congressi, convegni - Ordine Avvocati Milano
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CONGRESSI, CONVEGNI L'IMPATTO DEL DIRITTO COMUNITARIO ED EUROPEO Circolazione degli avvocati e durata dei processi Milano, 19-20 marzo 2004 Il testo di seguito trascritto rappresenta una versione riveduta ed aggiornata della relazione presentata al Convegno “L'amministrazione della giustizia e la società italiana del 2000. Una ricerca interdisciplinare” tenutosi a Milano nei giorni 19 e 20 marzo 2004. Della sezione I, i paragrafi 1 e 2 sono a cura di Bruno Nascimbene; i paragrafi 3, 4, 5, sono a cura di Cecilia Sanna. Della sezione II, i paragrafi 1, 2, 3 e 4 sono a cura di Bruno Nascimbene; i paragrafi 5, 6, 7 sono a cura di Cecilia Sanna. BRUNO NASCIMBENE è avvocato e professore di Diritto Europeo nell'Università Statale di Milano, CECILIA SANNA è avvocato e dottorando in ricerca nella medesima Università. Premessa La ricerca si è concentrata su alcuni profili comunitari ed europei relativi alla circolazione degli avvocati e alla durata dei processi, concernenti, precisamente a) la circolazione, la prestazione di servizi e lo stabilimento degli avvocati di altri Paesi della Comunità in Italia; b) l'incidenza della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nel nostro Paese, con specifico riferimento al diritto ad un equo processo sancito e tutelato dall'art. 6, par. 1 della Convenzione, oggetto di violazione persistente da parte del nostro Paese quanto, appunto, allo svolgimento del processo in tempi ragionevoli. Pur trattandosi di contesti diversi, si tratta di temi e settori che interessano da vicino l'avvocato, il magistrato, l'operatore del diritto, riguardando l'accesso e l'esercizio della professione, l'amministrazione e l'efficienza della giustizia, giurisdizionale e la difesa dei diritti dei singoli. la tutela I. PROFILI COMUNITARI 1. Esercizio della professione forense Il primo profilo della ricerca prende in esame le modalità di esercizio della professione forense consentite dal diritto comunitario. Esaminate le norme che disciplinano la materia, si è condotta un'indagine presso gli Ordini degli avvocati, diretta ad accertare se e quanto gli avvocati cittadini di altri Paesi della Comunità, abbiano utilizzato le possibilità offerte dal diritto comunitario di spostarsi e stabilirsi, in particolare, in Italia, e se e quanto gli avvocati italiani abbiano utilizzato la medesima possibilità spostandosi e stabilendosi in altro Paese. L'esame delle norme che disciplinano la materia è imprescindibile dal dato giurisprudenziale. Infatti, l'intervento della Corte di giustizia delle Comunità europee sia sulle norme primarie, sia su quelle secondarie ha inciso in termini essenziali nell'affermazione della libera circolazione degli avvocati comunitari. Dal 1 maggio 2004 le norme comunitarie trovano applicazione ai dieci nuovi Stati membri: le modifiche apportate con gli atti di adesione sono semplicemente di carattere terminologico per indicare le corrispondenti definizioni di “avvocato” in ciascun Paese, diritto di stabilimento e libera prestazione di servizi applicandosi così fin da quella data (1). 2. Le tappe normative e giurisprudenziali 2.1. La mancata realizzazione degli obiettivi fissati dal Trattato entro il termine di scadenza del periodo transitorio (1970) portò la Corte di giustizia a pronunciare sentenze di grande rilievo, che hanno affermato il principio della diretta efficacia degli artt. 43 e 49 (ex 52 e 59) del Trattato, rispettivamente sul diritto di stabilimento e sulla prestazione dei servizi. Si ricordano, in particolare, le sentenze Reyners e Van Binsbergen (2). 1 Cfr. gli atti di adesione in G.U.U.E. L 236 del 23 settembre 2003. Sentenza del 27 giugno 1974, Reyners, in causa 2/74, in Raccolta, 1974, p. 633. Reyners era un cittadino olandese, nato e residente in Belgio ove aveva conseguito il titolo di docteur en 2 2.2. Sul piano normativo, l'allora Consiglio CEE si limitò a regolamentare la materia della prestazione dei servizi con la direttiva 77/249, riservando espressamente ad una successiva direttiva l'adozione di misure di coordinamento destinate a facilitare il diritto di stabilimento degli avvocati (3). Nel recepire tale direttiva con legge 9 febbraio 1982, n. 31, il legislatore italiano ha escluso dalla disciplina della direttiva ogni profilo attinente al diritto di stabilimento, precisando che l'ammissione all'esercizio della professione di avvocato è limitata all'attività svolta con carattere di temporaneità (art. 2 par. 1) e vietando al prestatore di stabilire nel territorio nazionale uno studio ovvero una sede principale o secondaria” (art. 2, par. 2) (4). Mentre la puntualizzazione circa il carattere transitorio dell'attività è di per sé in linea con la libera prestazione dei servizi voluta dalla direttiva, il divieto per il professionista migrante di dotarsi di una infrastruttura è stato per ben due volte oggetto di censura per violazione dell'art. 49 del Trattato, la Corte di giustizia (5) affermando che il carattere temporaneo di una prestazione di servizi non esclude la possibilità, per il prestatore di servizi, di dotarsi, nello Stato membro ospitante, di una determinata infrastruttura (compreso un ufficio o uno studio) se questa è necessaria al compimento della prestazione di cui trattasi. Il divieto previsto dalla legge 31/1982 è stato espressamente abrogato dall'articolo 18 della legge 39/2002 (6): sarà comunque necessario valutare caso per caso l'idoneità della struttura con il droit, cui era stata negata, in detto Paese, l'iscrizione all'albo degli avvocati per motivi di cittadinanza; la legislazione belga vietava, infatti, l'iscrizione ai non cittadini salvo che il Paese di provenienza garantisse la reciprocità di trattamento, nella fattispecie mancante. Sentenza del 3 dicembre 1974, Van Binsbergen in causa 33/74, in Raccolta, 1974, p. 1299. Van Binsbergen, cittadino olandese, aveva designato quale rappresentante ad litem avanti al giudice olandese, competente in materia sociale, un avvocato olandese che nel corso della causa aveva trasferito la propria residenza dai Paesi Bassi in Belgio, facendo venir meno il requisito della residenza previsto dalla legge olandese per l'esercizio della professione. Per riferimenti si rinvia al nostro Norme comunitarie e norme nazionali nell'esercizio della professione forense in Italia, in Riv. dir. int. priv., 2002, p. 349 ss.; più recentemente M. CONDINANZI, A. LANG, B. NASCIMBENE, Cittadinanza dell'Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2003, p. 155 ss. 3 In G.U.C.E. L 78 del 26 marzo 1977. 4 In G.U.R.I. n. 42 del 12 febbraio 1982, p. 1030. 5 Sentenza del 30 novembre 1995, Gebhard, in causa C-55/94, in Raccolta, 1995, p. I-4168; sentenza del 7 marzo 2002, Commissione c. Repubblica italiana, in causa C-145/99, in Raccolta, 1999, p. I-2235. 6 Legge 1 marzo 2002, n. 39, legge comunitaria 2001, in G.U.R.I. n. 72, S.O. del 26 marzo 2002. carattere temporaneo della prestazione di servizi, potendosi diversamente configurare l'ipotesi di un'attività svolta in regime di stabilimento. 2.3. La direttiva 89/48, che ha introdotto un sistema generale di riconoscimento dei diplomi d'istruzione superiore che attestano formazioni professionali di durata minima di tre anni, è stata attuata in Italia con il decreto legislativo 115/92 (7). L'articolo 9 prevede che un regolamento avrebbe stabilito le misure compensative previste per il riconoscimento dei titoli nell'ipotesi di formazione professionale diversa da quella contemplata nell'ordinamento italiano e, quindi, anche le materie oggetto d'esame, nonché le modalità di svolgimento della prova attitudinale per il riconoscimento del titolo di avvocato. La mancata adozione di tale regolamento è stata censurata dalla Corte di giustizia con la sentenza del 7 marzo 2002, a seguito della quale fu emanato dal Ministro della giustizia un decreto che disciplina, appunto, la materia (8). In tema di riconoscimento di diplomi e formazione professionale, con particolare riferimento all'ordinamento italiano, si ricorda la sentenza Morgenbesser che ha facilitato, in modo significativo, l'iscrizione di cittadini comunitari al Registro dei praticanti (9). Escluso che l'attività di praticante sia una professione 7 In G.U.C.E. L 19 del 24 gennaio 1989; in G.U.R.I. n. 40 del 18 febbraio 1992, p. 6 ss. Decreto del Ministro della giustizia 28 maggio 2003, n. 91, Regolamento in materia di prova attitudinale per l'esercizio della professione di avvocato, in G.U.R.I. n. 171 del 25 luglio 2003 (per la sentenza della Corte cfr. la nota 5). L'esame, in lingua italiana, consta di una prova scritta ed una orale; di una sola prova orale se il candidato è in possesso di un titolo il cui percorso formativo sia analogo a quello richiesto dall'ordinamento italiano. La prova scritta verte su non più di tre materie fra quelle indicate nel decreto di riconoscimento quali materie oggetto di esame (una è a scelta del candidato); la prova orale verte su non più di cinque materie, tutte a scelta del candidato fra quelle indicate nel decreto di riconoscimento quali materie oggetto di esame, oltre a ordinamento e deontologia professionale. La commissione d'esame è istituita presso il CNF ed è composta da cinque membri effettivi e cinque supplenti. Ogni commissario ha a disposizione un massimo di 10 punti per la valutazione di ciascuna prova; alla prova orale sono ammessi coloro che abbiano riportato alla prova scritta una votazione minima di almeno 30 punti, punteggio minimo anche per la prova scritta. La certificazione relativa al superamento dell'esame consente l'iscrizione all'albo. 9 Sentenza del 23 novembre 2003, in causa C-313/01, Morgenbesser, in Raccolta, in corso di pubblicazione. La signora Morgenbesser, cittadina francese residente in Italia, era titolare di una “maîtrise en droit” rilasciata in Francia nel 1996; ma non aveva però ottenuto il “certificat d'aptitude à la profession d'avocat” (CAPA, certificato di idoneità alla professione di avvocato). Dopo un breve tirocinio presso uno studio legale francese, aveva lavorato dal 1998 in uno studio legale a Genova e aveva chiesto l'iscrizione nel « registro dei praticanti » necessaria per effettuare validamente, ai fini dell'esame di idoneità all'esercizio della professione, il periodo di pratica in Italia. La domanda veniva respinta dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Genova nonché dal 8 regolamentata ai sensi della direttiva 89/48 e che sia qualificabile come attività di avvocato ai sensi della direttiva 98/5, la Corte ha ritenuto applicabili i principi generali sulla libertà di circolazione e stabilimento, che non consentono l'applicazione di norme nazionali che non tengano conto delle conoscenze e delle qualifiche già acquisite da un cittadino di un altro Stato membro al di fuori dello Stato ospitante. Un diploma conseguito in altro Paese membro deve essere considerato nell'ambito di una valutazione dell'insieme della formazione accademica e professionale, essendo compito dell'autorità nazionale, e quindi degli ordini professionali, verificare se, e in quale misura, le conoscenze attestate dal diploma, le qualifiche o l'esperienza professionale ottenute in un altro Stato membro, unitamente all'esperienza ottenuta nel Paese ove si vuole esercitare, possano soddisfare, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all'attività di praticante (10). Consiglio Nazionale Forense, in quanto la legge italiana che disciplina la professione di avvocato prevede il possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata da un'Università italiana e la Morgenbesser non era, comunque, abilitata in Francia all'esercizio della professione di avvocato. La Corte di Cassazione, adita conseguentemente al diniego del CNF, chiedeva in via pregiudiziale alla Corte di giustizia se il diritto comunitario ammetta che le autorità italiane rifiutino di iscrivere il titolare di una laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro, per il semplice motivo che questa non era stata rilasciata in Italia. La Corte precisa innanzi tutto che né la direttiva 98/5, relativa all'esercizio permanente della professione di avvocato, né la direttiva 89/48, relativa al riconoscimento dei diplomi d'istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni per professioni regolamentate, si applicano alla situazione della Morgenbesser, in quanto la prima riguarda solo gli avvocati completamente qualificati e l'attività di praticante (o praticante-patrocinante) – essendo limitata nel tempo e costituendo la parte pratica della formazione necessaria per l'accesso alla professione di avvocato – non può essere qualificata come “professione regolamentata” ai sensi della direttiva 89/48, separabile da quella della professione di avvocato; il periodo di pratica, ritiene la Corte (ma suscitando ampie perplessità) comporta, al fine dell'accesso a una professione regolamentata, l'esercizio di attività retribuite (dai clienti o dallo studio legale, sotto forma rispettivamente di onorario o di salario). 10 Precisa la Corte che “nel caso della professione di avvocato, uno Stato membro deve procedere a un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze esistenti tra gli ordinamenti giuridici nazionali interessati. Se a seguito di tale esame emerge una corrispondenza solo parziale, lo Stato ospitante può pretendere che l'interessato dimostri di aver maturato le conoscenze mancanti. Le autorità competenti dello Stato ospitante devono, quindi, valutare se le conoscenze e l'esperienza maturate in questo Stato possano valere al fine di dimostrare il possesso delle conoscenze mancanti”. Anche nella sentenza del 7 maggio 1991, Vlassopoulou, in causa C340/89, in Raccolta, 1991, p. I-2357, la Corte ha affermato la necessità di operare un raffronto tra le competenze attestate dal diploma nazionale e le qualifiche richieste dalle norme dello Stato di stabilimento, raffronto che “deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare”, pur avendo riguardo ad eventuali differenze obiettive relative al contesto giuridico e all'ambito di operatività della professione in esame. L'eventuale prescrizione di requisiti nazionali 2.4. Il diritto di stabilimento degli avvocati comunitari è disciplinato dalla direttiva 98/5 (11). Nel nostro Paese la direttiva è stata attuata con il d. lgs. 96/2001 (12) che ha introdotto una nuova modalità di esercizio in comune della professione forense (ossia la “società tra professionisti” o “s.t.p.” fra avvocati) anche se, come si dirà poco oltre, è da segnalare il limitato ricorso da parte degli avvocati italiani all'esercizio della professione in forma societaria. 3. La disciplina della concorrenza e l'esercizio della professione Un ulteriore profilo del diritto comunitario che incide sull'esercizio della professione forense e delle libere professioni, in genere, è la materia della concorrenza. Il professionista e, quindi, anche l'avvocato, infatti, per il diritto comunitario della concorrenza è un'impresa in quanto svolge un'attività economica finalizzata alla produzione di beni o servizi. Spesso, situazioni anticoncorrenziali sono anche situazioni restrittive della libera circolazione delle persone. La Commissione nella “Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali” presentata il 9 febbraio 2004 ha chiesto agli Stati membri, agli ordini professionali, alle autorità di concorrenza di riformare o eliminare la fissazione dei prezzi e le altre restrizioni che impediscono la concorrenza, in particolare per categorie quali avvocati, architetti, ingegneri, notai ad eccezione di quando siano chiaramente giustificate da motivi d'interesse pubblico (13). Tale approccio sarebbe peraltro in linea con l'entrata in vigore, il 1° maggio 2004, delle nuove regole che decentralizzano l'applicazione delle norme antitrust comunitarie (regolamento n. 1/2003) (14), rafforzando il ruolo delle autorità nazionali garanti della concorrenza e gli organi giurisdizionali nazionali. Fra le varie restrizioni, la Commissione ricorda la presenza di prezzi minimi e di qualificazione, a prescindere dalle qualifiche acquisite all'estero, costituisce un ostacolo alla libertà di stabilimento. Alla Corte era stato richiesto se fosse compatibile con l'art. 52 (ora 43) il subordinare alle norme interne dello Stato di stabilimento l'esercizio della professione di avvocato da parte di un cittadino comunitario già abilitato nel proprio Stato e ammesso ad esercitare nello Stato ospite la professione di consulente legale. 11 In G.U.C.E. L 77 del 14 marzo 1998, c.d. “direttiva stabilimento”. 12 In G.U.R.I. n. 79 del 4 aprile 2001, S.O. n. 72. 13 Cfr. la comunicazione della Commissione COM (2004) 83 del 9 febbraio 2004. 14 Regolamento n. 1/2003 del 16 dicembre 2002 concernente l'applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato del 4 luglio 2003, in G.U.C.E. L 1 del 4 gennaio 2003. massimi per le attività di architetti, avvocati, ingegneri in Italia e Germania, sottolineando che l'esperienza dei Paesi che hanno eliminato detta regolamentazione (non il nostro) ha dimostrato che il controllo non è uno strumento essenziale per garantire standard qualitativi elevati. Alcuni Paesi continuano a proibire ai liberi professionisti di pubblicizzare i loro servizi, cosicché per i consumatori la ricerca della qualità e dei prezzi più adatti alle loro esigenze diventa più difficile e costosa. È il caso dei revisori dei conti (Francia, Lussemburgo, Spagna e Portogallo) e dei notai (Francia, Italia, Spagna e Grecia). Altre restrizioni meno visibili riguardano l'accesso alle professioni e si presentano sotto forma di regolamentazioni eccessive per quanto riguarda le licenze o di limitazioni per quanto riguarda la pubblicità in altri Paesi. Il Governo italiano non sembra tenere sufficientemente conto di tali indicazioni: nello schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali in materia di “Professioni” ai sensi della legge 131/2003 (15), infatti, da un lato afferma l'equiparazione tra attività professionale e impresa, ai fini del diritto della concorrenza; dall'altro lato viene prevista un'eccezione, disponendo che l'equiparazione fa salvo quanto espressamente previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali. Tale deroga indurrebbe a ritenere che l'equiparazione, in sostanza, non si applica alle professioni intellettuali (16). 15 Schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali in materia di “Professioni” ai sensi della legge 131/2003”, Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in G.U.R.I. n. 132 del 10 giugno 2003, documento esaminato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 22 aprile 2004. 16 La definizione di “professioni intellettuali”, e l'individuazione delle competenze statali o regionali in materia, non è agevole. Il libro V del Codice civile si apre con un Titolo I dedicato alla disciplina delle “attività professionali”. Uno specifico Capo del successivo Titolo III è dedicato alle “professioni intellettuali” che sono , dunque, solo una parte delle professioni in senso più ampio, ma non legislativamente definito. Lo schema di decreto non chiarisce la questione, non definendo la “professione intellettuale”, ma limitandosi a demandarlo ad una legge che dovrà essere necessariamente statale. Inoltre, già prima della riforma del Titolo V, la legislazione statale aveva ripartito la disciplina di alcune professioni rientranti nell'ambito di materie propriamente regionali e non riferibili alla nozione tradizionale di professioni intellettuali: ad esempio la legge 6/1989 sull'ordinamento della professione di guida alpina o la legge 81/1991 sulla professione di maestro di sci (nel previgente ordinamento le Regioni disponevano di competenza ripartita in materia d'istruzione e formazione professionale, esclusi i titoli di studio o di diploma d'istruzione secondaria o superiore, universitaria e post-universitaria). 4. Indagine sulla mobilità degli avvocati comunitari da e verso l'Italia La nostra indagine si è svolta consultando tutti gli Ordini degli avvocati del Paese, mediante un questionario, ove erano formulate le seguenti domande: a) Quanti avvocati, cittadini di un Paese membro della Comunità europea (italiani compresi, che abbiano conseguito il titolo professionale all'estero, per esempio di Avocat, Abogado, Rechtsanwalt, Solicitor) si sono stabiliti nel territorio di competenza del vostro Ordine ed esercitano con il loro titolo professionale di origine (per esempio Avocat etc.)? Si tratta degli avvocati iscritti nella sezione speciale dell'Albo: cfr. art. 3, 1° comma lett. d) del d.lgs. 96/2001. b) Quanti sono gli avvocati integrati, cioè che hanno acquisito il diritto di utilizzare il titolo italiano di avvocato e sono iscritti all'Albo? Si tratta degli avvocati contemplati all'art. 3, 1° comma lett. e) del d.lgs. citato. c) Oltre al numero potete precisare anche la cittadinanza degli avvocati, siano essi stabiliti o integrati? d) Quante sono le società fra avvocati, iscritte in una sezione speciale dell'Albo? (cfr. art. 16 d.lgs. citato). Quante sono le società cui partecipano avvocati stabiliti o integrati? (cfr. art. 34 ss. d.lgs. citato) e) Risultano casi di avvocati italiani, iscritti al vostro Albo, che si sono “stabiliti” oppure “integrati” in un altro Paese della Comunità europea? In caso positivo, in quale Paese? Le risposte sono state le seguenti. Ordinedegli avvocati 165 su 165 Avvocatistabiliti 126 Cittadinanza 32 spagnola 37 tedesca 21 italiana (5 con titolo di abogado 1 con titolo di solicitor 1 con il titolo di advocat 1 con il titolo di Rechtsanwalt) 11 inglese 11 francese (2 con doppia cittadinanza, italiana e francese) 4 belga 3 olandese 2 greca 1 svizzera 1 austriaca 1 irlandese 1 portoghese 1 non indicata cittadinanza Ordinedegli avvocati 165 su 165 Avvocatiintegrati Cittadinanza 11 tedesca 26 5 britannica 5 italiana (1 titolo di abogado) 4 spagnola 1 austriaca Ordinedegli avvocati Avvocati italianiche Paese UE ospitante sono stabilitio integrati in unaltro Paese UE Regno Unito 27 (24 da Milano) 165 su 165 61 Belgio 8 Germania 7 Austria 3 Francia 2 Grecia 1 (stabilito) Irlanda 1 Non indicato 12 Ordinedegli avvocati 165 su 165 Società S.t.p. cui partecipano avvocati stabiliti o integrati traprofessionisti 25 (di cui 6 Milano, 3 1 Milano Roma) 5. Osservazioni sui dati raccolti Una particolare mobilità di avvocati da e per l'Italia, è significativa nelle aree di confine con alcuni Paesi limitrofi, segnatamente le aree Bolzano e Trento con l'Austria e la Germania. La mobilità degli avvocati comunitari che intendono esercitare la professione forense in modo stabile sul territorio italiano sembra altresì collegata ad aree caratterizzate da attività terziarie o comunque rilevanti per attività commerciali e industriali: Bologna, Bolzano, Firenze, Milano, Modena, Padova, Venezia. Inoltre, emerge (in generale) una mobilità maggiore al Nord, limitata al Centro, ad eccezione di Roma che comunque è statisticamente meno mobile di Milano, e pressoché assente al Sud e nelle Isole. Diversamente, i dati sugli avvocati italiani stabiliti o integrati in altri Paesi dell'Unione, oltre a confermare la maggior attività di scambio professionale di centri come Bologna, Genova, Milano e Firenze, indica un movimento in città per così dire minori quali Caltagirone, Cagliari, Nola (forse legati al fenomeno dell'emigrazione). Quanto alle società tra professionisti avvocati, si tratta di una modalità di esercizio della professione ancora in parte sconosciuta, considerato che persino alcuni Consigli dell'ordine “confondono” la s.t.p. con gli studi associati. Si conferma comunque una struttura propria di aree geografiche già caratterizzate dalla presenza di studi di notevoli dimensioni e da mercati che richiedono una certa specializzazione professionale. I dati che emergono, se confrontati col numero degli avvocati iscritti all'Ordine (oltre 150.000) confermano la minima incidenza della presenza di avvocati stranieri e, più in generale l'assai limitato esercizio del diritto di stabilimento in Italia da parte di avvocati comunitari, e in altri Paesi dell'Unione da parte di avvocati italiani (17). II. PROFILI EUROPEI 1. Sulla lunghezza dei processi in Italia Il secondo profilo della ricerca prende in esame il problema dell'eccessiva durata dei processi in Italia. Tale carenza funzionale del sistema giudiziario italiano non è rimasta “all'interno dei confini” del nostro Paese, ma ha avuto una ricaduta a livello europeo. Invero, essendo il diritto allo svolgimento del processo in tempi ragionevoli una garanzia fondamentale sancita dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo (CEDU), sempre più numerosi sono stati i ricorsi da parte di coloro che erano vittima della lunghezza del sistema processuale italiano. Il progressivo aumento di ricorsi e di conseguenti condanne ha determinato, da un lato una situazione di paralisi del sistema previsto dalla convenzione; dall'altro lato un intervento di monitoraggio da parte del Comitato dei Ministri del 17 Il numero di avvocati, secondo i dati riportati da Il Sole-24 ore Professionisti del 18.05.2004 sarebbe di 151.470, l'incremento degli studi legali nel periodo 1996/2001 sarebbe del 20,51% e nel periodo 1991/2001 del 119,87%. Consiglio d'Europa sulle riforme e i conseguenti effetti che l'Italia ha adottato e intende adottare per affrontare il problema. 2. La legge Pinto: contenuto La novità legislativa più rilevante, oggetto di dibattito dottrinale e di copiosa giurisprudenza, è stata l'introduzione della legge c.d. Pinto, dal nome del parlamentare promotore dell'iniziativa legislativa (18). È su questo testo normativo, “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole' del processo e modifica dell'art. 375 del codice di procedura civile”, che si è in particolare focalizzata la nostra indagine, sia sui dati statistici, sia sulla prassi applicativa (19). Il meccanismo elaborato dalla norma, riproducendo sul piano interno il sistema di controllo elaborato nell'ambito della CEDU, introduce una procedura di riparazione a favore di “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, di cui all'articolo 6 par. 1, della Convenzione” (art. 2, comma 1°). Mentre il testo inizialmente presentato attribuiva la competenza a decidere sulla domanda di equa riparazione alla Corte d'appello nel distretto in cui era iniziato o era pendente il procedimento, la legge (come definitivamente approvata) prevede che la domanda di equa riparazione sia proposta dinanzi alla Corte d'appello competente ai sensi dell'art. 11 c.p.p. a giudicare sulla responsabilità dei magistrati nel cui distretto “è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione” del tempo ragionevole “si è verificata” (art. 3, par. 1). Tale modifica risponde alla necessità di assicurare indipendenza e imparzialità all'organo giudicante, caratteri che risultano ancor più necessari considerando che il decreto di accoglimento della domanda va comunicato “oltre che alle parti, al procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell'eventuale avvio del procedimento di 18 Legge n. 89 del 24 marzo 2001, in G.U.R.I. n. 78 del 3 aprile 2001. Per riferimenti si rinvia al nostro L'eccessiva durata dei processi in Italia e le conseguenze a livello europeo, in Sociologia del diritto, 2003, p. 121 ss. 19 responsabilità, nonché ai titolari dell'azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento” (art. 5). Nella relazione sull'anno giudiziario 2003, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione segnala, quanto ai procedimenti disciplinari per danno erariale conseguente alla non ragionevole durata del processo, in base a quanto disposto dall'art. 5 legge Pinto, che è emersa la difficoltà, anche a causa del lungo tempo trascorso, di ricostruire con sufficiente precisione le tappe dei singoli procedimenti in questione. È stato, così, possibile individuare una condotta colpevole del magistrato, quale causa della non ragionevole durata del procedimento, soltanto in un numero limitato di casi (15), per i quali è stata poi promossa l'azione disciplinare, mentre 702 sono stati definiti con archiviazione e per 471 (pervenuti fino alla data del 30 giugno 2003) erano in corso indagini istruttorie. La relazione sottolinea, comunque, che un'incidenza negativa sulla durata dei processi è esercitata dalla eccessiva mobilità dei magistrati, non solo per il trasferimento da un ufficio ad un altro ma anche, e soprattutto, per il passaggio da una funzione ad un'altra all'interno dello stesso ufficio (20). Il ricorso di equa riparazione è presentato contro differenti autorità: il Ministero della giustizia per i procedimenti del giudice ordinario, il Ministero della difesa per i procedimenti del giudice militare, il Ministero delle finanze per i procedimenti del giudice tributario; nei restanti casi è proposta domanda nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri. La Corte d'appello si pronuncia, in camera di consiglio, entro quattro mesi dal deposito del ricorso, con decreto impugnabile per Cassazione. L'art. 4, allineandosi a quanto previsto dalla Convenzione europea, stabilisce che il ricorso diretto ad ottenere la riparazione 20 Cfr. la relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2003 in http://www.giustizia.it/uffici/inaug-ag/cass2004index.htm#rprocdisc. Nella relazione del 2002, il Procuratore rilevava, parimenti, che nella maggior parte dei casi non erano stati ravvisati inerzia o difetto di laboriosità addebitabili a singoli magistrati, ma la durata non ragionevole del processo era quasi sempre dovuta a carenze del sistema o a vicende di varia natura, quali ad esempio l'avvicendarsi di più magistrati nella trattazione del procedimento, per trasferimento di sede o destinazione ad altro incarico. In altre situazioni, si era riscontrata, invece, la particolare gravosità, per qualità e quantità, del carico di lavoro assegnato o l'esistenza di carenze di organico sia per i magistrati, sia per il personale amministrativo (cfr. la relazione in Diritto e giustizia on line del 14 gennaio 2003). può essere proposto anche durante la pendenza del procedimento, ma non oltre sei mesi dal momento in cui la decisione che lo conclude è divenuta definitiva. L'unica misura prevista dalla legge Pinto, volta ad accelerare i processi è contenuta nell'articolo 1, che modifica l'art. 375 del codice di procedura civile. Al fine di consentire alla Cassazione di risolvere più rapidamente i ricorsi, è stata introdotta la facoltà di decidere in camera di consiglio e con motivazione succinta non più soltanto nei casi d'inammissibilità e per i regolamenti di competenza, ma anche qualora il ricorso (pure quello incidentale) appaia manifestamente fondato o infondato. Relativamente ai procedimenti pendenti presso la Corte dopo l'entrata in vigore della l. 89/2001, aventi ad oggetto la violazione di un tempo ragionevole e non ancora dichiarati ricevibili, l'art. 6, norma transitoria della stessa legge, dava la “facoltà” al ricorrente di riassumere la causa in Italia presso la Corte d'appello competente ex art. 3 della legge in questione entro la data del 18 ottobre 2001. Tuttavia con sentenza del 6 settembre 2001, Brusco c. Italia (21), la Corte europea, dichiarando irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne un procedimento introdotto alla Corte europea e già iscritto a ruolo, ha, di fatto, argomentato circa l'esistenza di un obbligo e non già di una facoltà per i ricorrenti di utilizzare il meccanismo di equa riparazione interna. In seguito a questa decisione, presa poco prima del termine previsto dall'art. 6 della l. 89/2001, i circa dodicimila ricorrenti alla Corte europea avrebbero rischiato di trovarsi nell'impossibilità materiale di presentare la domanda di equa riparazione dinanzi alle Corti d'appello nazionali. Pertanto, il Governo italiano, con decreto legge 370/2001, si è adeguato all'interpretazione data dalla Corte alla disposizione transitoria – art. 6 legge 89/2001 – prorogando il termine per la riassunzione della causa avanti al giudice italiano sino al 14 aprile 2002 (22). 3. Proposte di modifica alla legge Pinto 21 Sentenza del 6 settembre 2001, Brusco c. Italia, ricorso n. 69789/2001, in Guida al diritto, 2001, n. 38 p. 13 e http://www.echr.coe.int/Fr/Judgments.htm. 22 Decreto legge n. 370 del 12 ottobre 2001, in G.U.R.I. n. 240 del 15 ottobre 2001 convertito in legge n. 432 del 14 dicembre 2001, in G.U.R.I. n. 290 del 14 dicembre 2001. Successivamente all'entrata in vigore della legge sono intervenute alcune modifiche e proposte di modifica del meccanismo di equa riparazione interna. La legge 91/02 stabilendo un contributo unificato per le spese degli atti giudiziari, dispone l'esenzione dal pagamento dell'imposta di bollo per i procedimenti in materia di equa riparazione (23). Un accordo transattivo per la definizione extragiudiziale delle controversie era previsto dal decreto recante “Misure urgenti per la razionalizzare l'amministrazione della giustizia”. Scopo dell'iniziativa era diminuire il rilevante numero di ricorsi approdati alle corti d'appello per ottenere l'equa riparazione (il governo italiano, nel rapporto annuale 2002, presentato al Comitato dei ministri, indicava che al 31 agosto 2002 le domande di equa riparazione calendarizzate erano 5.270). La proposta prevedeva che la domanda giudiziale, presentata per ottenere l'indennizzo, fosse preceduta da una comunicazione da inviare a cura del ricorrente all'avvocatura dello Stato ed al Ministero della giustizia. Ricevuta la documentazione, l'avvocatura dello Stato avrebbe dovuto valutare il ricorso e, sentite le amministrazioni interessate, comunicare entro 90 giorni una proposta transattiva all'interessato o indicare, in alternativa, le ragioni per cui non avrebbe ritenuto utile procedere ad una transazione. Gli articoli del c.d. decreto omnibus che modificavano la legge Pinto, tuttavia, venivano stralciati in sede di approvazione parlamentare (24). 4. Ricadute della legge Pinto sul “sistema di Strasburgo” Relativamente alle ricadute della legge Pinto sulla posizione dell'Italia nel “sistema di Strasburgo”, si deve segnalare che esso ha certamente ridotto il numero dei ricorsi e delle condanne pronunciate contro l'Italia per violazione del délai raisonnable, ma gli effetti positivi sono riscontrabili solo nel corso del 2003. Invero, nonostante la legge Pinto sia entrata in vigore nella primavera del 23 Legge n. 91 del 10 maggio 2002, in G.U.R.I. n. 109 dell'11 maggio 2002, Conversione in legge del decreto-legge 11 marzo 2002 n. 28 recante modifiche all'articolo 9 della legge 23 dicembre 1999 n. 488 relative al contributo unificato d'iscrizione a ruolo dei procedimenti giurisdizionali civili, penali e amministrativi nonché alla legge 24 marzo 2001 n. 89 in materia di equa riparazione. 24 Per un approfondimento C. COCO, Equa riparazione delle violazioni al principio di ragionevole durata dei processi, in Diritto penale e processo, 2003, p. 346 ss. 2001, il 2002 è stato caratterizzato da un'attività di “smaltimento” dei ricorsi già dichiarati ricevibili e sui quali la Corte europea dei diritti dell'uomo si è dovuta pronunciare. Si ricorda, infatti, che con la sentenza Brusco, e quindi con la sentenza Giacometti (8 novembre 2001) (25) si è affermata l'obbligatorietà di esperire il rimedio interno, ossia il ricorso alle Corti d'appello italiane per violazione della ragionevole durata prima di poter adire la Corte europea solo per ricorsi già iscritti a ruolo e anche per quelli già comunicati al Governo ma non ancora dichiarati ricevibili . Anni Sentenze pronunciate contro tutti gli Stati Sentenze pronunciate contro l'Italia Sentenze pronunciate contro l'Italiaper violazione dell'articolo 6 par. 1 Sentenze pronunciate contro l'Italiaper violazione del délai raisonnable 1999 177 71 70 2000 695 396 385 2001 889 413 400 2002 844 391 375 2003 703 148 134 66 375 365 300 3 Elaborazione dei dati sulla base delle informazioni fornite dalla Corte europea reperibili sul sito http://hudoc.echr.coe.int/hudoc/. L'anno 1999 comprende il periodo dal 1.11.1998 (data di entrata in funzione della Corte) al 31.12.1999. 5. L'applicazione della legge Pinto: problemi giurisprudenziali. Una disciplina e prassi tormentate I problemi più complessi si sono presentati sul piano interno circa l'effettiva applicazione dei criteri della giurisprudenza di Strasburgo che dovevano essere fatti propri dai giudici italiani. a) Fra gli aspetti più controversi si segnala l'irrisoria somma di equa riparazione riconosciuta dalle corti italiane rispetto al “tariffario”di Strasburgo: spesso meno della metà. Non solo: l'articolo 3, comma 7 prevede che le erogazioni degli indennizzi agli aventi diritto decorrano dal 1 gennaio 2002, mentre l'art. 7 dispone che l'onere di bilancio derivante dalla legge è quantificato nella somma di 12 miliardi e 705 milioni di lire (pari a € 6.561.584,90) a decorrere dall'anno 2002. L'importo era veramente irrisorio se si pensa che solo per le condanne del 2001 per violazione della durata ragionevole del processo, l'Italia ha subito un onere economico di 17 milioni di euro. Infatti, le disponibilità finanziarie da tempo sono 25 Cfr. la sentenza Brusco cit. e Giacometti e a. c. Italia, in Corriere giuridico, 2001, p. 133 e in http://www.echr.coe.int/Fr/Judgments.htm. esaurite. Lo ha fatto presente il Ministero dell'economia e delle finanze con decreto del 5 maggio 2003 (26) accertando l'avvenuto raggiungimento dei limiti di spesa espressamente autorizzata. Pertanto, poiché l'art. 3, comma 7 dispone che “l'erogazione agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”, chi ha subito una violazione del diritto ad un processo in tempi ragionevoli, accertata dal giudice, non potrà riscuotere l'indennizzo ma dovrà attendere un eventuale rifinanziamento della copertura finanziaria. b) Un secondo aspetto attiene alla risarcibilità del danno nei confronti delle persone giuridiche, dapprima, in contrasto con la posizione della Corte europea, negata e poi ammessa dalla Corte di cassazione (27). c) Si segnala inoltre, in tema di onere della prova, la ritenuta necessità di provare la sussistenza di un danno concreto ai fini della correlativa equa riparazione non patrimoniale ai sensi dell'art. 2 legge Pinto, diversamente dalla giurisprudenza della Corte europea (28). La Corte di cassazione è intervenuta con ben quattro pronunce per dirimere i contrasti giurisprudenziali tra i giudici nazionali e fra questi e la Corte europea (sezioni unite, del 26 gennaio 2004, sentenze n. 1338, n. 1339, n. 1340, n. 1341). Tali decisioni dovrebbero aver chiarito l'aspetto più controverso della norma e precisamente l'obbligo per il giudice nazionale di attenersi ai 26 In G.U.R.I. n. 113 del 17 maggio 2003. Cass., 18 novembre 2002, n. 16262, Tecno industriale s.r.l. c. Ministero della giustizia, in http://www.dirittiuomo.it/News/news2003/PintoSocieta.htm. 28 In questo senso cfr. la sentenza Cass., 15 novembre 2002, Tedesco c. Ministero della giustizia, n. 15449 in http://www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/10febbraio2003/Casssen15449durataragionevole. htm. Si segnala, tuttavia, che con la sentenza n. 7980 del 27 aprile 2004, in www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/30maggio2004/Casssen7980risdanninpatrdestprimario. htm, la Cassazione, accogliendo il ricorso di un primario ospedaliero, prima destituito e poi reintegrato nell'impiego, ha affermato che la lesione della professionalità di un medico, consistente nel non riconoscimento della sua attività lavorativa, rientra nella categoria del danno non patrimoniale. A sostegno di tale conclusione la Corte richiama la propria giurisprudenza della sezione lavoro, secondo cui la lesione alla professionalità può dar luogo al risarcimento del danno anche quando non sia stata fornita prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (sentenza n. 10/2002), rilevando come il quadro normativo in tema di danno non patrimoniale sia mutato per l'introduzione di varie norme ordinarie — quali l'art. 2 della legge Pinto — che assicurano il risarcimento del danno non patrimoniale al di fuori della previsione degli artt. 185 cod. pen. e 89 cod. proc. civ., richiamati dall'art. 2059 cod. civ. 27 “precedenti” giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell'uomo (29). Nello specifico, oggetto della contestazione era la quantificazione del danno non patrimoniale liquidato dalle Corti d'appello in somme di modestissima entità. La Corte di cassazione ha ritenuto sussistente una violazione di legge, e precisamente dell'art. 2 che afferma il diritto all'equa riparazione per violazione della Convenzione europea sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole. La legge 89/2001, precisa la Cassazione (sentenza n. 1340), “identifica il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della Cedu. Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (articolo 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle. Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge 89/2001 consiste in una determinata violazione della Cedu, spetta al Giudice della Cedu individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l'essere “conformato” dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all'applicazione della legge 89/2001, ai giudici italiani. Non è necessario, allora, porsi il problema generale dei rapporti tra la Cedu e l'ordinamento interno, su cui si è ampiamente soffermato il Pg in questa udienza. Qualunque sia l'opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla collocazione della Cedu nell'ambito delle fonti del diritto interno, è certo che l'applicazione diretta nell'ordinamento italiano di una norma della Cedu, sancita dalla legge 89/2001 (e cioè dall'articolo 6, § 1, nella parte relativa al termine ragionevole), non può discostarsi dall'interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo. L'opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l'applicazione che la legge 89/2001 riceve nell'ordinamento nazionale e l'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge 89/2001 e comporterebbe per lo Stato 29 Cfr. Diritto e giustizia on line, del 28 gennaio 2004, per le sentenze 1339 e 1340; www.dirittiuomo.it/home.htm, per le sentenze n. 1338 e n. 1341. italiano la violazione dell'articolo 1 della Cedu, secondo cui “le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione” (in cui è compreso il citato articolo 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole). Una delle prime pronunce successive all'incisivo intervento della Corte di cassazione sembra accogliere l'indirizzo suggerito, liquidando una somma a titolo di risarcimento abbastanza in linea con i “tariffari” di Strasburgo (30). 6. I problemi strutturali Alle difficoltà giuridiche sul piano interno si aggiungono problemi strutturali e di organizzazione, come rileva il dato sulle pendenze presso le Corti d'appello. Più precisamente, ha sottolineato il Procuratore generale Favara in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2004, i procedimenti promossi per ottenere tali indennizzo ammontano già a diverse migliaia: il numero di quelli pendenti al 30 giugno 2002 era di 3.762 e ad essi se ne sono aggiunti altri 3.966 nel corso dei dodici mesi successivi. Le Corti d'appello, in questo periodo, hanno definito 5.242 procedimenti, per cui al 30 giugno 2003 restavano pendenti 2.486 processi. Alla Corte di cassazione nel medesimo periodo erano pervenuti 1.222 ricorsi proposti contro decreti emessi in materia dalle Corti di appello, e ne risultavano definiti circa 200 (31). 30 Decreto della Corte d'appello di Bari del 16 marzo 2004, in Diritto e giustizia on line del 1 giugno 2004. 31 Cfr. la relazione cit. alla nota 19 La pendenza avanti alla Corte di cassazione risultava essere di 1550 procedimenti. I grafici che precedono sono alla pagina http://www.giustizia.it/statistiche/statistiche-dog/2002/civile/equa-riparazione.htm. Dal suo contenuto e dalle motivazioni storiche che hanno portato all'approvazione (denunce sempre più rigide da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa) emerge chiaramente che la legge Pinto ha il solo scopo di deflazionare il contenzioso avanti alla Corte di Strasburgo, nulla prevedendo per eliminare il problema di una giustizia troppo lenta. Anche il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, nell'esaminare il “Rapporto 2001 per l'anno 2000”, presentato dal Governo italiano il 1° ottobre 2001, pur prendendo atto dell'introduzione della nuova legge, non ha mancato di sollevare qualche perplessità su una norma che non incide assolutamente sulla lunghezza dei procedimenti e che rischia di aggravare ulteriormente il carico di lavoro delle Corti d'appello (32). Ma soprattutto, l'efficacia e l'effettività della norma è stata messa in discussione dalla decisione sulla ricevibilità relativamente al caso Scordino (33) ove la Corte ha ritenuto sussistenti i motivi di fatto e di diritto sostenuti dai ricorrenti che lamentavano l'eccessiva durata della stessa procedura disciplinata dalla legge Pinto. Ha così riconosciuto l'inidoneità della legge nella sua interpretazione ed applicazione da parte dei giudici italiani, e dunque legittimato il ricorso alla Corte europea senza prima esaurire la “procedura Pinto” ritenuta inidonea a garantire un processo equo e ragionevole e una riparazione conforme ai criteri della Convenzione e della giurisprudenza della Corte europea (34). 32 Cfr. “I processi cambiano marcia e vanno più veloci, Italia promossa a metà: a febbraio nuovo esame”, in Diritto e giustizia on line del 4 ottobre 2001. 33 La decisione del 27 marzo 2003, Scordino e a. c. Italia, ricorso n. 36813/97 è in Diritto e giustizia on line del 7 giugno 2003, con commento di A. DIDONE, Eccessiva durata ed equo indennizzo; ibidem 31 luglio 2004, la decisione del 29 luglio 2004, nello stesso caso Scordino, con commenti di F. BUONUOMO: Espropri: il sistema di quantificazione dell'indennità (duramente censurato) costa caro all'Italia. E Scordino concede il bis. 34 L'art. 13 della Convenzione europea riconosce ad ogni persona che subisce una violazione dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione il diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale. L'art. 35, par. 3 subordina l'accesso alla Corte al previo esaurimento di tutti i ricorsi adeguati ed efficaci messi a disposizione dall'ordinamento interno. Tuttavia se il ricorso interno non è effettivo, l'individuo può ricorrere direttamente alla Corte europea. La Corte di cassazione italiana è stata ritenuta un rimedio non effettivo e, quindi, uno stadio giurisdizionale non necessario da esperire prima di presentare ricorso alla Corte europea, anche nell'ipotesi di mancato rispetto del diritto ad una detenzione provvisoria e ad un giudizio rapido dal momento che ha ritenuto, con una giurisprudenza consolidata, l'art., 5 par. 3 della Convenzione una norma meramente programmatica (decisione di ricevibilità nel caso Sardinas Albo c. Italia sul ricorso n. 56271/00, in Diritto e giustizia on line dell'8 maggio 2004, con L'attività di monitoraggio da parte del Comitato dei ministri continua. Si segnala, in occasione della 854ª riunione del 7-9 ottobre 2003 (CM OJOT[2003] 854 F), il rilievo del Comitato, che ha discusso sullo stato della giustizia amministrativa, registrando un dato di pendenze assai elevato, benché in diminuzione, pari a 820.000 ricorsi nel 2002 rispetto ai 920.000 del 2001. I dati più recenti sulle pendenze e sui tempi dei processi italiani sono contenuti nella già ricordata relazione del Procuratore Generale in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2004. In materia civile, davanti al giudice di pace le pendenze al 30 giugno 2003 erano di 759.094 processi, con un aumento, quindi, del 7,3% rispetto all'anno precedente (707.466 processi pendenti al 30 giugno 2002), che aveva registrato a sua volta un aumento del 10,4% rispetto al dato dell'anno prima. Analogo l'andamento delle sopravvenienze: nei dodici mesi tra il 1° luglio 2002 e il 30 giugno 2003, sono stati iscritti davanti ai giudici di pace 877.590 processi, con un aumento del 10,9% rispetto ai 791.099 iscritti nell'anno precedente. Anche il numero dei processi definiti dai giudici di pace è passato da 726.521 a 820.166, con un aumento del 12,9%. Nel 2003, come negli anni passati, si registra quindi — per il giudice di pace — un'eccedenza delle sopravvenienze rispetto al numero dei processi esauriti. Nonostante l'indice di smaltimento dei processi sia rimasto fermo intorno al 50%, il dato va letto in correlazione con il fatto che la durata media dei processi davanti ai giudici di pace è in progressivo, ma lieve, aumento. Essa comunque si mantiene in tempi di poco inferiori all'anno, il che corrisponde ad un terzo del tempo mediamente necessario per la definizione dei processi di primo grado davanti ai tribunali. I processi pendenti in primo grado davanti ai tribunali presentano una riduzione significativa (pari al 6,1%) rispetto all'anno precedente. I 2.415.739 procedimenti pendenti al 30 giugno 2002 sono infatti ulteriormente scesi a 2.268.236 al 30 giugno 2003, con una riduzione che si aggiunge a quelle che si erano verificate nei due anni precedenti, confermando così, da un lato, una positiva tendenza verso il progressivo smaltimento del rilevante arretrato da cui è commento di F. BUONUOMO, Eccesso di custodia cautelare, si può andare a Strasburgo senza passare da piazza Cavour). gravata la giustizia civile e, dall'altro lato, l'effetto positivo dell'entrata a regime delle riforme processuali e ordinamentali della seconda metà degli anni novanta (riforma del processo civile, introduzione del giudice di pace, giudice unico di primo grado). La riduzione delle pendenze si è infatti verificata nonostante che nel 2003 vi sia stato un sensibile aumento del numero delle cause sopravvenute, passate dalle 850.847 del periodo 1° luglio 2001-30 giugno 2002 alle 911.551 dell'ultimo periodo di riferimento. Il numero dei processi definiti è stato notevolmente superiore a quello dei processi sopravvenuti nel medesimo periodo: 1.033.430 contro 911.551. Negativo è invece il dato concernente la riduzione del numero dei processi esauriti: 1.033.430 nel periodo dal 1° luglio 2002 al 30 giugno 2003, contro i 1.079.487 dell'anno precedente. A tale riguardo, dalle relazioni dei Procuratori generali emerge una corale denunzia delle difficoltà indotte dalla riduzione delle risorse, per quanto riguarda sia le strutture che il personale amministrativo. La durata media dei processi davanti ai tribunali registra segnali di riduzione. L'indice di durata è infatti sceso da 953 a 879 giorni, pari a due anni e cinque mesi, confermando il trend positivo del 2002 (35). Relativamente alle pendenze finali, per il contenzioso affidato alle “sezioni stralcio”, le cause sono passate infatti da 503.234 del 1999 a 142.284 nel luglio 2003. Le pendenze in grado di appello hanno registrato un lieve incremento, essendo passate dalle 247.268 cause del 30 giugno 2002 35 Precisa, tuttavia, il Procuratore generale che il dato relativo alla durata media dei processi davanti al tribunale concerne la durata media di tutti i processi, quale che ne sia la modalità di definizione, e che la durata media dei processi definiti con sentenza è più lunga. In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, si ha che il 58% di essi si esaurisce in meno di tre anni (più precisamente: il 23% in un anno; il 20% in due anni; il 15% in tre anni). Nel restante 42% dei processi la sentenza arriva invece dopo tre anni dall'inizio del processo e precisamente entro il quarto anno dall'iscrizione nel 13,3% dei casi; entro il quinto anno nell'8,3% dei casi; entro il sesto anno per una percentuale pari al 5,3% e entro il settimo anno nell'1,7% dei casi. Vi è poi una quota pari al 13,4% del totale delle sentenze depositate nell'anno di riferimento che riguardava processi iscritti prima del 1996. La media complessiva che ne risulta è pari a quattro anni circa, ma è una media fortemente e negativamente influenzata dai casi assolutamente anomali, quali sono quelli da ultimo indicati, e che corrispondono sostanzialmente ai processi gestiti dalle sezioni stralcio. Resta comunque il fatto grave di un gran numero di processi, pari, come si è detto, al 42 per cento, che richiede più di tre anni — e a volte molto più di tre anni — per essere deciso con sentenza. alle 265.386 del 30 giugno 2003. Questo dato va collegato principalmente alle sopravvenienze, che sono ulteriormente e notevolmente aumentate: mentre nei dodici mesi dal 1° luglio 2001 al 30 giugno 2002 erano state di 104.608, negli ultimi dodici mesi sono salite a 121.391. A tale impennata delle sopravvenienze si è peraltro contrapposto un lieve aumento del numero dei processi esauriti: nel 2003 sono stati 104.416, rispetto ai 102.143 del 2002. È probabile, come segnala il Procuratore generale, che il dato relativo alle pendenze trovi spiegazione nel ritardo con cui si è provveduto all'adeguamento delle piante organiche delle Corti d'appello, dopo l'attribuzione alle stesse della cognizione in secondo grado delle controversie in materia di lavoro e previdenza. Tuttavia, il risultato complessivo è che anche nel 2003 il numero dei processi esauriti è notevolmente inferiore a quello dei processi sopravvenuti, secondo una tendenza che si proietta pericolosamente nel futuro, creando le basi per sempre crescenti disfunzioni negli anni a venire. Sul fronte penale i dati statistici relativi ai procedimenti nel periodo 1° luglio 2002–30 giugno 2003 evidenziano, accanto a taluni aspetti positivi, quale la consistente contrazione delle pendenze (5.743.906: -3,3%) e delle sopravvenienze (6.049.664: 3,5%), un profilo negativo costituito da un'accentuata riduzione dei procedimenti definiti (5.852.271: - 4,6%), di guisa che la diminuzione del carico di lavoro al 30 giugno 2003 è dovuta, più che ad un aumento della produttività, alla riduzione dei procedimenti sopravvenuti nel periodo di riferimento. È la conferma di un trend che dura ormai da qualche anno: esso dimostra la sempre maggiore complessità e difficoltà che va assumendo il processo penale nel nostro Paese. Il minor numero di processi definiti sembra non dipendere, infatti, se non in parte, da una diminuita produttività dei magistrati, piuttosto che dalla generale tendenza a protrarre la definizione dei processi, facendo uso di ogni possibile rimedio e a impugnative reiterate. In ordine alla durata dei processi, i dati statistici elaborati dal Ministero della giustizia evidenziano che la tendenza verso un progressivo aumento della durata media (che, in quanto tale, tiene conto sia dei processi che si esauriscono in pochi giorni sia di quelli che si protraggono per lustri) non accenna ad arrestarsi. Infatti, a fronte di una lieve contrazione dei tempi delle indagini preliminari (da 390 a 381 giorni), originata anche dalla ormai piena operatività del giudice di pace, vi è un generalizzato e consistente aumento di durata di tutte le fasi successive: davanti al GIP è passata da 251 a 324 giorni; davanti al tribunale da 321 a 341 giorni e in corte d'appello da 495 a 543 giorni. Nell'insieme, ove si ipotizzi un procedimento che si snoda nelle fasi delle indagini preliminari, dell'udienza preliminare, del giudizio di primo grado in tribunale e di quello di appello, la sua durata media è di 1.589 giorni, rispetto ai 1.457 giorni del periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002 (qualora si tenga conto dell'eventuale giudizio di cassazione, occorre aggiungere ulteriori 216 giorni). I tempi effettivi sono ancora più lunghi. Quelli riferiti, infatti, tengono conto solo del lasso temporale che intercorre tra il momento in cui un procedimento è incardinato in un determinato ufficio e quello in cui viene adottato il provvedimento che definisce la relativa fase; non anche del tempo necessario per la redazione del provvedimento definitorio e per la trasmissione degli atti al giudice della fase successiva. Quanto all'attività del giudice di pace in materia penale, divenuto operativo dal 1° gennaio 2002, emerge che dal 1° luglio 2002 – 30 giugno 2003 ha definito 254.000 procedimenti, pari all'11% di tutti quelli definiti dal GIP presso il tribunale e da quest'ultimo; i quattro quinti (202.000) di tali procedimenti si sono conclusi con decreti di archiviazione. I Procuratori generali distrettuali concordemente pongono in rilievo che l'attribuzione della competenza penale al giudice di pace ha comportato un indiscutibile effetto positivo nella accelerazione dei processi anche davanti al tribunale, conseguente ad una riduzione del suo carico di lavoro ed, in prospettiva, anche delle Corti di appello. 7. La revisione dei processi L'amministrazione e l'efficienza della giustizia italiana sono state oggetto di attenzione da parte degli organi di Strasburgo anche sotto un diverso profilo, precisamente quello della revisione dei processi. I Paesi contraenti della CEDU “s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte” (art. 46, par. 1). Nell'adempimento di quest'obbligo, la prassi ha dimostrato che in alcuni casi non è sufficiente l'adozione di misure ulteriori a carattere individuale e generale: per assicurare la restitutio in integrum voluta dalla Convenzione, oltre al pagamento dell'equa soddisfazione, occorre invece la riapertura del procedimento interno o il riesame della decisione contestata. Lo stesso Comitato dei ministri, con la raccomandazione n. R (2000) 2 del 19 gennaio 2000, ha invitato, alla luce di questa considerazione, gli Stati membri ad “esaminare i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate possibilità di riesame del caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti, laddove la Corte ha riscontrato una violazione della Convenzione, ed in particolare allorché: i) la parte offesa continua a subire conseguenze negative molto serie a causa dell'esito della decisione interna in questione, conseguenze che non sono riparate dall'equa soddisfazione e che non possono essere eliminate se non attraverso riesame o riapertura del caso e ii) la sentenza della Corte induce alla conclusione che a) la decisione interna impugnata è nel merito contraria alla Convenzione, o b) la violazione riscontrata è costituita da errores in procedendo o da altre mancanze di tale gravità da far sorgere seri dubbi sull'esito del procedimento nazionale considerato” (36). Diversi ordinamenti contemplano fra i motivi di revisione nel settore penale una sentenza di condanna della Corte europea. È il caso della Svizzera, della Finlandia, della Francia, della Germania, dell'Irlanda, della Slovenia, della Spagna. Numerosi Paesi prevedono strumenti analoghi anche in materia civile ed amministrativa: ad esempio l'Austria, la Croazia, la Germania, la Lituania, il Lussemburgo, Malta, la Norvegia, la Polonia, la Slovenia, la Svizzera. L'Italia, oltre a Bulgaria, Liechtenstein e Paesi Bassi, non prevede alcuna possibilità di riapertura del caso. Con il testo unificato delle proposte di legge n. 1447 e n. 1992 (trasmesso dalla Camera al Senato il 28 luglio 2003, ora progetto n. S 2441, che ha concluso l'esame della Commissione giustizia il 17 febbraio 2004) il nostro legislatore intende modificare il codice di procedura penale in 36 Cfr. la raccomandazione in https://wcm.coe.int/rsi/common/renders/rendstandard.jsp?DocId=334147&SecMode=1&Lang=fr. materia di revisione dei processi penali. Più precisamente, ai sensi del nuovo articolo 630-bis c.p.p. potrà essere richiesta la revisione delle sentenze e dei decreti penali di condanna se una sentenza della Corte europea abbia accertato una violazione delle disposizioni di cui all'art. 6 della Convenzione. La proposta di legge in esame riprende quella avanzata nella precedente legislatura (nel 1998) che fu solo in parte attuata, limitatamente, per la precisione, all'individuazione del giudice competente a decidere sull'istanza di revisione (37). La relazione al disegno di legge sottolinea che la necessità d'introdurre la revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea ha come fine quello di garantire un'effettiva ed efficace applicazione della Convenzione. In altre parole, il pagamento di una somma di denaro costituisce solo una delle conseguenze riparatorie, dovendosi, per quanto possibile, rimuovere le conseguenze della violazione. Secondo quanto previsto dalla proposta normativa, per poter ottenere la revisione non è sufficiente che la Corte europea abbia sancito la violazione dell'art. 6, ma occorre che sussistano due condizioni. Innanzitutto, la violazione deve aver avuto un'incidenza rilevante nel giudizio interno definito con una condanna; in secondo luogo, non può chiedere la revisione chi abbia già scontato la pena. Con la risoluzione DH(2004)13 del 10 febbraio 2004 il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha esortato le autorità italiane ad accelerare l'adozione del testo e ad introdurre delle modifiche, conformi alla risoluzione, in modo da comprendere anche le violazioni commesse prima dell'entrata in vigore della (futura) legge, tenendo conto della gravità del reato e delle conseguenze subite (38). Postilla editoriale. Successivamente la Carta costituzionale europea è stata approvata dai capi di stato e di governo. L'iter (al momento di mandare in stampa questo numero della Rivista: fine settembre 2004) non è ancora concluso poiché manca la 37 Cfr. il testo del d.d.l. e i riferimenti sullo stato dei lavori in http://www.parlamento.it/leg/14/Bgt/Schede/Ddliter/20146.htm. 38 Cfr. la risoluzione in https://wcm.coe.int/rsi/common/renders/rendstandard.jsp? DocId=118213&SecMode=1&Lang=fr. ratifica da parte di ogni membro dell'Unione. Purtuttavia la relazione di Nascimbene e Sanna, anche per questo motivo, ma non solo, conserva il valore di un rilevante contributo per i futuri sviluppi del tema. (N.d.R.) ANTITRUST FRA DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO NAZIONALE Convegno UAE e LIDC Treviso, 13 e 14 maggio 2004 La sesta edizione del Convegno, tenutosi presso Casa dei Carraresi a Treviso, sotto il patrocinio dell'Unione degli Avvocati Europei (UAE) e della Ligue Internationale Droit de la Concurrence (LIDC), è stata — come ormai da dieci anni a questa parte — una importante occasione di incontro e confronto tra tutte le parti interessate dall'applicazione del diritto antitrust comunitario e nazionale (Commissione Europea, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, imprese, professionisti) ed ha visto la attiva partecipazione di vari esponenti del Foro di Milano, quali l'Avv. Paola Tarchini, il Prof. Lamberto Liuzzo, l'Avv. Ermanno Rho. La prima giornata del Convegno è stata aperta da un saluto dell'Avv. Enrico Adriano Raffaelli, Presidente della Commissione Diritto della Concorrenza dell'UAE, dell'On. Dino De Poli, Presidente della Fondazione Cassamarca, del Prof. Giuseppe Sena, Presidente Onorario della LIDC, del Dott. Sergio Bellato, Presidente di Unindustria Treviso e del Prof. Francesco Gentile, Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Padova, che ha patrocinato il Convegno. Ha quindi introdotto i lavori, il Commissario alla Concorrenza, Prof. Mario Monti, il quale ha tracciato — in modo invero alquanto efficace — le attuali e future linee di sviluppo del diritto della concorrenza, recentemente rimodellato dall'intervento del Regolamento CE n. 1 del 2003 (in tema di applicazione degli artt. 81 e 82 del Trattato CE) nonché dal Regolamento n. 139 del 2004 (in tema di controllo delle concentrazioni), costituenti i cardini del c.d. “pacchetto modernizzazione”, resosi necessario non solo per venire incontro alle mutate esigenze degli operatori del settore ma anche per tenere conto degli effetti di una Unione Europea “allargata” (e che ha visto, proprio pochi giorni prima del Convegno (1 maggio 2004), l'entrata di nuovi Stati membri). A questa vera e propria riforma del diritto antitrust (sia nazionale che comunitario) è stata dedicata la prima sessione dei lavori, presieduta brillantemente dal Prof. Giuseppe Tesauro, Presidente della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha visto alternarsi importanti e qualificati relatori. La prima parte di tale sessione — finalizzata ad una panoramica “istituzionale” della predetta riforma — ha visto gli interventi dell'Avv. Ivo Van Bael di Bruxelles (il quale ha criticamente illustrato le procedure di applicazione del diritto antitrust comunitario) e del Prof. Marco D'Alberti, membro dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, il quale si è soffermato sull'importante ruolo della European Competition Network — che riunisce e coordina tutte le Autorità Antitrust comunitarie — quale momento di vera e propria “costruzione” del diritto antitrust. La seconda parte ha visto invece alcuni interventi mirati in tema di applicazione del diritto della concorrenza da parte dei giudici nazionali: in tal senso, la Dott.ssa Marina Tavassi della Corte d'Appello di Milano si è soffermata sul (nuovo) ruolo cui sono chiamati i giudici nella tutela della concorrenza a seguito dell'entrata in vigore del Regolamento CE n. 1 del 2003; il Dott. Roberto Chieppa, Consigliere di Stato, ha illustrato il controllo giurisdizionale da parte dei giudici amministrativi italiani sugli atti delle Autorità Antitrust (ed, in primis, sui provvedimenti della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato); Jacqueline Riffault-Silk della Corte d'Appello di Parigi ha offerto il punto di vista dell'esperienza francese, in cui — contrariamente a quanto succede in Italia — competente a conoscere sulle impugnazioni delle decisioni del Conseil de la Concurrence (i.e.: l'Autorità Antitrust nazionale d'oltralpe) non è il giudice amministrativo ma il giudice ordinario (nella specie, la Corte d'Appello di Parigi). La seconda sessione si è concentrata sulla “declinazione” fattuale della riforma del diritto antitrust nella vita delle imprese. In tale ottica la Prof.ssa Margaret Bloom del King's College di Londra ha analizzato i c.d. “programmi di clemenza” (i.e.: le azioni che possono essere intraprese dalla impresa oggetto di una istruttoria antitrust al fine di andare esente da — o vedere notevolmente ridotta la — sanzione pecuniaria irrogata), l'Avv. Cornelis Canenbley di Dusseldorf ha illustrato i risvolti pratici della collaborazione sovranazionale tra Autorità Antitrust (mediante l'European Competition Network o l'International Competition Network) per le imprese multinazionali operanti in più paesi; l'Avv. Cristina Cabella, general counsel di IBM Italia, ha offerto la prospettiva interna alla impresa in relazione ai dawn raids condotti da Commissione e Autorità Antitrust nazionali (con particolare riferimento alla possibile estensione del c.d. legal privilege anche ai legali interni dell'impresa, chiamati, dopo l'entrata in vigore del Regolamento CE n. 1 del 2003, ad un ruolo decisionale più “sensibile”); il Dott. Iacopo Berti, funzionario dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato distaccato presso la Commissione Europea, si è invece concentrato sul ruolo dell'associazionismo e il rapporto tra questo ed il diritto antitrust, anche alla luce di alcune recenti pronunce nazionali e comunitarie. La seconda giornata del Convegno, suddivisa in due sessioni dedicate alle problematiche di settore e alle nuove sfide del diritto antitrust, si è aperta con l'intervento del Prof. Giuseppe Sena dell'Università di Milano che ha focalizzato l'attenzione dei partecipanti al Convegno sul mercato farmaceutico con particolare attenzione agli aspetti concorrenziali dello stesso. Il Prof. Sena ha evidenziato in particolare come la ricerca farmaceutica ed il progresso scientifico — seppur con costi ed investimenti rilevanti che implicano un numero sempre maggiore di concentrazioni tra imprese che operano in tale settore — determinano comunque in tale mercato una forte concorrenza. Il Prof. Alberto Santa Maria dell'Università di Milano, con un intervento di grande attualità, ha invece esplorato i riflessi della normativa antitrust nel settore dello sport professionistico, con particolare riferimento al settore calcistico, dove sono essenziali regole eque ed applicate in modo uniforme in materia di concorrenza e di aiuti di Stato onde garantire che le imprese possano operare efficacemente su un piano di parità nel mercato interno. Il Prof. Santa Maria, dopo aver scorso alcuni casi di sostegno economico e finanziario da parte delle autorità locali o addirittura statali in alcuni Paesi europei, si è soffermato sugli interventi di sostegno allo sport professionistico in Italia e sulla conseguente decisione della Commissione di dare avvio alla recente procedura di infrazione contro l'Italia. La terza sessione del Convegno si è conclusa con una Tavola Rotonda, moderata dall'Avv. Barry Hawk di New York, cui hanno partecipato il Prof. Michele Grillo, membro dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, il Dott. Götz Drauz, Direttore aggiunto facente funzione per le fusioni della Commissione Europea, e l'Avv. Mario Siragusa. Il tema molto attuale della discussione, il nuovo Regolamento CE n. 139 del 2004 comunitario sul controllo delle concentrazioni (entrato in vigore proprio nel maggio del 2004), ha offerto l'occasione di discutere delle principali novità introdotte nella nuova normativa comunitaria e animato il dibattito anche tra i partecipanti al Convegno. La prima parte dell'ultima sessione del Convegno, “Antitrust – Le nuove sfide”, presieduta dal Prof. Bruno Nascimbene dell'Università di Milano, ha approfondito il rapporto tra normativa a tutela della concorrenza e consumatori e gli effetti subiti dai consumatori a seguito di condotte anti-concorrenziali. In tal senso l'intervento dell'on. Benedetto della Vedova del Parlamento Europeo ha evidenziato come una politica tesa a limitare la concorrenza in un dato mercato, attraverso la creazione di barriere all'ingresso e politiche di dumping, possa riflettersi in una grave perdita per l'insieme dei consumatori. In tal senso anche l'intervento di Paul Victor di New York che ha illustrato il tema della tutela privatistica dei consumatori nell'esperienza antitrust statunitense, offrendo una panoramica generale dell'efficacia della normativa antitrust negli Stati Uniti ed focalizzando la propria attenzione sui rimedi previsti dal legislatore statunitense per i consumatori che hanno subito danni, anche patrimoniali, a causa di condotte anticoncorrenziali. Il tema della tutela del consumatore nella politica della concorrenza è stato ulteriormente approfondito dal Prof. Alberto Pera il quale ha introdotto il concetto del “consumer welfare paradigm” quale metro di valutazione per la corretta applicazione delle norme antitrust. L'ultima parte è stata animata dalla Dott.ssa Rita Ciccone, Segretario Generale dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, e dall'Avv. Vittorio Di Bucci, del Servizio Giuridico della Commissione Europea. La Dott.ssa Rita Ciccone ha esaminato la sentenza C-198/01 della Corte di giustizia nel caso Consorzio Industrie Fiammiferi, che ha destato evidente interesse in quanto si tratta della prima pronuncia della Corte di giustizia adottata a seguito di un rinvio pregiudiziale in materia di concorrenza, da parte dei giudici amministrativi italiani in sede di controllo delle decisioni antitrust. Due i profili principali della sentenza illustrata dalla Dott.ssa Ciccone: quello relativo alla disapplicazione di norme nazionali contrastanti con le norme del Trattato CE in materia di concorrenza da parte di un'autorità nazionale di concorrenza, e quello dell'imputabilità alle imprese di condotte anticoncorrenziali attuate in contesti regolamentati e, quindi, dell'applicabilità dell'art. 81 nei loro confronti. Infine l'Avv. Vittorio Di Bucci ha delineato gli effetti che l'allargamento a dieci nuovi Stati Membri dell'Unione Europea attuato il 1o maggio 2004 comporterà sulla disciplina degli aiuti di Stato. Se il programma scientifico ha avuto grande riscontro nei numerosi partecipanti, non si può tacere il successo del programma sociale organizzato per i partecipanti al Convegno di Treviso e i loro accompagnatori. La cena di gala nella suggestiva cornice del Castello di San Salvatore a Susegana o la cena “in amicizia” da Gigetto hanno serenamente e amichevolmente accompagnato e concluso i lavori del Convegno. La cronaca è di Stefano Nanni Costa avvocato in Milano LA PROCEDURA DI VALUTAZIONE DELL'IMPATTO AMBIENTALE: UNO STRUMENTO GIURIDICO DI TUTELA DELL'AMBIENTE (*) (ATELIER UNITAR - Aix en Provence (France), 16-17-18 giugno 2004) Nell'ambito del Programma di formazione in diritto internazionale dell'ambiente promosso dall'UNITAR (l'Istituto delle Nazioni Unite per la Formazione e la Ricerca), si è svolto dal 16 al 18 giugno 2004 ad Aix en Provence il quarto Atelier “Environnement et Justice”, destinato a magistrati ed avvocati di Belgio, Francia, Spagna, Svizzera e Italia. L'incontro si proponeva di analizzare, con l'aiuto di studiosi dell'Università di Aix en Provence, le direttive comunitarie che hanno imposto agli Stati dell'Unione Europea l'applicazione di procedure di valutazione dell'impatto ambientale. L'oggetto di questo studio interdisciplinare, che il richiedente di un permesso di costruire deve allegare al proprio progetto, consiste nella verifica dei possibili danni all'ambiente provocabili dalla costruzione e dall'indicazione, tra le varie alternative possibili, dei mezzi più efficaci alla loro minimizzazione. Un'analisi comparata delle diverse modalità di recezione nazionale delle direttive, attraverso il confronto delle normative e soprattutto dell'apporto giurisprudenziale in materia, ha costituito l'approccio seguito in questi tre giorni di studio, conclusisi con la presentazione, da parte del rappresentante di ciascun Paese, della giurisprudenza nazionale. Parte della seconda giornata è stata dedicata alla visita del sito su cui sorge l'impianto di trattamento rifiuti di Septèmes-LesVallons, di cui è stato presentato il contesto storico e ambientale, e illustrate le attuali modalità seguite nelle procedure di stoccaggio, compostaggio e valorizzazione del biogas. La visita è stata organizzata da Veolia Environnement, partner dell'UNITAR, assieme all'Ecole Nationale de la Magistrature francese e all'Ufficio * (*) Roberta D'Antoni, Dottoranda di ricerca in Diritto penale all'Università di Trento, Avvocato del foro di Venezia. Federale Svizzero dell'Ambiente, delle Foreste e del Paesaggio, nella realizzazione dell'Atelier. *** Dopo l'apertura dei lavori da parte della Prof.ssa M. Sancy, coordinatrice del Programma UNITAR di diritto dell'ambiente, l'illustrazione della normativa comunitaria è stata affidata ad una rappresentante della Direzione Generale della Commissione Europea, M. Thisvi Ekmektzoglou, che ha illustrato le principali modifiche della Direttiva 97/11/EC alla precedente 85/337/EEC, pur continuando a distinguere tra i progetti appartenenti alle classi elencate nell'Allegato I e quelli di cui all'Allegato II, per i quali la valutazione circa la necessità di V.I.A. spetta agli Stati, che possono, a tale scopo, individuare tipologie, fissare criteri o soglie limite. Dopo quest'ultima fase, detta di “screening”, la normativa interna dovrà dettagliare quella cosiddetta di “scoping”, al fine di delimitare il campo di fattori ambientali da prendere in considerazione (genericamente indicati dalla direttiva in uomo, fauna e flora, suolo, acqua, aria, clima e paesaggio, beni materiali e patrimonio culturale, e loro interazione). La relatrice si è soffermata sul contenuto della fase di consultazione pubblica, il cui presupposto è dato dalla previsione normativa di un termine ragionevole a disposizione del pubblico per poter visionare la domanda di autorizzazione del progetto e il rapporto di studio d'impatto, di precise modalità e luoghi di consultazione. Comprese le consultazioni transfrontaliere di cui alla Convenzione Espoo del 1991. Oportune modalità di pubblicità dovranno riguardare anche la decisione. La Dott.ssa Truihlé-Marengo, professoressa incaricata all'Università di Aix-Marsiglia, ha approfondito l'analisi della Convenzione di Espoo, sottolineando le varie fasi della procedura d'inchiesta promossa dalla Parte d'origine per valutare gli effetti transfrontalieri dell'impatto ambientale prodotto dall'installazione richiesta e la procedura d'arbitrato prevista dalla Convenzione per le controversie. La Dott.ssa Brosset, ricercatrice del CERIC (Centro Studi di Ricerche Internazionali e Comunitarie), ha invece illustrato l'altra fonte della Commissione Economica dell''ONU per l'Europa, origine del diritto comunitario della materia, la Convenzione di Aarhus sull'accesso all'informazione, la partecipazione del pubblico al processo decisionale e l'accesso alla giustizia in materia ambientale (1999). *** Il panorama della giurisprudenza francese è stato tracciato dal Prof. M. Billet, associato di Diritto Pubblico all'Università di Metz, che ne ha indicato le linee guida nel rifiuto di formalismi che eccedano il sostanziale rispetto delle esigenze legali, nell'esigenza di minimi di qualità dello studio e nella tendenziale completezza di questo, le cui conclusioni non potranno essere corrette successivamente all'inchiesta, né richiedere, per la comprensione del pubblico, studi ulteriori, cui ci si potrà al massimo riferire come fonte di informazioni complementari e non essenziali. Il relatore, ricordando l'art L.122-1 del Codice francese dell'ambiente, che impone allo studio d'impatto un contenuto proporzionale all'importanza dei lavori e all'incidenza prevedibile, ha illustrato alcune sentenze (tra cui TA Strasburgo, 19 gennaio 1993 e altre in RJE 1995, n°. spec., pag. 11) che hanno consentito il riconoscimento della legalità di alcuni studi, a prima vista insufficienti, ma che nel contesto generale del progetto non mancavano di elementi essenziali. Tra le caratteristiche individuate nella recezione normativa francese (Decreto n. 77-1141 del 12 ottobre 1977) è stato menzionato il requisito di un studio dello stato iniziale del sito, che tuttavia deve essere “attualizzato” rispetto alla domanda di autorizzazione nel senso di non fotografare una realtà troppo risalente (oltre i sei anni indicati dal Consiglio di Stato), con la necessità di sottoporre a studio anche l'ambiente naturale che si trova in prossimità del sito interessato e l'estensione di tale studio agli effetti sulla salute. A questo proposito veniva citata, tra le altre, la sentenza del TA Montpellier, 30 dicembre 2003, che ha ritenuto insufficiente la valutazione allegata dal richiedente l'autorizzazione a costruire un impianto depuratore, rispetto al quale non erano stati analizzati i rischi sanitari diretti ed indiretti che, attraverso la catena alimentare, avrebbero potuto interessare gli abitanti delle zone costiere del Golfo d'Aigues-Mortes, su cui avrebbe scaricato il depuratore. Il Decreto del 1977 (con le successive modifiche del 1993), impone altresì l'espressa menzione, nello studio, dell'analisi del metodo di valutazione seguito, la cui mancanza, come sottolineato dal Prof. Billet citando la Sentenza della CAA di Douai 21 dicembre 2000, è causa di invalidazione del progetto. È stato inoltre osservato come il Decreto imponga, al fine di facilitarne la comprensione al pubblico, che lo studio sia corredato da un riassunto caratterizzato da una minor tecnicità. Altri casi affrontati dalla giurisprudenza francese sono stati presentati da M. Harangp, commissario governativo, che ha sviluppato soprattutto il caso sollevato da alcuni privati e da un'associazione ambientalista attorno alle modalità di sfruttamento di una discarica, decise dal prefetto di Bouches du Rhône, considerata esistente e non nuova, e dunque non necessitante della procedura prevista per le discariche di cui si chieda l'autorizzazione dopo il 2 marzo 2002, analizzando le difficoltà di verificare tale “esistenza” in senso giuridico. Il contributo della giurisprudenza belga è stato fornito dal Prof. L. Lavrysen, Giudice alla Cour d'Arbitrage di Bruxelles e da M. Neuray, primo uditore al Consiglio di Stato del Belgio. Il primo esperto ha preso in considerazione alcune sentenze della Cour d'Arbitrage (che vigila sull'osservanza della ripartizione di competenze tra i vari legislatori del Paese Federale), affrontanti tra l'altro il problema, ben noto nella giurisprudenza costituzionale italiana, della delimitazione tra i poteri urbanistici e di vincolo ambientale spettanti alle Autorità Locali (in questo caso la Regione di Bruxelles) e quelli di ordine sanitario che permangono di competenza federale. Il secondo relatore belga, esposte le differenze tra le discipline sulla procedura di valutazione applicate delle Regioni vallone, fiamminga e di Bruxelles, ha esposto un caso riguardante la Regione vallone e il permesso a costruire una costruzione destinata allo stoccaggio di oli combustibili usati provenienti da una centrale nucleare, in cui il Consiglio di Stato (12 agosto 1993) ha puntualizzato come i poteri di valutazione d'impatto della Regione non possano estendersi oltre i confini della gestione del territorio, impedendo di fatto allo Stato di perseguire le proprie strategie economico-produttive. L'esperienza “extracomunitaria” portata dalla Svizzera, ha permesso di comprendere il caso di una realtà federale che può conoscere, al suo interno, delle divergenze tra le normative e soprattutto tra le prassi cantonali. Il punto della situazione è stato fatto da André Jomini, Cancelliere del Tribunale Federale Svizzero di Losanna, che ha ricordato l'entrata in vigore dello strumento di valutazione il 1° gennaio 1985, con l'emanazione della legge federale sulla protezione dell'ambiente. Il caso citato (T. féd. 1A 17 agosto 2000) si caratterizzava per l'applicazione della c.d. “clausola di bisogno”, cioè della espressa “giustificazione” del progetto soggetto a studio, nonostante l'impatto ambientale e con la descrizione delle misure di protezione attuate. Un rapido riassunto della normativa e della giurisprudenza italiana in materia di valutazione d'impatto ambientale, per quanto riguarda le installazioni di ripetitori di telefonia mobile, è stato tracciato da chi scrive, in qualità di membro dell'U.A.E., partner dell'ultimo Atelier UNITAR (Inverigo 21-23 aprile 2004), assieme al CSDPE, al FEIN, alla Camera Penale di Como Lecco e all'Università dell'Insubria, che hanno sostenuto l'incontro, voluto e promosso dal Vice-presidente dell'U.A.E, Avv. Giovanni Bana, Il particolare punto di vista (l'inquinamento elettromagnetico) da cui la materia è stata trattata ha consentito di fare il punto sullo stato di applicazione del principio di precauzione, che qui interessava fondamentalmente per discuterne l'inserimento o meno tra i poteri urbanistici del Comune, quelli di localizzazione strategica della Regione o quelli sanitari dello Stato, nel quadro del già accennato problema di distribuzione delle competenze risolto dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 303 e 307 del 2003. Tra i prossimi appuntamenti del Programma di diritto ambientale dell'UNITAR è previsto un nuovo incontro ad Inverigo per la primavera 2005, sempre con la promozione ed il sostegno dell'U.A.E. e del CSDPE.