Confessione inconfessabile: la città democratica e il diritto al segreto
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Confessione inconfessabile: la città democratica e il diritto al segreto
Confessione inconfessabile: la città democratica e il diritto al segreto Joana Masó Universitat de Barcelona Ci sono scrittori per i quali una città, prima di qualsiasi altra cosa, è un avvenimento. Gli accadimenti del maggio del '68 nella Parigi di Maurice Blanchot; le insurrezioni contro la colonizzazione francese nelle città algerine del filosofo Jacques Derrida e della scrittrice Hélène Cixous; o la città di Bordeaux, dove Mercè Rodoreda aveva vissuto la notizia della ritirata tedesca l'anno 1944, che avrebbe reso possibile quella “febbre di scrivere” 1 che non l'avrebbe mai più abbandonata. Alcuni grandi avvenimenti hanno, dunque, nome di città e sono di ordine politico; ci basta solo ricordare certi nomi di città perché gli avvenimenti politici che vi hanno avuto luogo, come nel caso di Praga o, recentemente, la città di Genova, siano inseparabili dalla città stessa. Ebbene, nelle nostre città democratiche, le contestazioni cittadine, le molteplici manifestazioni della sovranità popolare e l'espressione individuale negli spazi globalizzati di comunicazione virtuale ci potrebbero far pensare che una vera comunità democratica è quella che si limita a favorire l'esercizio attivo della parola pubblica. Altrimenti detto, nell'era della comunicazione nella quale impera una proliferazione di mezzi che permettono l'espressione del libero principio del cittadino, sembra che ogni città o comunità che si voglia democratica debba promuovere la visibilità e la trasparenza degli atteggiamenti politici ed ideologici dei suoi cittadini. Ciò che farebbe d'una città una città democratica seria, così dunque, la creazione d'un ampio, immenso spazio comune che vegliasse per l'espressione pubblica dell'insieme dei cittadini. Sono molte le voci che, dalla letteratura e dal pensiero, avvertono dei pericoli di questa concezione d'uno spazio comune-città, villaggio, nazione o paese- dove l'espressione pubblica non diviene assolutamente un diritto cittadino bensì una esigenza comunitaria. Molti gli scrittori che hanno denunciato la necessità della parola nello spazio pubblico sotto i regimi totalitari, dove la libertà d'espressione si capovolge in obbligo d'esprimere le proprie convinzioni politiche, religiose e, molto spesso, linguistiche. La letteratura è piena di città che denigrano qualsiasi organizzazione comunitaria dove l'esigenza della parola pubblica diviene una confessione imposta; dover confessare pubblicamente l'uso d'una lingua, dover riconoscere pubblicamente l'ascrizione a una ideologia o la pratica d'una religione, quando questa religione, ideologia o lingua non sono tollerate all'interno della cosa comune. Oggi, al Padiglione catalano della Biennale e nella cornice della mostra collettiva che porta il titolo del libro di Maurice Blanchot, La comunità inconfessabile, non posso smettere di pensare al racconto breve che scrisse Blanchot nel 1935 intitolato L'idillio, racconto sui grandi rischi dell'esigenza d'uniformità comunitaria. L'idillio è il nome che Blanchot da' a una città che, come indica lo stesso titolo, è idillica perchè vi regna l'armonia del vivere in comune. In questa città, s'attende da ogni straniero nuovo arrivato che contragga matrimonio con una ragazza della città e, una volta celebrata la cerimonia delle nozze, scrive Blanchot, normalmente “lo straniero moriva durante le prime ore ed era un familiare che, verso sera, occupava il suo posto, preso per il braccio da una ragazza giovane sorpresa d'accompagnare qualcuno che ormai non gli era sconosciuto.” 2 Allo stesso modo, la città idillica impedisce che lo straniero che ancora è straniero alla comunità abiti lo spazio comune e lo trattiene in una sorta d'asilo di conversione fino a che tutta la sua estraneità sia stata definitivamente cancellata, zittita, rubata. “Quando potrò andarmene 1 Lettera di Mercè Rodoreda a Anna Murià del 29 febbraio 1945, cf. Mercè Rodoreda en France. Paisajes d'un exili, 1939-1953, Barcellona: Institut Ramon Llull, 2008, pag. 44. 2 Maurice Blanchot, L'idylle, in Après coup.Précédé par Le ressassement éternel, Parigi: Minuit, 1983 e pubblicato per la prima volta nel 1952, pag. 47. Tutte le traduzioni dal francese sono mie. dall'asilo?”, chiede lo straniero blanchotiano de L'idillio, “ Più tardi, gli dice il direttore [dell'asilo] con aria infastidita, più tardi. (…) Quando voi ormai non avrete la sensazione di essere uno straniero (...)” 3 Quale relazione si profila, ci chiederemo, fra questo straniero che potrà solamente entrare e far parte della città quando ormai non sarà uno straniero e quello che un momento fa ho nominato l'esigenza della confessione in alcune società democratiche? Qual'è il vincolo che si traccia fra, da una parte, l'assimilazione che la comunità impone alla figura dello straniero e, dall'altra, la confessione pubblica dei propri tratti identitari e spesso minoritari pretesi da ogni stato totalitario? Entrambe le figure -la conversione imposta allo straniero e l'esigenza della sua confessioneobbediscono ad uno stesso imperativo: evitare la crepa della città idillica, impedire che la differenza e l'alterità facciano stragi in una società che poggia su un principio d'identità omogenea condiviso dalla totalità dei suoi cittadini. Come ha detto molto bene Sarah Kofman nella sua lettura de L'idillio di Blanchot -lei che aveva perso suo padre, rabbino d'origine polacca, ad Auschwitz-, l'esigenza di conversione e di confessione pretendono “cancellare tutta l'estraneità dell'allogeno”. Ebbene, puntualizza Kofman, la comunità che si costruisce sui parametri dell'identità di ciò non è una comunità bensì, soltanto, una “una finzione di comunità” 4 . Blanchot e Kofman si adoperano nel forgiare un'esperienza dello stare in comune che risponda a questa urgenza: denunciare tramite la parola letteraria e critica le città che sono figure della chiusura; indicare con il dito tutte quelle società che condannano gli stranieri ad imitare ed a ripetere i propri modelli d'identità comunitari. E ciò, perchè per Blanchot e Kofman la città per eccellenza è quella che mette in discussione il proprio ordine comune di fronte all'arrivo d'uno straniero, perchè la comunità per eccellenza è quella che mantiene inalterata l'estraneità dell'allogeno e fa della figura dello straniero una figura chiave del pensiero postmoderno. Uno dei padri della post modernità critica che negli anni 60 forgiò la famosa e tanto mondialmente citata nozione di decostruzione, Jacques Derrida, ci dice che le nostre città democratiche sono eredi del modello politico greco. Nelle sue letture dei dialoghi politici di Platone, Derrida inscrive il modello della città democratica contemporanea in “la grande tradizione della politeia, della politica [greca], della fenomenalità politica: tutto dev'esser detto sulla pubblica piazza e non c'è posto per una ritirata fuori del politico, per una dimensione non politica” 5 dentro lo spazio pubblico; di conseguenza, non c'è luogo nelle città greche per una parola non pubblica, per una parola ritirata, dentro lo spazio comune. In questa parola pubblica che si esige non soltanto dal cittadino greco, ma anche da colui il quale arriva alla polis e che i greci chiamano straniero sotto differenti nomi, Derrida ci denuncia alcuni dei paradossi che innesca questo sistema della cosa pubblica. Da una parte, lo straniero si vede obbligato a chiedere alla città il diritto all'ospitalità usando una lingua che non è la propria nel cuore dello spazio pubblico e, in modo tale da farsi capire, dovrà ricorrere ad una serie di codici giuridici, di presupposti culturali e di giri linguistici che solamente potrebbe usare correttamente se già non fosse uno straniero. Per dirlo con altre parole, Derrida si chiede se avrebbe senso che uno straniero che parla perfettamente la lingua della nostra città e ne domina l'insieme dei codici culturali, domandasse il diritto d'asilo e d'ospitalità. In questo caso, non si tratterebbe ormai d'uno straniero completamente assimilato che non necessiterebbe in nessun caso l'ospitalità che merita uno straniero nel vero senso della parola? 6 All'interno di queste coordinate, ci potrebbe sembrar strano che Derrida citi il conosciuto passaggio di L'apologia di Socrate di Platone in cui Socrate, ormai condannato a morte si rivolge ai giudici di fronte a tutta la città d'Atene. Socrate fa un documento nel quale espone ai suoi concittadini e alla città stessa la propria difesa contro le accuse che gli si imputano e per le quali sarà condannato alla pena capitale. In questo documento, Socrate si chiede se il verdetto della città sarebbe differente se i giudici accettassero d'ascoltarlo come ascolterebbero uno straniero. Socrate ricorda la sua non conoscenza e si dichiara straniero al discorso del tribunale, poichè, sostiene, è la prima volta che compare davanti alla legge e non conosce la lingua e l'argot dei giudici. Per questo motivo, formula una comparazione fra la sua condizione di vecchio filosofo di settant'anni condannato a morte che indirizza la parola alla città e la condizione d'uno straniero che si esprime con l'accento della propria infanzia davanti ad una città che non è la sua. Così dunque, stabilisce la seguente ipotesi: e se la sua vulnerabilità davanti alla legge della città d'Atene fosse analoga a quella d'uno straniero 3 4 5 6 Ibid., pag. 32. Sarah Kofman, Paroles suffoquées, Parigi: Galilée, 1987, pags. 26 e sg. Jacques Derrida, Sur parole,Parigi: L'Aube, 1999, pag. 113. Jacques Derrida, De l'hospitalité, con Anne Dufourmantelle, Parigi: Calmann-Lévy, 1997, pag. 21. che non conoscesse bene la lingua, che parlasse con un accento e un dialetto differenti da quelli di questa città greca e si vedesse obbligato a rispondere pubblicamente di sé stesso davanti alla comunità? 7 Se Socrate può stabilire questa analogia con lo straniero forse è perchè l'esperienza dell'essere straniero in relazione con la città democratica non si limita strettamente a ciò che normalmente intendiamo per straniero. Chi è uno straniero in una città? Forse non solamente colui il quale è effettivamente straniero, bensì quello che per ragioni storiche, politiche o linguistiche, malgrado non sia legalmente uno straniero, è come uno straniero nella propria città. Tutti lo sappiamo, questa è una delle esperienze paradigmatiche della colonizzazione, nella quale il colonizzato diviene più straniero dentro la sua stessa città che non in assoluto il colonizzatore il quale, nel vero senso della parola, è per definizione uno straniero, qualcuno che viene da fuori. Questa esperienza della colonizzazione è costitutiva del pensiero della decostruzione, tale come l'ha esposto Derrida nel suo libro Il monolinguismo dell'altro, dove narra l'episodio della colonizzazione francese dell'Algeria che visse durante la propria infanzia ed adolescenza. Come francese nato nella colonia, Derrida ricorda che la Francia colonizzò le città algerine proibendo la lingua araba, riducendo la popolazione “indigena” mussulmana a l'esclusione culturale ed economica, ed imponendo l'acculturazione come forma d'imperialismo. L'arabo, la lingua autoctona, fu proibita e, così dunque, sparì come lingua ufficiale, d'uso amministrativo e quotidiano, cosa che portò che in Algeria si arrivasse ad insegnare l'arabo nelle scuole pubbliche solo come lingua straniera, accanto a l'inglese o allo spagnolo. Nel contesto coloniale, gli arabi divengono stranieri non fuori casa bensì in situ – diventano stranieri tutti quelli che, per Derrida e la scrittrice Hélène Cixous, erano “ i veri figli della terra polverosa e profumata” 8 algerina. Se lo straniero lo è a casa propria, se il sentimento di sentirsi straniero è una ferita della cultura, ci dice Cixous, è perchè le città coloniali sono essenzialmente città doppie: “ Nacqui ad Oran, in Algeria e vissi in una città doppia”; “Ogni città porta in sé il volto di un'altra città, ogni città è abitata da un'altra città” 9 . Oran ed Algeri sono città doppie che Cixous declina a partire da coppie storicamente antagonistiche: Oran era allo stesso tempo mussulmana ed ebrea, Algeri era al contempo i quartieri francesi e quelli arabi. Entrambe erano, da una parte, città acculturate, sottomesse all'imperialismo francese, addomesticate da l'ordine dominante, mentre, dall'altra parte, non smettevano d'essere città rivoluzionarie come lo esemplifica in maniera paradigmatica la mitica città dentro la città d'Algeri, la Casbah, simbolo della lotta e della resistenza algerina. Per i combattenti che abitavano e si nascondevano nella Casbah, città interna situata nel cuore d'Algeri, Parigi non era ancora la città del maggio del 68 né delle manifestazioni a favore dell'indipendenza dell'Algeria che arrivò nel 1962, bensì la metropoli per eccellenza, la madre patria, la capitale coloniale rappresentante del centralismo più feroce. Per intellettuali francesi come Cixous e Derrida, il colonialismo o la “colonialitat” sono costitutivi di ogni cultura. È forse per questa ragione che concepiscono città doppie, città dove l'identità cittadina rimane sempre precaria, minacciata dagli imperialismi che impongono l'assimilazione culturale e linguistica della lingua e cultura dominanti come unico incontro fra culture 10 . È forse qui dove la figura dello straniero che lo è dentro la propria città, lo straniero a casa propria, diviene una delle figure più pregnanti della nostra post modernità letteraria. Straniero è colui il quale, come Derrida e Cixous- al contempo grandi intellettuali francesi e «scrittori, ebrei, d'Algeria»propongono d'amplificare nel cuore della lingua francese l'essere straniero della lingua colonizzatrice che gli permette di proteggersi contro i suoi codici culturali e le infinite perversioni dell'imperialismo. Entrambi gli scrittori propongono una sorta “di divenire straniero” della propria lingua materna e coloniale, il francese, in modo tale d'opporre resistenza a l'assimilazione -concetto tecnico che designa il processo per il quale una minoranza immigrata viene assorbita dalla società 7 Cf. ibid., pag. 23. Per quel che riguarda il dialogo platonico, cf. Apologia di Socrate, 17 c-d. 8 Hélène Cixous, “La meva algerança”, pubblicato all'interno di La llengua m'és l'únic refugi, ed. e trad. di Joana Masó, Palma de Mallorca: Lleonard Muntaner editor, 2009, pag. 15. 9 Hélène Cixous, Ex-cities,Philadelfia: Slought Foundation, 2005, pagg. 99 e 131. 10 Cf. Jacques Derrida, Le monolingüisme de l'autre,Parigi: Galilée, 1996, pagg. 47 e 33. Ultima traduzione catalana a cura di Felip Martí-Jufresa e Toni Mora, Palma di Mallorca: Lleonard Muntaner editor (in stampa). che l'ha ricevuta- e, così dunque, mantenere il proprio stato di essere straniero. Sicuramente non c'è molta differenza fra il rispettare l'estraneità dello straniero nuovo arrivato e quella dello straniero autoctono, quello che i colonialismi chiamano “indigeno”. Il rispetto di questa differenza, alterità o essere straniero è uno dei grandi fili conduttori della letteratura del secolo XX ed una domanda che la filosofia greca trascina fin dai suoi inizi. Ho cominciato il mio intervento affermando che questo rispetto della differenza non si deve confondere con la concezione politicamente corretta della libertà d'espressione tanto diffusa ai giorni nostri, con la supposta uguaglianza d'opportunità espressive nelle nostre società globalizzate dell'epoca dell'ubiquità e la disponibilità della comunicazione. Nel cominciare il mio intervento, ho suggerito che il rispetto dell'essere straniero dello straniero -problema già presente nell'Atene dei dialoghi di Platone-, aveva qualcosa a che vedere non con l'esigenza d'una parola pubblica, bensì con il rispetto di una certa espressione privata e leggermente ritirata della piazza pubblica, che possiamo nominare ora “il diritto al segreto”. “Quando uno stato non rispetta il diritto al segreto”, il diritto alla differenza o al sentirsi straniero, ci ricorda Derrida, “diviene minaccioso: violenza arbitraria, inquisizione, totalitarismo. Considero il diritto al segreto come un diritto etico e politico” 11 , scrive Derrida. Se si incrimina e si persegue arbitrariamente e giuridicamente non soltanto ogni straniero bensì anche ogni cittadino che cerca di difendere una certa prassi della parola privata facendo ondeggiare la bandiera della trasparenza e l'esigenza comunitaria della parola pubblica, allora si esige dallo straniero e dal cittadino che dicano tutto, e non resta posto nelle nostre città democratiche per la differenza. Per questo motivo, Derrida sente l'urgenza di proporre un acondizionale del segreto, cioè, un carattere incondizionato del segreto in democrazia. Per questo motivo, il pensatore francese concepisce una figura democratica del segreto che dovrebbe essere rispettato, in modo che a nessuna condizione potesse essere obbligato a confessarsi, sotto nessuna legge, oppressione o violenza. Così dunque, la città democratica ed il diritto al segreto profilerebbero i contorni di ciò che potremmo chiamare una città inconfessabile o una città che non impone la confessione come un'esigenza comunitaria a coloro i quali la abitano o che finiscono per arrivarci. Se le città democratiche avessero rispettato il diritto al segreto -che è il diritto all'esercizio della differenza-, forse la lingua araba e il berbero sotto la colonizzazione francese in Algeria avrebbero potuto continuare ad essere una lingua letteraria a pieno titolo. Forse, se il franchismo non avesse imposto la confessione e la conversione d'una cultura catalana che gli era profondamente straniera tanto linguisticamente che politicamente, il diritto al segreto e alla differenza avrebbe permesso d'evitare la lunga parentesi della letteratura catalana e ben prima scrittori come Mercè Rodoreda avrebbero fatto parte della letteratura universale. Ma se i regimi dittatoriali sono totalitari è precisamente perchè il diritto al segreto non ci sta. Forse, per questa ragione, il diritto al segreto dovrebbe essere un diritto democratico ed ogni città democratica, una città inconfessabile. Come le città, paesi, mulini, fattorie, e case vicino al mare di Mercè Rodoreda in Quanta,quanta guerra..., che immediatamente offrono la loro ospitalità a l'antieroe Adrià Guinart, come lo rimproverassero e lo bastonassero, ma senza obbligarlo ad identificarsi. Perchè Rodoreda, esiliata in tante città francesi dal 1939 – Perpinyà, Parigi, Bordeaux, Limoges,Orléans o Tolosa-, e scrivendo gran parte della propria opera all'estero, fra Ginevra e Vienna, sapeva abbastanza che l'esperienza erratica che convertì i suoi antieroi in stranieri risiede nella resistenza alle domande inquisitrici che soffocano l'identità. Cito per concludere Quanta, quanta guerra..: “Nel vedere che non gli rispondeva, mi chiese che gli spiegassi la mia vita (…) La mia vita è mia (…) Se la spiego, fugge, la perdo.” 12 11 Jacques Derrida, “De la paraula a la vida: un diàleg entre Jacques Derrida e Hélène Cixous”, pubblicato all'interno di La llengua m'és l'únic refugi,op, cit, pag. 115. 12 Mercè Rodoreda, Quanta, quanta guerra..., Bacellona: Club Editor, 2000 (1980), pag. 227.