Minerva, la `nostra` dea - Rotary Club Pavia Minerva

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Minerva, la `nostra` dea - Rotary Club Pavia Minerva
Riunione Conviviale del 4 Luglio 2012
Soci presenti, giustificati, dispensati: vedi tabella riassuntiva
Ospiti: le gentili signore: Danesino, Epis, Groppo, Micieli, Pirzio, Rotondi, il dott. Domenico Fresa (Micieli) l’avv. Alessandro Fuardo (Fuardo).
Presiede il presidente Micieli che, nell’introdurre il tema della prima serata del nuovo
anno rotarian (Minerva, la dea dalla quale il nostro club ha preso il nome), cita il Duomo
della sua città natale, Siracusa, che come ben noto ed ancora evidente è diventata tale
dopo esser stata a suo tempo tempio di Atena (Pallade).
Introduce così il nostro socio Giancarlo Mazzoli, che espone la dotta relazione riportata a parte, sottolineando la originalità di questa divinità e la sua attualità, in particolare
per la nostra città.
Il Duomo di Siracusa (particolare)
Giancarlo Mazzoli: Minerva, la ‘nostra’ dea
Rotary Club Pavia Minerva. Parlare della ‘nostra’ divina eponima (reincarnazione latina dell’Atena dei Greci) assume una spiccata attualità ora che ci presiede Giuseppe Micieli, siracusano doc, e cioè di quella illustre città, colonia dorica di Corinto, che abbiamo
in programma di visitare nel corso di quest’anno rotariano: nel suo cuore millenario,
l’Ortigia greca, il Duomo altro non è, come mostrano con suggestiva evidenza le colonne,
se non l’antico tempio di Minerva passato attraverso le complesse vicende della cultura
siciliana, fors’anche moschea prima di venire consacrato al culto cristiano. Fondatore ne
fu Gelone, tiranno di Siracusa, a solennizzare nel nome della dea l’epocale vittoria riportata a Imera nel 480 a.c. sui Cartaginesi insieme a Terone di Agrigento, che a sua volta
legò all’evento gli splendidi edifici della Valle dei Templi. A decenni di distanza, nel 413,
proprio davanti a Siracusa venne a infrangersi la potenza di Atene, la città più di tutte
devota – ironie della storia – al culto della dea.
Ma veniamo a noi. Prima ancora che alla grande statua al centro della piazza pavese
dedicata a Minerva, mi piace riportare (l’ho già fatto in altra occasione) il nome del nostro
Club al suo stesso ‘atto di nascita’: un giovane e gioioso balzo, come attestano i padri
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fondatori, e già in pieno assetto di service, dal pensoso ‘capo’ del progenitore di tutta la
rotarianità ticinese, il riverito e compassato Club Pavia (o ‘Rotarone’ che dir si voglia,
con grande rispetto e qualche arguzia). Si badi che tutto accadde all’inizio d’una primavera (del 1978), e cioè proprio negli stessi giorni consacrati, come vedremo, nel corso
dell’antico anno religioso di Roma alla dea e alla sua nascita. Perché, narrano i poeti (in
particolare l’Olimpica VII di Pindaro), fu così appunto che Atena/Minerva nacque: da
Zeus/Giove, consumato seduttore, che aveva messo incinta perfino Metis, l’Intelligenza… Allertato circa possibili futuri rischi di spodestamento, Zeus non trovò di meglio che
inghiottirsela; ma, pur così occultata, la gestazione procedeva, procurandogli un mal di
capo talmente forte da divenirgli insopportabile: fin quando il venerabile padre degli dei
si risolse a un estremo rimedio, ordinando a Efesto, il claudicante dio fabbro (latinamente
Vulcano) di prendere una scure e spaccargli la testa. Presto fatto: ed ecco dal cervello di
Zeus balzare nientemeno che Atena, già bella e fatta e in pieno assetto d’armi, cacciando
un possente grido di guerra.
Dunque, a differenza di altre divinità del pantheon greco-latino, anche di primo piano
(Zeus stesso per esempio, oppure Hermes/Mercurio oppure Dioniso/Bacco, altro caso di
androgenesi, ma stavolta ‘soltanto’ da una coscia di Zeus), Atena/Minerva è una dea che
non conosce infanzia. Figlia di tanto padre e di tanta madre, venuta al mondo in modo
così singolare (il che ne fa la ‘cocca’ dell’augusto genitore), recherebbe già nel nome la
traccia della sua adulta origine: se intendere quello greco come ‘la mente di Dio’ non è
che un tentativo ad hoc dell’etimologia antica, notoriamente fantasiosa, maggiore probabilità linguistica ha l’interpretazione che lega il nome romano (originariamente Menerua)
alla radice men–, quella latina della ‘mente’, della ‘memoria’, di attitudini dunque di
primaria importanza intellettuale.
Procediamo con ordine. Già in età micenea, cioè nel periodo, anteriore alla fine del II°
millennio a.c., che precede la formazione della grecità classica, è attestato (dalla decifrata
scrittura ‘lineare B’) il nome di una Atena Potnia, cioè ‘Signora’ (secondo la più corrente
interpretazione), protettrice delle acropoli, le cittadelle in cui si arroccava in quell’epoca il potere dei principi. Si tratta dunque d’un culto e d’un mito preellenico, che viene
potentemente ripreso nell’epopea omerica, ma con tratti che diversificano abbastanza
nettamente i due poemi, Iliade e Odissea. L’Atena cantata nell’Iliade è essenzialmente
una divinità guerriera, proprio come l’abbiamo vista balzare nascendo dal capo di Zeus.
La sua scelta di campo è nettamente dalla parte dello schieramento greco, vistosa conseguenza del mitico episodio che precede e predetermina la guerra di Troia: il famoso giudizio di Paride sul monte Ida, che, sedotto dalla promessa dell’amore di Elena, accorda
la sua preferenza e dona la mela d’oro ad Afrodite/Venere suscitando la gelosa reazione
e l’odio per i Troiani delle altre due star neglette nel concorso di bellezza, Era (la latina
Giunone) e appunto Atena.
Collerica e violenta, l’Atena dell’Iliade è un vero Ares/Marte in gonnella; e non sorprende che il suo più spiccato favore vada agli eroi greci più affini a lei nel carattere, Achille e
Diomede. Così potentemente la descrive all’opera il XX libro (vv. 41-51) nel corso della
‘battaglia degli dei’ a fronte appunto del filo-troiano Marte: “Finché gli dei furon lontano
dagli uomini mortali, / gli Achei ebbero gran trionfo; era riapparso / Achille, che a lungo
era mancato dalla dura battaglia: / tremore terribile era venuto nelle membra dei Teucri
/ atterriti, vedendo il piede rapido figlio di Peleo / lampeggiante nell’armi, simile ad Ares
massacratore. / Ma quando gli Olimpi giunsero tra la folla degli uomini / si destò Lotta
violenta che spinge gli eserciti. E Atena gridava / ora dritta presso la fossa scavata fuori
dal muro, / ora ululava sugli scogli sonanti; Ares gridava dall’altra parte, simile a tenebroso uragano…” E nel libro V eccola affiancare direttamente le gesta sanguinarie del
suo prediletto Diomede: una autentica macchina da guerra che vediamo nell’atto d’indossare il micidiale complesso delle proprie armature. Il passo ( vv. 733-747) è interessante
perché per la prima volta la dea è ritratta nei particolari con cui la presenta la sua più tradizionale iconografia (e il primo pensiero corre alla nostra statua pavese): “Atena intanto,
la figlia di Zeus egìoco, / sulla soglia del padre lasciò cadere il molle peplo, / vivido,
ch’ella stessa fece e operò di sua mano, / e, vestendo la tunica di Zeus che raduna le nubi,
d’armi si circondò, per la battaglia affannosa./ Gettò sopra le spalle l’egida frangiata, /
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orrenda, cui tutt’intorno fanno corona il Terrore, / la Lotta, la Violenza, l’Inseguimento
agghiacciante: / v’è il capo della Gorgone, dell’orribile mostro, / spaventoso, tremendo
prodigio di Zeus egìoco. / Sul capo pose l’elmo, che ha quattro borchie e doppio cimiero,
/ aureo, bastevole ai fanti di cento città. / E balzò sul carro fiammante, e afferrò l’asta
/ greve, grossa, pesante, con cui ella atterra le schiere / degli eroi, se con essi si adira,
la figlia del Padre possente”. Notiamo i tratti più caratterizzanti del suo look guerriero:
oltre alla lancia, l’egida (che condivide col padre, chiamato appunto ‘egioco’), una sorta
di corazza in pelle di capra (che darà il nome anche a un apparato per ingessature) e sullo scudo il volto della Gorgone, con serpenti al posto dei capelli (Medusa era stata una
bellissima fanciulla, da lei così trasformata per gelosia). In tal modo lo scudo, arma di
difesa per eccellenza, diviene, impugnato da lei, una tremenda arma offensiva, perché
quel volto aveva il potere di impietrire chiunque lo guardasse. A fronte di questi tratti da
maschiaccio, sottolineiamone però uno ancora schiettamente femmineo, quello appunto
della gelosia. Non per nulla è proprio contro Afrodite, la rivale fortunata del concorso di
bellezza schierata coi Troiani, che indirizza la furia guerresca del suo Diomede (vv. 129132), prendendosi così almeno la soddisfazione di farla ferire.
Le cose cambiano però nell’Odissea, che appartiene a una fase già più evoluta della
primissima cultura ellenica. L’eroe greco prediletto da Atena adesso è un altro, Odisseo/
Ulisse; e il fatto ben si spiega se pensiamo che lui è, per eccellenza, l’incarnazione umana dell’Intelligenza, con tutte le sue astuzie, e lei ne è la stessa divina figlia. La sinergia
Atena-Odisseo attraversa da un capo all’altro il poema, costituendone il motivo conduttore e il fattore d’intreccio più evidente. Già nel libro I, affranta per le traversie che l’eroe
patisce nel tentativo di tornare in patria, ne perora la causa presso Zeus, ben sapendo il
‘debole’ che il padre ha per lei; e nel libro XIII mette una volta per tutte ben in chiaro
le cose col suo scaltrissimo protetto appena arrivato a Itaca (vv. 291-301): “Furbo sarebbe e scaltrito chi te superasse / in tutti gli inganni, anche se è un dio che t’incontra.
/ Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi / neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie, / e i racconti bugiardi, che ti son cari fin dalle fasce. / Via, non
parliamone più, perché ben conosciamo / le astuzie entrambi: tu sei il migliore fra tutti
i mortali / per consiglio e parola /, e io fra tutti gli dei / sono famosa per saggezza [la
parola greca è per l’appunto metis, il nome della madre] e accortezza: neanche tu hai
riconosciuto / Pallade Atena, la figlia di Zeus, che pur sempre / in ogni pericolo ti sono
vicina e ti salvo”.
Come anche qui appare, fin da Omero al nome di Atena si associa quello di Pallade (e
diversi altri la tradizione gliene attribuisce). Il mito vuole che una sua statua, chiamata
appunto Palladio, garantisse l’imprendibilità di Troia e che il suo furto commissionato
una notte proprio a Odisseo e Diomede avesse consentito finalmente la caduta della città;
di lì poi l’idolo sarebbe finito a Roma per essere custodito nel tempo di Vesta, trasferendo
così all’Urbe fondata dai discendenti dei Troiani quella garanzia d’inviolabilità.
Già in Omero epiteto corrente di Atena è ‘glaucopide’, cioè ‘dagli occhi azzurri’ (rari e
apprezzati presso un popolo tanto mediterraneo come il greco) ma anche ‘dagli occhi di
civetta’; e la civetta è l’animale che resterà costantemente associato alla sua immagine
cultuale, invitando a sospettarvi la presenza originaria di tratti almeno parzialmente teriomorfici.
Forte risalto ha nello statuto mitico della dea la condizione di Parthénos; ma – e non stentiamo a capirlo, conoscendone il caratteraccio – si tratta d’una verginità esibita (diversamente da altre più ‘riservate’ divinità femminili, come Artemide/Diana e Estia/Vesta)
in modo militante, quasi da femminista ante litteram. Ne aveva fatto le spese un giorno, e solo per averla sorpresa al bagno, l’incauto Tiresia (come racconta anche il poeta
Callimaco), punito per questo con la cecità ma risarcito col dono della profezia. Come
ben si sa, il più splendido culto di Athena Parthenos trovò sede sull’Acropoli ateniese e
tuttora lo testimoniano – nonostante le ingiurie dei secoli – i resti monumentali del tempio dorico appunto in suo onore chiamato Partenone, nella cui cella svettava uno dei massimi capolavori della scultura greca, la statua della dea realizzata da Fidia, crisoelefantina
(cioè in oro e avorio) e alta all’incirca 11 metri: ben più della nostra Minerva pavese, che
pure non difetta d’imponenza! Con questo statuto verginale della dea, tuttavia, la tradi-
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zione – a prezzo, per dire il vero, di qualche acrobazia inventiva, che chiama in causa un
goffo tentativo di seduzione da parte dello zoppo Efesto – riuscì perfino a conciliare l’esistenza d’un figlio, Erittonio, anch’esso in parte teriomorfico in quanto uomo-serpente,
che di Atene sarebbe poi divenuto re.
Ben si vede fin da queste indicazioni il legame strettissimo sussistente tra la dea e la città
che ne ridice al plurale il nome, e che, grata per il dono da lei ricevuto dell’ulivo, ne celebrava con solenni feste il culto: principali fra tutte, coinvolgendo l’intera popolazione,
le processioni delle ‘Panatenee’, annuali, e delle ‘Grandi Panatenee’, quadriennali: come
illustra, ancora ben probabilmente opera di Fidia, l’imponente fregio del Partenone, che,
sottratto alla Grecia da Lord Elgin, fa tuttora bella mostra di sé nel londinese British
Museum.
Molteplici possono essere state le ragioni di questo nesso privilegiato tra Atene ed Atena;
ma forse la più importante risiede nel primato assunto in tutta la grecità dalla città (ben
solido ormai nel V sec. a. C.) come città ‘industriale’, dalle molte arti e dai molti mestieri.
Va detto in proposito che nello statuto culturale di Atena, pur restando intatta l’immagine
guerresca dell’Iliade, è andata sempre più accentuandosi coll’andar dei secoli la svolta
già individuabile nell’Odissea, quale dea per eccellenza protettrice delle attitudini e delle
attività connesse con l’intelligenza umana. La tradizione le attribuisce la costruzione di
Argo, la prima mitica nave dell’umanità, e sappiamo quanto abbia contato la navigazione
per la potenza militare ed economica ateniese. Passando dal mare alla terra, già s’è visto
come la coltivazione d’una risorsa così fondamentale per l’alimentazione quale l’ulivo si
riconoscesse ad Atene (e nella sua regione, l’Attica) nel dono della dea. Altrettanto si può
dire di molte attività artigianali, per esempio quelle dei vasai, con sede a Samo, e degli
orefici (il che spiega il suo ricorrente abbinamento, nel mito, al ‘fabbro’ Efesto); ma, fra
tutte, legate primariamente ad Atena sono la filatura e la tessitura della lana. Già nell’Iliade del resto ne troviamo chiara traccia, e proprio nel passo del V libro che ho sopra citato:
la dea ha prodotto di sua mano il molle peplo che depone per indossare la sua tremenda
armatura (v. 734 s.). Ma filare, ordire, tessere sono operazioni che investono anche e soprattutto in senso metaforico l’ambito dell’intelligenza umana: e si spiega facilmente che
in una terra come quella ateniese, che tanto ha dato alla cultura dell’occidente nei campi
della letteratura e della filosofia, Atena fosse sentita per eccellenza quale promotrice e
protettrice di tutte le attività intellettuali.
Atena come inventrice dell’arte tessile è protagonista d’un mito famoso, quello di Aracne, che trova nelle Metamorfosi di Ovidio il più grazioso e ingegnoso racconto (libro VI,
vv. 1–145). Aracne, umile ragazza lidia, è una tessitrice talmente superba della propria
bravura da non voler concedere nemmeno alla dea il primato in quest’arte e il merito di
averla ammaestrata. Naturalmente la dea, che ben conosciamo gelosissima e collerica,
non ci sta e decide vendetta. Preso l’aspetto d’una vecchietta, invita per un’ultima volta
Aracne a pentirsi di tanta arroganza, ma la ragazza si fa beffa di lei. Allora, ripreso il suo
aspetto divino, non esita oltre a sfidarla per una gara suprema di tessitura. Aracne non si
perde affatto d’animo e accetta la sfida. Entrambe danno fondo alle loro risorse artistiche,
ma, mentre Pallade rappresenta sulla sua tela tutta una serie di storie mitiche che hanno
in comune l’eccellenza degli dei e la mala fine di donne mortali che hanno osato competere con dee, Aracne effigia con non minore abilità vicende in cui viceversa sono donne
mortali a finir vittime innocenti di misfatti divini. Pallade, punta sul vivo, si guarda bene
dal concederle il successo e distrugge la tela della rivale, che dalla disperazione corre ad
appendersi a un albero. Solo allora s’impietosisce e concede ad Aracne di sopravvivere
ma trasformata nell’animale, il ragno, che fa dell’appendersi e tessere la tela la sua arte.
Ovidio ci ha introdotto nella ricezione della dea a Roma e restiamoci. Ho già detto del
nuovo nome latino, Minerva, e della sua probabile etimologia. Il suo culto, forse penetrato attraverso la mediazione degli Etruschi, è attestato in varie parti del territorio italico,
specialmente nel retroterra laziale, in area falisca e sabina; alcuni indizi si sono conservati
anche nella toponomastica, come Minervino Murge nelle Puglie o Manerba e Manerbio
in provincia di Brescia; ma perfino in Inghilterra, a Bath, ne rimane traccia. Un celebre
tempio ben visibile dal mare aveva la dea presso l’attuale Sorrento sulla Punta Campanella, chiamata appunto dai Romani promunturium Minervae (ne parla già nel II sec. a. C.
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il poeta satirico Lucilio). Ma, come è facile pensare, è soprattutto sui colli di Roma che
Minerva trova il suo più frequente habitat, dal Celio (su cui il tempio di Minerva Capta
celebrava la sottrazione della statua dalla città conquistata di Falerii) all’Esquilino (vi
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฀ ฀ Minerva Medica), all’Aventino,
dove presso un suo tempio s’era insediata la corporazione degli scrittori e degli attori di
teatro. Più antico e importante fra tutti il culto sul Campidoglio, nel tempio consacrato
alle tre principali divinità protettrici dell’Urbe, appunto la Triade Capitolina, costituita da
Giove, Giunone e Minerva.
Passando in Italia, la dea dunque cambia nome, ma non perde, anzi accresce la sua versatilità, quale protettrice delle arti e dei mestieri e in generale di tutte le attività legate
all’ingegno e all’industriosità umana. Come accennavo all’inizio, i Romani, grati, le dedicano una festa solenne proprio all’inizio della primavera, le Quinquàtrus, cinque giorni
a partire dal 19 marzo, sua data tradizionale di nascita. Diamo ancora la parola a Ovidio,
il poeta di età augustea che ce ne offre una vivace descrizione nei suoi Fasti, il poema
dedicato a celebrare le principali ricorrenze del calendario religioso latino (libro III, vv.
809-834):
“Dopo un giorno d’intervallo ha luogo la festa in onore di Minerva; trae nome dal raggrupparsi in cinque giorni. Nel primo, è proibito versare il sangue e non è permesso
incrociare armi, perché è la sua data di nascita. Nel secondo giorno e nei tre successivi
si celebrano i giochi nell’arena ben rasata. La dea guerriera ama le spade sguainate.
Ragazzi e tenere ragazze, ora è il momento di pregare Pallade! Chi si sarà conciliato
il suo favoro, sarà esperto. Grazie alla benevolenza di Pallade possano le ragazze apprendere a cardare la lana e a svuotare le conocchie piene. È la dea che insegna a far
correre la navetta attraverso i fili diritti della trama e a stringere col pettine la tela troppo
allentata. Onorala, tu che togli le macchie dagli abiti sporchi, onorala, tu che prepari i
calderoni in bronzo per tingere le lane. Se Pallade è ostile o irata, nessuno riuscirà a far
bene un sandalo; foss’anche il più abile artigiano, sarà come un mutilato. Voi anche, che
cacciate le malattie con l’arte di Apollo, portate alla dea alcune offerte tratte dalle vostre
ricchezze. E nemmeno voi disdegnatela, insegnanti, categoria frustrata economicamente
[attuale, non c’è che dire, questo appunto…]: può attirarvi nuovi allievi; e nemmeno tu
che maneggi il cesello, né tu che con mano abile plasmi la pietra. E’ la dea di mille arti,
certo è la dea della poesia. Se lo merito, possa favorire la mia impresa!”
Con questo simpatico e colorito ‘ripasso della materia’ siamo ormai pienamente autorizzati a tornare, ad anello, al punto di partenza: Minerva meritatamente nel nome del nostro
Club, anzi, in quanto ‘mente’ pensante di tutte le possibili ‘classifiche’ professionali, dea
‘rotariana’ honoris causa. Il risalto particolare, poi, con cui Ovidio la evoca come Minerva Medica ci riconduce alla grande statua innalzatale nel 1939 da Francesco Messina e
collocata nella nostra piazza, per volontà di Lea Del Bo, a onorare la memoria del marito
Ottorino Rossi, padre della neurologia pavese: cioè proprio la classifica del nostro attuale
Presidente, che ci riporterà a riverire l’antico tempio della dea nella sua Siracusa. Ma consentitemi di finire con una nota personale. La rivista scientifica che mi onoro di dirigere e
che – da sempre pubblicata ‘sotto gli auspici dell’Università di Pavia’ – celebra quest’anno con legittimo orgoglio il suo primo centenario, si intitola, giustamente, “Athenaeum”.
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