PROMORAMA ::: PRESS

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BAND: JOANNA NEWSOM
TITLE: THE MILK-EYED MENDER
LABEL: DRAG CITY
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SENTIREASCOLTARE
http://www.sentireascoltare.com/CriticaMusicale/Recensioni/2004/Liv3_Rock/Album/JoannnaNewsomMilk.htm
Accadono dischi così, che volete farci. Bellissimi e rannicchiati, bizzarri quel briciolo di troppo per aspirare ad
un pubblico più vasto e stratificato. Milk Eyed Mender snocciola un programma che è un trapassare da
incanto a incanto, da languore a mestizia, da uggia a dolcezza. Dodici tracce sostenute da una scrittura agra
e lieve, interpretate con piglio capriccioso ed etereo dalla giovane Joanna (poco più che ventenne), arpista e
cantante paricolarissima, già membro dei buoni Pleased, all'esordio su lunga distanza ma già con l'aria di
avere idee chiarissime e voglia di esprimerle nel modo che più ama.
Ben venga l'alone di hype provocato dall'interessamento di Will Oldham (che se l'è portata in tour come
opening act) e dai recenti lavori di Devendra Banhart e Cocorosie, cui stilisticamente viene (giustamente)
accostata. Anche Joanna si destreggia con matrici folk/blues arcaiche, tipo come doveva entrarne un tempo
nelle case portando il mistero e la consolazione di un mondo sconosciuto, un fiabesco narrare per voci
disperse, storie terribili mitigate in sogno, incupite dalla poca luce tremolante.
Ninne nanne per anime disposte al buio. L'arpa a tessere le trame con urgente naturalezza, smarcandosi in
un fiat dall'aura accademica che il senso comune (il mio senz'altro) è solito attribuirle. Una voce di bambina
in una bolla di vetro, di bambola di celluloide, di grammofono e bianco e nero.
Però anche una voce attraversata dalla contemporaneità, vagamente memore di Bjork nello struggimento
diafano di En Gallop e nell'onirico sdilinquimento di Cassiopea, capricciosa come una Kate Bush geisha nel
palpitante saltarello di Peach, Plum, Pear (harpsichord in resta, un chorus che deve qualcosa a
Cloudbusting), scostante e flessuosa come una Cat Power lucida in The Book Of Right-On, capace insomma
di innescare imprevedibili cortocircuiti temporali e - questo è il bello - di tenerli saldamente sotto controllo.
Certi country-folk si snodano gotici come se avessero appena finito di scrollarsi il gospel di dosso (il vibrante
traditional Three Little Babies, solo il piano, il canto desertico e il controcanto mormorato), altri sembrano
aggrappati alle prime avvisaglie di notte (la trepida This Side Of the Blue, organo, voce e slide impalpabile),
altri ancora fiutare le nebbioline pomeridiane del Nick Drake buonanima (la friabile Swansea, con un
ritornello che sguinzaglia voce ed arpa sulle tracce di Bjork - ancora lei).
Ma anche quando più si avvicinano al cliché folk femminino (chessò, da qualche parte tra Linda Ronstadt e
Kristin Hersh) sanno librarsi un paio di spanne sopra al pericolo dell'ovvietà grazie al connubio
particolarmente felice di scrittura ed interpretazione (si avvita scarna sulla propria mestizia la conclusiva
Clam, Crab, Cockle, Cowrie - un'arpa asciuttissima, la voce che non ci pensa due volte ad arrischiare iodel
sabbiosi).
La magia del disco si annida in quei pezzi che non riesci bene a spiegarti almeno fino a che non smetti di
farlo e semplicemente te li lasci scivolare addosso, come quella Sadie il cui mood si alterna dolce e irrequieto
con fitte striature soul-RnB, la voce arrochita e slittante, una progettualità composita che non temo di
paragonare a certo Paul Simon e improvvisi squarci d'inesplicabile intimità come il Bob Dylan di Blood On
The Tracks), o come l'impulso Tom Waits di Inflammatory Writ (la voce sprimacciata senza badare al sottile,
un piano inguaribilmente bohemienne, un'aria a metà tra palcoscenico e confessione che scomoda paragoni
Badly Drawn Boy e Eels).
Per non dire di Sprout And The Bean e dell'iniziale Bridges And Ballons, che quanto ad acustic-folk dicono in
una manciata di minuti quanto i Kings Of Convenience non sapranno in vent'anni di carriera (il primo è un
valzerino che ficca il dito in una delle tante ferite possibili, l'arpa con tentazioni di giardino zen, la veemenza
di quel chorus che lega idealmente Sinead O'Connors e Goldfrapp, il secondo una bossa stemperata in un
folk-blues sornione).
Disco un po' strano, scarno e volubile assieme, possiede indubbiamente tutto ciò che gli serve. Talmente
diretto che capisci tutto nel giro di due ascolti, e che tuttavia sembra svelarsi continuamente, attingendo alla
polpa d'un anima sensibile e risoluta, risolutamente disposta a comunicarti un frammento della propria
sensibilità.
Rispetto al quasi contemporaneo esordio delle Cocorosie, col quale condivide questa sorta di attualizzazione
di registri d'antiquariato stemperati in un intimismo palpitante e giocoso, mi sembra appoggiarsi meno sulle
intuizioni sonore potendo altresì contare su un talento compositivo e d'interprete ben superiore. La qual cosa
dovrebbe garantire alla giovane Joanna margini di manovra più ampi in futuro (ma non ci sono regole, come
ben sappiamo).
Insomma, disco bello, quasi bellissimo.
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ONDAROCK
http://www.ondarock.it/recensioni/2004/newsom.html
Joanna Newsom suona principalmente l’
arpa, in alcune occasioni anche il piano, l’
harpsichord e un wurlitzer
e, soprattutto, canta in maniera eccezionale. Non tanto in quanto dotata di chissà quale accademica
preparazione vocale, ma solo perché si ritrova di natura un timbro fortemente caratteristico e originale, che
è capace di sfruttare a dovere e nella maniera più giusta: Joanna Newsom canta come una bimba piccola. La
sua voce è quella di una bimba piccola, la sua capricciosa espressività è quella di una bimba piccola, la
teatralità con la quale pone l’
enfasi su certe particolari frasi e passaggi è quella dei bimbi piccoli, quella delle
interrogative che vertiginosamente stridulano verso l’
alto, delle esclamative che si abbattono verso il basso
come il martello sull’
incudine, dell’
imbarazzo misto all’
orgogliosa consapevolezza di stare parlando di "cose
da grandi" quando si tratta di frasi d’
amore, dell’
eccitazione divertita di quando si propone un nuovo gioco
che si è appena inventato. Basterebbe solo questo a rendere il disco preziosissimo, il tipo di energia e
vibrazione che trasmette, che non è una consapevole e ragionata "gioia" di vivere, piuttosto l’
incosciente e
smodata "voglia" di vivere, senza filosofeggiare su quanto belle siano le cose del mondo, ma trasformandole
in maniera ingenua e automatica in emozioni.
La musica di "The Milk-Eyed Mender" è dunque il palcoscenico che la Newsom mette su per dare la
possibilità alla vera protagonista di muoversi: suonato, come già si è detto in presenza, quasi interamente
con l’
arpa, maneggiata dalla nostra in maniera assolutamente egregia, il disco si snoda attraverso delicate
ballate che pescano sia dalla tradizione folk (sì, neanche lei è riuscita a resistere al fascino delle origini), sia
dalle tipiche armonie di un’
altra tradizione molto più recente, che si presume essere quella degli anni del suo
avvicinamento alla musica popolare, il pop-rock indipendente di scuola americana. L’
utilizzo dell’
arpa rende
queste due correnti assolutamente coese e conciliabili, e tutte le canzoni sono musicalmente gradevolissime
e ben curate, sia quando sono leggermente sbilanciate da un lato, sia quando lo sono dall’
altro. E poi ci sono
i testi: ognuno di essi è una piccola chicca, sospesa tra il fantastico-favolistico e una pungente e sbarazzina
ironia che, credetemi, non in pochi casi vi porterà al riso. Sentirete cantare di improbabili accostamenti e
allitterazioni ("Bridges & Balloons", "Peach, Plum, Pear", "Clam, Crab, Cockle, Cowrie"), scoprirete che la
differenza tra "The Sprout And The Bean" (nell’
omonima canzone") "is a golden ring", vi troverete al
cospetto di professori pedanti e bacchettoni bravi solo a criticare ("hand that pen over to me, poetaster!" –e
quel "poetaster!" dice tutto, come una versione comica e sciancata dell’
headmaster di Morrissey -) e ancora
costellazioni ("Cassiopeia"), cigni bianchi ("Swansea"), gente che succhia limoni ("This Side Of The Blue") e
che distrugge la propria cena a colpi di karate ("The Book Of Right-On"). E poi il punto più alto di tutta
l’
opera, quel coro di bambini che in "Peach, Plum, Pear" canta la frase "I am sad" con il tono di chi non
gliene può fregare di meno, esattamente all’
opposto (e quindi in maniera identica) dei bimbi che alle feste
scolastiche di carnevale intonano quelle canzoni tipo "ah che divertimento!" quando in realtà si stanno
evidentemente e bellamente rompendo i coglioni.
E a chiudere il disco stavolta non è l’
ultima, splendida canzone, ma quel cuoricino rosso rosso disegnato nel
booklet sotto i ringraziamenti, quasi a ricordarci che la musica è, soprattutto, una questione di cuore.
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MUSICBOOM
http://www.musicboom.it/mostra_recensioni.php?Unico=20040616040910
Pronti con il consueto trend del bimestre? Dopo il garage rock, dopo il NAM, dopo l’
electroclash, stavolta a
tenere in scacco i nostri pregiati magazine musicali è una commistione di folk ancestrale e toy music, che
probabilmente ha già una sua designazione univoca rimbalzata da Mojo direttamente su Blow Up.
Galeotte furono Bianca e Sierra Cassidy, le due metà di quella mela chiamata CocoRosie che, allo scoccare
delle prime copertine, ha immediatamente acquistato credibilità agli occhi dei “
cervelli bruciati dagli aperitivi”
(splendida definizione rubata a Stefano Solventi): e mentre le due innocenti fanciulle offrono fragole
all’
intellighenzia blog nostrana che riesce a sfiorarle, il loro La Maison De Mon Réve si porta dietro un
codazzo eterogeneo di musici improvvisamente lambiti dall’
indie spotlight. E, pur spiccando a questo punto
(e con ragione) il nome del maudit poliglotta Devendra Banhart, nel mezzo c’
è anche la dolce Joanna, che
suona l’
arpa, esibisce un suono spoglio e minimale e, tanto per gradire, offre nel grazioso booklet un
omaggio ad Apple Venus così spudorato da essere realmente commovente.
I dodici brani contenuti in The Milk-eyed Mender, comunque, sono del tutto lontani da Partridge e soci: la
Newsom anzi, complice una vocetta che nemmeno Bjork a 78 giri, preferisce un folk surreale, placido ed
estremamente bambinesco. Ecco, appunto: la voce; a chi scrive quel suo tenersi su registri alti(ssimi) piace
ed intriga alquanto, ma sappiate che c’
è chi nella stessa casa la trova paragonabile solo ad uno stridìo di
unghie sulla lavagna.
Il lotto di pezzi che la Newsom porta con sé presenta sicuramente qualche gemma da non perdere: Bridges
And Balloons, Cassiopeia e soprattutto Sprout And The Bean, con la sua aria dondolante, ne sono gli esempi
migliori. Qualche altro brano si staglia più per la particolarità degli strumenti usati che per un reale merito
compositivo (la spinetta di Peach, Plum, Pear), ma – posto ovviamente che queste atmosfere fatate e
sornione vi si confacciano –non vi annoierete quasi mai nell’
ascoltare le storie dolcemente sconclusionate di
Joanna.
A rischio di vederci azzannare dai blogger infatuati di cui sopra, concludiamo addirittura dicendo che –ahinoi
– The Milk-eyed Mender è debutto più interessante della Maison di Coco e Rosie: forse più ostico,
sicuramente privo della carica lesbo-chic che portano con sé le due sorelline, ma più pregno ed originale.
E mentre le Cassidy dovranno imbastardirsi e normalizzare giocoforza il proprio sound se non vorranno
sembrare un fuoco fatuo, la Newsom ha tutte le porte aperte per creare, in un prossimo futuro, un vero
capolavoro.
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ALLABOUTJAZZ
http://www.allaboutjazz.com/italy/reviews/r0404_041_it.htm
Bjork allo Zecchino d'Oro!
In realtà non avremmo voluto aprire la recensione di questo disco - molto bello, lo diciamo subito a scanso
di equivoci - con una battuta, ma davvero il bizzarro connubio rende vagamente l'idea della musica di
Joanna Newsom: talentuosa musicista della costa Ovest giunta al secondo lavoro dopo un disco
autoprodotto come Walnut Whales, che ha suscitato l'attenzione di Will Oldham [con cui ha condiviso un
tour americano], la Newsom si è fatta vedere recentemente anche sui palchi di Devendra Banhart e Cat
Power.
Radici bene affondate nel folk, l'accompagnamento scarno, spesso solo quello della propria arpa o di una
chitarra, i testi - davvero belli - che disegnano, a volte con deliziosi giochi e assonanze lessicali, un mondo
innocente e terribile, bambino e oggettuale, vagamente sinistro.
Il parallelo con Bjork sta nella particolare vocalità infantile e stralunata [e nell'uso dell'arpa che ultimamente
piace molto anche all'artista islandese], ma lo strano universo di Joanna Newsom - fatto di cantilene, di
stranite melodie che si deformano dolcemente sopra il vibrare delle corde - ha una sua precisa fisionomia
che attira con intrigante ipnotismo.
Canzoni come l'iniziale "Bridges and Balloons" o la meravigliosa "The Book of Right-On" sono piccoli gioielli,
squarci di una visione musicale che fonde il revival del folk con alcune subliminali obliquità derivate da input
avanguardistici - la Newsom ha avuto Terry Riley come vicino di casa! - e che dispensa dolci ossessioni
reiterate.
Ma è possibile anche lasciarsi cullare dalla malinconia di "Swansea" o di "This Side of the Blue", dal
clavicembalo quasi caricaturale, ma toccante di "Peach, Plum, Pear" [piccolo cult che già compariva nel
precedente EP], in un disegno continuo di poesia apparentemente semplice, ma realmente annodata a tante
schegge di situazioni.
Annunciata in un tour europeo per il prossimo settembre, annotatevi il nome di Joanna Newsom: se passa
per l'Italia sarà interessante ascoltarla dal vivo, per ora accontentiamoci di questo notevole "The Milk-Eyed
Mender".
FREAKOUT
http://www.freakout-online.com/r_view.asp?id=316
Una volta avevamo il new acoustic movement. Forse ci pensavamo come all’
ultimo bastione di acusticità
contro l’
arroganza degli elettrici dexcibel rockettari. E non avevamo ancora sentito nulla, mi sa. Manco il
tempo di riporre in archivio le CocoRosie (e Directorsound, anche su coordinate diverse, dove lo mettiamo?)
ed ecco un’
altra principessa del sound scarno che più non si può. Qual è l’
essenza di dischi del genere? La
voce, infantile e celestiale? Le melodie, innocenti e fuori dal tempo? La suggestione, di angeli scesi in terra
(e forniti di sesso, quello “
gentil”
)? L’
idea, affascinante, che la “
distinzione” porti il “
marchio”della
discrezione anziché quello della ribellione?
Di Joanna Newsom abbiamo indirettamente già narrato abbastanza. Ma c’
è dell’
altro, e non è neanche il caso
di impostare il discorso su di lei in parallelo alle sorelle Casady. C’
è una voce infantile, quasi da Zecchino
d’
Oro a stelle e strisce, cui non è facile disegnare un corpo adulto attorno, o forse neanche un corpo tanto
sembra, a tratti, lontana da questo mondo. C’
è un’
arpa che forgia un delicato velo di eteree cantilene. C’
è un
piano che potrebbe ricordare il rigore di acerbe lezioni di solfeggio, epperò capace di sprizzare la gioia di chi
sa bypassare le regole con stile. C’
è una chitarra acustica, ogni tanto, ad arrotondare e ammorbidire
ulteriormente il sound. C’
è un afflato folk, fors’
anche bluegrass, cui è però difficile associare campi,
piantagioni o roba del genere. C’
è un insieme di ornamenti, accennati o anche solo suggeriti alla nostra
fantasia, capaci di riempire il vuoto C’
è l’
immaginazione, tanta, come fonte di ciò di cui Joanna canta, sorta
di barrettiana ‘
Word Song’spalmata nell’
arco di tutte queste 12 canzoni.
C’
è la capacità di rendere il proprio estro fruibile pur mantenendolo su frequenze altamente personali, e
paradossalmente bizzarro per quanto è naif (e sì, di queste 4 lettere abbiamo già abusato in passato). C’
è
che se non ce la sentiamo di mandare affanculo qualcuno, forse la cosa migliore è adagiarsi su giacigli sonori
soffici come “
The Milk-Eyed Mender”e lasciar respirare, per una volta, anche quei due orifizi ai lati del
cranio.
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IDBOX
http://www.idbox.it/reviews/cd/BOX/review-3705/
Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Se nei "thanks to" ringrazi nomi come Devendra Banhart ed il tuo sponsor
è Will Oldham, folgorato a tal punto dai tuoi dischi autoprodotti ("Walnut Whales", 2002, e ""Yarn And Glue",
2003) da chiamarti a suonare come supporter nei suoi tour, vuol dire che sei dei nostri e che sei la
benvenuta.
Joanna Newsom è una ragazzina che combatte ancora con l'acne - a giudicare dalla sue foto - ma non è
questo che importa. Piuttosto è la quaterna iniziale della tracklist a presentarla meglio di qualsiasi fotografia.
La sua voce sbrindellata ma dolce, simile a quella di una bambina che sta entrando nella pubertà, sciorina
storielle su molluschi, ossa di balena, gufi, navi in fiamme e collezioni di corde con una naturalezza tale da
farle sembrare parte di una quotidiana conversazione. Che piacere ascoltare la voce querula su note
pizzicate, che sollazzo canticchiarne le liriche (che vertono su argomenti fondamentali come il latte, le torte
ed i palloncini) su ariose melodie rette da arrangiamenti d'arpa, ora delicati ed eterei, ora galoppanti.
Sospesa tra il folk revival dei sessanta ed un surrealismo che strizza più volte l'occhio all'anti-folk - ma non
siamo a New York, l'aria è scevra da mondanità, attitudine punk e velleità intellettualoidi - la Newsom
miagola ballate agrodolci con una voce frignante he regge e porta il ritmo, tanto che spesso il pizzicato
risulta pleonastico. Lei dice di ispirarsi a Ruth Crawford Seeger, tra le prime a portare avanti, unite, folk e
tradizione e sperimentalismo; in realtà è, più che altro, una hobo poco metropolitana.
Tra melodie dolci e malinconiche, bluegrass zuccherato, chitarre che si confondono con arpe e barocchismo
controllato, Joanna, voce buffa e testi surreali (" I killed my dinner with karate...") non eccede e solletica
l'udito con quel carillon che si ritrova al posto delle corde vocali. "The Milk-Eyed Mender" è come la torta di
mele: americana, dolce e bambinesca. Abbuffatevene.