Alle radici della pena di morte in America - Ufficio Stampa

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Alle radici della pena di morte in America - Ufficio Stampa
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Martedì, 10 aprile 2007
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Un documentario
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Alle radici della pena di morte in America
di Luca Codignola
L’intervista è di quelle
soffici e patinate:
Stefano Accorsi vi
appare fotografato con
un gusto vagamente
esistenzialista, vestito di
nero, mentre guarda
rigorosamente altrove.
La luce è perfetta, filtra
leggera dalle finestre
del suo loft parigino,
mentre Stefano
racconta all’Espresso la
sua vita, i paradisi e gli
inferni dell’anima, i
piaceri semplici e
preziosi della paternità, i
valori solidi della
famiglia, le inquietudini
e le gioie dell’artista.
Non c'è niente che delizi di più l'antiamericanista nostrano (ed europeo) che
puntare il dito contro la barbarie della pena di morte in vigore negli Stati Uniti,
una sorta di simbolo di quell'impero del male di marca occidentale che con una
mano dice di voler esportare la democrazia, e con l'altra manda i propri cittadini
sulla sedia elettrica o di fronte al plotone di esecuzione. E come resistere alla
tentazione di aggiungere, con sorriso saccente, che proprio quello stato che ha
prodotto il presidente George W. Bush, il Texas, è il maggiore responsabile di
esecuzioni capitali (366 dal 1976 al 2006), mentre quello che ha dato i natali alla
famiglia Kennedy, il Massachusetts, è uno dei dodici stati (più il District of
Columbia) in cui la pena di morte è stata abolita?
Non abbiamo dubbi sul fatto che la pena di morte prima o poi verrà abolita in tutti
gli Stati Uniti, vale a dire negli stati che ancora non l'hanno fatto, nonchè a livello
di persone colpevoli di reati federali e sottoposti a giurisdizione militare. Se
ognuno di noi può dare il suo giudizio morale sulla liceità della pena di morte,
quel che è certo è che ogni revisione di processo che porti alla scoperta
dell'innocenza del presunto colpevole (già giustiziato o in attesa di giudizio), ogni
esecuzione di un esponente di una minoranza etnica o di una donna (anche se
bianchi e donne sono stati rispettivamente il 57% e l'1% del totale), e ogni film di
successo (come non ricordare Il miglio verde, il film con Tom Hanks del 1999)
non fa che rafforzare la causa degli abolizionisti. Coloro che sono invece a
favore della pena di morte non potranno mai dimostrare che la pena capitale è
servita come deterrente a nuovi crimini e ha migliorato la società, non esistendo
alcuna controprova certa e definitiva.
Anche nel caso della pena di morte, in realtà, gli Stati Uniti rappresentano una
realtà non univoca e in perenne mutazione. C'è da una parte un grande rispetto
della legge, tanto della lettera quanto dello spirito della stessa. "It's the
law" ("Così dice la legge") è una frase ricorrente tra gli americani, in politica,
nelle aule di tribunali, cos ì come nelle strade e nelle famiglie, quando nel nostro
paese ci si riempe la bocca di "rispetto della Costituzione" (e dell'impossibilità di
modificarla), mentre la fiducia nella legge e della sua applicabilità è praticamente
uguale a zero. E dunque, negli Stati Uniti, finché la pena di morte è legge e
rimane una prerogativa degli stati, questa va applicata fino in fondo (anche se il
buon senso sempre più ne posticipa il momento finale).
Ma dietro alla pena di morte c'è anche, per quanto ciò possa sembrare
contraddittorio, l'ottimistica speranza che l'applicazione della legge sia
effettivamente l'espressione di una volontà popolare, che così controlla le sue
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deviazioni e i suoi eccessi, rendendo possibile la convivenza tra le persona e il
miglioramento della società. Al di là degli eccessi, degli errori, degli intenti
punitivi, dei linciaggi (i famosi mob lynching) razziali e non, insomma di tutti
quegli episodi di cui è punteggiata la storia americana prima e dopo la
Rivoluzione, e che spesso vengono attribuiti allo "spirito della frontiera" e alla
voglia di vigilantismo, resta nella società americana la fiducia nel fatto, quando il
due process of law sia stato rispettato fino in fondo, il risultato non possa che
essere il compimento della giustizia e, nel contempo, un passo verso un mondo
migliore per i law abiders, coloro che la legge la rispettano tutti i giorni.
Personalmente, siamo contro la pena di morte perché riteniamo che non serva a
migliorare la società. Ma restiamo pieni di ammirazione per una società, come
quella americana, che da una parte continua ad applicare le sue leggi fino in
fondo e dall'altra le rimette continuamente in discussione, ma sempre
rispettando, fino in fondo, il due process of law.
06 Aprile 2007 | abolizionisti | nessuno tocchi caino | pena di morte | usa | mondo
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Luci e ombre sulla ricerca
di Luca Codignola
Ieri, 5 aprile, il Consiglio dei Ministri ha approvato la proposta di Fabio Mussi,
ministro dell'Università e della Ricerca, di dare vita a una Agenzia Nazionale di
Valutazione dell'Università e della Ricerca (ANVUR). Anche il disegno di legge n.
1252 sul riordinamento del sistema universitario presentato da Gaetano
Quagliariello prevede l'istituzione di un'Alta Commissione per la Qualità del
Sistema Universitario che dia il suo parere "sulle procedure di accreditamento, di
valutazione e di ripartizione dei fondi". Ne riparleremo quando avremo avuto
modo di verificare quali siano le differenze tra le due proposte.
Nel frattempo ecco le ultime notizie dal mondo della ricerca, alcune buone, altre
cattive. Quella buona è una, ma è importante. Entro il 30 aprile di quest'anno si
chiuderà la procedura per l'assegnazione di ben due milioni di euro a "giovani
ricercatori" nel campo delle scienze umane (programma "Promozione Ricerca
2005" gestito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche). La somma messa a
disposizione, si noterà, è notevole, ed è tanto più benvenuta in quanto si tratta di
uno dei rarissimi casi in cui vengono premiate due caratteristiche che di solito, in
Italia, rappresentano un handicap piuttosto che un valore aggiunto, quelle di
essere a un tempo "giovane" e "umanista". Vale la pena di ricordare che il varo
di questo programma si deve all'ex ministro, Letizia Moratti, spesso accusata di
privilegiare tecnicismo e scienze applicate (qualunque cosa ciò significhi) alla
conoscenza legata alla curiosità (curiosity driven), nonché al ruolo svolto
all'interno del CNR, sotto la presidenza del fisico Fabio Pistella, dal VicePresidente ed ex-Sub Commissario per le scienze umanistiche e sociali, lo
storico Roberto de Mattei.
Il ricercatore che risultasse vincitore del concorso Promozione Ricerca riceverà
fino a un massimo di €15.000 (l'equivalente, più o meno, di un ricercatore
universitario di prima nomina), che è quanto gli consentirebbe di dedicarsi per un
anno intieramente alla ricerca. Visto che la commissione valutatrice, su proposta
del suo presidente, Andrea Di Porto (Direttore del Dipartimento "Identità
Culturale"), ha deciso di premiare soltanto l'eccellenza e di evitare qualsiasi
finanziamento "a pioggia", è prevedibile che saranno intorno a 160 i ricercatori
premiati. In tempi di vacche molto magre per la ricerca, e soprattutto per la
ricerca in campo umanistico, la notizia è dunque di quelle che non esitiamo a
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E ora, sempre dal fronte CNR, una notizia cos ì cos ì. È appena ripartito, dopo
alcuni mesi di sosta, il programma "Mobilità di Breve Durata 2007", il quale
prevede la possibilità per i ricercatori italiani (esclusi i professori ordinari) di
recarsi all'estero per circa tre settimane per programmi scientifici di varia natura,
tra i quali la creazione o il perfezionamento di reti di ricerca. Il fatto che il
programma non sia stato cancellato è dunque da salutare con grande interesse.
Da esso sono però esclusi (e questa è una novità) gli universitari che non siano
"associati" a qualche programma del CNR, vale a dire la maggior parte di loro,
soprattutto tra gli umanisti. Vista la penuria di fondi in cui si trovano gli studiosi
che operano nell'Università, questa è un'ulteriore porta che si chiude e che
potrebbe far pensare a una logica di ulteriore "licealizzazione" dell'Università
italiana.
E ora due notizie decisamente cattive, perché ricadono in una logica tutta italiana
del perenne "rinvio" e della scarsa considerazione per il nostro ruolo negli
organismi scientifici europei e internazionali. Molti dei direttori dei circa 140
istituti di cui si compone il CNR sono da tempo in regime di proroga. I concorsi
per i nuovi direttori sono stati congelati dal ministro Mussi per circa un anno, fino
al giugno 2007. Lo stesso dicasi dei delegati del Presidente del CNR presso i
cinque comitati di ricerca di una struttura del'importanza scientifica della
European Science Foundation. Di questi, sono ben quattro quelli non ancora
nominati (tra cui il delegato alle Scienze Sociali). Chi scrive - lo diciamo tra
parentesi - è l'eccezione alla regola, essendo ufficialmente in ruolo come
delegato nel comitato delle scienze umane. Naturalmente, a livello europeo, tali
inadempienze non passano inosservate e contribuiscono a rendere spesso
minoritaria la voce italiana, anche di fronte a paesi più piccoli, ma efficienti e
sempre presenti negli organismi comunitari, quali i Paesi Bassi, la Finlandia, e
tutti i paesi scandinavi.
06 Aprile 2007 | anvur | cnr | italia | moratti | mussi | ricerca scientifica
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In Canada vincono
i valori della società occidentale
di Luca Codignola
Tre settimane fa, sul sito http://www.magna-carta.it/, avevamo raccontato del
manifesto degli abitanti di Hérouxville, un piccolo comune della provincia del
Québec, in Canada. Questi si rivolgevano ai nuovi e potenziali immigrati,
informandoli che nel loro villaggio vigono le libertà di espressione e di
comportamento del mondo occidentale. A Hérouxville, nessuno è obbligato a
mettersi in maschera o a portare un'arma a scuola; nessuna palestra femminile
deve tappare le sue finestre; a scuola si può anche insegnare biologia ed
evoluzione. E, tanto per chiarire bene il concetto, a Hérouxville una donna può
guidare l'auto, firmare assegni, votare, ballare, decidere, parlare e vestirsi come
vuole ("Canada: un modello liberale per vivere la multiculturalità", 6 marzo 2007)
Avevamo scritto che, nel suo piccolo, il manifesto di Hérouxville significava la
fine di un'epoca per una provincia la cui vita politica era stata dominata dalla
rivalità tra comunità francofona (la stragrande maggioranza) e comunit à
anglofona fin dal 1760, anno della conquista britannica del Canada francese.
Tale rivalità, che aveva avuto in tempi recenti i suoi momenti di punta nei due
referendum secessionisti (1980, 1995), ci pareva essere passata in secondo
piano rispetto alle minacce rappresentate dai nuovi fondamentalismi religiosi.
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pericoli portati al cuore dei principi democratici e liberali su cui si basa la società
occidentale dal nuovo fondamentalismo, soprattutto quello di matrice islamica?
Abbiamo avuto una conferma della nostra idea dal risultato delle recentissime
elezioni che si sono svolte nella provincia del Québec (26 marzo). Se il Partito
Liberale (più o meno l'equivalente del Partito Democratico statunitense) è
rimasto maggiorario (crollando però da 72 a 48 deputati), il Parti Québécois
(quello indipendentista) è anch'esso notevolmente sceso (da 45 a 36 deputati).
Chi ha davvero vinto è stato il partito più giovane, l'Action démocratique du
Québec, che è saltato da 5 a 41 deputati, scalzando i poveri indipendentisti, che
ormai la secessione se la sognano (sempre che l'abbiano davvero voluta), dal
secondo posto che dava loro la veste di Opposizione Ufficiale.
Ma ciò che è davvero interessante è che l'ADQ è un partito conservatore tanto in
politica economica quanto in politica estera, non lontano dalla filosofia
neoconservatrice di Stephen Harper, il primo ministro federale canadese.
Harper, non lo si dimentichi, partito anni fa da posizioni che in Italia definiremmo
"leghiste", si sta dimostrando per ora il miglior primo ministro canadese degli
ultimi anni. E sia Dumont che Harper (al di là della lingua che parlano), sono
apertamente schierati con il Presidente americano George W. Bush. Pur
rivendicando l'autonomia e la differenza del Québec, insomma, Mario Dumont, il
leader dell'ADQ, ha vinto su una piattaforma che mette in secondo piano i vecchi
conflitti anglo-francesi, per concentrarsi sulla condivisione dei valori occidentali a
tutti i livelli. Il ruolo dell'ADQ sar à ora tanto più importante in seno al governo
della provincia, in quanto il primo ministro liberale, Jean Charest, è ora costretto
a mettere in piedi un governo di coalizione a due, cosa che nel Qu ébec non
succedeva dal 1878.
Per finire, alcuni sassolini mediatici. Chi parla e scrive di Canada e di Qu ébec
farebbe bene a informarsi un po' meglio per evitare almeno ovvietà, per non dire
errori marchiani. Paola Bernardini (La Repubblica, 28 marzo), scrivendo da
Toronto (fonti: Globe and Mail e CBC?), ci racconta che a "Quebec City" (parola
che non esiste nella nostra lingua, come se alle Olimpiadi invernali avessero
scritto "Turin City") si è svolta una battaglia tra "separatisti" e "autonomisti" la cui
posta era l'unione con il Canada. Una spiegazione che poteva andare bene,
forse, negli anni ottanta.
Ségolène Royal, candidata alla presidenza della Repubblica Francese, appoggia
pubblicamente il candidato del Parti Québécois, André Boisclair, e la sovranità
della provincia, forse tentando di copiare quanto il Presidente Charles de Gaulle
aveva fatto il 24 luglio 1967 dal balcone del municipio di Montréal (ma sono
passati 40 anni e gli indipendentisti sono da tempo perdenti!). Cara Ségolène,
ancora una volta hai puntato sul cavallo sbagliato.
E Paola De Carolis (Corriere della Sera, 29 marzo), ci informa che il poeta
Leonard Cohen viene "da un monte sopra Montreal". Immagino intenda la
cosiddetta "Montagne" (Mountain in inglese), la collinetta che sorge in pieno
centro città. Come dire che chi nasce a Monte Mario a Roma o sul Monte Stella
a Milano viene "dalle montagne". Per favore, date almeno un'occhiata a Google,
per non dire a una Garzantina.
05 Aprile 2007 | canada | elezioni | hérouxville | islam | occidente | mondo
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La riforma ci avvicina
alle università più
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prestigiose del mondo
di Luca Codignola
Il disegno di legge sul riordinamento del sistema universitario presentato da
Gaetano Quagliariello (consultabile sul sito http://www.magna-carta.it/) presenta
un elemento fondamentale che lo rende immediatamente condivisibile e che ci
convince a sostenerlo. Esso prevede infatti l'abolizione del valore legale di tutti i
titoli di studio acquisibili attraverso gli istituti di istruzione superiore, ivi compreso,
naturalmente, il diploma di laurea. È questa la chiave di volta di qualsiasi
sostanziale cambiamento del nostro sistema universitario. Ed è questa validità
legale che perpetua la finzione giuridica secondo la quale un fisico di Pavia è
uguale a un fisico di Perugia, o un ingegnere di Torino uguale a un ingegnere di
Catania. O che un 110 e lode di un latinista di Genova sia identico a un 110 e
lode di un latinista di Macerata. Se i paragoni di cui sopra sono naturalmente
inventati di sana pianta, tutti coloro che operano nel mondo universitario, così
come gli studenti più avveduti e intelligenti, sanno bene che i valori sostanziali
dei docenti, delle facoltà, dei corsi di studio e in ultima analisi delle università
rappresentano da sempre una realtà a dir poco diversificata.
Lo sanno benissimo anche gli operatori del settore privato, a cui non basta il
pezzo di carta del candidato al posto di lavoro, ma che vogliono sapere
esattamente con chi il candidato ha studiato, che cosa ha scritto, a che progetti
ha lavorato, in che laboratori ha imparato il mestiere, e, in ultima analisi, chi sono
stati i suoi docenti. L'unico soggetto istituzionale che prende ancora per buono il
pezzo di carta timbrato e bollato è il settore pubblico, per il quale il diploma
costituisce un titolo legale che si traduce in punteggio, che a sua volta produce
scatti di carriera e promozioni. Da cui, per esempio, lo scandalo dei crediti
universitari venduti dalle università ai dipendenti della pubblica amministrazione,
denunciati dalla giornalista Milena Gabanelli già nella puntata del 28 maggio
2006 di Report, la trasmissione di cui è l'autrice e la conduttrice.
L'abolizione del valore legale dei titoli di studio sostituisce dunque all'uguaglianza
fittizia e burocratica la vera uguaglianza di tutte le sedi universitarie, le quali,
private della protezione della loro apparente identica personalità giuridica, sono
costrette a rimettersi in discussione e in competizione una con l'altra, per
aggiudicarsi i migliori docenti e i migliori studenti. Le università di serie A, di serie
B e di serie C già esistono. L'abolizione dell'uguaglianza dei loro diplomi non farà
che metterne a nudo le differenze e spingerle a migliorare.
Un altro elemento di grande importanza del disegno di legge presentato da
Quagliariello è quello relativo all'insieme di quattro elementi, strettamente legati
tra loro: l'equiparazione delle strutture pubbliche e private (rispetto
all'accreditamento e all'accesso ai finanziamenti pubblici), l'effettiva autonomia
finanziaria delle sedi universitarie, le quali avrebbero la possibilità di utilizzare in
maniera strutturale finanziamenti a carattere privato; la rimodulazione delle rette
scolastiche; e l'accesso a prestiti per i più meritevoli.
Circa i finanziamenti privati, vale la pena di ricordare che in Inghilterra il primo
ministro Tony Blair ha annunciato, ai primi di febbraio 2007, una svolta proprio
nella medesima direzione, promettendo alle università una sterlina di
finanziamento per ogni due sterline che queste riusciranno a procurarsi per conto
loro (secondo il principio dei matching funds), soprattutto per la via delle
donazioni private degli ex-allievi. Questa delle donazioni degli ex-allievi (che
naturalmente traggono dalle loro donazioni cospicue agevolazioni fiscali) non è,
si badi bene, una tradizione britannica, ma l'esempio degli Stati Uniti e del
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Canada, dove le singole sedi si finanziano con un misto di finanziamenti pubblici,
donazioni private e rette scolastiche, è davanti agli occhi di tutti, anche a quelli di
Blair, che ha fatto della riforma del settore dell'istruzione in genere una delle
legacies che intende lasciare al paese.
Vogliamo fare l'esempio della migliore università al mondo? L'anno scorso un
terzo dei costi operativi della Harvard University (595 milioni di dollari) è stato
coperto dalle donazioni di 89.000 ex-studenti, delle quali il 62% ammontavano a
meno di 100 dollari. Negli Stati Uniti, soltanto l'aiuto a cause di tipo "religioso" è
superiore all'ammontare delle donazioni a favore dell'istruzione. Harvard
University non è infatti la sola. Ogni anno negli Stati Uniti sono oltre duecento le
università che ricevono oltre 100 milioni di dollari dai loro ex-studenti. Se posso
permettermi di citare il mio caso personale, dal momento della mia laurea non ho
mai mancato di inviare il mio modesto assegno all'università nordamericana
presso la quale ho studiato -- e ciò per semplice gratitudine, visto che qui in Italia
non posso nemmeno detrarre tale donazione dalle mie tasse. Il nuovo disegno di
legge sembra aprire le porte proprio in questa direzione.
Per quanto riguarda la rimodulazione delle rette, secondo il disegno di legge
Quagliariello la loro modulazione sarebbe libera per le università private, ma non
per le università che godessero di finanziamenti pubblici. Per queste ultime
sarebbe il Ministero a stabilire l'entità dei massimi richiedibili agli studenti, in una
logica da affirmative action legata soprattutto alle fasce di reddito degli studenti.
Ed è ancora il principio delle fasce di reddito a condizionare l'assegnazione delle
borse di studio ai più meritevoli. Insomma, se la tua famiglia è "ricca", paghi la
retta completa, meritevole, fannullone, incapace o geniale che tu sia; se sei
"povero", ma meritevole, allora hai diritto a un prestito che può arrivare a coprire
la tua intera carriera universitaria, che ripagherai poi con i tuoi futuri guadagni.
Secondo noi, la filosofia delle fasce di reddito dello studente può essere uno
degli elementi presi in considerazione nell'eventuale assegnazione di un prestito,
ma non deve assolutamente essere né l'unico n é il più importante. Altrimenti si
perpetua anche in questa riforma "liberale" la categoria tutta italiana degli
studenti "giovani" fino a 30/35 anni, i quali, nonostante la loro maggiore età sia
stata stabilita a 18 anni, continuano a dipendere alla famiglia di origine senza
avere alcuna autonomia gestionale della loro vita. Considerare il reddito della
famiglia nell'assegnazione dei finanziamenti impedisce l'autonomia dello
studente e di fatto lo discrimina.
Il problema non è applicare rette scolastiche "politiche" o premiare i "poveri", ma
piuttosto consentire a tutti i meritevoli di partecipare prima a un concorso di
ammissione all'università, e quindi a un concorso per un prestito che li seguirà
per tutta la loro vita universitaria. Forse, ancora una volta, non sarà casuale che
la retta di Harvard University sia di circa 45,000 dollari all'anno per tutti, ma che
la percentuale di studenti delle classi meno privilegiate che riescono a iscriversi e
a proseguire fino in fondo i loro studi sia ben più alta di quella degli universitari
italiani, che sono praticamente ancora fermi a quel 6% di figli della classi a pi ù
basso reddito, contro cui già si batteva il movimento studentesco della fine degli
anni sessanta.
Su altri elementi qualificanti del disegno di legge (l'Alta Commissione per
l'accreditamento e la valutazione, il ruolo del Ministero, il numero chiuso, le
griglie disciplinari minime, il reclutamento e la retribuzione dei docenti) ci
riserviamo di intervenire in un'altra occasione. Quello della riforma dell'università
è da troppo tempo un nodo fondamentale della progettazione di un nuovo paese,
e naturalmente i ritocchi a un disegno di legge sono sempre possibili. Ma senza
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dubbio il disegno di legge che abbiamo letto va nella direzione giusta e va
appoggiato fin d'ora fino in fondo.
[email protected]
29 Marzo 2007 | italia | quagliariello | università
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Gli antenati schiavisti di Barak Obama
di Luca Codignola
Immaginate che al momento dell'elezione del Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, qualcuno avesse tirato fuori il suo albero genealogico. E
avesse magari scoperto che, cinque generazioni or sono, i suoi antenati erano
dei latifondisti sfruttatori di braccianti. Forse che ciò gli avrebbe alienato i voti dei
suoi ex-compagni del Partito Comunista Italiano? O, peggio, che un suo bis-bisbis-bisnonno avesse partecipato al fianco di Giuseppe Garibaldi e Nino Bixio alla
conquista del Sud Italia. Avrebbe così perso, nonostante il suo cognome,
l'appoggio dei parlamentari meridionali?
Tali possibilità non ci sarebbero nemmeno venuto in mente, se non fosse che
pochi giorni fa, negli Stati Uniti, qualcuno ha cercato di minare la popolarità del
candidato presidenziale, Barack Hussein Obama, mostrando che prima della
Guerra Civile (1861-1865) due o più tra i suoi antenati per parte di madre erano
proprietari di schiavi. Che il colpo sia andata a segno lo prova il fatto che il
povero Obama, quasi fosse colpa sua, ha subito cercato di difendersi, spiegando
che lui, pur afroamericano (madre del Kansas e padre del Kenya), aveva sì degli
antenati schiavisti, ma anche altri avi che avevano invece eroicamente
combattuto con le armate del Nord per la liberazione del Sud dall'infamia della
schiavitù.
Ora, è vero che nella Bibbia le maledizioni venivano allegramente (e
tragicamente) dispensate di padre in figlio "fino alla decima generazione". Ma si
trattava comunque di qualche millennio fa, quando ancora popolazioni intiere
venivano massacrate per vendicare le presunte colpe di alcuni. Da allora il
mondo occidentale ne ha fatta di strada, almeno sul piano del diritto
dell'individuo a essere giudicato soltanto per ciò di cui è direttamente
responsabile. Insomma, se il nonno di Obama aveva degli schiavi, lui che colpa
ne ha, e perché questo dovrebbe costargli dei voti?
Quello dell'uso della storia a consumo della politica è un problema ben noto. Si
pensi soltanto a quanto è successo qualche anno fa quando si è trattato di
ricordare Cristoforo Colombo e il cinquecentenario della scoperta dell'America.
Più che un'occasione di indagine storica, le "celebrazioni" si sono trasformate in
un atto di contrizione collettivo da parte del mondo occidentale. Nessuno nega
che molti indiani abbiano sofferto a causa di violenze e ingiustizie direttamente
legate all'arrivo degli europei nel Nuovo Mondo. La ricerca storica serve anche a
descrivere quelle violenze e quelle ingiustizie. Ma, francamente, che cosa
c'entrano gli americani o gli europei di oggi? Siamo forse tornati alle
incancellabili colpe dei popoli, ai manifesti destini delle nazioni, alle innate
caratteristiche delle civiltà? Forse che il fatto di essere nato a Genova come
Colombo mi trasmette automaticamente le sue colpe e i suoi peccati?
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è che ciascuna comunità ha un suo momento identitario fondante del quale un
numero consistente di persona ritengono di non poter fare a meno. (Si pensi agli
odi etnici dei paesi balcanici, tanto per dirne una, le cui origini si perdono nella
notte dei tempi.) Negli Stati Uniti, per la comunità di origine europea sia la
Rivoluzione Americana (1776-1783) che la Guerra Civile restano dei momenti
fondamentali di identità. Ed è proprio da tale necessità identitaria che nascono
tanto le accuse di traslato schiavismo rivolte a Obama, il candidato presidenziale
di origine afroamericana (che di quell'etichetta farebbe volentieri a meno), quanto
la sua risposta, che implicitamente prende sul serio tali assurde accuse.
Invece in Italia a nessuno (se non ad alcuni storici o genealogisti) importa sapere
se gli antenati di Napolitano siano per caso stati dei latifondisti o dei garibaldini,
perché la nostra identità nazionale e comunitaria non va oltre il 1945. Ormai non
riusciamo più a identificarci con nessun altro momento della nostra storia.
L'impero romano, il Rinascimento, il Risorgimento, l'Unità d'Italia, il Piave,
Alberto da Giussano e i Vespri Siciliani ormai non interessano più nessuno.
Dopo tanta orgia di nazionalismo patriottardo, siamo tornati a essere una
penisola, un luogo geografico, un grande condominio, dove i ricordi comunitari
non vanno più indietro di ciò che hanno vissuto i nostri nonni.
E forse è meglio così. Noi non c'entriamo niente con quello che hanno fatto, di
bene o di male, quei nostri antenati che non abbiamo mai conosciuto. Non
dobbiamo sentirci in colpa per i delitti da loro commessi né gloriarci delle loro
epiche imprese. Se l'indebolimento dell'identità comunitaria è il prezzo da pagare
per ottenere più tolleranza, più rispetto reciproco e più libertà, per migliorare in
sostanza il livello di convivenza civile tra gli individui, ben venga l'affievolirsi del
senso di appartenenza a una propria comunità distinta.
Ciò non toglie che sarebbe ancora meglio se non fossimo costretti a "dimenticare
per meglio convivere", e se il ricordo (per il tramite dell'esperienza personale) e
la conoscenza (per via del patrimonio storico e culturale) di quanto hanno fatto,
sofferto e goduto i nostri genitori e progenitori rimanesse con noi il più a lungo
possibile e informasse le nostre azioni e i nostri pensieri. Noi non siamo
responsabili del nostro passato, ma non siamo nemmeno la prima generazione
in terra.
25 Marzo 2007 | barak obama | elezioni americane | usa | mondo
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Antiamericani
a ogni costo
di Luca Codignola
Il direttore del Tg1 raccoglie e immediatamente mette in onda informazioni sui
mandanti del terrorismo internazionale provenienti nientedimeno che da un ex
agente della Cia, recentemente pentitosi. "Trattandosi dell'attuale presidente
degli Stati Uniti, e della Cia, [il Tg1] non ha sentito nessun bisogno di cautele.
Evidentemente, per lui è pacifico che gli Stati Uniti siano la dimora abituale di
Satana e che il governo federale sia una manica di canaglie. Del resto, non è
l'unico in Italia a pensarla così; se c'è un punto su cui comunisti e fascisti, eretici
chic del Manifesto e parroci sempliciotti di campagna possono trovarsi d'accordo
è nel gettare ogni sorta di colpe sugli Stati Uniti, con un trasporto viscerale pari
alla loro ignoranza beata della realtà americana".
Lo avete perso quel servizio del Tg1? Vi si parlava forse dell'ex-ministro
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magari di accordi segretissimi tra la Cia e Osama Bin-Laden? E naturalmente vi
si metteva in cattiva luce il presidente George W. Bush? No, probabilmente quel
servizio del Tg1 l'avete soltanto dimenticato, visto che è stato mandato in onda
diciassette anni fa dal democristiano Nuccio Fava, allora direttore. Si era ai primi
d'agosto del 1990, e il presidente americano era "Bush il vecchio", George
Herbert Bush. La Guerra del Golfo era appena scoppiata: il 2 agosto infatti l'Iraq
di Saddam Husseim aveva invaso il Kuwait. (L'attacco all'Iraq della coalizione
multinazionale comincer à nel gennaio successivo.) Ma come sono ancora attuali
le parole dell'autore della citazione, lo storico fiorentino Giorgio Spini, allora
anziano professore in pensione , settantaquattro anni, notista occasionale del
Messaggero, che, poche righe più sotto aveva aggiunto: "Calunniate, calunniate
qualcosa resterà . Qualcosa è [infatti] restato degli ettolitri di antiamericanismo
frenetico con cui i comunisti hanno fatto per decenni il lavaggio dei cervelli".
Eppure Spini (che è morto nel 2006), non era un vecchio reazionario, ma, al
contrario, era una persona che aveva interpretato tutta la sua lunga vita come
una "ricerca di libertà ", tanto come uomo, che come storico, che come ministro
metodista. Aveva partecipato in prima persona alla Guerra di Liberazione, era
stato membro del partito d'Azione e poi del Partito Socialista Italiano. Aveva
scritto sugli Stati Uniti e aveva soprattutto cercato di rompere quel muro di
ignoranza e di malafede che i democristiani avevano ereditato dal fascismo e
dalla chiesa cattolica preconciliare, e che i comunisti avevano mutuati dalle loro
distruttive utopie pansovietiche. I suoi soggiorni nelle università americane degli
anni sessanta lo avevano fatto innamorare della Nuova Sinistra e addirittura del
Black Power.
Diciassette anni dopo, alla vigilia del dibattito parlamentare sulla conferma
dell'impegno italiano in Afghanistan, siamo allo stesso punto. "Comunisti e
fascisti, eretici chic del Manifesto e parroci sempliciotti di campagna" sono di
nuovo uniti, non nella lotta ai talebani, ma in quella agli Stati Uniti.
07 Marzo 2007 | afghanistan | antiamericanismo | iraq | stati uniti | tg1 | mondo
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Canada, un modo liberale
per vivere la multiculturalità
di Luca Codignola
Ci sono due motivi per cui forse potreste aver sentito parlar di Hérouxville, un
villaggio di 196 anime sepolto dalla neve sei mesi all'anno, a circa 200 km a nord
di Montréal, nella provincia canadese del Québec. Uno è che voi facciate parte di
quelle comitive di europei (italiani in testa) attratti dall'esotico invernale
rappresentato dal Canada, e che dunque amiate traversare in motoslitta
(motoneige) o su slitte trainate da huskies le foreste quebecchesi.
L'altro motivo è che sia arrivata anche a voi notizia della mozione passata in
consiglio comunale il 25 gennaio scorso, una sorta di manifesto da distribuire a
coloro che eventualmente avessero in mente di andare a vivere proprio a
Hérouxville senza essere pure-laine (del posto): in parole povere, ai nuovi
immigrati. Il messaggio è fin troppo scoperto, nella sua ingenuità . Vi si ricorda
che qui nessuno è obbligato a mettersi in maschera, anche se a Hallowe'en ciò è
consentito. Che qui nessuno è obbligato a portare un'arma a scuola, anzi, che la
cosa è proprio proibita, anche se si trattasse di un pugnale cerimoniale (altro che
Bowling a Columbine). Che qui nessuna palestra è obbligata a tappare le finestre
per non consentire la visione di donne discinte che fanno ginnastica. E che qui a
scuola si può anche insegnare biologia ed evoluzione. Inoltre, che qui a
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decidere, parlare e vestirsi come vuole. Insomma, cari fondamentalisti, siate voi
musulmani, sikh, ebrei o cristiani, se venite a stare a Hérouxville, sappiate che
questo è un paese in cui vigono le libertà di espressione e di comportamento del
mondo occidentale.
Francamente, come dare torto alla gente di Hérouxville? Con quote di 250.000
nuovi immigrati che entrano in Canada ogni anno, pi ù una quota illimitata di
rifugiati politici, quasi tutti provenienti da luoghi in cui il fondamentalismo religioso
è all'ordine del giorno, come può anche il paese più piccolo e sperduto ritenersi
immune da quello che sembra essere il vero problema del mondo occidentale: la
ricerca (o il rifiuto) della convivenza tollerante tra gli individui? Sarebbe per ò
sbagliato trattare il caso di Hérouxville come una curiosità folkloristica. Il Qu ébec
non è l'Alabama degli anni sessanta, e i francofoni della Mauricie non hanno
niente a che spartire con i razzisti del Ku Klux Clan. Hérouxville non è un ritorno
al passato, ma, purtroppo, una finestra sul futuro.
Il manifesto di Hérouxville è tanto più interessante in quanto nasce in un paese
che credeva di avere anticipato di una generazione i nuovi problemi delle società
multiculturali in cui oggi si dibatte il mondo occidentale, un paese che aveva
proposto e applicato soluzioni apparentemente moderne, illuminate e,
soprattutto, funzionanti. Trent'anni fa (e fin dal 1760), il vero e unico problema
del Canada sembrava essere quello della secolare rivalità tra maggioranza
anglofona e minoranza francofona (quest'ultima per ò maggioranza nella propria
provincia di origine, il Québec).
Ad alcuni, tra cui il primo ministto Pierre Elliot Trudeau (1968-1979, 1980-1984)
parve che l'unica soluzione fosse quella di stemperare tale rivalità facendo del
Canada (per legge, si badi bene) un paese multiculturale in cui fossero garantiti i
diritti non soltanto degli individui (il che già avviene da tempo tramite la legge e la
sua applicazione), ma anche delle comunità di appartenenza, il che significava
soprattutto la propria comunità etnica (francofoni, indiani, meticci, inuit, italiani,
vietnamiti) e religiosa (sikh, musulmani, ebrei, cattolici, protestanti).
Ad altri, tra cui gli indipendentisti del Québec e il loro primo ministro provinciale,
Pierre Lévesque (1976-1985), parve invece che non ci potesse essere altra
soluzione che la secessione della provincia, sola garanzia di essere maà
06 Marzo 2007 | canada | fondamentalisti | immigrati | multiculturalità | mondo
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D'Alema al Senato come al tempo degli indiani
d'America
di Luca Codignola
In un mondo perfetto, il discorso tenuti ieri, 21 gennaio, di fronte al Senato dal
ministro degli Affari Esteri, Massimo D'Alema, avrebbe anche potuto essere
considerato non solo un miracolo (poi mancato) di ingegneria politica, ma anche
un buon discorso sui grandi principi della politica estera: il rifiuto della guerra
sulla base dell'art. 11 della Costituzione, la scelta di fare dell'Italia "un soggetto
attivo nella complessa architettura di istituzioni e di alleanze internazionali", cio è
l'Organizzazione delle Nazioni Unite e la North Atlantic Treaty Organization. Per
non parlare del rilancio dell'unità europea, della necessità di una svolta in Medio
Oriente nella lotta al terrorismo, e dell'allargamento negli orizzonti delle relazioni
internazionali. Per finire con l'insistenza sul fatto che la presenza italiana in
Afghanistan sarebbe missione "innanzitutto politica e civile" delle Nazioni Unite,
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militare". Ma non siamo in un mondo perfetto, e nessuno lo ha ascoltato.
Un discorso caduto nel vuoto
Tutti sapevano già prima se avrebbero votato a favore o contro. A dire il vero,
forse D'Alema ha trovato più ascoltatori tra i banchi della destra, che qualche
giorno aveva sostenuto il governo sulla decisione di approvare l'allargamento
della base americana a Vicenza. Ma certamente non ascoltavano D'Alema
coloro che fanno (facevano) parte della sua coalizione di governo. Non lo
ascoltavano, soprattutto, quei senatori i cui leader di partito avevano partecipato
soltanto quattro giorni or sono, il 17 febbraio, alla manifestazione di Vicenza, il
cui scopo principale era proprio quello di forzare la mano al governo stesso. Non
lo ascoltavano coloro che rappresentano quel 27 per cento di italiani del
centrosinistra i quali, sempre e comunque, dichiarano di essere sempre e
comunque contrari agli Stati Uniti, qualunque sia il governo in carica (fonte:
Osservatorio di Renato Mannheimer, Corriere della Sera, 29 febbraio). Qualsiasi
cosa avesse detto D'Alema, qualsiasi sentimento di pace, libertà e fraternità
universale avesse evocato, ciò che soltanto interessava i suoi oppositori (eppur
partecipanti al suo governo) era ribadire che i veri nemici del mondo civile non
sono i talebani, non sono i terroristi, non sono i lanciatori di razzi kassam, non
sono tagliatori di teste e i violentatori del Darfur, non sono coloro che proclamano
di voler distruggere Israele e preparano testate nucleari a quello scopo -- ma,
sempre e soltanto gli americani, e, come taluni noti libertari e fautori dei diritti
civili usavano dire prima del 1989, i "loro lacché", vale a dire gli israeliani.
Il governo senza rappresentanza
Ma che razza di rappresentatività internazionale può avere un ministro degli
esteri di una coalizione di tal fatta? Chi mai si può fidare di un governo che non
rappresenta nemmeno se stesso? Come può funzionare, in queste condizioni, la
collaborazione anti-terrorismo tra i servizi segreti italiani e quelli del resto dei
paesi della NATO, quando non si sa bene chi e quali interessi rappresentino i
nostri uomini, e soprattutto quanto dureranno prima che si proceda alla loro
sistematica delegittimazione da parte del governo stesso?
E che cosa pensava davvero l'ambasciatore americano Ronald P. Spogli,
quando pochi giorni or sono ha stretto la mano a D'Alema sostenendo che le
passate divergenze erano state superate e che i due governi avevano superato
le loro divergenze? Forse l'ambasciatore è riandato alle sue lezioni di storia
americana e alle somiglianze con quanto succedeva nel suo paese al tempo
delle guerre indiane del periodo coloniale. Anche allora le due parti,
contrariamente a quanto vuole la vulgata terzomondista, passavano la maggior
parte del loro tempo non a combattere, ma a negoziare politiche di buon vicinato.
I negoziatori si sedevano intorno al falò e fumavano la pipa della pace, facevano
discorsi e si scambiavano doni. Poi ognuno se ne tornava a casa propria. Ben
presto tutti si accorgevano che nessun problema era stato risolto, perché i
negoziatori bianchi non riuscivano a controllare i loro fuorilegge, e i capi indiani
rappresentavano soltanto se stessi e la piccola banda che si portavano dietro. Il
vero scoglio era quello della reale rappresentatività dei negoziatori. E le accuse
di "indiani infidi e traditori" e di "bianchi dalla lingua biforcuta" fioccavano.
Il ministro delle buone intenzioni
Insomma, D'Alema pu ò anche essere una persona "who means well", come si
dice in inglese, "dalle buone intenzioni". Ma come può (o poteva) proclamare la
sua affidabilità di alleato nei confronti degli Stati Uniti e della NATO, quando non
è mai riuscito, ma proprio mai, a parlare con una voce univoca e a prendere
decisioni di conseguenza? Ma davvero siamo così ingenui da pensare che il
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accorti che ognuna delle disparate forze che componevano il governo presieduto
da Romano Prodi non parlava che per se stessa? E che alle loro spalle ogni
banda indiana diceva (e faceva) quello che voleva?
Luca Codignola
22 Febbraio 2007 | centrosinistra | d'alema | israele | italia | senato | usa
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Il vero negazionismo di oggi è la difesa dei nuovi
fascismi del mondo
di Luca Codignola
Il recente dibattito sulla messa al bando del cosiddetto "negazionismo" per legge
ha messo in ombra la vera natura del "negazionismo" del giorni nostri. Che non è
quello di pochi e insensati individui i quali, o perché in cattiva fede o perché
semplicemente ignoranti, fanno finta di credere che sotto il regime nazista in
Germania e fascista in Italia non ci sia stata né persecuzione degli ebrei, né sia
stato operato un tentativo di pulizia razziale che ha prodotto milioni di morti. E
neppure quello di quell'incalcolabile numero di persone che difendono o
addirittura appoggiano il primo ministro iraniano Mahmoud Ahmadinejad, nel suo
tentativo di negare l'avvenimento del genodicio ebraico allo scopo di preparare la
prossima distruzione di Israele.
I veri "negazionisti" dei nostri giorni sono coloro i quali non vedono e non
vogliono vedere quanto sta succedendo sotto i loro occhi. Quei benpensanti che,
convinti, purtroppo in buona fede, di rappresentare essi soltanto i pi ù antichi e
tradizionali valori della cosiddetta sinistra, libertaria e socialista, non si rendono
conto di essere passati dalla parte del vero nemico di quei valori, facendosi
alfieri, difensori e soccorritori dei peggiori regimi fascisti, reazionari e sanguinari
del mondo intero, dimostrando in ciò di non essere in fondo molto diversi dal
presidente francese, Jacques Chirac, che certo di sinistra non è mai stato,
quando questi minimizza il possibile pericolo rappresentato da una o due bombe
atomiche iraniane, che tutt'al più potranno dirigersi verso Israele.
Ricordate il 15 e 16 febbraio 2003 e i milioni di benpensanti (termine un tempo
usato a indicare la destra bigotta e reazionaria) scesi in piazza a protestare in
ottocento città del mondo occidentale contro l'imminente attacco alleato all'Iraq?
Non a marciare contro Saddam Hussein, il sanguinario dittatore fascista che
aveva massacrato centinaia di migliaia dei suoi concittadini e tentato di
sterminare la razza curda, il quale governava con l'aiuto della polizia segreta,
attaccava i paesi vicini, e proclamava giorno dopo giorno di avere ormai pronta
l'arma atomica da scatenare contro Israele e i nemici occidentali. Non a inveire
contro Al-Qaeda e i suoi terroristi oscurantisti e reazionari. Non a denunciare gli
attentatori palestinesi, suicidi o non, istigati da Hamas e Hezbollah. No, la grande
protesta di massa dei nostri socialisti utopisti era diretta alla decisione dai due
governi di due tra i paesi più democratici e liberali del mondo occidentale di porre
fine, una volta per tutte, a una dittatura che aveva poco da invidiare, in quanto a
crudeltà , al nazifascismo degli Hitler e dei Mussolini.
Ma quello che forse è ancora peggio è che questa autoproclamatasi sinistra
liberale e libertaria ha continuato, anche dopo la caduta del regime di Saddam, a
boicottare tutti i tentativi di rendere possibile il ritorno alla normalità del paese
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10/04/2007
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costituzione, la repressione del terrorismo e il tentativo controrivoluzionario di
riportare al governo del paese il regime fascista liquidato dall'intervento alleato. A
ogni scoppio di bomba terrorista -- in un mercato, un bar, un ristorante, una
moschea rivale -- a ogni massacro perpetrato contro le forze militari occidentali o
contro altri musulmani, militari o civili, dai giornali lib-lab si leva un coro
compiaciuto di "l'avevamo detto noi", ricordo crudele dell'ironico "si stava meglio
quando si stava peggio" del nostro ultimo dopoguerra.
Quella sinistra che un tempo invocava l'internazionalismo proletario e
l'esportazione della rivoluzione per il bene dell'umanità , e che in tal nome ha per
decenni difeso a spada tratta altri regimi sanguinari quali quelli di Ioseb
Jughashvili detto Stalin in Unione Sovietica e di Mao Tse-Tung in Cina, ora si
piega su se stessa e si riduce a una comunità di benpensanti egoisti che ha
come unica parola d'ordine quella di lasciare che i disperati, i perseguitati, i
massacrati se la sbrighino tra di loro -- in Yugoslavia come nel Darfur, in Somalia
come in Iraq.
E' questo il vero "negazionismo" di oggi. Quello che ha portato la sinistra del
mondo, unita soltanto dalla bandiera del comune anti -americanismo,
espressione massima di un anti-occidentalismo suicida, a ergersi a difensore dei
fascismi del mondo, a proclamare da una parte la condanna del terrorismo
quando questo è astratto, ma dall'altra a scusare i terroristi "che non sanno
quello che fanno", se non addirittura a inventarsi fandonie quale quella che
vorrebbe l'attentato alle dell'11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York il
risultato di una congiura giudeo-pluto-americana. Questo è il vero
"negazionismo" globale, incredibilmente giustificato e aiutato dalla sinistra
benpensante, da cui oggi dobbiamo guardarci e che dobbiamo combattere, non
quello di quei pochissimi, storici e non, che continuano a far finta di non sapere a
che cosa servissero i forni crematori di Auschwitz e di Treblinka.
02 Febbraio 2007 | negazionismo | cultura
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Antiamericanismo e antisemitismo tra gli
americanisti europei
di Luca Codignola
Che il pregiudizio antiamericano sia moneta corrente tra gli americanisti europei
non ci stupisce più. Ne abbiamo recentemente scritto proprio in queste pagine
("Lo sport preferito dagli americanisti? Parlar male dell'America, 17 gennaio). La
polemica divampata sui due ultimi fascicoli del Journal of American History, la
rivista della Organization of American Historians, l'associazione che raggruppa
gli storici che si occupano di Stati Uniti (anche all'estero) rafforza, purtroppo, il
nostro convincimento.
Nel numero di settembre 2006 il Journal of American History offriva ospitalità a
un intervento di Rob Kroes dal titolo "European Anti-Americanism: What's
New?", con il quale il sociologo olandese si era congedato dall'insegnamento.
(La conferenza originale aveva avuto luogo il 5 settembre dell'anno prima di
fronte al pubblico del Programma di Studi Americani .della Università di
Amsterdam.) Tanto la presentazione di David Thelen, già direttore della rivista,
quanto i brevi interventi a commento dell'articolo di Kroes, si risolvevano
sostanzialmente in un attacco in piena regola al presidente George W. Bush e
alla sua politica estera, la cui essenza verrebbe simboleggiata dal fioccare di
bandiere americane sventolate al Super Bowl di football, equiparate senza mezzi
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10/04/2007
L'Occidentale | Orientamento quotidiano
Pagina 14 di 14
alle Olimpiadi hitleriane del 1936.
L'articoli di Kroes è un inno all'Europa, intesa come coscienza critica del mondo
occidentale. (L'altra metà dell'Europa, quella cioè che si schiera a favore della
politica americana e lo dimostra democraticamente con il voto, naturalmente non
viene nemmeno menzionata.) Secondo Kroes, in Europa la stampa sarebbe più
libera e meno inficiata da pregiudizi (e qui i riferimenti sono a Le Monde ,
Guardian, Financial Times, Independent, Frankfurter Allgemeine , nonché
ovviamente alla New York Review of Books). L'Europa avrebbe posto fine alla
Guerra dei Balcani ("sotto gli auspici della NATO"). I suoi cittadini si sentirebbero
"oltraggiati" dalle immagini provenienti dal Medio Oriente, le quali mostrerebbero
"l'ingiustizia e la mancanza di equilibrio della politica americana" nella regione.
Naturalmente, dell'Europa "critica" non farebbe parte Israele, la cui politica viene
equiparata a quella americana "nel ricordare le immagini delle rappresaglie
tedesche contro i villaggi" e "la politica di dominazione nazista".
Non che tutti i lettori del Journal of American History abbiano fatto salti di gioia
alla lettura dell'articolo di Kroes. Nell'ultimo numero (dicembre 206), appena
uscito, sono apparse due lettere in aperta polemica con il Journal of American
History, tutte e due, forse non casualmente, firmate da lettori appartenenti alla
comunità ebrea (Harold Brackman del Simon Wiesenthal Center di Los Angeles
e Doron Ben-Natan della Fordham University). Essi hanno protestato non
soltanto contro il fatto che che una rivista scientifica di storia avesse dedicato
ben cinquanta pagine a una polemica di stampo direttamente politico (per di pi ù
avallando la tesi di Kroes con la firma di un suo ex direttore), ma soprattutto
contro l'equiparazione tra gli Stati Uniti di Bush e l'Israele di Sharon/Olmert da
una parte con il nazismo di Adolf Hitler dall'altra
Insomma, tutto ciò appare come un ulteriore passo nella saldatura tra
antiamericanismo e antisemitismo, quello sì cos ì comune al tempo dei regimi
nazifascisti europei e oggi luogo comune tra gli islamo-fascisti dei giorni nostri.
Resta la sorpresa che proprio gli americanisti europei siano in prima fila in
questa rilettura reazionaria e profondamente ingiusta della nostra storia recente
e delle vicende politiche dei nostri giorni.
26 gennaio 2007 |
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