci siamo andati. Ti ha scritto una lettera sai?>> Dissi che l’avevo trovata e che l’avevo ancora con me. <<Me la fai poi leggere?>> Mi chiese. <<Naturalmente>>, la rassicurai. <<Il mattino successivo>>, continuò, <<siamo arrivati al porto, c’era una gran confusione, siamo andati di corsa al molo e siamo saltati sulla barca dei De Novo. C’era un sacco di gente che si è messa a correre nella nostra direzione, ma abbiamo fatto in tempo a partire e uscire dal porto. I De Novo contavano di arrivare fino in Sicilia e poi ci avrebbero lasciato la barca per andare dai nonni in Puglia. Sai che la mamma è brava, cioè era brava con le vele.>> Lo sapevo benissimo, lei aveva un dono per la barca a vela, io non capivo come facesse. 143 Io dovevo sempre ragionare, prima sulla direzione del vento, poi su come posizionare le vele e non sempre l’andatura che ne scaturiva era soddisfacente. Lei sentiva il vento senza guardare i segnavento, sistemava le vele d’istinto e la barca viaggiava che era un piacere. Era un vero lupo di mare, sebbene non conoscesse neppure un termine marinaresco, materia che invece era il mio forte, per lei poggiare o orzare, poppa o prua, scotta o sartia non volevano dire nulla, non sapeva come si chiamavano i nodi, per lei c’era destra e sinistra, davanti e dietro, corde e cordini, ma il governo della barca era il suo forte. <<Così abbiamo navigato per quattro giorni senza avvicinarci neppure a riva, ci siamo fermati ad un piccolo molo e siamo riusciti a procurarci l’acqua, poi abbiamo proseguito; ogni tanto avvistavamo delle imbarcazioni a vela, ma si tenevano a distanza e Michele, comunque, preferiva così. Eravamo già arrivati in Calabria e stavamo viaggiando a qualche centinaio di metri dalla costa quando abbiamo visto partire dalla spiaggia due gommoni, erano troppo veloci ed in pochi minuti si sono avvicinati. Erano armati e ci hanno costretti a puntare verso riva. A questo punto non potevamo fare altro, noi eravamo nella cabina, Michele ha detto di mettere tutto quello che potevamo negli zaini e di prepararci a scappare. La barca si è arenata a pochi metri dalla riva, noi siamo saltati giù e per un attimo abbiamo avuto paura che ci sparassero, poi uno è salito sul cabinato e gli altri lo hanno seguito, mentre noi, fradici, siamo corsi oltre la spiaggia. Eravamo dalle parti di Paola. Non so se sai dov’è. Io non lo so, ma è in Calabria. A quel punto ci siamo divisi perché noi dovevamo tornare per diversi chilometri indietro e i De Novo proseguirono per 144 il sud. Ci hanno anche chiesto se volevamo andare con loro, ma gli abbiamo detto che tu saresti venuto in Puglia. Non so che strada abbiamo fatto, la mamma ha trovato una cartina, poi abbiamo preso tre biciclette, erano tre montainbike, Marco era sempre davanti, sai che lui amava la bicicletta.>> Lo sapevo. Lo sapevo e ricordavo anche quando avevo dovuto portarlo al pronto soccorso un giorno che si era sfracellato correndo su uno sterrato nel parco. Riuscivo a vederlo mentre lo pensavo. <<Abbiamo viaggiato per quattro giorni>>, proseguì, <<ad un certo punto non avevamo più cibo. Siamo stati senza mangiare per due giorni, poi, passando accanto ad una casetta, lungo la strada, la mamma ha visto una piccola serra coperta; dentro abbiamo trovato pomodori, sedani, finocchi e ravanelli e così siamo riusciti ad arrivare nella casa di campagna dei nonni, dove mi hai trovato. Il resto lo sai.>>. Si addormentò senza aggiungere altro ed io rimasi a lungo ad occhi aperti nel buio ad immaginare il loro viaggio. Tutto ciò sarebbe stato impensabile solo un anno prima, ma ormai quella era la nostra vita. Mi accorsi il giorno seguente che mi ero perso, o meglio non avevo più trovato la strada da cui ero venuto, comunque avevo una cartina e la direzione e la strada erano giuste, quindi proseguimmo senza intoppi. Due giorni fa attraversavamo un bosco di alberi ad alto fusto, ci siamo fermati per riposare, approfittando di un tronco di un albero caduto. Mi allontanai per normali funzioni fisiologiche, lasciando Giulia seduta sul legno appoggiato a terra, ad un tratto sentii un urlo, era mia figlia. Mi prese uno spavento mortale, mi avvicinai correndo, poi mi obbligai a farmi più cauto e mi 145 fermai ad ascoltare cercando di vedere nella direzione in cui lei doveva essere. La vidi che si riparava dietro ad un albero, davanti a lei un uomo che faceva dondolare un fucile tenendolo per la tracolla. <<Dai vieni fuori bella bambina>>, le stava dicendo, <<vieni qui che ti scaldo se hai freddo.>> E lo diceva con voce suadente, per quello che poteva riuscire ad un verme come quello. <<Forza esci di lì che giochiamo un po’ al dottore.>> A pochi passi da me un altro uomo si appoggiava ad un albero e rideva. Aveva in un fodero, appeso alla cintola, un lungo coltello. Mi avvicinai senza farmi sentire. D’altra parte l’altro faceva un tal baccano che non sarebbe stato possibile sentire altro. Mi assicurai che non ci fossero altri nei paraggi, appoggiai la canna della pistola alla tempia di quello a me più vicino e gli sussurrai di stendersi e di mettere la faccia direttamente nella terra, mentre gli toglievo il coltello dal fodero. Alla prima sobbalzò, poi capì e si mise carponi, ma subito chiamò. <<Ale…>> Gli sferrai un calcio in faccia che gli impedì di proseguire. L’altro si voltò mentre stava dicendo: <<Dai non rompere i coglioni.>> Mi vide e fece per recuperare il fucile in modo da poterlo usare. Non ci pensai un attimo e sparai. Gli centrai il ginocchio destro, e quello lasciando cadere a terra il fucile si mise ad urlare dal dolore. Quella volta non mi ero dimenticato di togliere la sicura e avevo sparato per uccidere, la mia mira però era quella che era, ma bastò per fermare quegli energumeni. Mi avvicinai, presi il fucile, tolsi la cartucciera dalla spalla del ferito, gli presi anche il coltello che teneva al fianco, 146 mentre quello continuava dimenarsi e a maledire. Nel frattempo tenevo sotto tiro l’altro che non osava più alzarsi. Dissi a Giulia di prendere la sua roba ed infine mi rivolsi a quello a cui avevo spaccato il naso, almeno da quanto sanguinava. <<Quella è la tua direzione>> gli dissi indicando con la pistola quella opposta a quella che avremmo preso noi. <<La prossima volta che ti vedo sei morto.>> <<Ma io non c’entro niente è stato lui che…>>, bofonchiò quello tenendosi il naso. Sembrava quasi un bambino che dava la colpa al compagno. <<Il fatto è che non ti voglio più vedere. Andiamo Giulia raggiungiamo gli altri, avvisiamoli, avranno sentito lo sparo e staranno venendo qui.>> Mi guardò sulle prime stupita, poi mi accorsi che aveva capito e ci incamminammo. Mentre ci allontanavamo sentivamo il ferito gridare all’amico di non abbandonarlo, ma l’altro per tutta risposta. <<Te la sei cercata adesso vaffanculo, ti avevo detto di lasciar stare, era solo una bambina, e poi dovevi immaginare che non era sola. Adesso arrangiati.>> Sentimmo ancora per parecchio tempo quello ferito che imprecava. Camminammo in silenzio a lungo, con l’intento di allontanarci il più possibile da quei due. La sera, ancora una volta, ruppe il silenzio nel buio. <<Papà, perché gli uomini sono così cattivi?>> Era una bella domanda. Cosa rispondi ad un figlio quando ti fa domande del genere? Specialmente se ha appena avuto un’esperienza come quella? Ti passano tutte le argomentazioni nella testa, ma ognuna non ha nessun senso. 147 <<Credo>>, cominciai, perché non potevo eludere la domanda, io ero il suo riferimento, anzi ero il suo unico riferimento. <<Credo che la natura umana sia sbagliata, è l’uomo in sé che forse non è umano, almeno non nel senso che riteniamo noi due. Da sempre gli uomini si sono comportati in modo folle. Fin dalla antichità abbiamo combattuto per prendere ad altri quello che avevano, si sono fatte guerre per millenni. All’epoca dei romani si divertivano a vedere gente che si ammazzava negli stadi. Ti ricordi dei gladiatori? Poi c’erano quelli che venivano sbranati dai leoni, un altro bello spettacolo. Nei secoli passati ci sono stati gli spagnoli e i portoghesi che massacravano le popolazioni indoamericane per impadronirsi del loro oro. Pensa agli indiani d’America, sterminati dai coloni che gli occupavano le terre; pensa che in alcuni casi le tribù venivano decimate dal vaiolo che era stato portato apposta dai soldati inglesi.>> <<Si però loro scotennavano i loro nemici>>, mi interruppe mia figlia. <<Anche questa è una bella storia; questo è quello che ci hanno fatto vedere nei film western. Devi sapere che i pellerossa erano, di norma, una popolazione pacifica che viveva di caccia e raccolta di frutti vari. Quando arrivarono i bianchi, questi occuparono le terre che erano state delle tribù pellerossa per secoli, ma siccome gli indiani non volevano capire che su quelle terre non potevano più mettere piede, i coloni decisero di eliminarli fisicamente. In alcuni centri misero una taglia per ogni pellerossa ucciso, che fosse un guerriero, vecchio, donna o bambino. Però non si fidavano della parola di questi assassini prezzolati e allora 148 pretendevano una prova dell’effettiva uccisione e si decise che si doveva portare lo scalpo di ogni indiano ucciso, per essere pagati.>> <<Allora non erano gli indiani che prendevano lo scalpo?>> Volle sapere Giulia. <<Voglio dire che non sono stati loro ad inventare questa pratica, se così possiamo chiamarla. I pellerossa erano animisti, per cui si convinsero che i bianchi prendevano gli scalpi dei nemici per trarne la forza dall’anima del nemico stesso e quindi si misero, con buona volontà, anche loro a fare la stessa cosa>>, le risposi. <<Ma allora perché si dice che erano gli indiani a fare queste cose, se l’idea era cominciata dai bianchi?>> <<Perché la storia la scrivono i vincitori, semplicemente per questo.>> <<Cosa vorresti dire, che se Hitler avesse vinto la guerra sarebbe diventato un santo?>> Mi domandò incalzante. <<Un santo forse no, ma non avremmo saputo nulla sullo sterminio degli ebrei. Probabilmente la storia avrebbe raccontato di un grande condottiero che aveva unificato un impero dalla penisola iberica agli Urali, salvando il mondo dalla guerra, o qualcosa del genere.>> <<Ma! Sarà! E perché ce l’avevano poi tanto con gli ebrei?>> Passando ad un argomento che avevo appena toccato superficialmente, tanto di tempo ne avevamo e non avevamo altro da fare che chiacchierare, e, devo dirlo, questo mi faceva un immenso piacere. Cercai di spiegarle la crisi economica della Germania di quel periodo, i disoccupati, l’umiliazione della guerra perduta, tutte cose che avevo studiato a scuola. Spero che sia riuscito a spiegarmi. Non riuscivo a vederla in faccia, ma dal mugugno che fece non credo del tutto, ma andai avanti nei miei ragionamenti. 149 <<Comunque per continuare il discorso di prima sull’uomo e sull’umanità, dobbiamo ricordarci che per secoli gli schiavi sono stati la norma, i loro proprietari li consideravano come bestie ed avevano persino il diritto di ucciderli, se lo desideravano. Pensa, ancora, all’ingegno che si è sprecato per produrre bombe atomiche. Ti ricordi di Hiroshima e Nagasaki? Se penso ai campi di concentramento, alle guerre mondiali, alla pulizia etnica, ai kamikaze, alle torri gemelle, agli omicidi, alle rapine, alla pedofilia, ebbene, se penso che queste cose sono opera dell’uomo, io e te non siamo umani.>> <<Sono d’accordo. Ma non ci sono stati anche uomini giusti? Che capivano?>> Intervenne mia figlia. <<Hai presente tutte le tragedie che sono avvenute nel corso di quest’anno?>> Non aspettai risposta. <<Ce le siamo volute, io non ho capito cosa stava succedendo, ma era possibile prevederlo. Abbiamo basato il nostro sviluppo su dati inutili. Per esempio ci siamo infatuati della religione del PIL?>> Ma mia figlia disse che non sapeva cosa fosse il Pil. <<Ti spiego; in tutto il mondo si è basato l’indice di progresso calcolandolo con l’aumento del prodotto interno lordo. Il Pil. Secondo questo parametro, più si produceva e più eravamo ricchi,. Si dava per scontato che si doveva produrre e consumare come se avessimo a disposizione un pianeta infinito, anzi come se avessimo centinaia di pianeti da cui trarre i prodotti e le materie prime che ci servivano. Bob Kennedy per esempio.>> <<Chi era Bob Kennedy?>> Mi interruppe Giulia. <<Bob Kennedy>>, spiegai, <<era il fratello di John Fitzgerald Kennedy che era stato presidente degli Stati Uniti; 150 stava facendo la campagna elettorale per diventare lui presidente.>> <<E suo fratello?>> Mi bloccò ancora. <<Era stato ucciso. Ebbene un giorno, e sto parlando del 1968, quarantacinque anni fa, durante un discorso disse che: il PIL non poteva essere preso come metro per misurare il nostro benessere, disse che il PIL comprendeva l’inquinamento, la pubblicità delle sigarette, aumentava se c’erano ingorghi stradali che facevano consumare più benzina, se viaggiavano le ambulanze e aumentavano i morti per incidenti stradali. “Il PIL”, aggiungeva, “comprende i programmi televisivi che valorizzano la violenza, cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, con l’aumento dei carcerati, con gli equipaggiamenti per la polizia e l’esercito. Il PIL non tiene conto della salute delle famiglie, della qualità dell’educazione e della gioia dei momenti di svago. Non comprende la bellezza della poesia, i valori famigliari, l’intelligenza del nostro dibattere. Non misura la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di esser vissuta.” Capisci?>> <<Lo hanno fatto presidente?>> Chiese ingenua. <<No è stato ucciso.>> Sentii su di me il suo sguardo sbalordito, e continuai. <<Altri hanno detto cose sensate, per citarne solo qualcuno: Martin Luter King, che era un nero afroamericano ed era a capo del movimento per l’emancipazione in America, disse un giorno: “ho fatto un sogno: che ogni uomo venga riconosciuto uguale ad ogni altro, a prescindere dal colore della pelle”. Il Mahatma Gandhi, un altro grande uomo, fu il padre della moderna India, quello che indusse gli inglesi a lasciare il suo paese che era stato conquistato come colonia, sosteneva la non violenza ad ogni costo. Lo stesso Gesù 151 Cristo, e non ho bisogno di spiegarti chi era, proclamava l’amore in cielo e in terra. Ebbene tutti questi personaggi che dicevano cose solo sensate sono stati uccisi. E’ per questo che penso che l’uomo sia un animale sbagliato, avrebbe potuto vivere felice ed in pace su una terra magnifica come la nostra, eppure guarda come siamo finiti.>> Non ebbi risposta, si era addormentata. Finalmente arrivammo nella valle che mi ero prefissato di raggiungere, avevamo pranzato con quello che ci era rimasto. Ci rimanevano poche provviste, ma ormai il viaggio stava per terminare. Guardai ancora una volta la cartina, ma mi sembrava, comunque, di riconoscere i luoghi, non vedevo l’ora di rivedere Lucio ed Erica e tutti gli altri. Ritrovai la strada che portava al cancello della cascina, ci inoltrammo nel viale alberato fino ad arrivare al portone che era, come la volta precedente, spalancato. Varcammo la soglia e, con mio enorme sgomento, non vidi nessuno. Non si sentiva alcun rumore, tutto taceva, tutto era immobile. Giulia mi guardò angosciata e non potei fare altro che alzare le spalle a significarle che non capivo. Pensai che fossero riuniti in qualche locale per una festa o una cerimonia o non so. Entrammo in tutti i locali. Vuoti. Nessuno. Niente. Non c’erano più persone, né animali. C’erano ancora i tavoli, gli armadi, i letti, ma non c’erano più indumenti, lenzuola e coperte e neppure cibo e non si riusciva a capire cosa fosse successo, dove fossero finiti tutti. 152 Giulia si mise a piangere, era stanca e disperata, l’avevo portata fin lì con la promessa di una nuova vita ed ora ci trovavamo senza prospettive e senza futuro, noi due da soli, in questo mondo terribile, con tutta la cattiveria la fuori. Ad un tratto notai un movimento tra il fitto del bosco, subito fuori dal cancello. Una figura si spostava nella nostra direzione, lo riconobbi al primo sguardo, Lucio. <<Lucio>>, gridai. <<Accidenti, dove vi eravate cacciati, per un momento ho temuto fosse successo qualcoa.>> Il suo volto non lasciava trasparire alcuna gioia, anzi era afflitto da una pena che ancora non conoscevo. <<Non c’è più nessuno, sono rimasto solo io.>> E così ci raccontò ciò che era avvenuto. Circa un mese dopo che li avevo lasciati per raggiungere la mia famiglia, o quello che ne era rimasto, un mattino arrivarono alla fattoria una dozzina di camion militari, da cui scesero un centinaio di soldati. Minacciandoli con le armi si erano impadroniti di tutto ciò che c’era, animali, provviste e quant’altro. Bruno, l’uomo che aveva organizzato la rinascita di quella gente, che voleva solo vivere in pace con il duro lavoro, protestò, ma venne subito tacitato con un colpo di manganello in testa. Gli uomini furono divisi dalle donne e chiusi in uno scantinato. Lucio precisò che, in realtà gli uomini furono divisi in due gruppi, lui e la maggioranza degli uomini e dei ragazzi furono rinchiusi in un piccolo ripostiglio, gli altri cinque, tra cui Bruno furono portati altrove. Non sapeva dire dove. Dopo alcune ore rinchiusi in quel luogo angusto, non sentendo più alcun rumore proveniente dall’esterno, decisero di scardinare la porta ed uscire. Una volta fuori videro che i soldati se ne erano andati portandosi via tutto, comprese le donne ed i cinque uomini che non erano rinchiusi con loro. 153 Lucio aveva sperato di capire da dove provenivano i soldati, voleva a tutti i costi ritrovare Erica, ma nessuna traccia e nessun indizio gli aveva permesso di capire da dove venissero quegli uomini e dove fossero diretti poi. Era pazzesco avevano portato via tutti gli averi e le donne, come si faceva nella preistoria, o come facevano i pirati. Mi sovvenne il ratto delle Sabine, ma non lo dissi. Lucio era disperato, ed anche noi che avevamo contato su quella comunità per ricominciare la nostra vita. Ci disse che gli altri se ne erano andati alla ricerca delle proprie origini, lui era rimasto nella speranza che qualcuno tornasse o che Erica avesse potuto fuggire, ma ormai era passato troppo tempo, per cui aveva deciso che il giorno seguente sarebbe tornato nella sua città alla ricerca dei suoi parenti. Preparammo, afflitti, qualcosa da mangiare, con il poco che ci era rimasto, e poi ci chiudemmo in una stanza e ci sdraiammo per la notte su due letti senza materassi, mentre Lucio preferiva dormire in una stanza da solo. 154 13 Ho rivisto tutto quello che è successo da mesi ad oggi e sono qui su questo pagliericcio a ripensare a cosa ho sbagliato. Ho portato qui mia figlia pensando ad una nuova vita ed abbiamo trovato il nulla, abbiamo solo potuto constatare a che punto l’umanità sia arrivata. La sento vicino a me che a volte singhiozza, anche lei sperava di ricominciare, si aspettava di vedere un gruppo di persone che si aiutavano a vicenda, agognava incontrare dei coetanei con cui confrontarsi ed ancora giocare come faceva prima e invece piange di una disperazione sorda senza speranza. Non riesco a chiudere occhio, per fortuna il respiro di Giulia mi indica che si è addormentata, cosa farò? Lei si aspetta da me una soluzione che ci dia una speranza di vita, ma non ho idee, non posso tornare indietro, in Puglia, non sapremmo dove andare. Là ci sono le spoglie dei nostri più cari, ma non abbiamo amici o altri parenti. Non ha senso tornare a Torino, in queste condizioni non è possibile vivere in una città, l’unica alternativa possibile è trovare un accomodamento in una località di campagna dove coltivare la terra, allevare animali e, in definitiva, sopravvivere come si faceva nei secoli precedenti dedicandoci ad una nuova vita rurale. 155 Senza che me ne rendessi conto mi sono addormentato, è mattina e sono seduto sul letto e non ho ancora preso nessuna decisione, mi muovo come un sonnambulo, mi giro guardandomi a destra e sinistra senza vedere nulla, cerco qualcosa nello zaino, ma non so cosa. Giulia mi sta guardando, ha il viso triste, lei che è sempre stata l’allegria in persona, lei che era la prima a ridere di tutto, ora mi guarda ed il suo sguardo è un punto interrogativo. <<Cos’è quel foglietto che hai in mano?>> Mi chiede. Ho un foglietto tra le mani e non me ne ero accorto, l’ho preso dallo zaino mentre ero in trance e lo stavo proprio guardando senza vederlo, glielo porgo. <<San Venanzo – Contrada Fornace – Simoni. Cosa vuol dire?>> Una speranza mi è precipitata nel cervello, un lampo, ma non devo dare troppe illusioni a Giulia devo stare sul vago, non voglio che si prenda un’altra bastonata, ma allo stesso tempo non posso tacere. <<Ti ho raccontato che durante il mio viaggio verso sud avevo incontrato una signora con il suo bambino; lei mi ha dato questo biglietto, forse potremmo andarla a trovare, poi si vedrà.>> La guardo in attesa di una qualche espressione, mi guarda senza cambiare faccia. <<E dov’è questo posto?>> Già dov’è? <<Mi ha detto che era dalle parti di Orvieto, anzi Tra Orvieto e Perugia.>> Guardiamo la cartina che io mi porto dietro, troviamo ovviamente Perugia e Orvieto, non c’è nessuna traccia di un luogo chiamato San Venanzo. La cartina non è molto particolareggiata e la scala non consente di vedere luoghi 156 troppo piccoli. C’è Lodi tra le due città che ho nominato, ma non si vede altro. <<Comunque noi possiamo andare verso quei luoghi, poi troveremo sul posto una carta che ci porti in questo benedetto San Venanzo.>> Dico “benedetto” sperando in qualcosa che non dovrei sperare, potremmo non trovare nessuno, potremmo essere di troppo, potremmo semplicemente essere sopraffatti nel viaggio. Troppe incognite. Non dobbiamo farci illusioni. Quello che è importante è che il passato dobbiamo lasciarlo alle spalle, non dobbiamo pensare ad altro che al futuro e andargli incontro costi quel che costi. Prendo la cartina, la stendo su un tavolo. <<Dove siamo?>> Mi chiede, questa volta senza malinconia; è pronta lo sento. <<Siamo qui, sopra Pistoia, dovremo andare giù prima verso Firenze, poi verso Arezzo e Orvieto o Perugia, vedremo.>> Le dico indicando i luoghi sulla cartina. <<Dove troviamo da magiare?>> E’ sempre stata pratica, non si preoccupa della lunghezza del tragitto, vuole sapere se siamo in grado di sopravvivere. Le faccio vedere che passeremo nella valle dell’Arno, probabilmente potremo pescare. <<Ma fanno schifo i pesci di fiume>>, si lamenta. <<Tieni conto che l’inquinamento è sparito, non ci sono più fabbriche che sputano i loro veleni, né fognature che buttano in acqua i loro liquami, probabilmente potremo trovare pesci non troppo cattivi.>> La rincuoro anche se non so fino a che punto posso garantirle del cibo decente per i prossimi giorni. Se non dovessimo trovare il modo di sfamarci converrà andare verso il mare, lì so che possiamo cibarci. 157 Facciamo l’inventario, ci sono rimaste tre patate e un mezzo salame, nient’altro. Dobbiamo metterci subito in marcia e lo facciamo dopo aver tagliato e gustato due fette di salame. <<Mmmm cappuccino e brioches papà tu mi porti sempre nei migliori bar della zona.>> Le do uno scappellotto e sorridendo la invito a camminare, ne abbiamo di strada da fare. Salutiamo Lucio che pare afflitto. Usciamo dalla valle, lasciandoci alle spalle quello che credevamo sarebbe diventata la nostra dimora, decidiamo di prendere la via più diretta, verso Pistoia e poi giù. Decidiamo, perché da adesso in avanti voglio condividere con mia figlia ogni scelta che faremo. Saliamo per un sentiero che ci porta a valicare un piccolo passo, siamo nel centro dell’Appennino, non ci sono centri abitati, neppure piccoli. Contiamo in serata di arrivare almeno nelle vicinanze della città. Superato il passo scendiamo in un boschetto, mia figlia saltella, pochi metri davanti a me. Ad un tratto si ferma e punta il braccio in direzione di una costruzione che a tutta prima sembra una cappella. La guardo con espressione interrogativa. Non mi sta indicando la chiesa, mi indica qualcosa che da dove mi trovo non riesco a vedere bene. Sembra una sagoma davanti ad un albero. Giulia si ferma e mette una mano davanti alla bocca. La raggiungo e finalmente vedo. C’è un uomo seduto, rivolto verso la valle sottostante, a pochi metri dalla chiesetta, appoggiato ad un albero. Non si muove, mentre mi avvicino mi rendo conto che è morto. Lo si capisce dalla posizione, la testa gli ciondola da una parte, ma soprattutto si nota l’incarnito della faccia quasi scheletrito. 158 Mia figlia si ferma a qualche metro da quella visione. E’ chiaramente un uomo con una lunga barba, la sua pelle si è incartapecorita e quasi marrone, è seduto con le gambe incrociate sul davanti e tiene in grembo, tra le mani aperte, un libro. Una pagina svolazza mezza strappata, è una visione macabra, ma al tempo stesso serena. Guardo verso la chiesa, a fianco c’è una piccola costruzione, sembra una stanza, come una canonica. Entriamo nella stanza, la porta è accostata, ma non chiusa. Dentro tutto è in ordine, pieno di polvere lasciata dal tempo e le ragnatele oscurano parte della piccola finestrella. Ci sono poche cose dentro: un tavolo, una sedia, un letto, una madia e una libreria piena di libri. Sul tavolo è aperto un libro, anzi sembra un diario. E’ un diario, l’ultima pagina inizia con la dicitura “Giorno 336 dell’anno” Leggo. “Oggi è l’ottavo giorno che non mangio, mi sento assai debole, faccio fatica a muovermi dal letto al tavolo, penso che non potrò andare avanti ancora per molto. Spero che la mia non sia superbia, ma non ho voglia di morire chiuso qui dentro, per cui penso che andrò a sedermi fuori, sotto l’albero che è stato il mio luogo di meditazione per anni. Mi porterò anche il libro dei Salmi che mi aiuti a meditare sulla grandezza di Dio. Che il Signore perdoni tutti i miei peccati.” Finisce così senza una firma senza un’indicazione. Nella prima pagina vi sono le informazioni che ci permettono di capire dove ci troviamo e al cospetto di chi. “ Eremo di Sant’Egidio - Primo giorno dell’anno del Signore 2012- questo è il ventiseiesimo anno che io, Frate Agostino, ho il privilegio di vivere in questo eremo. I propositi dell’anno: Finito l’inverno conto di risistemare l’orto, la scorsa stagione non ha dato grandi frutti. La meditazione sarà incentrata sulla potenza del Signore, a questo proposito ho già ordinato undici libri a Frate Pio che, 159 se il Priore li approverà, me li porterà alla fine del mese con le provviste. La canonica ha bisogno di una risistemazione nella parte del muro esterno che da verso nord, la muffa si insinua un po’ ovunque. Lettura del giorno Atti 6:11” Ci guardiamo io e mia figlia, lo scritto è essenziale, ma ci sono tutte le informazioni che il frate intendeva lasciare sul diario. Da un breve calcolo deve essere morto circa a metà dicembre dello scorso anno. Guardando la libreria noto che su un piano c’è una fila di libri uguali a quello sul tavolo, sono i diari di tutti gli anni passati, ne prendo uno, infatti è quello del 2008. Poi mi viene l’interesse di vedere cosa è successo nell’ultimo anno e anche Giulia si mette al mio fianco e cominciamo a curiosare nella vita di questo sant’uomo. Apro a caso e vado avanti fino ad arrivare a settembre, mese in cui tutta questa storia è iniziata. O meglio il mese in cui la storia si è fermata. Per tutto il mese le annotazioni sono le solite. Il giorno 274, credo si riferisca all’inizio del mese di ottobre, leggiamo: “Frate Pio avrebbe dovuto arrivare questa mattina con le provviste e il materiale che avevo richiesto, è strano questo fatto non era mai avvenuto negli anni passati, senza che mi avvisassero.” Poi continua con il solito elenco di cose fatte, le letture, la raccolta della lattuga, la zappatura di una piccola parte dell’orto eccetera. Il giorno seguente: “Anche oggi Frate Pio non si è presentato, se il buon frate non sta bene probabilmente manderanno qualcun altro, come è già successo una volta.” Il terzo giorno: “E’ necessario diminuire le razioni dei pasti in quanto non posso sapere quando pensano di mandarmi le provviste, comunque non ho di che preoccuparmi, ho cibo per almeno trenta giorni.” Qualche giorno dopo: “E’ possibile che per qualche motivo si siano scordati di venire qui, magari pensano di avermi già 160 portato il cibo per il mese, probabilmente il prossimo mese arriverà Frate Pio e quando si accorgerà di ciò che è successo ci faremo delle belle risate.” Per il resto del mese Agostino non fa più riferimento alla mancanza di cibo. Annota meticolosamente i lavori svolti, gli argomenti su cui ha meditato e le letture che ha fatto. Giorno 305: “E’ preoccupante che Frate Pio non sia ancora giunto, se non si fa vivo entro quindici giorni avrò finito quasi tutte le provviste e sarò costretto a scendere a valle. Sarebbe la prima volta dopo ventisei anni.” Non scrive più nulla della mancanza di cibo nei giorni a seguire. Nove giorni dopo annota che è cominciato a piovere forte. Il giorno successivo segna che la pioggia gli ha praticamente distrutto l’orto. Lui ha raccolto ciò che restava. Il giorno che pensava di partire per tornare a valle scrive: “Con questo tempo mi è impossibile mettermi in viaggio, il vento e la pioggia non mi permetterebbero di arrivare da nessuna parte.” Nei due giorni successivi Agostino, sempre segnando ogni azione compiuta nel suo eremo, è amareggiato con se stesso per non essere partito prima, ma confida nella Provvidenza. Intorno alla metà del mese, come io ben so, comincia a nevicare, il frate scrive ogni giorno senza mai una parola di rammarico, si affida alla volontà di Dio e continua la sua vita scandita dalle ore di preghiera, di lavoro e di meditazione. Poi l’ultimo giorno, come abbiamo letto all’inizio, nessuna recriminazione, nessuna accusa, solo una preghiera. Abbiamo letto com’è finita; lascio il diario aperto, dopo un attimo di riflessione prendo la penna e nella pagina bianca a fianco dell’ultimo suo scritto mi sento di mettere: “Qui ha vissuto un uomo santo che ci spiace di non aver potuto conoscere. Andrea e Giulia”. Giulia fa cenno di si con la testa, poi usciamo. 161 Passando per l’ultima volta davanti a quell’uomo, che certamente è stato un buono e che certamente non ha avuto responsabilità in ciò che è successo al mondo, lasciamo un fiorellino che abbiamo raccolto proprio fuori della chiesa. Proseguiamo in discesa per un lungo tratto in silenzio, ognuno preso dai pensieri suoi. <<Perché un uomo decide di isolarsi dal mondo e fare l’eremita?>> Giulia interrompe il nostro silenzio. <<Chi lo sa. Ci sono persone che proprio non se la sentono di vivere in un mondo in cui non credono, in un mondo dove la violenza e la sete di denaro sono le uniche leggi.>> Provo a risponderle, ma francamente non so neppur io se quello che le dico ha un senso. <<Ma serve a qualcuno un eremita?>> Mia figlia non molla e a me tocca risponderle, ma prima devo avere io un’idea, provo a farmela mentre la esprimo. <<Anche a questo non so risponderti, ma a cosa è servito tutto quello che abbiamo visto negli anni trascorsi prima di questa grande crisi? La gente si dava da fare per raggiungere un maggior benessere personale, tutti badavano esclusivamente ad avere sempre di più. Avere e non essere. La carriera, il denaro, la macchina più bella.>> <<Vero pà?>> Mi interrompe provocatoriamente. <<Si è vero anch’io volevo una macchina sempre più di lusso. Toccato. Non ci rendevamo conto che stavamo distruggendo la terra, non ci rendevamo conto che la terra è finita, nel senso che non è infinita, che oltre ad un certo punto non si può andare. Sulla terra non possono vivere più di un certo numero di persone è una questione fisica.>> <<In che senso?>> Ancora lei. 162 <<Se possediamo una casa di cento metri quadri possiamo starci comodamente in quattro, cominciamo a pestarci i piedi se siamo in otto, la situazione diventa invivibile quando si pretende di viverci in sedici, in trentadue è quasi impossibile, anche se in qualche luogo c’era qualcuno che viveva in queste condizioni. Se arriviamo a cento possiamo rimanere al massimo seduti e questo non è vivere, ma quattrocento persone proprio non ci stanno è una faccenda fisica.>> Che paragoni mi vengono, non sono proprio capace a spiegarmi. <<Ho capito>>, mi risponde, invece. <<Anche se non mi hai riposto sugli eremiti. L’unica cosa che possiamo dire è che queste persone non sono responsabili dello sfacelo che ci ha colpito. Tu, invece, fai parte di quelli che ne sono responsabili, e anch’io ho fatto la mia parte, quando pretendevo ogni anno un guardaroba nuovo e firmato e buttavo via vestiti e scarpe che avevo usato al massimo due volte.>> Mi guarda e non c’è acrimonia nel suo sguardo e neppure rimprovero, la sua è una constatazione, amara, ma una constatazione. Mi viene da pensare che da quando siamo rimasti soli il nostro rapporto è maturato e cresciuto. Non avevo mai avuto prima d’ora la possibilità di parlare con mia figlia in questi termini e sentirla grande, anche se per me rimane sempre una bambina, ha tredici anni, ma le circostanze l’hanno obbligata a diventare adulta precocemente. C’è una cascina di fronte a noi, entro, la porta non è chiusa. Come altre volte la morte è presente, anche qui gli abitanti non ce l’hanno fatta. Esco e scuoto la testa ad indicare a Giulia di non entrare, lei mi indica il portico con un mezzo sorriso. 163 Ci sono, appoggiate ad un muro, quattro biciclette. Ne scegliamo due con il portapacchi posteriore su cui leghiamo i nostri zaini; gonfio le gomme e senza indugio partiamo, lasciando quella triste tomba. In poco meno di un’ora siamo a Pistoia, la attraversiamo senza incontrare anima viva, ci guardiamo intorno straniti, poi ci fermiamo in piazza del duomo e decidiamo di mangiare un boccone, ormai siamo agli sgoccioli. Ci riposiamo per qualche minuto e ci permettiamo perfino di fare i turisti, ma l’assenza di vita ci inquieta. Decidiamo di proseguire, e in altre due ore siamo a Prato, Viale Leonardo da Vinci, pedaliamo mollemente. Sulla nostra destra, in un giardino di una bella casetta, un uomo sta zappando l’orto, con lui un bambino che può avere si e no sei o sette anni. Ci fermiamo e rimaniamo a bocca aperta a guardare quella visione di assoluta normalità, l’uomo lavora con meticolosità facendo solchi ben allineati e della stessa lunghezza. Normalità un anno fa, ma ora è una vera magia. Li osserviamo da dietro la cinta di rete metallica che separa la proprietà dalla strada, fino a quando il bambino ci nota e tira la camicia avvertendo l’uomo che, vedendoci, ci sorride. Appoggiandosi alla zappa si avvicina a noi. Da subito ho osservato che, sia l’uomo che il bambino, hanno tratti orientali, sorridono allegri. <<Benvenuti>>, ci dice con un piccolo inchino mentre il bimbo si arrampica sul muretto tenendosi alla rete. Ci invitano ad entrare facendoci transitare dal cancello che dà su un piccolo vialetto con ghiaia bianca. Sulla porta di casa una donna con una lunga gonna ci guarda anche lei sorridendo, mentre altri due bambini le si fanno addosso. <<Plego entrate.>> Io e Giulia ci guardiamo, la casa è arredata in modo normale, vi sono però alcuni tocchi orientali, un grande 164 divano rivestito da un tessuto in seta rossa e oro, un budda su un tavolino e alcune statuette dei soldati di terracotta di Xian. Sono cinesi e fanno parte della comunità cinese di Prato, si sono salvati in più di duecento, avevano le loro provviste che avevano fatto venire dalla Cina e che sono state sufficienti per sfamare un gran parte di loro. Gli abitanti della città, per la maggior parte, se ne sono andati, non sanno dove, e non sono più tornati; loro hanno occupato le case che avevano un pezzo di terra da coltivare ed ora tutti hanno un orto e qualcuno anche galline e conigli. In pratica sono diventati i padroni della città e riescono a sopravvivere con il loro lavoro e l’aiuto reciproco. I bambini che hanno tre, sei e otto anni, schiamazzano in una lingua per noi incomprensibile, capiscono poche parole di italiano, ma sono felici di giocare con una sorella più grande. Vedo mia figlia per la prima volta con uno sguardo sereno e provo una grande tenerezza, sembra di nuovo la bambina che dovrebbe essere. Ci invitano a rimanere per la cena e per la notte, accettiamo naturalmente. Il pollo, era una vita che non lo assaggiavamo, con il riso poi, una vera leccornia e piccole fette di pane. Da piangere, il pane. Quando stiamo per finire la cena arrivano una decina di persone, uomini e donne, tutti cinesi, sono lì per noi. Non so come, ma il nostro anfitrione è riuscito ad avvisare i vicini del nostro arrivo, i quali sono prontamente venuti portando dolci e un liquore che sicuramente ha una gradazione superiore alla nostra grappa. Vogliono conoscere la nostra storia. Faccio così un riassunto edulcorato della mia odissea, devo però parlare adagio e fermarmi spesso perché, dato che alcune delle signore presenti non capiscono l’italiano, uno dei presenti deve tradurre nella loro lingua. 165 Il fatto è che non capisco mai quando devo proseguire. A volte parlo per un minuto ed il traduttore se la cava con quattro parole, altre volte dico una frase e devo aspettare due o tre minuti prima che si concluda la traduzione. Ormai ho intuito il da farsi, proseguo quando tutti spalancano gli occhi, mi guardano e fanno segno di si. Sembra una comica. Loro mi parlano della loro esperienza, mi raccontano che quando la neve se n’è andata sono andati casa per casa, hanno portato fuori le persone che erano morte di stenti e di fame e le hanno seppellite nel cimitero della città. Un vero senso di pietà, che non mi sarei aspettato. Tutti hanno qualcosa da insegnarci. Ci salutano a fine serata con un piccolo inchino e se ne vanno augurandoci un buon viaggio e una vita felice, da parte nostra ricambiamo, felici di quell’incontro. La colazione, con pane e miele, il buonissimo e profumato tè, insieme a quei tre bambini spensierati ed ai nostri due benefattori, ci carica di energia, macineremo chilometri oggi, ne sono certo. 166 14 Impieghiamo quasi un’ora ad uscire da questa città ormai cinese, dobbiamo fermarci più volte a salutare quelli che erano presenti la sera prima nella casa dei nostri ospiti. Dopo un po’ mi rendo conto che stiamo salutando un numero infinitamente superiore di persone rispetto alla decina della sera precedente. Sono cinesi e, francamente non riusciamo a distinguerli, ma tutti danno l’impressione di conoscerci e tutti ci sorridono e salutano amichevolmente. Forse questa città in futuro si chiamerà Plato dico a Giulia che mi guarda e poi solleva gli occhi al cielo scuotendo la testa, ma poi sorride e pedala veloce. Le case e le fabbriche si susseguono sulla strada, tanto che non ci rendiamo nemmeno conto che siamo arrivati a Firenze e non è ancora mezzogiorno. Attraversiamo lentamente la periferia e verso l’una siamo nel centro della città, ci fermiamo in piazza del Duomo, poi scendiamo in piazza della Signoria, ci fermiamo davanti al David. <<Figo>>, dice Giulia. Questa volta tocca a me alzare gli occhi al cielo, ma subito dopo sorridere, le voglio troppo bene. Decidiamo di andare verso l’Arno, non abbiamo più nulla da mangiare se non qualche pasta donataci da quelli di Plato, 167 per cui ci conviene provare a pescare e, che Dio ce la mandi buona. Mentre sto pensando alla pesca ci sentiamo apostrofare. <<Hei voi! Sembrate turisti, ma gli è un po’ di tempo che non se ne vedono.>> La voce proviene da dietro un cancello a inferriata. Ci siamo passati davanti, ma non lo abbiamo nemmeno notato. Torniamo indietro ed un uomo, questa volta italiano, con in mano una vanga, ci osserva con curiosità, poi si presenta: Fausto Antori, fiorentino di Firenze, ci tiene a precisare. Ci invita anche lui ad entrare. Varcato il cancello, quello che doveva essere il giardino di una villa patrizia è stato trasformato in un orto, da un lato due serre coperte con il nilon, in mezzo si vedono dell’insalata e dei finocchi. L’erba che spunta in tre file ben ordinate presumo siano carote, ma essendo un cittadino non sono un esperto. <<E’ un po’ che non si vedono facce nuove da queste parti>>, ci fa presente il nostro amico. Vuole sapere cosa facciamo, da dove veniamo e dove siamo diretti. Gli do indicazioni sommarie e quando gli accenno al fatto che eravamo intenzionati ad andare a pescare ci propone di lasciare gli zaini, di andare sul fiume e tornare con una buona pesca, ma prima insiste per offrirci un’insalata con sedani, finocchi e ravanelli, e poi ci propone la sua ospitalità e una cena con i nostri pesci e le sue verdure. Non abbiamo dei grandi valori nei nostri zaini, quindi possiamo lasciarli senza tema, e la prospettiva di dormire, ancora una notte, in una casa e su un vero letto, ci alletta, quindi accettiamo. Il nostro ospite ci consiglia di andare lungo il fiume verso sud, prima delle rovine dell’ultimo ponte, lì, dice, si è 168 formata una polla che è spesso frequentata da pesci belli, ed aggiunge, buoni. Ci dirigiamo al fiume, appena arrivati al Lung’Arno ci rendiamo conto della catastrofe che deve aver colpito la città e il fiume, le case hanno porte e finestre divelte dalla furia delle acque, detriti, tronchi e carcasse d’auto sono accatastati agli angoli delle strade. Guardo verso nord, non si vedono ponti, c’è una passerella fatta con assi appoggiati sui sassi e sulle macerie la dove prima c’era il ponte Vecchio. Faccio cenno a Giulia di proseguire, arriviamo in pochi minuti nel luogo che ci è stato indicato. Ci sediamo su un blocco di cemento nel punto dove iniziava un ponte che scavalcava il fiume. L’acqua è limpida e si intravedono addirittura le sagome guizzanti di alcuni pesci di discrete dimensioni. Butto l’amo e mi preparo con attenzione a sentire la lenza tendersi. <<Com’è?>> Mi dice all’improvviso mia figlia. <<Com’è cosa?>> Rispondo io senza sapere dove vuole parare. E allora spiega. <<Com’è? Lei.>> <<Lei chi?>> Faccio io stupido. Poi tutto mi è chiaro. Giulia mi lancia uno sguardo come a dire, sai bene di chi sto parlando. Faccio si con la testa, una, due, tre volte. <<Cosa ti posso dire. E’ una brava persona, ha sofferto, come noi, sono sicuro che, credo, ecco non so, ma penso che ci accoglierà bene. Sperando che sia riuscita a raggiungere la sua meta e che sia anche riuscita a superare l’inverno.>> Questa cosa l’ho detta, ma mi procura angoscia. Già e se arriviamo là e non li troviamo? <<E di aspetto com’e? E’ bella?>> Mi chiede con la testa abbassata e lo sguardo sull’acqua. <<Oddio, è, è… Quando l’ho vista. Quando ho visto lei e suo figlio, mi sono sembrati due fantasmi, erano magri, 169 sporchi e stracciati. Mi hanno chiesto aiuto e siamo stati insieme per diversi giorni.>> <<Cosa vuoi dire siamo stati insieme?>> Mi domanda interrompendomi e guardandomi negli occhi. <<Ooh, cosa vai pensando>>, le dico dandole un buffetto sulla guancia. <<Quando dico siamo stati insieme non voglio dire quello che pensi tu. E poi, ragazzina, a che cosa stai pensando tu?>> Diventa rossa e si gira sorridendo dall’altra parte. Un pesce abbocca e urlando lo tiriamo fuori dall’acqua, per un pelo non ci scivola via, poi riesco a dargli una botta in testa e a metterlo nel sacchetto che avevo appresso. <<Come si chiama?>> <<Vera.>> <<E il bambino?>> <<Luca.>> <<Però ti piace.>> Non molla la piccola. <<Se devo dirtela tutta non mi dispiace, ci siamo incontrati per caso, in circostanze pazzesche e in quella follia siamo riusciti a convivere rispettandoci ed in qualche modo volendoci anche bene. In quel momento di paura, fame e morte, ci siamo aiutati, ma non ho mai pensato ad altro che a voi ed alla mamma fino a quando non ti ho ritrovata. Adesso penso che si possa anche ritrovare un’amica, siamo rimasti soli, ma possiamo anche rifarci una vita. Vedremo.>> Fa si con la testa e con il dito mi indica un'altra preda che ha abboccato alla nostra esca. Ha tredici anni ed è già grande. In quest’ultimo anno è cresciuta in fretta, saltando tutta una parte della vita spensierata che si sarebbe meritata, ora è per me una vera amica e non riesco nemmeno ad esprimere quanto l’ami. Torniamo alla casa patrizia del nostro ospite con nel carniere 170 sette pesci belli polposi, non riconosco la specie, speriamo siano anche buoni. Antori ci accoglie festoso e lo è ancor di più quando gli mostriamo la nostra pesca miracolosa. Ci accompagna al piano superiore, il pianterreno non è ancora agibile, ci spiega, causa l’alluvione che ha devastato la città. Mettiamo i pesci in padella su una stufa a legna, verdure cotte sono già in un’altra padella. La tavola è preparata su un tavolo in legno di noce a cui sono avvicinate sedie dallo schienale alto ed imbottito. Da una parte della cucina è appeso un quadretto con una fanciulla con in mano una spada seguita da un’altra fanciulla che porta sulla sua testa la testa mozzata di un uomo barbuto. Mi sembra di averlo già visto da qualche parte. <<E’ la stampa di un quadro famoso?>>, chiedo. <<No, è il ritorno di Giuditta, del Botticelli.>> Lo guardo, come a dire, appunto è la stampa di un quadro famoso. E lui: <<E’ l’originale. L’ho preso agli Uffizi.>> Quando vede il mio sguardo esterrefatto, aggiunge: <<Venite, vi faccio vedere.>> E ci precede nel salotto. Indica verso la parete di destra. <<L’Annunciazione di Leonardo da Vinci. A sinistra Venere di Urbino del Tiziano. Lì nel centro l’autoritratto di Raffaello e San Jacopo con due fanciulli di Andrea del Sarto. Su quella parete trovate Rembrant e i fiamminghi che sono i miei preferiti. Non guardatemi con quella faccia, abbiamo deciso che era meglio che ognuno si prendesse un po’ di capolavori e se li portasse a casa in modo da preservarli, ogni tanto ce li scambiamo così possiamo gustarceli.>> <<Abbiamo? Chi?>> Faccio io. <<In città siamo rimasti in una cinquantina, cinquantasei per l’esattezza, ci scambiamo la produzione dell’orto, i pesci, le 171 uova, ed ogni sera ci ritroviamo in piazza a chiacchierare. In televisione non danno un gran chè in questo periodo.>> Ci dice con un certo sarcasmo. Ceniamo e dopo cena, insieme, andiamo in piazza della Signoria. Arrivando si sente un brusio di chiacchiere che si interrompe di botto al nostro arrivo. Fausto ci presenta e mi invita a raccontare la nostra storia. Lo guardo incredulo, ma lui mi fa presente che, come già mi aveva accennato prima, i programmi televisivi non attirano più di tanto e poi, gli fa eco un altro, anche al cinema non programmano nulla di interessante. Racconto a questo punto la nostra storia, saltando qualche episodio, altrimenti questa sera non si va a dormire, e soprattutto perché vengo interrotto decine di volte. Chi vuole una spiegazione, chi non si capacita di un fatto, chi commenta con termini coloriti e chi si fa prendere dalla commozione e si mette a piangere. Alla fine si scatena una vera babilonia, ognuno chiacchiera e commenta col vicino, allora alzo entrambe le braccia e riesco ad ottenere il silenzio. <<Io vi ho raccontato come sono arrivato sino qui, voi volete raccontarci com’è che siete qui?>> Uno degli astanti si alza e rivolgendosi ad un uomo con la barba bianca gli dice. <<Professore a lei la parola.>> <<Si però non cominci da Adamo ed Eva.>> Dice un altro mentre tutti si mettono a ridere. <<Va bene, parleremo solo dell’ultimo anno va bene?>> L’uomo che si alza per esporre i fatti ha un’età di circa sesant’anni, barba e baffi bianchi, ben curati, veste un completo di velluto blu e porta un anacronistico farfallino rosso sopra la camicia immacolata. 172 Inizia guardando la platea da sopra gli occhiali. E racconta ciò che io già avevo visto, la razzia nella città, la battaglia tra bande per accaparrarsi le vettovaglie, la fuga verso la campagna della maggioranza della popolazione. Poi la grande pioggia seguita dall’inondazione, più disastrosa di quella degli anni sessanta, tutti i ponti distrutti, metà della città allagata per settimane. Finita questa piaga la neve ed i mesi di gelo, poi coloro che erano in qualche modo sopravvissuti ed erano tornati in città avevano ricominciato una vita. Non quella di prima, ma una nuova vita e lì quegli uomini e quelle donne cercavano di ricreare una polis partendo da quella piazza che tutto il mondo ci aveva invidiato. Torniamo nella casa che ci ha accolto, la nostra stanza ha un letto matrimoniale su cui vi è un quadro, la Madonna col Bambino e Angeli di Cimabue, mai avrei pensato di dormire sotto un capolavoro come quello, questo mi da la certezza che il mondo non è più lo stesso di prima. Dopo aver sistemato in un contenitore di plastica il pesce cotto e avanzato la sera prima, salutiamo il nostro buon fiorentino e quel che rimane di questa splendida città. Ci dirigiamo lungo la Val d’Arno, la strada è a tratti dissestata ed interrotta da macerie e tronchi d’albero lasciati dall’alluvione, per fortuna con le biciclette è abbastanza agevole oltrepassare i vari ostacoli. Come sempre più lungo e complicato è l’attraversamento dei rii e dei corsi d’acqua, non ha resistito nemmeno un ponticello, in alcuni casi troviamo delle passerelle posticce, come nei pressi di Incisa dove per attraversare l’Arno sono state posizionate una serie di assi inchiodate le une alle altre che permettono un attraversamento abbastanza agevole, segno che qualcuno sta cercando di riprendere la vita normale. 173 Nei punti più alti, sopra il fiume, troviamo delle cascine abitate da gente cordiale che è felice di vedere delle facce nuove e di scambiare due chiacchiere, anzi è sempre un problema proseguire perché ognuno vorrebbe fermarti, ospitarti ed offrirti qualche cosa da mangiare. Alla terza casa abitata incontrata nella mattina decidiamo di accettare l’ospitalità. Si sono sistemate in una bella cascina tipica toscana con i muri in tufo e i pavimenti in cotto, tre famiglie. Tre coppie, due sui cinquant’anni ed una coppia più giovane con due figli, da come sono trattati è come se avessero sei genitori, tutti premurosi ed amorevoli. In fondo sono il futuro ed è giusto così. Anche loro, come tutti, ci raccontano le loro vicissitudini e noi raccontiamo le nostre. La preoccupazione maggiore è, e rimane, la paura di un inverno come quello precedente, ma per questo, mi dicono, si stanno attrezzando. Hanno coltivato un campo a patate, un altro a mais, contano sulle mele degli alberi intorno alla casa, le olive e, non ultimo, si sono attrezzati a produrre prosciutti e salumi con i cinghiali che riescono a catturare. Procediamo nel pomeriggio e riusciamo anche a fare diversi chilometri ed alla fine ci sistemiamo per la notte presso una famiglia che si è stabilita in un cascinale, anche qui con altre quattro famiglie, che si sono organizzate come una comune o un kibbuz. La sera tutti in una grande stanza a cenare ed a scambiarsi pareri e storie, è un po’ come facevano i nostri nonni, si riunivano a sera nella stalla a parlare e a ridere di quel che si poteva. Il giorno successivo continuiamo a pedalare, sembriamo padre e figlia in gita. Giulia non smette di parlare sembra quasi serena. <<Che puzza>>, sbotta ad un certo punto. Stiamo pedalando vicino ad una discarica. 174 <<Hai mai pensato che la nostra civiltà, cosìdetta moderna, è l’unica che ha prodotto dell’immondizia?>> Le dico. <<In che senso? Non capisco. Cosa vuoi dire?>> <<Pensaci bene; fino alla fine dell’ottocento e ancora nei primi anni del novecento non esistevano discariche, perché non si producevano rifiuti.>> <<E dove li mettevano?>> <<No, proprio non si producevano, non ce n’erano. Tutto veniva riutilizzato, e niente era costruito per essere buttato. Si è cominciato, prima a produrre oggetti e macchine che si rompevano dopo un certo tempo. Poi si è pensato di produrre imballaggi sempre più voluminosi e inutili. Hai presente le scatole delle bambole? Le confezioni dei cioccolatini? Il polistirolo per proteggere gli elettrodomestici durante il trasporto? Poi le bottiglie per l’acqua, le confezioni per il latte, i detersivi. Tutta roba da buttare. Tutta roba che però sarebbe potuta essere riutilizzata, ma che per pigrizia, o peggio, per ignavia, si è preferito buttare nelle discariche, inquinando i suoli e appestando l’aria. Belle cose vero?>> Giulia mi guarda stranita e poi mi chiede. <<Ma gli antichi non avevano l’immondizia?>> <<Credo che tutto quello che è stato buttato o perso nell’antichità sia finito nei musei di tutto il mondo. Questo ti dà l’idea di come negli ultimi anni siamo stati, anche in questo campo, poco lungimiranti.>> La vedo perplessa e la sento che tra sé mormora un “che schifo”, e non riesco a capire se intende parlare della puzza o della “saggezza” degli uomini. Lasciamo la Val d’Arno e per diversi chilometri transitiamo sull’autostrada. Due biciclette su un’autostrada, chi l’avrebbe mai immaginato. Giulia si esalta e, abbassando la testa fino quasi 175 al manubrio, comincia a riprodurre il suono di un motore. <<Brrrummm.>> Ed io non riesco a fare a meno di imitarla, e per un breve tratto giochiamo a rincorrerci e a superarci, fin quando una salita non ci tarpa le nostre velleità motoristiche, costringendoci a scendere e spingere i nostri bolidi. Però ridiamo come matti. <<Mi sembra che la vita in qualche modo stia riprendendo>>, mi fa notare mia figlia mentre stiamo riposando sotto un ulivo. <<La gente si sta riorganizzando, ma sono rimasti proprio in pochi. Secondo te quanta gente è rimasta sulla terra?>> Mi chiede, mentre io penso a tutto e tutti, a chi abbiamo perso e chi stiamo cercando, alla vita passata e a come potrà essere quella futura. <<Non ne ho idea, ma se nel resto del mondo sono ridotti come da noi ho paura che l’umanità si sia ridotta e di molto.>> <<Come con il diluvio universale>>, mi suggerisce. <<O la scomparsa di Atlantide>>, ribatto io. <<Potremmo inventarci un nome per questo cataclisma.>>, aggiunge, come fosse un gioco. <<Si, lo chiamiamo”La scomparsa del petrolio”>>, propongo. Ma lei non è d’accordo. <<Che squallido.>> <<Forse sarebbe più appropriato “l’idiozia dell’umanità”>>, provo a suggerire. E lei a questo punto è d’accordo, ma aggiunge. <<Pà, si riuscirà a tornare come prima?>> <<Non credo>>, le rispondo, <<e forse, dopo tutto quello che è successo, non lo vorrei neanche, siamo stati sul punto di distruggere la terra e, per quello che ne sappiamo, abbiamo eliminato la maggior parte dell’umanità.>> 176 <<Hai ragione>>, interviene ancora lei. <<Dobbiamo ricominciare daccapo e non fare più gli errori già fatti. Papà, chissà se abbiamo imparato la lezione?>> E’ proprio maturata, un anno fa avremmo discusso su un nuovo videofonino con un’infinità di opzioni, ora parliamo dei massimi sistemi e condividiamo i ragionamenti. Continuiamo a discutere sulla questione per più di mezz’ora e ci troviamo sempre più in sintonia, abbiamo solo il rammarico di essere rimasti soli. Usciamo dall’autostrada, dove non abbiamo incrociato nessuno. Giunti nei pressi del lago di Montepulciano, conto di pescare, ma arrivati sulle sue rive, troviamo ospitalità presso un’altra piccola comunità. Ringrazio, ma mi offro di andare a pescare; accettano e così trascorriamo un’altra serata piacevole insieme a quelle squisite persone. E qui, per la prima volta qualcuno sa dove si trova San Venanzo e me lo indica su una carta stradale che è in loro possesso. Siamo a circa cinquanta chilometri dalla nostra meta, Giulia mi guarda e mi sorride. Mi faccio un copia della cartina, mi indicano di proseguire sull’autostrada fino a Fabro, poi prendere su per la montagna, quella è la strada più comoda. Andiamo a dormire eccitati, domani dovremmo riuscire ad arrivare, la cosa mi rende inquieto. Li troveremo? Saranno sopravvissuti? E’ meglio se non penso. <<Te lo ricordi Daniele?>> Mi chiede nel buio della nostra stanza mia figlia. <<Mm??>> <<E’ venuto quando abbiamo fatto la festa per il mio compleanno, faceva la terza. Quello biondo con la felpa rossa con un leone stampato sopra. Dai.>> Ora mi viene bene in mente, lo avevo tenuto d’occhio per buna parte della festa, tampinava mia figlia, dove c’era lei, 177 c’era lui, se lei bevevo una bibita, lui bevevo una bibita, se lei mangiava una pasta, lui mangiava una pasta. <<Si, si, ora che me ne parli lo ricordo, ti stava dietro come un cagnolino>>, le dico. <<Veramente ero io che stavo dietro a lui.>> Come lei che stava dietro a lui? Vuol dire che quando lui mangiava una pasta, lei mangiava una pasta, quando lui beveva eccetera? <<Mi piaceva da matti, gli ho fatto un filo spietato. Sai lui era un po’ timido, ma veramente tosto per il resto.>> <<Quale resto?>> Chiedo un po’ preoccupato. <<Cosa capisci, intendo dire che aveva un carattere tenero, ma risoluto. Papà avevo dodici anni, penserai mica che abbiamo fatto sesso?>> Lo so che sono arrossito, meno male che è buio. <<Ci siamo baciati due volte. Baciava da Dio, non so se mi capisci.>> <<Ti capisco, ti capisco>>, faccio io, cercando di trattenere un sospiro. <<Tornavamo da scuola mano nella mano. Al pomeriggio passavamo ore al telefono, aveva sempre qualche storia da raccontare ed era sempre molto buffo. Mi manca, non sono neppure riuscita a sentirlo quando siamo scappati da casa. Chissà cosa gli è successo. Speriamo.>> E chiude così la conversazione, la sento girarsi dall’altra. Ma guarda te, ogni giorno una sorpresa, ed io che non ne sapevo niente. E già ai padri non si deve dire nulla. Mia figlia aveva un ragazzo, passeggiavano mano nella mano, si baciavano, si scambiavano confidenze, si volevano bene. Chissà se mia moglie lo sapeva? Non oso chiederlo a Giulia, penso che oggi sarebbe amareggiata sapendo di non essersi confidata con sua madre. La vita di mia figlia si apre giorno 178 dopo giorno, ma d’altra parte chi può essere il suo confidente se non io. Mi si accavallano mille pensieri, e poi, nel dormiveglia, vedo il volto di Vera. 15 Ripartiamo di buon ora eccitati, potrebbe essere il nostro ultimo giorno di viaggio. E se così non fosse? E se non trovassimo nessuno? Cosa faremo? Guardo Giulia e so che sta pensando la stessa cosa, mi sorride e si mette a pedalare con lena. Va bene togliamoci questo dente, vada come deve andare, ma che angoscia. Riprendiamo il viaggio in autostrada, ma dopo mezz’ora vedo Giulia, che pedala davanti a me, fermarsi. Guarda con interesse la ruota davanti e prima che io la raggiunga, si volta e mi fa. <<Come dice la legge di Marphy, se una gomma può bucarsi si buca.>> Si non ci voleva. <<Ne abbiamo già avuto la nostra dose della legge di Murphy>>, dico io. <<Quando doveva piovere, c’è stato il diluvio; quando si è messo a nevicare, ne sono venuti quattro metri e non voglio parlare di tutto il resto sennò mi viene una crisi di nervi.>> Spingiamo le biciclette, per fortuna c’è una stazione di servizio a poca distanza e troviamo con una certa facilità il modo di rimediare alla foratura. 179 180 Dopo due ore usciamo dall’autostrada e prendiamo verso i monti. La strada si leva dolcemente, incontriamo persone indaffarate nei campi, ci salutano con cordialità e ci confortano sulla nostra direzione. Stiamo andando nel verso giusto. Dopo una prima collinetta ne superiamo una seconda e poi ancora un’altra, ci inoltriamo in una valletta in cui si nota il campanile di una chiesetta a fianco di una costruzione che può sembrare un convento. A conferma dell’apparenza, due suore stanno strappando erbacce in un orto ben squadrato, una terza è seduta su una panca a ridosso di un muro. Ci fermiamo, principalmente per riposarci e per bere alla fontana che scorgiamo subito fuori del portone d’ingresso del convento. Le due suore ci vengono incontro sorridendo, sono giovani ed evidentemente di buono spirito. Si puliscono le mani nel grembiule che hanno sul davanti della tonaca e stringono le nostre amichevoli, invitandoci a bere un po’ d’acqua e sciacquarci per rinfrescarci. <<Finalmente padre, avevo proprio bisogno di confessarmi>>, interviene la suora seduta che è evidentemente molto più vecchia delle due sorelle davanti a noi. <<Non è padre Ubaldo, madre è un forestiero con sua figlia.>> E mentre una religiosa dice questo rivolto alla anziana, l’altra fa segno con un dito che non ci sta molto con la testa. <<Non sapevo che padre Ubaldo avesse una figlia>>, dice di rimando la simpatica vecchietta. E poi continua tra se e se. <<Potevano almeno dirmelo che padre Ubaldo si era sposato.>> Poi dopo un po’ di silenzio, osservata benevolmente dalle sorelle. <<Ma i preti possono sposarsi?>> 181 Ci raccontano le due giovani suore che quella è la madre badessa. Era una donna forte ed energica fino all’avvento dell’inverno e della catastrofe. La maggior parte delle suore che vivevano nel convento avevano preferito andare dai loro genitori, fratelli e sorelle; erano rimaste in nove, sette di queste molto anziane. Ad una ad una se ne erano serenamente andate, in sei erano morte, mentre la madre superiora perdeva la ragione ed ora, queste due buone suorine, la accudivano come fosse la loro madre. Hanno mangiato durante l’inverno principalmente patate, noci e mele, ed hanno finito anche le confetture che erano state preparate l’estate precedente, ora se la cavano con la coltivazione dell’orto e saltuariamente ricevono anche qualche offerta di uova o polli dai vicini che vivono non molto lontano nella valle e che le rispettano. Sono rimaste le uniche persone di chiesa in quel luogo e la domenica si ritrovano con una ventina di persone della zona a pregare nella piccola chiesa del convento. Loro si prendono cura di far suonare le campane tre volte al giorno, a mattina, a mezzogiorno e a fine pomeriggio, con questo scandiscono il tempo di quella piccola regione. Le salutiamo con calore, mentre la madre superiora, che si era alzata e con l’ausilio di un bastone è giunta nei pressi, mi chiede: <Allora dove ci mettiamo per la confessione padre Ubaldo?>> Pedaliamo in direzione monti, mentre una voce cerca di spiegare. <<Non è padre Ubaldo.>> E l’altra spiega: <<Ve l’ho detto che padre Ubaldo ha una figlia?>> Sorridendo ci stringiamo l’occhio e pestiamo sui pedali, poi dobbiamo scendere dalle biciclette perché la strada si 182 inerpica e non ce la facciamo con gli zaini caricati sui portapacchi. Sono trascorse due ore dopo il pranzo, sempre a base di pesce e verdure, non abbiamo più detto nulla, siamo presi nei nostri pensieri. Dopo una curva osserviamo un paesino, che ha una chiara origine medioevale; un torrione con tre finestre alla sommità domina l’abitato. Chissà se c’è ancora qualcuno che lo abita?. Mi chiedo con una certa angoscia. “San Venanzo”. Un bel cartello bianco con il nome del paese, ci annunzia che abbiamo raggiunto la nostra meta. Ancora una volta ci guardiamo e proseguiamo verso il centro di questo piccolo borgo. Al nostro arrivo una donna che sta trasportando una piccola fascina si ferma, ci osserva e ci saluta con un sorriso. Ricambio sguardo, saluto e sorriso, poi mi schiarisco la voce e chiedo. <<Mi sa dire dove vivono i Simoni?>> Non le dico neppure “buon giorno”, trattengo il fiato guardando l’espressione della donna che con naturalezza mi indica. <<Prenda per questa strada, quando arriva al bivio c’è strada del Mulino, cento, duecento metri dopo vede una stradina che porta alla casa dei Simoni, li trova lì.>> Li trova lì, non ho il coraggio di domandare “chi trovo lì?” Vorrei chiedere. “C’è una donna con un bambino sugli otto anni?”, ma non ho il cuore e taccio e profferisco solo uno sbiadito: <<Grazie>> Prendiamo la strada che ci ha indicato la buona donna, sono in subbuglio, devo concentrarmi per frenare il tremore che mi prende, non ho più salivazione. 183 Gli occhi di Giulia mi scrutano, abbasso i miei, guardo l’asfalto e spingo sui pedali. Dopo circa duecento metri incontriamo una stradina sterrata sulla destra. Proprio come aveva descritto la donna. In fondo si vede una casetta a due piani, di tufo, con a lato un porticato e, sopra questo, un fienile. Lascio alle spalle ogni dubbio e immetto la bicicletta verso quella casa. Sto per avviarmi, ma Giulia mi ferma con un gesto della mano, si avvicina e, tenendo ferma tra le gambe la sua bicicletta, si sporge verso di me, mi sistema il colletto, mi toglie non so cosa da una spalla, mi da un colpetto su un fianco ed infine mi riavvia i capelli con le dita. Mi guarda compiaciuta e poi serrando le labbra abbassa due volte il capo e mi fa segno che posso andare. Non mi ha detto nulla, ma quella delicatezza la apprezzo con tutto il cuore, me la avvicino e la bacio sulla fronte, lei si divincola e fa un gesto insistente che vuol solo dire “Vai, cosa aspetti.” Pedaliamo lentamente e ci avviamo verso il portone spalancato sulla corte, ma ad una ventina di metri dalla stradina vediamo tre figure che stanno lavorando nei campi. Un bambino e due donne, una delle due è anziana, l’altra... L’altra no. L’altra è Vera e la circolazione del mio sangue si ferma ed io non so cosa fare. Scendo dalla bici, la appoggio ad un albero; in quel momento Luca ci vede e gridando il mio nome mi corre incontro, mi salta addosso e chiama sua madre festoso. Lei si è sollevata e stà immobile nel punto in cui si trova, con un gesto della mano si toglie il sudore dalla fronte. Mi guarda con un’espressione che non so definire. Sorpresa, spaesata, felice, non riesco a decifrare. 184 Mi avvicino lentamente, le gambe sono di legno; abbiamo fatto tanta di quella strada che ora mi pare che il peso di tutto mi sia caduto addosso all’improvviso. Piano piano le arrivo a pochi passi. Luca che aveva gridato dalla gioia ora tace e ci guarda poco discosto. Non vedo mia figlia, ma so che è dietro di me, Vera la sta guardando, ed il suo sguardo è avvolgente, mi sento di dire amorevole. Nel suo occhio sinistro c’è una lacrima che stenta a scendere. Oddio quanto è bello il suo occhio sinistro. Oddio quanto sono stupido, i suoi occhi sono tutti e due belli, non li avevo considerati prima, non l’avevo mai guardata con questi occhi. I miei occhi. Non riesco a vedere altro che i suoi occhi che si sono fusi con i miei. Facciamo un passo insieme, l’uno verso l’altro, e ci abbracciamo. Ci abbracciamo come dovessimo con questo abbraccio comprendere tutto il mondo, e ci teniamo stretti, mentre il respiro fatica ad uscire, gli occhi si chiudono e il peso portato fino a qui si scioglie. Luca e Giulia si intrufolano tra di noi e il nostro abbraccio li comprende e li avvolge, e tutti insieme ci stringiamo. Non so perché, è assurdo, ma mi viene in mente Rossella O’Hara e la sua ultima frase nel famoso film. Ma qui non si tratta del domani ed ora ho una certezza. Oggi è un altro giorno. 185 INDICE Capitolo Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. Cap. 186 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 pag. 3 pag. 18 pag. 33 pag. 46 pag. 57 pag. 67 pag. 79 pag. 86 pag. 105 pag. 116 pag. 124 pag. 134 pag. 155 pag. 167 pag. 180