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Imprinting
Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o luoghi e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Bianca Ceruti
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Romanzo
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Copyright © 2016
Bianca Ceruti
Tutti i diritti riservati
“Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio.”
Bertold Brecht
1
Marta saliva le scale con la sua cesta piena di biancheria che
emanava il piacevole profumo di sapone di Marsiglia; era il primo giorno di primavera! Sentiva il cambiamento come una veste
che l’avvolgeva di una dolce allegria.
Canticchiava una canzoncina che aveva imparato da piccina,
quando le donne al servizio della famiglia Gironi iniziavano la
giornata ribaltando letteralmente ogni stanza per le pulizie primaverili. Tappeti, tende, argenteria, tutto veniva accuratamente
pulito e rinfrescato per il giorno di Pasqua e lei le seguiva e, cercando di imitarle, si sentiva grande. Ora, finalmente, era arrivato
il momento di essere considerata anche lei una donna! Le avevano dato l’incombenza di portare nelle camere la biancheria pulita… finalmente era diventata grande! Aveva appena compiuto
quindici anni e il seno era cresciuto così tanto che faceva fatica a
costringerlo nella scollatura del vestitino a fiori. Il caldo aveva
già iniziato a farsi sentire malgrado fosse solo il primo giorno,
tanto che quella mattina nell’abbottonare la veste lasciò gli ultimi
due bottoncini slacciati; le sembrò di aver dato la possibilità ai
suoi seni di essere un po’ più liberi. Ogni tanto abbassava gli occhi e li vedeva belli, gonfi e sodi, muoversi a ogni suo respiro, le
piaceva avere un bel décolleté; gli ultimi due anni li aveva passati, di nascosto dalla mamma, a farsi spugnature con l’acqua gelida pregando di non diventare come lei, così magra e rinsecchita
da fare pena. Quando osservava i suoi seni non riusciva a distinguerli dalle pieghe del vestito nero che teneva sempre completamente abbottonato, tanto da chiedersi se riuscisse a deglutire…
Non era vecchia, forse aveva poco più di trent’anni, ma sembrava
che avesse già raggiunto la fine della sua misera esistenza.
Lei no! Lei era rigogliosa come i suoi seni. Lei era fresca come
la primavera che quell’anno le sembrava ancora più ricca di luci,
di colori, di profumi, di sapori, insomma di tutto!
Che gioia! Com’era felice di essere al mondo!
I gradini erano finiti e i suoi piedi nudi, lunghi e snelli la sta7
vano dirigendo verso la stanza del signorino Paolo.
Che emozione! Finalmente poteva varcarne la soglia! Negli ultimi anni aveva passato più tempo a guardare da quella serratura
che in qualunque altro luogo…
«Che stupida!» disse a voce alta, mentre afferrava la maniglia
con la mano libera, pensando che non ci fosse nessuno che la potesse sentire.
«Stupida a far cosa?»
Alle sue spalle improvvisamente si materializzò una voce acerba di ragazzo non ancora ventenne, irrompendo nelle sue orecchie la fece sobbalzare dallo spavento.
Dietro l’angolo del corridoio il viso sorridente di Paolo uscì
dall’ombra lentamente.
Marta con la bocca aperta osservava lo scorrere della luce che,
piano, piano, svelava prima il lato sinistro con lo zigomo leggermente sporgente e poi la piega del sorriso che, come in un gioco,
univa la narice al labbro e, alla fine, il viso si illuminò in tutta la
sua bellezza.
“Com’è bello!!” pensò Marta abbassando, senza volerlo, lo
sguardo sul suo seno, che freneticamente si alzava e abbassava
dal décolleté della veste a fiori.
“Stupidi state dentro!” cercò di comandare mentalmente. “Non
fatevi vedere!!” ma Paolo li aveva visti e li stava guardando con
un’espressione per nulla indifferente.
La ragazza cercò un riparo alzando la cesta della biancheria il
più possibile davanti a loro, ma una vampata di calore le infuocò
le guance mettendola ancor più a disagio di fronte al signorino
che si stava avvicinando sempre più. La vergogna di Marta era
proporzionale all’intensità del respiro del giovine che era diventato così profondo da ipnotizzarla.
Lo sguardo di Paolo sempre fisso sul suo corpo: sembrava che
volesse divorarne ogni minimo lembo mentre le mani le stringevano la vita scendendo velocemente sui suoi glutei e, subito dopo, le dita cominciarono a esplorare con frenesia la fessura che li
separava, in una frenetica ricerca di qualcosa molto importante.
La porta della stanza era ormai spalancata, una spinta improvvisa la fece cadere con il suo cesto di biancheria profumata
di sapone di Marsiglia e si sentì soffocare: aveva il viso sprofondato in essa; girò con fatica il capo verso sinistra, la finestra della
stanza era proprio davanti a lei con il suo spettacolo di luci e fiori. Nel fondo, il campanile della piccola chiesetta con la sua cro8
ce in cima e l’orologio sempre avanti di cinque minuti… quante
volte lo aveva osservato!
Era lì distesa con il viso nella cesta profumata di pulito e il signorino la stava palpando da tutte le parti, i seni le facevano male tanto erano strizzati con foga. Le aveva alzato la veste a fiori e
aperto le gambe facendo appoggiare le ginocchia a terra.
«Che cosa vuol fare signorino?!» voleva supplicarlo, ma non
riusciva a emettere nessuna parola o suono. Stordita da tutta
quella furia inaspettata, non riusciva a capire, non riusciva a ragionare, era in balia degli eventi senza comprenderne la natura.
Cosa le stava facendo quel ragazzo che tanto aveva adorato?
Aveva le mani bloccate e il collo indolenzito, guardava il bianco
campanile cercando di scorgere la prima rondine, come aveva
sempre fatto sin da piccina il primo giorno di primavera.
“Eccole!! Sono tre!! Stanno volando intorno alla croce… nel
loro festoso ballo di primavera… Che gioia!!”
«Ah!»
Un forte dolore in mezzo alle sue cosce saliva sino al ventre e
un fiotto di sangue cominciò a bagnarle le gambe… Lui l’aveva
penetrata con tale foga da levarle il poco fiato che aveva nei polmoni e con esso l’unico attimo di gioventù.
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Come ogni fottutissima mattina Dan Hopkins saliva quelle maledette scale che lo avrebbero portato, gradino dopo gradino, in
un’aula piena di ragazzini ricchi di sterline ma altrettanto poveri
di valori.
E pensare che, solo tre anni prima, era sceso alla stazione di
Oxford pieno di entusiasmo e di progetti!
Aveva lavorato sodo vent’anni per raggiungere quella meta: insegnare Storia e Filosofia presso un rinomato college inglese! Il
Worcester College di Oxford!
Aveva creduto seriamente che la cultura fosse il passepartout
per aprire le menti delle nuove generazioni e per confrontarsi
con il prossimo usando il sapere e non l’avere.
Ci aveva creduto e aveva sacrificato la sua gioventù per
quell’ideale.
Orfano, era stato adottato, quando aveva poco più di un anno,
da una coppia benestante di Londra, la moglie casalinga e il marito commerciante di birra. Una grande fortuna che durò fino alla morte del padre, quando Dan aveva poco più di otto anni; da
quel momento le cose cominciarono ad andare male e la madre
aveva dovuto vendere tutti i suoi averi per poter pagare i debiti
lasciati in eredità dal marito. Dan fu mandato a lavorare in
un’officina, dove era stato malmenato e sfruttato per pochi centesimi al giorno, che venivano dati alla madre sempre per far
fronte ai continui debiti che, al posto di esaurirsi, aumentavano
in modo esponenziale. Fu così che conobbe la fame e la galera,
ancor prima di saper leggere, per aver rubato, dal portafogli del
suo capo, pochi scellini per comprarsi un pezzo di pane… ma fu
la sua fortuna!
Gli anni di scuola elementare li trascorse quasi tutti in riformatorio, dove un giovane prete, don Luigi, con paziente ostinazione riuscì, nonostante le sue resistenze, giorno dopo giorno, a
fargli amare lo studio come mezzo necessario per il raggiungi10
mento della conoscenza che, col passare degli anni, diventò la
sua unica compagna di viaggio.
A soli ventotto anni e con pochi soldi in tasca, varcò l’austero
portone del prestigioso Worcester College, sentendosi ricco di
sogni e orgoglioso di se stesso: era riuscito a uscire dal guano
dove la sua breve vita lo aveva gettato, riscattandosi con la forza
dell’impegno.
Nonostante queste elettrizzanti premesse, gli bastarono pochi
mesi per accorgersi che i suoi progetti erano soltanto sogni e le
sue idee stupide utopie; la reale aria, che ogni mattina respirava
in quella scuola, dimostrava che aveva sacrificato inutilmente la
sua giovinezza in virtù di un’idea assurda e irrealizzabile, e la
consapevolezza di essere stato solo un povero illuso gli faceva
talmente male da togliergli le forze. Affrontava i gradini del
grande scalone che portava alle aule facendo sempre più fatica,
come se questi per dispetto continuassero ad alzarsi con il passare dei giorni, e le sue lunghe gambe, consce dell’inutilità della
sua impresa, si rifiutavano sempre più di superarli.
Malgrado ciò, le sue lezioni erano le più seguite del College:
ogni anno le due aule in cui insegnava erano sempre più affollate
di ragazzini che, silenziosi, lo ascoltavano con passione.
Estremamente meticoloso amava le sue materie così tanto da
trasmettere ai suoi alunni un po’ della sua passione, anche a
quelli più scettici o scapestrati, che lui preferiva sfidare con
l’arma della cultura piuttosto che con quella dell’autorità. Qualche volta, tuttavia, aveva dovuto fare qualche eccezione per non
farsi sopraffare dai più viziati. Nella III°C un paio di ragazzotti e
tre ragazzine, tutti di ottima famiglia, non riusciva tanto a domare… e questo lo infastidiva parecchio.
Anche quella mattina aveva varcato la soglia della III° C con lo
spirito sotto le suole delle scarpe e anche quella mattina si era
seduto sulla sua poltroncina di legno e aveva appoggiato sulla
cattedra la sua voluminosa cartella di cuoio sempre gonfia di
manoscritti, libri e ricerche che poi non venivano mai usati; anche quella mattina si era tolto gli occhiali tondi con la montatura
in metallo, li aveva puliti e, come di consueto, lo aveva fatto con
una certa lentezza per dare tempo ai ragazzi di zittirsi e di raggiungere i loro posti.
Dopo tre anni insieme, anche i più stolti avevano capito che
non avrebbe mai iniziato a parlare senza avere la loro massima
attenzione.
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Era alto e snello con un fare un po’ distratto che lo rendeva
molto attraente; il tono della voce, sempre basso, lo aiutava a
concentrare su di sé maggior interesse e, conscio di ciò, ne approfittava per appassionare allo studio quella pletora di ragazzini
vuoti e senza rispetto per la vita. Dan era un uomo molto taciturno e, pur essendo un bell’uomo, non curava molto il suo
aspetto. Trascinava la sua esistenza da un’aula all’altra senza mai
alzare lo sguardo, i colleghi quasi non lo conoscevano e, chi aveva avuto la sfortuna di imbattersi in qualche discussione, ne era
uscito con le ossa rotte, metaforicamente parlando.
Nessuno era riuscito a sapere molto di lui; persino la Preside,
la signorina Pingleton, Alma Pingleton per la precisione, notoriamente d’indole a dir poco pettegola, dovette accontentarsi delle scarne notizie scritte sulla scheda di assunzione.
Scapolo, nessuna fidanzata, laurea in Italia, all’Università Cattolica di Milano, nel 2004 con 110 e lode, grande studioso. Sotto
la massa di capelli castani, sempre spettinati, il viso, quasi mai
completamente sbarbato, esprimeva un continuo malessere alla
vita. Gli occhi, verdi come il fondo di una bottiglia, erano nascosti da lenti tonde sempre velate da un residuo di sudiciume che si
spandeva ancor più quando le puliva con la cravatta; il più delle
volte gli occhiali restavano abbandonati sulla cattedra. I ragazzi
erano arrivati alla conclusione che li mettesse soltanto per creare
un’ulteriore barriera fra lui e il mondo. Di poche parole, amava il
silenzio assoluto e, quando faceva lezione, si sentiva soltanto la
sua voce: roca ed estremamente sexy. Usava un linguaggio chiaro, quasi elementare, e quando spiegava nessuno prendeva appunti: lo ascoltavano in silenzio senza perdere nemmeno una sillaba di quello che diceva. Al termine di ogni lezione, restava dieci
minuti a disposizione di chi aveva bisogno, non un minuto in
più. Non sorrideva mai ed era convinzione degli alunni che non
conoscesse nemmeno i loro nomi.
Sembrava, almeno! Un giorno, i famosi tre irriducibili, decisero di metterlo alla prova, facendo sedere nei loro banchi tre ragazzi di quarta C abbastanza somiglianti a loro. Il professor Hopkins entrò in aula con la sua aria indifferente e come sempre
eseguì in ogni particolare il suo rito, la strofinatina agli occhiali
con il lembo inferiore della cravatta, la borsa piena di libri sulla
cattedra, ma non si sedette sulla sua seggiola di legno! Si avvicinò a loro, fissandoli severamente negli occhi con un’espressione
a dir poco glaciale sul viso, poi, dirigendosi con passo deciso alla
porta la spalancò, senza proferir parola. Non era stato necessa12