congressi, convegni - Ordine Avvocati Milano

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congressi, convegni - Ordine Avvocati Milano
CONGRESSI, CONVEGNI
L'IMPATTO DEL DIRITTO COMUNITARIO
ED EUROPEO
Circolazione degli avvocati e durata dei processi
Milano, 19-20 marzo 2004
Il testo di seguito trascritto rappresenta una versione
riveduta ed aggiornata della relazione presentata al Convegno
“L'amministrazione della giustizia e la società italiana del 2000.
Una ricerca interdisciplinare” tenutosi a Milano nei giorni 19 e
20 marzo 2004. Della sezione I, i paragrafi 1 e 2 sono a cura di
Bruno Nascimbene; i paragrafi 3, 4, 5, sono a cura di Cecilia
Sanna. Della sezione II, i paragrafi 1, 2, 3 e 4 sono a cura di
Bruno Nascimbene; i paragrafi 5, 6, 7 sono a cura di Cecilia
Sanna.
BRUNO NASCIMBENE è avvocato e professore di Diritto
Europeo nell'Università Statale di Milano, CECILIA SANNA è
avvocato e dottorando in ricerca nella medesima Università.
Premessa
La ricerca si è concentrata su alcuni profili comunitari ed
europei relativi alla circolazione degli avvocati e alla durata dei
processi, concernenti, precisamente a) la circolazione, la prestazione
di servizi e lo stabilimento degli avvocati di altri Paesi della
Comunità in Italia; b) l'incidenza della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo nel nostro Paese, con specifico riferimento al diritto
ad un equo processo sancito e tutelato dall'art. 6, par. 1 della
Convenzione, oggetto di violazione persistente da parte del nostro
Paese quanto, appunto, allo svolgimento del processo in tempi
ragionevoli.
Pur trattandosi di contesti diversi, si tratta di temi e settori che
interessano da vicino l'avvocato, il magistrato, l'operatore del diritto,
riguardando
l'accesso
e
l'esercizio
della
professione,
l'amministrazione e l'efficienza della giustizia,
giurisdizionale e la difesa dei diritti dei singoli.
la
tutela
I. PROFILI COMUNITARI
1. Esercizio della professione forense
Il primo profilo della ricerca prende in esame le modalità di
esercizio della professione forense consentite dal diritto comunitario.
Esaminate le norme che disciplinano la materia, si è condotta
un'indagine presso gli Ordini degli avvocati, diretta ad accertare se e
quanto gli avvocati cittadini di altri Paesi della Comunità, abbiano
utilizzato le possibilità offerte dal diritto comunitario di spostarsi e
stabilirsi, in particolare, in Italia, e se e quanto gli avvocati italiani
abbiano utilizzato la medesima possibilità spostandosi e stabilendosi
in altro Paese. L'esame delle norme che disciplinano la materia è
imprescindibile dal dato giurisprudenziale. Infatti, l'intervento della
Corte di giustizia delle Comunità europee sia sulle norme primarie,
sia su quelle secondarie ha inciso in termini essenziali
nell'affermazione della libera circolazione degli avvocati comunitari.
Dal 1 maggio 2004 le norme comunitarie trovano applicazione
ai dieci nuovi Stati membri: le modifiche apportate con gli atti di
adesione sono semplicemente di carattere terminologico per indicare
le corrispondenti definizioni di “avvocato” in ciascun Paese, diritto
di stabilimento e libera prestazione di servizi applicandosi così fin
da quella data (1).
2. Le tappe normative e giurisprudenziali
2.1. La mancata realizzazione degli obiettivi fissati dal Trattato
entro il termine di scadenza del periodo transitorio (1970) portò la
Corte di giustizia a pronunciare sentenze di grande rilievo, che
hanno affermato il principio della diretta efficacia degli artt. 43 e 49
(ex 52 e 59) del Trattato, rispettivamente sul diritto di stabilimento e
sulla prestazione dei servizi. Si ricordano, in particolare, le sentenze
Reyners e Van Binsbergen (2).
1
Cfr. gli atti di adesione in G.U.U.E. L 236 del 23 settembre 2003.
Sentenza del 27 giugno 1974, Reyners, in causa 2/74, in Raccolta, 1974, p. 633. Reyners
era un cittadino olandese, nato e residente in Belgio ove aveva conseguito il titolo di docteur en
2
2.2. Sul piano normativo, l'allora Consiglio CEE si limitò a
regolamentare la materia della prestazione dei servizi con la direttiva
77/249, riservando espressamente ad una successiva direttiva
l'adozione di misure di coordinamento destinate a facilitare il diritto
di stabilimento degli avvocati (3). Nel recepire tale direttiva con
legge 9 febbraio 1982, n. 31, il legislatore italiano ha escluso dalla
disciplina della direttiva ogni profilo attinente al diritto di
stabilimento, precisando che l'ammissione all'esercizio della
professione di avvocato è limitata all'attività svolta con carattere di
temporaneità (art. 2 par. 1) e vietando al prestatore di stabilire nel
territorio nazionale uno studio ovvero una sede principale o
secondaria” (art. 2, par. 2) (4). Mentre la puntualizzazione circa il
carattere transitorio dell'attività è di per sé in linea con la libera
prestazione dei servizi voluta dalla direttiva, il divieto per il
professionista migrante di dotarsi di una infrastruttura è stato per ben
due volte oggetto di censura per violazione dell'art. 49 del Trattato,
la Corte di giustizia (5) affermando che il carattere temporaneo di
una prestazione di servizi non esclude la possibilità, per il prestatore
di servizi, di dotarsi, nello Stato membro ospitante, di una
determinata infrastruttura (compreso un ufficio o uno studio) se
questa è necessaria al compimento della prestazione di cui trattasi.
Il divieto previsto dalla legge 31/1982 è stato espressamente
abrogato dall'articolo 18 della legge 39/2002 (6): sarà comunque
necessario valutare caso per caso l'idoneità della struttura con il
droit, cui era stata negata, in detto Paese, l'iscrizione all'albo degli avvocati per motivi di
cittadinanza; la legislazione belga vietava, infatti, l'iscrizione ai non cittadini salvo che il Paese di
provenienza garantisse la reciprocità di trattamento, nella fattispecie mancante. Sentenza del 3
dicembre 1974, Van Binsbergen in causa 33/74, in Raccolta, 1974, p. 1299. Van Binsbergen,
cittadino olandese, aveva designato quale rappresentante ad litem avanti al giudice olandese,
competente in materia sociale, un avvocato olandese che nel corso della causa aveva trasferito la
propria residenza dai Paesi Bassi in Belgio, facendo venir meno il requisito della residenza previsto
dalla legge olandese per l'esercizio della professione. Per riferimenti si rinvia al nostro Norme
comunitarie e norme nazionali nell'esercizio della professione forense in Italia, in Riv. dir. int.
priv., 2002, p. 349 ss.; più recentemente M. CONDINANZI, A. LANG, B. NASCIMBENE, Cittadinanza
dell'Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2003, p. 155 ss.
3
In G.U.C.E. L 78 del 26 marzo 1977.
4
In G.U.R.I. n. 42 del 12 febbraio 1982, p. 1030.
5
Sentenza del 30 novembre 1995, Gebhard, in causa C-55/94, in Raccolta, 1995, p. I-4168;
sentenza del 7 marzo 2002, Commissione c. Repubblica italiana, in causa C-145/99, in Raccolta,
1999, p. I-2235.
6
Legge 1 marzo 2002, n. 39, legge comunitaria 2001, in G.U.R.I. n. 72, S.O. del 26 marzo
2002.
carattere temporaneo della prestazione di servizi, potendosi
diversamente configurare l'ipotesi di un'attività svolta in regime di
stabilimento.
2.3. La direttiva 89/48, che ha introdotto un sistema generale di
riconoscimento dei diplomi d'istruzione superiore che attestano
formazioni professionali di durata minima di tre anni, è stata attuata
in Italia con il decreto legislativo 115/92 (7). L'articolo 9 prevede che
un regolamento avrebbe stabilito le misure compensative previste
per il riconoscimento dei titoli nell'ipotesi di formazione
professionale diversa da quella contemplata nell'ordinamento
italiano e, quindi, anche le materie oggetto d'esame, nonché le
modalità di svolgimento della prova attitudinale per il
riconoscimento del titolo di avvocato. La mancata adozione di tale
regolamento è stata censurata dalla Corte di giustizia con la sentenza
del 7 marzo 2002, a seguito della quale fu emanato dal Ministro
della giustizia un decreto che disciplina, appunto, la materia (8).
In tema di riconoscimento di diplomi e formazione
professionale, con particolare riferimento all'ordinamento italiano, si
ricorda la sentenza Morgenbesser che ha facilitato, in modo
significativo, l'iscrizione di cittadini comunitari al Registro dei
praticanti (9). Escluso che l'attività di praticante sia una professione
7
In G.U.C.E. L 19 del 24 gennaio 1989; in G.U.R.I. n. 40 del 18 febbraio 1992, p. 6 ss.
Decreto del Ministro della giustizia 28 maggio 2003, n. 91, Regolamento in materia di
prova attitudinale per l'esercizio della professione di avvocato, in G.U.R.I. n. 171 del 25 luglio
2003 (per la sentenza della Corte cfr. la nota 5). L'esame, in lingua italiana, consta di una prova
scritta ed una orale; di una sola prova orale se il candidato è in possesso di un titolo il cui percorso
formativo sia analogo a quello richiesto dall'ordinamento italiano. La prova scritta verte su non più
di tre materie fra quelle indicate nel decreto di riconoscimento quali materie oggetto di esame (una
è a scelta del candidato); la prova orale verte su non più di cinque materie, tutte a scelta del
candidato fra quelle indicate nel decreto di riconoscimento quali materie oggetto di esame, oltre a
ordinamento e deontologia professionale. La commissione d'esame è istituita presso il CNF ed è
composta da cinque membri effettivi e cinque supplenti. Ogni commissario ha a disposizione un
massimo di 10 punti per la valutazione di ciascuna prova; alla prova orale sono ammessi coloro che
abbiano riportato alla prova scritta una votazione minima di almeno 30 punti, punteggio minimo
anche per la prova scritta. La certificazione relativa al superamento dell'esame consente l'iscrizione
all'albo.
9
Sentenza del 23 novembre 2003, in causa C-313/01, Morgenbesser, in Raccolta, in corso
di pubblicazione. La signora Morgenbesser, cittadina francese residente in Italia, era titolare di una
“maîtrise en droit” rilasciata in Francia nel 1996; ma non aveva però ottenuto il “certificat
d'aptitude à la profession d'avocat” (CAPA, certificato di idoneità alla professione di avvocato).
Dopo un breve tirocinio presso uno studio legale francese, aveva lavorato dal 1998 in uno studio
legale a Genova e aveva chiesto l'iscrizione nel « registro dei praticanti » necessaria per effettuare
validamente, ai fini dell'esame di idoneità all'esercizio della professione, il periodo di pratica in
Italia. La domanda veniva respinta dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Genova nonché dal
8
regolamentata ai sensi della direttiva 89/48 e che sia qualificabile
come attività di avvocato ai sensi della direttiva 98/5, la Corte ha
ritenuto applicabili i principi generali sulla libertà di circolazione e
stabilimento, che non consentono l'applicazione di norme nazionali
che non tengano conto delle conoscenze e delle qualifiche già
acquisite da un cittadino di un altro Stato membro al di fuori dello
Stato ospitante. Un diploma conseguito in altro Paese membro deve
essere considerato nell'ambito di una valutazione dell'insieme della
formazione accademica e professionale, essendo compito
dell'autorità nazionale, e quindi degli ordini professionali, verificare
se, e in quale misura, le conoscenze attestate dal diploma, le
qualifiche o l'esperienza professionale ottenute in un altro Stato
membro, unitamente all'esperienza ottenuta nel Paese ove si vuole
esercitare, possano soddisfare, anche parzialmente, le condizioni
richieste per accedere all'attività di praticante (10).
Consiglio Nazionale Forense, in quanto la legge italiana che disciplina la professione di avvocato
prevede il possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata da un'Università italiana e
la Morgenbesser non era, comunque, abilitata in Francia all'esercizio della professione di avvocato.
La Corte di Cassazione, adita conseguentemente al diniego del CNF, chiedeva in via pregiudiziale
alla Corte di giustizia se il diritto comunitario ammetta che le autorità italiane rifiutino di iscrivere
il titolare di una laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro, per il semplice motivo
che questa non era stata rilasciata in Italia. La Corte precisa innanzi tutto che né la direttiva 98/5,
relativa all'esercizio permanente della professione di avvocato, né la direttiva 89/48, relativa al
riconoscimento dei diplomi d'istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una
durata minima di tre anni per professioni regolamentate, si applicano alla situazione della
Morgenbesser, in quanto la prima riguarda solo gli avvocati completamente qualificati e l'attività di
praticante (o praticante-patrocinante) – essendo limitata nel tempo e costituendo la parte pratica
della formazione necessaria per l'accesso alla professione di avvocato – non può essere qualificata
come “professione regolamentata” ai sensi della direttiva 89/48, separabile da quella della
professione di avvocato; il periodo di pratica, ritiene la Corte (ma suscitando ampie perplessità)
comporta, al fine dell'accesso a una professione regolamentata, l'esercizio di attività retribuite (dai
clienti o dallo studio legale, sotto forma rispettivamente di onorario o di salario).
10
Precisa la Corte che “nel caso della professione di avvocato, uno Stato membro deve
procedere a un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze esistenti tra gli
ordinamenti giuridici nazionali interessati. Se a seguito di tale esame emerge una corrispondenza
solo parziale, lo Stato ospitante può pretendere che l'interessato dimostri di aver maturato le
conoscenze mancanti. Le autorità competenti dello Stato ospitante devono, quindi, valutare se le
conoscenze e l'esperienza maturate in questo Stato possano valere al fine di dimostrare il possesso
delle conoscenze mancanti”. Anche nella sentenza del 7 maggio 1991, Vlassopoulou, in causa C340/89, in Raccolta, 1991, p. I-2357, la Corte ha affermato la necessità di operare un raffronto tra
le competenze attestate dal diploma nazionale e le qualifiche richieste dalle norme dello Stato di
stabilimento, raffronto che “deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle
conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli
studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del
titolare”, pur avendo riguardo ad eventuali differenze obiettive relative al contesto giuridico e
all'ambito di operatività della professione in esame. L'eventuale prescrizione di requisiti nazionali
2.4. Il diritto di stabilimento degli avvocati comunitari è
disciplinato dalla direttiva 98/5 (11). Nel nostro Paese la direttiva è
stata attuata con il d. lgs. 96/2001 (12) che ha introdotto una nuova
modalità di esercizio in comune della professione forense (ossia la
“società tra professionisti” o “s.t.p.” fra avvocati) anche se, come si
dirà poco oltre, è da segnalare il limitato ricorso da parte degli
avvocati italiani all'esercizio della professione in forma societaria.
3. La disciplina della concorrenza e l'esercizio della professione
Un ulteriore profilo del diritto comunitario che incide
sull'esercizio della professione forense e delle libere professioni, in
genere, è la materia della concorrenza. Il professionista e, quindi, anche
l'avvocato, infatti, per il diritto comunitario della concorrenza è
un'impresa in quanto svolge un'attività economica finalizzata alla
produzione di beni o servizi. Spesso, situazioni anticoncorrenziali sono
anche situazioni restrittive della libera circolazione delle persone.
La Commissione nella “Relazione sulla concorrenza nei servizi
professionali” presentata il 9 febbraio 2004 ha chiesto agli Stati
membri, agli ordini professionali, alle autorità di concorrenza di
riformare o eliminare la fissazione dei prezzi e le altre restrizioni che
impediscono la concorrenza, in particolare per categorie quali
avvocati, architetti, ingegneri, notai ad eccezione di quando siano
chiaramente giustificate da motivi d'interesse pubblico (13).
Tale approccio sarebbe peraltro in linea con l'entrata in vigore,
il 1° maggio 2004, delle nuove regole che decentralizzano
l'applicazione delle norme antitrust comunitarie (regolamento n.
1/2003) (14), rafforzando il ruolo delle autorità nazionali garanti della
concorrenza e gli organi giurisdizionali nazionali. Fra le varie
restrizioni, la Commissione ricorda la presenza di prezzi minimi e
di qualificazione, a prescindere dalle qualifiche acquisite all'estero, costituisce un ostacolo alla
libertà di stabilimento. Alla Corte era stato richiesto se fosse compatibile con l'art. 52 (ora 43) il
subordinare alle norme interne dello Stato di stabilimento l'esercizio della professione di avvocato
da parte di un cittadino comunitario già abilitato nel proprio Stato e ammesso ad esercitare nello
Stato ospite la professione di consulente legale.
11
In G.U.C.E. L 77 del 14 marzo 1998, c.d. “direttiva stabilimento”.
12
In G.U.R.I. n. 79 del 4 aprile 2001, S.O. n. 72.
13
Cfr. la comunicazione della Commissione COM (2004) 83 del 9 febbraio 2004.
14
Regolamento n. 1/2003 del 16 dicembre 2002 concernente l'applicazione delle regole di
concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato del 4 luglio 2003, in G.U.C.E. L 1 del 4 gennaio
2003.
massimi per le attività di architetti, avvocati, ingegneri in Italia e
Germania, sottolineando che l'esperienza dei Paesi che hanno
eliminato detta regolamentazione (non il nostro) ha dimostrato che il
controllo non è uno strumento essenziale per garantire standard
qualitativi elevati. Alcuni Paesi continuano a proibire ai liberi
professionisti di pubblicizzare i loro servizi, cosicché per i
consumatori la ricerca della qualità e dei prezzi più adatti alle loro
esigenze diventa più difficile e costosa. È il caso dei revisori dei
conti (Francia, Lussemburgo, Spagna e Portogallo) e dei notai
(Francia, Italia, Spagna e Grecia). Altre restrizioni meno visibili
riguardano l'accesso alle professioni e si presentano sotto forma di
regolamentazioni eccessive per quanto riguarda le licenze o di
limitazioni per quanto riguarda la pubblicità in altri Paesi.
Il Governo italiano non sembra tenere sufficientemente conto di
tali indicazioni: nello schema di decreto legislativo di ricognizione
dei principi fondamentali in materia di “Professioni” ai sensi della
legge 131/2003 (15), infatti, da un lato afferma l'equiparazione tra
attività professionale e impresa, ai fini del diritto della concorrenza;
dall'altro lato viene prevista un'eccezione, disponendo che
l'equiparazione fa salvo quanto espressamente previsto dalla
normativa in materia di professioni intellettuali. Tale deroga
indurrebbe a ritenere che l'equiparazione, in sostanza, non si applica
alle professioni intellettuali (16).
15
Schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali in materia di
“Professioni” ai sensi della legge 131/2003”, Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in G.U.R.I. n. 132 del 10 giugno
2003, documento esaminato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 22 aprile 2004.
16
La definizione di “professioni intellettuali”, e l'individuazione delle competenze statali o
regionali in materia, non è agevole. Il libro V del Codice civile si apre con un Titolo I dedicato alla
disciplina delle “attività professionali”. Uno specifico Capo del successivo Titolo III è dedicato alle
“professioni intellettuali” che sono , dunque, solo una parte delle professioni in senso più ampio,
ma non legislativamente definito. Lo schema di decreto non chiarisce la questione, non definendo
la “professione intellettuale”, ma limitandosi a demandarlo ad una legge che dovrà essere
necessariamente statale. Inoltre, già prima della riforma del Titolo V, la legislazione statale aveva
ripartito la disciplina di alcune professioni rientranti nell'ambito di materie propriamente regionali e
non riferibili alla nozione tradizionale di professioni intellettuali: ad esempio la legge 6/1989
sull'ordinamento della professione di guida alpina o la legge 81/1991 sulla professione di maestro
di sci (nel previgente ordinamento le Regioni disponevano di competenza ripartita in materia
d'istruzione e formazione professionale, esclusi i titoli di studio o di diploma d'istruzione
secondaria o superiore, universitaria e post-universitaria).
4. Indagine sulla mobilità degli avvocati comunitari da e verso
l'Italia
La nostra indagine si è svolta consultando tutti gli Ordini degli
avvocati del Paese, mediante un questionario, ove erano formulate le
seguenti domande:
a) Quanti avvocati, cittadini di un Paese membro della
Comunità europea (italiani compresi, che abbiano conseguito il
titolo professionale all'estero, per esempio di Avocat, Abogado,
Rechtsanwalt, Solicitor) si sono stabiliti nel territorio di competenza
del vostro Ordine ed esercitano con il loro titolo professionale di
origine (per esempio Avocat etc.)? Si tratta degli avvocati iscritti
nella sezione speciale dell'Albo: cfr. art. 3, 1° comma lett. d) del
d.lgs. 96/2001.
b) Quanti sono gli avvocati integrati, cioè che hanno
acquisito il diritto di utilizzare il titolo italiano di avvocato e sono
iscritti all'Albo? Si tratta degli avvocati contemplati all'art. 3, 1°
comma lett. e) del d.lgs. citato.
c) Oltre al numero potete precisare anche la cittadinanza
degli avvocati, siano essi stabiliti o integrati?
d) Quante sono le società fra avvocati, iscritte in una sezione
speciale dell'Albo? (cfr. art. 16 d.lgs. citato). Quante sono le società
cui partecipano avvocati stabiliti o integrati? (cfr. art. 34 ss. d.lgs.
citato)
e) Risultano casi di avvocati italiani, iscritti al vostro Albo, che
si sono “stabiliti” oppure “integrati” in un altro Paese della
Comunità europea? In caso positivo, in quale Paese?
Le risposte sono state le seguenti.
Ordinedegli avvocati
165 su 165
Avvocatistabiliti
126
Cittadinanza
32 spagnola
37 tedesca
21 italiana (5 con titolo di abogado
1 con titolo di solicitor
1 con il titolo di advocat
1 con il titolo di Rechtsanwalt)
11 inglese
11 francese (2 con doppia cittadinanza, italiana
e francese)
4 belga
3 olandese
2 greca
1 svizzera
1 austriaca
1 irlandese
1 portoghese
1 non indicata cittadinanza
Ordinedegli avvocati
165 su 165
Avvocatiintegrati
Cittadinanza
11 tedesca
26
5 britannica
5 italiana (1 titolo di abogado)
4 spagnola 1 austriaca
Ordinedegli avvocati Avvocati italianiche Paese UE ospitante
sono stabilitio
integrati in unaltro
Paese UE
Regno Unito 27 (24 da Milano)
165 su 165
61
Belgio 8
Germania 7
Austria 3
Francia 2
Grecia 1 (stabilito)
Irlanda 1
Non indicato 12
Ordinedegli avvocati
165 su 165
Società
S.t.p. cui partecipano avvocati
stabiliti o integrati
traprofessionisti
25 (di cui 6 Milano, 3 1 Milano
Roma)
5. Osservazioni sui dati raccolti
Una particolare mobilità di avvocati da e per l'Italia, è
significativa nelle aree di confine con alcuni Paesi limitrofi,
segnatamente le aree Bolzano e Trento con l'Austria e la Germania.
La mobilità degli avvocati comunitari che intendono esercitare
la professione forense in modo stabile sul territorio italiano sembra
altresì collegata ad aree caratterizzate da attività terziarie o
comunque rilevanti per attività commerciali e industriali: Bologna,
Bolzano, Firenze, Milano, Modena, Padova, Venezia.
Inoltre, emerge (in generale) una mobilità maggiore al Nord,
limitata al Centro, ad eccezione di Roma che comunque è
statisticamente meno mobile di Milano, e pressoché assente al Sud e
nelle Isole.
Diversamente, i dati sugli avvocati italiani stabiliti o integrati in
altri Paesi dell'Unione, oltre a confermare la maggior attività di
scambio professionale di centri come Bologna, Genova, Milano e
Firenze, indica un movimento in città per così dire minori quali
Caltagirone, Cagliari, Nola (forse legati al fenomeno
dell'emigrazione).
Quanto alle società tra professionisti avvocati, si tratta di una
modalità di esercizio della professione ancora in parte sconosciuta,
considerato che persino alcuni Consigli dell'ordine “confondono” la
s.t.p. con gli studi associati. Si conferma comunque una struttura
propria di aree geografiche già caratterizzate dalla presenza di studi
di notevoli dimensioni e da mercati che richiedono una certa
specializzazione professionale.
I dati che emergono, se confrontati col numero degli avvocati
iscritti all'Ordine (oltre 150.000) confermano la minima incidenza
della presenza di avvocati stranieri e, più in generale l'assai limitato
esercizio del diritto di stabilimento in Italia da parte di avvocati
comunitari, e in altri Paesi dell'Unione da parte di avvocati italiani
(17).
II. PROFILI EUROPEI
1. Sulla lunghezza dei processi in Italia
Il secondo profilo della ricerca prende in esame il problema
dell'eccessiva durata dei processi in Italia. Tale carenza funzionale
del sistema giudiziario italiano non è rimasta “all'interno dei confini”
del nostro Paese, ma ha avuto una ricaduta a livello europeo. Invero,
essendo il diritto allo svolgimento del processo in tempi ragionevoli
una garanzia fondamentale sancita dalla Convenzione europea per i
diritti dell'uomo (CEDU), sempre più numerosi sono stati i ricorsi da
parte di coloro che erano vittima della lunghezza del sistema
processuale italiano. Il progressivo aumento di ricorsi e di
conseguenti condanne ha determinato, da un lato una situazione di
paralisi del sistema previsto dalla convenzione; dall'altro lato un
intervento di monitoraggio da parte del Comitato dei Ministri del
17
Il numero di avvocati, secondo i dati riportati da Il Sole-24 ore Professionisti del
18.05.2004 sarebbe di 151.470, l'incremento degli studi legali nel periodo 1996/2001 sarebbe del
20,51% e nel periodo 1991/2001 del 119,87%.
Consiglio d'Europa sulle riforme e i conseguenti effetti che l'Italia ha
adottato e intende adottare per affrontare il problema.
2. La legge Pinto: contenuto
La novità legislativa più rilevante, oggetto di dibattito dottrinale
e di copiosa giurisprudenza, è stata l'introduzione della legge c.d.
Pinto, dal nome del parlamentare promotore dell'iniziativa
legislativa (18). È su questo testo normativo, “Previsione di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole' del
processo e modifica dell'art. 375 del codice di procedura civile”, che
si è in particolare focalizzata la nostra indagine, sia sui dati statistici,
sia sulla prassi applicativa (19).
Il meccanismo elaborato dalla norma, riproducendo sul piano
interno il sistema di controllo elaborato nell'ambito della CEDU,
introduce una procedura di riparazione a favore di “chi ha subito un
danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazioni della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà
fondamentali, di cui all'articolo 6 par. 1, della Convenzione” (art. 2,
comma 1°).
Mentre il testo inizialmente presentato attribuiva la competenza
a decidere sulla domanda di equa riparazione alla Corte d'appello nel
distretto in cui era iniziato o era pendente il procedimento, la legge
(come definitivamente approvata) prevede che la domanda di equa
riparazione sia proposta dinanzi alla Corte d'appello competente ai
sensi dell'art. 11 c.p.p. a giudicare sulla responsabilità dei magistrati
nel cui distretto “è concluso o estinto relativamente ai gradi di
merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione”
del tempo ragionevole “si è verificata” (art. 3, par. 1). Tale modifica
risponde alla necessità di assicurare indipendenza e imparzialità
all'organo giudicante, caratteri che risultano ancor più necessari
considerando che il decreto di accoglimento della domanda va
comunicato “oltre che alle parti, al procuratore generale della Corte
dei conti, ai fini dell'eventuale avvio del procedimento di
18
Legge n. 89 del 24 marzo 2001, in G.U.R.I. n. 78 del 3 aprile 2001.
Per riferimenti si rinvia al nostro L'eccessiva durata dei processi in Italia e le
conseguenze a livello europeo, in Sociologia del diritto, 2003, p. 121 ss.
19
responsabilità, nonché ai titolari dell'azione disciplinare dei
dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento” (art. 5).
Nella relazione sull'anno giudiziario 2003, il Procuratore
Generale presso la Corte di cassazione segnala, quanto ai
procedimenti disciplinari per danno erariale conseguente alla non
ragionevole durata del processo, in base a quanto disposto dall'art. 5
legge Pinto, che è emersa la difficoltà, anche a causa del lungo
tempo trascorso, di ricostruire con sufficiente precisione le tappe dei
singoli procedimenti in questione. È stato, così, possibile individuare
una condotta colpevole del magistrato, quale causa della non
ragionevole durata del procedimento, soltanto in un numero limitato
di casi (15), per i quali è stata poi promossa l'azione disciplinare,
mentre 702 sono stati definiti con archiviazione e per 471 (pervenuti
fino alla data del 30 giugno 2003) erano in corso indagini istruttorie.
La relazione sottolinea, comunque, che un'incidenza negativa sulla
durata dei processi è esercitata dalla eccessiva mobilità dei
magistrati, non solo per il trasferimento da un ufficio ad un altro ma
anche, e soprattutto, per il passaggio da una funzione ad un'altra
all'interno dello stesso ufficio (20).
Il ricorso di equa riparazione è presentato contro differenti
autorità: il Ministero della giustizia per i procedimenti del giudice
ordinario, il Ministero della difesa per i procedimenti del giudice
militare, il Ministero delle finanze per i procedimenti del giudice
tributario; nei restanti casi è proposta domanda nei confronti del
Presidente del Consiglio dei ministri.
La Corte d'appello si pronuncia, in camera di consiglio, entro
quattro mesi dal deposito del ricorso, con decreto impugnabile per
Cassazione.
L'art. 4, allineandosi a quanto previsto dalla Convenzione
europea, stabilisce che il ricorso diretto ad ottenere la riparazione
20
Cfr. la relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2003 in
http://www.giustizia.it/uffici/inaug-ag/cass2004index.htm#rprocdisc. Nella relazione del 2002, il
Procuratore rilevava, parimenti, che nella maggior parte dei casi non erano stati ravvisati inerzia o
difetto di laboriosità addebitabili a singoli magistrati, ma la durata non ragionevole del processo era
quasi sempre dovuta a carenze del sistema o a vicende di varia natura, quali ad esempio
l'avvicendarsi di più magistrati nella trattazione del procedimento, per trasferimento di sede o
destinazione ad altro incarico. In altre situazioni, si era riscontrata, invece, la particolare gravosità,
per qualità e quantità, del carico di lavoro assegnato o l'esistenza di carenze di organico sia per i
magistrati, sia per il personale amministrativo (cfr. la relazione in Diritto e giustizia on line del 14
gennaio 2003).
può essere proposto anche durante la pendenza del procedimento,
ma non oltre sei mesi dal momento in cui la decisione che lo
conclude è divenuta definitiva.
L'unica misura prevista dalla legge Pinto, volta ad accelerare i
processi è contenuta nell'articolo 1, che modifica l'art. 375 del codice
di procedura civile. Al fine di consentire alla Cassazione di risolvere
più rapidamente i ricorsi, è stata introdotta la facoltà di decidere in
camera di consiglio e con motivazione succinta non più soltanto nei
casi d'inammissibilità e per i regolamenti di competenza, ma anche
qualora il ricorso (pure quello incidentale) appaia manifestamente
fondato o infondato.
Relativamente ai procedimenti pendenti presso la Corte dopo
l'entrata in vigore della l. 89/2001, aventi ad oggetto la violazione di
un tempo ragionevole e non ancora dichiarati ricevibili, l'art. 6,
norma transitoria della stessa legge, dava la “facoltà” al ricorrente di
riassumere la causa in Italia presso la Corte d'appello competente ex
art. 3 della legge in questione entro la data del 18 ottobre 2001.
Tuttavia con sentenza del 6 settembre 2001, Brusco c. Italia (21), la
Corte europea, dichiarando irricevibile per mancato esaurimento
delle vie di ricorso interne un procedimento introdotto alla Corte
europea e già iscritto a ruolo, ha, di fatto, argomentato circa
l'esistenza di un obbligo e non già di una facoltà per i ricorrenti di
utilizzare il meccanismo di equa riparazione interna. In seguito a
questa decisione, presa poco prima del termine previsto dall'art. 6
della l. 89/2001, i circa dodicimila ricorrenti alla Corte europea
avrebbero rischiato di trovarsi nell'impossibilità materiale di
presentare la domanda di equa riparazione dinanzi alle Corti
d'appello nazionali. Pertanto, il Governo italiano, con decreto legge
370/2001, si è adeguato all'interpretazione data dalla Corte alla
disposizione transitoria – art. 6 legge 89/2001 – prorogando il
termine per la riassunzione della causa avanti al giudice italiano sino
al 14 aprile 2002 (22).
3. Proposte di modifica alla legge Pinto
21
Sentenza del 6 settembre 2001, Brusco c. Italia, ricorso n. 69789/2001, in Guida al
diritto, 2001, n. 38 p. 13 e http://www.echr.coe.int/Fr/Judgments.htm.
22
Decreto legge n. 370 del 12 ottobre 2001, in G.U.R.I. n. 240 del 15 ottobre 2001
convertito in legge n. 432 del 14 dicembre 2001, in G.U.R.I. n. 290 del 14 dicembre 2001.
Successivamente all'entrata in vigore della legge sono
intervenute alcune modifiche e proposte di modifica del meccanismo
di equa riparazione interna. La legge 91/02 stabilendo un contributo
unificato per le spese degli atti giudiziari, dispone l'esenzione dal
pagamento dell'imposta di bollo per i procedimenti in materia di
equa riparazione (23). Un accordo transattivo per la definizione
extragiudiziale delle controversie era previsto dal decreto recante
“Misure urgenti per la razionalizzare l'amministrazione della
giustizia”. Scopo dell'iniziativa era diminuire il rilevante numero di
ricorsi approdati alle corti d'appello per ottenere l'equa riparazione
(il governo italiano, nel rapporto annuale 2002, presentato al
Comitato dei ministri, indicava che al 31 agosto 2002 le domande di
equa riparazione calendarizzate erano 5.270). La proposta prevedeva
che la domanda giudiziale, presentata per ottenere l'indennizzo,
fosse preceduta da una comunicazione da inviare a cura del
ricorrente all'avvocatura dello Stato ed al Ministero della giustizia.
Ricevuta la documentazione, l'avvocatura dello Stato avrebbe
dovuto valutare il ricorso e, sentite le amministrazioni interessate,
comunicare entro 90 giorni una proposta transattiva all'interessato o
indicare, in alternativa, le ragioni per cui non avrebbe ritenuto utile
procedere ad una transazione. Gli articoli del c.d. decreto omnibus
che modificavano la legge Pinto, tuttavia, venivano stralciati in sede
di approvazione parlamentare (24).
4. Ricadute della legge Pinto sul “sistema di Strasburgo”
Relativamente alle ricadute della legge Pinto sulla posizione
dell'Italia nel “sistema di Strasburgo”, si deve segnalare che esso ha
certamente ridotto il numero dei ricorsi e delle condanne pronunciate
contro l'Italia per violazione del délai raisonnable, ma gli effetti
positivi sono riscontrabili solo nel corso del 2003. Invero,
nonostante la legge Pinto sia entrata in vigore nella primavera del
23
Legge n. 91 del 10 maggio 2002, in G.U.R.I. n. 109 dell'11 maggio 2002, Conversione in
legge del decreto-legge 11 marzo 2002 n. 28 recante modifiche all'articolo 9 della legge 23
dicembre 1999 n. 488 relative al contributo unificato d'iscrizione a ruolo dei procedimenti
giurisdizionali civili, penali e amministrativi nonché alla legge 24 marzo 2001 n. 89 in materia di
equa riparazione.
24
Per un approfondimento C. COCO, Equa riparazione delle violazioni al principio di
ragionevole durata dei processi, in Diritto penale e processo, 2003, p. 346 ss.
2001, il 2002 è stato caratterizzato da un'attività di “smaltimento”
dei ricorsi già dichiarati ricevibili e sui quali la Corte europea dei
diritti dell'uomo si è dovuta pronunciare. Si ricorda, infatti, che con
la sentenza Brusco, e quindi con la sentenza Giacometti (8 novembre
2001) (25) si è affermata l'obbligatorietà di esperire il rimedio
interno, ossia il ricorso alle Corti d'appello italiane per violazione
della ragionevole durata prima di poter adire la Corte europea solo
per ricorsi già iscritti a ruolo e anche per quelli già comunicati al
Governo ma non ancora dichiarati ricevibili
.
Anni
Sentenze pronunciate contro tutti gli Stati
Sentenze pronunciate contro l'Italia
Sentenze pronunciate contro l'Italiaper
violazione dell'articolo 6 par. 1
Sentenze pronunciate contro l'Italiaper
violazione del délai raisonnable
1999
177
71
70
2000
695
396
385
2001
889
413
400
2002
844
391
375
2003
703
148
134
66
375
365
300
3
Elaborazione dei dati sulla base delle informazioni fornite dalla Corte europea reperibili sul sito
http://hudoc.echr.coe.int/hudoc/. L'anno 1999 comprende il periodo dal 1.11.1998 (data di entrata in funzione
della Corte) al 31.12.1999.
5. L'applicazione della legge Pinto: problemi giurisprudenziali.
Una disciplina e prassi tormentate
I problemi più complessi si sono presentati sul piano interno
circa l'effettiva applicazione dei criteri della giurisprudenza di
Strasburgo che dovevano essere fatti propri dai giudici italiani.
a) Fra gli aspetti più controversi si segnala l'irrisoria somma di
equa riparazione riconosciuta dalle corti italiane rispetto al
“tariffario”di Strasburgo: spesso meno della metà. Non solo:
l'articolo 3, comma 7 prevede che le erogazioni degli indennizzi agli
aventi diritto decorrano dal 1 gennaio 2002, mentre l'art. 7 dispone
che l'onere di bilancio derivante dalla legge è quantificato nella
somma di 12 miliardi e 705 milioni di lire (pari a € 6.561.584,90) a
decorrere dall'anno 2002. L'importo era veramente irrisorio se si
pensa che solo per le condanne del 2001 per violazione della durata
ragionevole del processo, l'Italia ha subito un onere economico di 17
milioni di euro. Infatti, le disponibilità finanziarie da tempo sono
25
Cfr. la sentenza Brusco cit. e Giacometti e a. c. Italia, in Corriere giuridico, 2001, p. 133
e in http://www.echr.coe.int/Fr/Judgments.htm.
esaurite. Lo ha fatto presente il Ministero dell'economia e delle
finanze con decreto del 5 maggio 2003 (26) accertando l'avvenuto
raggiungimento dei limiti di spesa espressamente autorizzata.
Pertanto, poiché l'art. 3, comma 7 dispone che “l'erogazione agli
aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”, chi ha
subito una violazione del diritto ad un processo in tempi ragionevoli,
accertata dal giudice, non potrà riscuotere l'indennizzo ma dovrà
attendere un eventuale rifinanziamento della copertura finanziaria.
b) Un secondo aspetto attiene alla risarcibilità del danno nei
confronti delle persone giuridiche, dapprima, in contrasto con la
posizione della Corte europea, negata e poi ammessa dalla Corte di
cassazione (27).
c) Si segnala inoltre, in tema di onere della prova, la ritenuta
necessità di provare la sussistenza di un danno concreto ai fini della
correlativa equa riparazione non patrimoniale ai sensi dell'art. 2
legge Pinto, diversamente dalla giurisprudenza della Corte europea
(28).
La Corte di cassazione è intervenuta con ben quattro pronunce
per dirimere i contrasti giurisprudenziali tra i giudici nazionali e fra
questi e la Corte europea (sezioni unite, del 26 gennaio 2004,
sentenze n. 1338, n. 1339, n. 1340, n. 1341). Tali decisioni
dovrebbero aver chiarito l'aspetto più controverso della norma e
precisamente l'obbligo per il giudice nazionale di attenersi ai
26
In G.U.R.I. n. 113 del 17 maggio 2003.
Cass., 18 novembre 2002, n. 16262, Tecno industriale s.r.l. c. Ministero della giustizia, in
http://www.dirittiuomo.it/News/news2003/PintoSocieta.htm.
28
In questo senso cfr. la sentenza Cass., 15 novembre 2002, Tedesco c. Ministero della
giustizia,
n.
15449
in
http://www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/10febbraio2003/Casssen15449durataragionevole.
htm. Si segnala, tuttavia, che con la sentenza n. 7980 del 27 aprile 2004, in
www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/30maggio2004/Casssen7980risdanninpatrdestprimario.
htm, la Cassazione, accogliendo il ricorso di un primario ospedaliero, prima destituito e poi
reintegrato nell'impiego, ha affermato che la lesione della professionalità di un medico, consistente
nel non riconoscimento della sua attività lavorativa, rientra nella categoria del danno non
patrimoniale. A sostegno di tale conclusione la Corte richiama la propria giurisprudenza della
sezione lavoro, secondo cui la lesione alla professionalità può dar luogo al risarcimento del danno
anche quando non sia stata fornita prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale
(sentenza n. 10/2002), rilevando come il quadro normativo in tema di danno non patrimoniale sia
mutato per l'introduzione di varie norme ordinarie — quali l'art. 2 della legge Pinto — che
assicurano il risarcimento del danno non patrimoniale al di fuori della previsione degli artt. 185
cod. pen. e 89 cod. proc. civ., richiamati dall'art. 2059 cod. civ.
27
“precedenti” giurisprudenziali della Corte europea dei diritti
dell'uomo (29).
Nello specifico, oggetto della contestazione era la
quantificazione del danno non patrimoniale liquidato dalle Corti
d'appello in somme di modestissima entità. La Corte di cassazione
ha ritenuto sussistente una violazione di legge, e precisamente
dell'art. 2 che afferma il diritto all'equa riparazione per violazione
della Convenzione europea sotto il profilo del mancato rispetto del
termine ragionevole. La legge 89/2001, precisa la Cassazione
(sentenza n. 1340), “identifica il fatto costitutivo del diritto
all'indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma
della Cedu. Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte
europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto
delle disposizioni in essa contenute (articolo 19), onde non può che
riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di
dette disposizioni e perciò di interpretarle. Poiché il fatto costitutivo
del diritto attribuito dalla legge 89/2001 consiste in una determinata
violazione della Cedu, spetta al Giudice della Cedu individuare tutti
gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l'essere
“conformato” dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si
impone, per quanto attiene all'applicazione della legge 89/2001, ai
giudici italiani. Non è necessario, allora, porsi il problema generale
dei rapporti tra la Cedu e l'ordinamento interno, su cui si è
ampiamente soffermato il Pg in questa udienza. Qualunque sia
l'opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla
collocazione della Cedu nell'ambito delle fonti del diritto interno, è
certo che l'applicazione diretta nell'ordinamento italiano di una
norma della Cedu, sancita dalla legge 89/2001 (e cioè dall'articolo 6,
§ 1, nella parte relativa al termine ragionevole), non può discostarsi
dall'interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo.
L'opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra
l'applicazione che la legge 89/2001 riceve nell'ordinamento
nazionale e l'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto
alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di
giustificazione la detta legge 89/2001 e comporterebbe per lo Stato
29
Cfr. Diritto e giustizia on line, del 28 gennaio 2004, per le sentenze 1339 e 1340;
www.dirittiuomo.it/home.htm, per le sentenze n. 1338 e n. 1341.
italiano la violazione dell'articolo 1 della Cedu, secondo cui “le Parti
Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro
giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente
Convenzione” (in cui è compreso il citato articolo 6, che prevede il
diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole).
Una delle prime pronunce successive all'incisivo intervento
della Corte di cassazione sembra accogliere l'indirizzo suggerito,
liquidando una somma a titolo di risarcimento abbastanza in linea
con i “tariffari” di Strasburgo (30).
6. I problemi strutturali
Alle difficoltà giuridiche sul piano interno si aggiungono
problemi strutturali e di organizzazione, come rileva il dato sulle
pendenze presso le Corti d'appello. Più precisamente, ha sottolineato
il Procuratore generale Favara in occasione dell'apertura dell'anno
giudiziario 2004, i procedimenti promossi per ottenere tali
indennizzo ammontano già a diverse migliaia: il numero di quelli
pendenti al 30 giugno 2002 era di 3.762 e ad essi se ne sono aggiunti
altri 3.966 nel corso dei dodici mesi successivi. Le Corti d'appello,
in questo periodo, hanno definito 5.242 procedimenti, per cui al 30
giugno 2003 restavano pendenti 2.486 processi. Alla Corte di
cassazione nel medesimo periodo erano pervenuti 1.222 ricorsi
proposti contro decreti emessi in materia dalle Corti di appello, e ne
risultavano definiti circa 200 (31).
30
Decreto della Corte d'appello di Bari del 16 marzo 2004, in Diritto e giustizia on line del
1 giugno 2004.
31
Cfr. la relazione cit. alla nota 19 La pendenza avanti alla Corte di cassazione risultava
essere di 1550 procedimenti. I grafici che precedono sono alla pagina
http://www.giustizia.it/statistiche/statistiche-dog/2002/civile/equa-riparazione.htm.
Dal suo contenuto e dalle motivazioni storiche che hanno
portato all'approvazione (denunce sempre più rigide da parte del
Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa) emerge chiaramente
che la legge Pinto ha il solo scopo di deflazionare il contenzioso
avanti alla Corte di Strasburgo, nulla prevedendo per eliminare il
problema di una giustizia troppo lenta. Anche il Comitato dei
ministri del Consiglio d'Europa, nell'esaminare il “Rapporto 2001
per l'anno 2000”, presentato dal Governo italiano il 1° ottobre 2001,
pur prendendo atto dell'introduzione della nuova legge, non ha
mancato di sollevare qualche perplessità su una norma che non
incide assolutamente sulla lunghezza dei procedimenti e che rischia
di aggravare ulteriormente il carico di lavoro delle Corti d'appello
(32).
Ma soprattutto, l'efficacia e l'effettività della norma è stata
messa in discussione dalla decisione sulla ricevibilità relativamente
al caso Scordino (33) ove la Corte ha ritenuto sussistenti i motivi di
fatto e di diritto sostenuti dai ricorrenti che lamentavano l'eccessiva
durata della stessa procedura disciplinata dalla legge Pinto. Ha così
riconosciuto l'inidoneità della legge nella sua interpretazione ed
applicazione da parte dei giudici italiani, e dunque legittimato il
ricorso alla Corte europea senza prima esaurire la “procedura Pinto”
ritenuta inidonea a garantire un processo equo e ragionevole e una
riparazione conforme ai criteri della Convenzione e della
giurisprudenza della Corte europea (34).
32
Cfr. “I processi cambiano marcia e vanno più veloci, Italia promossa a metà: a febbraio
nuovo esame”, in Diritto e giustizia on line del 4 ottobre 2001.
33
La decisione del 27 marzo 2003, Scordino e a. c. Italia, ricorso n. 36813/97 è in Diritto e
giustizia on line del 7 giugno 2003, con commento di A. DIDONE, Eccessiva durata ed equo
indennizzo; ibidem 31 luglio 2004, la decisione del 29 luglio 2004, nello stesso caso Scordino, con
commenti di F. BUONUOMO: Espropri: il sistema di quantificazione dell'indennità (duramente
censurato) costa caro all'Italia. E Scordino concede il bis.
34
L'art. 13 della Convenzione europea riconosce ad ogni persona che subisce una
violazione dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione il diritto ad un ricorso effettivo
davanti ad un'istanza nazionale. L'art. 35, par. 3 subordina l'accesso alla Corte al previo
esaurimento di tutti i ricorsi adeguati ed efficaci messi a disposizione dall'ordinamento interno.
Tuttavia se il ricorso interno non è effettivo, l'individuo può ricorrere direttamente alla Corte
europea. La Corte di cassazione italiana è stata ritenuta un rimedio non effettivo e, quindi, uno
stadio giurisdizionale non necessario da esperire prima di presentare ricorso alla Corte europea,
anche nell'ipotesi di mancato rispetto del diritto ad una detenzione provvisoria e ad un giudizio
rapido dal momento che ha ritenuto, con una giurisprudenza consolidata, l'art., 5 par. 3 della
Convenzione una norma meramente programmatica (decisione di ricevibilità nel caso Sardinas
Albo c. Italia sul ricorso n. 56271/00, in Diritto e giustizia on line dell'8 maggio 2004, con
L'attività di monitoraggio da parte del Comitato dei ministri
continua. Si segnala, in occasione della 854ª riunione del 7-9 ottobre
2003 (CM OJOT[2003] 854 F), il rilievo del Comitato, che ha
discusso sullo stato della giustizia amministrativa, registrando un
dato di pendenze assai elevato, benché in diminuzione, pari a
820.000 ricorsi nel 2002 rispetto ai 920.000 del 2001.
I dati più recenti sulle pendenze e sui tempi dei processi italiani
sono contenuti nella già ricordata relazione del Procuratore Generale
in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2004.
In materia civile, davanti al giudice di pace le pendenze al 30
giugno 2003 erano di 759.094 processi, con un aumento, quindi, del
7,3% rispetto all'anno precedente (707.466 processi pendenti al 30
giugno 2002), che aveva registrato a sua volta un aumento del 10,4%
rispetto al dato dell'anno prima. Analogo l'andamento delle
sopravvenienze: nei dodici mesi tra il 1° luglio 2002 e il 30 giugno
2003, sono stati iscritti davanti ai giudici di pace 877.590 processi,
con un aumento del 10,9% rispetto ai 791.099 iscritti nell'anno
precedente. Anche il numero dei processi definiti dai giudici di pace
è passato da 726.521 a 820.166, con un aumento del 12,9%.
Nel 2003, come negli anni passati, si registra quindi — per il
giudice di pace — un'eccedenza delle sopravvenienze rispetto al
numero dei processi esauriti. Nonostante l'indice di smaltimento dei
processi sia rimasto fermo intorno al 50%, il dato va letto in
correlazione con il fatto che la durata media dei processi davanti ai
giudici di pace è in progressivo, ma lieve, aumento. Essa comunque
si mantiene in tempi di poco inferiori all'anno, il che corrisponde ad
un terzo del tempo mediamente necessario per la definizione dei
processi di primo grado davanti ai tribunali.
I processi pendenti in primo grado davanti ai tribunali
presentano una riduzione significativa (pari al 6,1%) rispetto all'anno
precedente. I 2.415.739 procedimenti pendenti al 30 giugno 2002
sono infatti ulteriormente scesi a 2.268.236 al 30 giugno 2003, con
una riduzione che si aggiunge a quelle che si erano verificate nei due
anni precedenti, confermando così, da un lato, una positiva tendenza
verso il progressivo smaltimento del rilevante arretrato da cui è
commento di F. BUONUOMO, Eccesso di custodia cautelare, si può andare a Strasburgo senza
passare da piazza Cavour).
gravata la giustizia civile e, dall'altro lato, l'effetto positivo
dell'entrata a regime delle riforme processuali e ordinamentali della
seconda metà degli anni novanta (riforma del processo civile,
introduzione del giudice di pace, giudice unico di primo grado).
La riduzione delle pendenze si è infatti verificata nonostante
che nel 2003 vi sia stato un sensibile aumento del numero delle
cause sopravvenute, passate dalle 850.847 del periodo 1° luglio
2001-30 giugno 2002 alle 911.551 dell'ultimo periodo di
riferimento.
Il numero dei processi definiti è stato notevolmente superiore a
quello dei processi sopravvenuti nel medesimo periodo: 1.033.430
contro 911.551.
Negativo è invece il dato concernente la riduzione del numero
dei processi esauriti: 1.033.430 nel periodo dal 1° luglio 2002 al 30
giugno 2003, contro i 1.079.487 dell'anno precedente. A tale
riguardo, dalle relazioni dei Procuratori generali emerge una corale
denunzia delle difficoltà indotte dalla riduzione delle risorse, per
quanto riguarda sia le strutture che il personale amministrativo.
La durata media dei processi davanti ai tribunali registra segnali
di riduzione. L'indice di durata è infatti sceso da 953 a 879 giorni,
pari a due anni e cinque mesi, confermando il trend positivo del
2002 (35).
Relativamente alle pendenze finali, per il contenzioso affidato
alle “sezioni stralcio”, le cause sono passate infatti da 503.234 del
1999 a 142.284 nel luglio 2003.
Le pendenze in grado di appello hanno registrato un lieve
incremento, essendo passate dalle 247.268 cause del 30 giugno 2002
35
Precisa, tuttavia, il Procuratore generale che il dato relativo alla durata media dei processi
davanti al tribunale concerne la durata media di tutti i processi, quale che ne sia la modalità di
definizione, e che la durata media dei processi definiti con sentenza è più lunga. In particolare, per
quanto riguarda questi ultimi, si ha che il 58% di essi si esaurisce in meno di tre anni (più
precisamente: il 23% in un anno; il 20% in due anni; il 15% in tre anni). Nel restante 42% dei
processi la sentenza arriva invece dopo tre anni dall'inizio del processo e precisamente entro il
quarto anno dall'iscrizione nel 13,3% dei casi; entro il quinto anno nell'8,3% dei casi; entro il sesto
anno per una percentuale pari al 5,3% e entro il settimo anno nell'1,7% dei casi. Vi è poi una quota
pari al 13,4% del totale delle sentenze depositate nell'anno di riferimento che riguardava processi
iscritti prima del 1996. La media complessiva che ne risulta è pari a quattro anni circa, ma è una
media fortemente e negativamente influenzata dai casi assolutamente anomali, quali sono quelli da
ultimo indicati, e che corrispondono sostanzialmente ai processi gestiti dalle sezioni stralcio. Resta
comunque il fatto grave di un gran numero di processi, pari, come si è detto, al 42 per cento, che
richiede più di tre anni — e a volte molto più di tre anni — per essere deciso con sentenza.
alle 265.386 del 30 giugno 2003. Questo dato va collegato
principalmente alle sopravvenienze, che sono ulteriormente e
notevolmente aumentate: mentre nei dodici mesi dal 1° luglio 2001
al 30 giugno 2002 erano state di 104.608, negli ultimi dodici mesi
sono salite a 121.391. A tale impennata delle sopravvenienze si è
peraltro contrapposto un lieve aumento del numero dei processi
esauriti: nel 2003 sono stati 104.416, rispetto ai 102.143 del 2002. È
probabile, come segnala il Procuratore generale, che il dato relativo
alle pendenze trovi spiegazione nel ritardo con cui si è provveduto
all'adeguamento delle piante organiche delle Corti d'appello, dopo
l'attribuzione alle stesse della cognizione in secondo grado delle
controversie in materia di lavoro e previdenza. Tuttavia, il risultato
complessivo è che anche nel 2003 il numero dei processi esauriti è
notevolmente inferiore a quello dei processi sopravvenuti, secondo
una tendenza che si proietta pericolosamente nel futuro, creando le
basi per sempre crescenti disfunzioni negli anni a venire.
Sul fronte penale i dati statistici relativi ai procedimenti nel
periodo 1° luglio 2002–30 giugno 2003 evidenziano, accanto a
taluni aspetti positivi, quale la consistente contrazione delle
pendenze (5.743.906: -3,3%) e delle sopravvenienze (6.049.664: 3,5%), un profilo negativo costituito da un'accentuata riduzione dei
procedimenti definiti (5.852.271: - 4,6%), di guisa che la
diminuzione del carico di lavoro al 30 giugno 2003 è dovuta, più che
ad un aumento della produttività, alla riduzione dei procedimenti
sopravvenuti nel periodo di riferimento. È la conferma di un trend
che dura ormai da qualche anno: esso dimostra la sempre maggiore
complessità e difficoltà che va assumendo il processo penale nel
nostro Paese. Il minor numero di processi definiti sembra non
dipendere, infatti, se non in parte, da una diminuita produttività dei
magistrati, piuttosto che dalla generale tendenza a protrarre la
definizione dei processi, facendo uso di ogni possibile rimedio e a
impugnative reiterate.
In ordine alla durata dei processi, i dati statistici elaborati dal
Ministero della giustizia evidenziano che la tendenza verso un
progressivo aumento della durata media (che, in quanto tale, tiene
conto sia dei processi che si esauriscono in pochi giorni sia di quelli
che si protraggono per lustri) non accenna ad arrestarsi. Infatti, a
fronte di una lieve contrazione dei tempi delle indagini preliminari
(da 390 a 381 giorni), originata anche dalla ormai piena operatività
del giudice di pace, vi è un generalizzato e consistente aumento di
durata di tutte le fasi successive: davanti al GIP è passata da 251 a
324 giorni; davanti al tribunale da 321 a 341 giorni e in corte
d'appello da 495 a 543 giorni.
Nell'insieme, ove si ipotizzi un procedimento che si snoda nelle
fasi delle indagini preliminari, dell'udienza preliminare, del giudizio
di primo grado in tribunale e di quello di appello, la sua durata
media è di 1.589 giorni, rispetto ai 1.457 giorni del periodo 1° luglio
2001 - 30 giugno 2002 (qualora si tenga conto dell'eventuale
giudizio di cassazione, occorre aggiungere ulteriori 216 giorni). I
tempi effettivi sono ancora più lunghi. Quelli riferiti, infatti, tengono
conto solo del lasso temporale che intercorre tra il momento in cui
un procedimento è incardinato in un determinato ufficio e quello in
cui viene adottato il provvedimento che definisce la relativa fase;
non anche del tempo necessario per la redazione del provvedimento
definitorio e per la trasmissione degli atti al giudice della fase
successiva.
Quanto all'attività del giudice di pace in materia penale,
divenuto operativo dal 1° gennaio 2002, emerge che dal 1° luglio
2002 – 30 giugno 2003 ha definito 254.000 procedimenti, pari
all'11% di tutti quelli definiti dal GIP presso il tribunale e da
quest'ultimo; i quattro quinti (202.000) di tali procedimenti si sono
conclusi con decreti di archiviazione.
I Procuratori generali distrettuali concordemente pongono in
rilievo che l'attribuzione della competenza penale al giudice di pace
ha comportato un indiscutibile effetto positivo nella accelerazione
dei processi anche davanti al tribunale, conseguente ad una riduzione
del suo carico di lavoro ed, in prospettiva, anche delle Corti di
appello.
7. La revisione dei processi
L'amministrazione e l'efficienza della giustizia italiana sono
state oggetto di attenzione da parte degli organi di Strasburgo anche
sotto un diverso profilo, precisamente quello della revisione dei
processi. I Paesi contraenti della CEDU “s'impegnano a conformarsi
alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali
sono parte” (art. 46, par. 1). Nell'adempimento di quest'obbligo, la
prassi ha dimostrato che in alcuni casi non è sufficiente l'adozione di
misure ulteriori a carattere individuale e generale: per assicurare la
restitutio in integrum voluta dalla Convenzione, oltre al pagamento
dell'equa soddisfazione, occorre invece la riapertura del
procedimento interno o il riesame della decisione contestata. Lo
stesso Comitato dei ministri, con la raccomandazione n. R (2000) 2
del 19 gennaio 2000, ha invitato, alla luce di questa considerazione,
gli Stati membri ad “esaminare i rispettivi ordinamenti giuridici
nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate possibilità di
riesame del caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti, laddove
la Corte ha riscontrato una violazione della Convenzione, ed in
particolare allorché: i) la parte offesa continua a subire conseguenze
negative molto serie a causa dell'esito della decisione interna in
questione, conseguenze che non sono riparate dall'equa
soddisfazione e che non possono essere eliminate se non attraverso
riesame o riapertura del caso e ii) la sentenza della Corte induce alla
conclusione che a) la decisione interna impugnata è nel merito
contraria alla Convenzione, o b) la violazione riscontrata è costituita
da errores in procedendo o da altre mancanze di tale gravità da far
sorgere seri dubbi sull'esito del procedimento nazionale considerato”
(36).
Diversi ordinamenti contemplano fra i motivi di revisione nel
settore penale una sentenza di condanna della Corte europea. È il
caso della Svizzera, della Finlandia, della Francia, della Germania,
dell'Irlanda, della Slovenia, della Spagna. Numerosi Paesi prevedono
strumenti analoghi anche in materia civile ed amministrativa: ad
esempio l'Austria, la Croazia, la Germania, la Lituania, il
Lussemburgo, Malta, la Norvegia, la Polonia, la Slovenia, la
Svizzera. L'Italia, oltre a Bulgaria, Liechtenstein e Paesi Bassi, non
prevede alcuna possibilità di riapertura del caso. Con il testo
unificato delle proposte di legge n. 1447 e n. 1992 (trasmesso dalla
Camera al Senato il 28 luglio 2003, ora progetto n. S 2441, che ha
concluso l'esame della Commissione giustizia il 17 febbraio 2004) il
nostro legislatore intende modificare il codice di procedura penale in
36
Cfr.
la
raccomandazione
in
https://wcm.coe.int/rsi/common/renders/rendstandard.jsp?DocId=334147&SecMode=1&Lang=fr.
materia di revisione dei processi penali. Più precisamente, ai sensi
del nuovo articolo 630-bis c.p.p. potrà essere richiesta la revisione
delle sentenze e dei decreti penali di condanna se una sentenza della
Corte europea abbia accertato una violazione delle disposizioni di
cui all'art. 6 della Convenzione. La proposta di legge in esame
riprende quella avanzata nella precedente legislatura (nel 1998) che
fu solo in parte attuata, limitatamente, per la precisione,
all'individuazione del giudice competente a decidere sull'istanza di
revisione (37).
La relazione al disegno di legge sottolinea che la necessità
d'introdurre la revisione del processo a seguito di sentenza della
Corte europea ha come fine quello di garantire un'effettiva ed
efficace applicazione della Convenzione. In altre parole, il
pagamento di una somma di denaro costituisce solo una delle
conseguenze riparatorie, dovendosi, per quanto possibile, rimuovere
le conseguenze della violazione.
Secondo quanto previsto dalla proposta normativa, per poter
ottenere la revisione non è sufficiente che la Corte europea abbia
sancito la violazione dell'art. 6, ma occorre che sussistano due
condizioni. Innanzitutto, la violazione deve aver avuto un'incidenza
rilevante nel giudizio interno definito con una condanna; in secondo
luogo, non può chiedere la revisione chi abbia già scontato la pena.
Con la risoluzione DH(2004)13 del 10 febbraio 2004 il
Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha esortato le autorità
italiane ad accelerare l'adozione del testo e ad introdurre delle
modifiche, conformi alla risoluzione, in modo da comprendere anche
le violazioni commesse prima dell'entrata in vigore della (futura)
legge, tenendo conto della gravità del reato e delle conseguenze
subite (38).
Postilla editoriale.
Successivamente la Carta costituzionale europea è stata approvata dai capi
di stato e di governo. L'iter (al momento di mandare in stampa questo numero
della Rivista: fine settembre 2004) non è ancora concluso poiché manca la
37
Cfr. il testo del d.d.l. e i riferimenti sullo stato dei lavori in
http://www.parlamento.it/leg/14/Bgt/Schede/Ddliter/20146.htm.
38
Cfr. la risoluzione in https://wcm.coe.int/rsi/common/renders/rendstandard.jsp?
DocId=118213&SecMode=1&Lang=fr.
ratifica da parte di ogni membro dell'Unione. Purtuttavia la relazione di
Nascimbene e Sanna, anche per questo motivo, ma non solo, conserva il valore di
un rilevante contributo per i futuri sviluppi del tema.
(N.d.R.)
ANTITRUST FRA DIRITTO COMUNITARIO
E DIRITTO NAZIONALE
Convegno UAE e LIDC
Treviso, 13 e 14 maggio 2004
La sesta edizione del Convegno, tenutosi presso Casa dei
Carraresi a Treviso, sotto il patrocinio dell'Unione degli Avvocati
Europei (UAE) e della Ligue Internationale Droit de la Concurrence
(LIDC), è stata — come ormai da dieci anni a questa parte — una
importante occasione di incontro e confronto tra tutte le parti
interessate dall'applicazione del diritto antitrust comunitario e
nazionale (Commissione Europea, Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato, imprese, professionisti) ed ha visto la
attiva partecipazione di vari esponenti del Foro di Milano, quali
l'Avv. Paola Tarchini, il Prof. Lamberto Liuzzo, l'Avv. Ermanno
Rho.
La prima giornata del Convegno è stata aperta da un saluto
dell'Avv. Enrico Adriano Raffaelli, Presidente della Commissione
Diritto della Concorrenza dell'UAE, dell'On. Dino De Poli,
Presidente della Fondazione Cassamarca, del Prof. Giuseppe Sena,
Presidente Onorario della LIDC, del Dott. Sergio Bellato,
Presidente di Unindustria Treviso e del Prof. Francesco Gentile,
Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di
Padova, che ha patrocinato il Convegno. Ha quindi introdotto i
lavori, il Commissario alla Concorrenza, Prof. Mario Monti, il
quale ha tracciato — in modo invero alquanto efficace — le attuali e
future linee di sviluppo del diritto della concorrenza, recentemente
rimodellato dall'intervento del Regolamento CE n. 1 del 2003 (in
tema di applicazione degli artt. 81 e 82 del Trattato CE) nonché dal
Regolamento n. 139 del 2004 (in tema di controllo delle
concentrazioni), costituenti i cardini del c.d. “pacchetto
modernizzazione”, resosi necessario non solo per venire incontro
alle mutate esigenze degli operatori del settore ma anche per tenere
conto degli effetti di una Unione Europea “allargata” (e che ha visto,
proprio pochi giorni prima del Convegno (1 maggio 2004), l'entrata
di nuovi Stati membri).
A questa vera e propria riforma del diritto antitrust (sia
nazionale che comunitario) è stata dedicata la prima sessione dei
lavori, presieduta brillantemente dal Prof. Giuseppe Tesauro,
Presidente della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato,
che ha visto alternarsi importanti e qualificati relatori. La prima
parte di tale sessione — finalizzata ad una panoramica
“istituzionale” della predetta riforma — ha visto gli interventi
dell'Avv. Ivo Van Bael di Bruxelles (il quale ha criticamente
illustrato le procedure di applicazione del diritto antitrust
comunitario) e del Prof. Marco D'Alberti, membro dell'Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato, il quale si è soffermato
sull'importante ruolo della European Competition Network — che
riunisce e coordina tutte le Autorità Antitrust comunitarie — quale
momento di vera e propria “costruzione” del diritto antitrust. La
seconda parte ha visto invece alcuni interventi mirati in tema di
applicazione del diritto della concorrenza da parte dei giudici
nazionali: in tal senso, la Dott.ssa Marina Tavassi della Corte
d'Appello di Milano si è soffermata sul (nuovo) ruolo cui sono
chiamati i giudici nella tutela della concorrenza a seguito dell'entrata
in vigore del Regolamento CE n. 1 del 2003; il Dott. Roberto
Chieppa, Consigliere di Stato, ha illustrato il controllo
giurisdizionale da parte dei giudici amministrativi italiani sugli atti
delle Autorità Antitrust (ed, in primis, sui provvedimenti della
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato); Jacqueline
Riffault-Silk della Corte d'Appello di Parigi ha offerto il punto di
vista dell'esperienza francese, in cui — contrariamente a quanto
succede in Italia — competente a conoscere sulle impugnazioni delle
decisioni del Conseil de la Concurrence (i.e.: l'Autorità Antitrust
nazionale d'oltralpe) non è il giudice amministrativo ma il giudice
ordinario (nella specie, la Corte d'Appello di Parigi).
La seconda sessione si è concentrata sulla “declinazione”
fattuale della riforma del diritto antitrust nella vita delle imprese. In
tale ottica la Prof.ssa Margaret Bloom del King's College di
Londra ha analizzato i c.d. “programmi di clemenza” (i.e.: le azioni
che possono essere intraprese dalla impresa oggetto di una istruttoria
antitrust al fine di andare esente da — o vedere notevolmente ridotta
la — sanzione pecuniaria irrogata), l'Avv. Cornelis Canenbley di
Dusseldorf ha illustrato i risvolti pratici della collaborazione
sovranazionale tra Autorità Antitrust (mediante l'European
Competition Network o l'International Competition Network) per le
imprese multinazionali operanti in più paesi; l'Avv. Cristina
Cabella, general counsel di IBM Italia, ha offerto la prospettiva
interna alla impresa in relazione ai dawn raids condotti da
Commissione e Autorità Antitrust nazionali (con particolare
riferimento alla possibile estensione del c.d. legal privilege anche ai
legali interni dell'impresa, chiamati, dopo l'entrata in vigore del
Regolamento CE n. 1 del 2003, ad un ruolo decisionale più
“sensibile”); il Dott. Iacopo Berti, funzionario dell'Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato distaccato presso la Commissione
Europea, si è invece concentrato sul ruolo dell'associazionismo e il
rapporto tra questo ed il diritto antitrust, anche alla luce di alcune
recenti pronunce nazionali e comunitarie.
La seconda giornata del Convegno, suddivisa in due sessioni
dedicate alle problematiche di settore e alle nuove sfide del diritto
antitrust, si è aperta con l'intervento del Prof. Giuseppe Sena
dell'Università di Milano che ha focalizzato l'attenzione dei
partecipanti al Convegno sul mercato farmaceutico con particolare
attenzione agli aspetti concorrenziali dello stesso. Il Prof. Sena ha
evidenziato in particolare come la ricerca farmaceutica ed il
progresso scientifico — seppur con costi ed investimenti rilevanti
che implicano un numero sempre maggiore di concentrazioni tra
imprese che operano in tale settore — determinano comunque in tale
mercato una forte concorrenza.
Il Prof. Alberto Santa Maria dell'Università di Milano, con un
intervento di grande attualità, ha invece esplorato i riflessi della
normativa antitrust nel settore dello sport professionistico, con
particolare riferimento al settore calcistico, dove sono essenziali
regole eque ed applicate in modo uniforme in materia di concorrenza
e di aiuti di Stato onde garantire che le imprese possano operare
efficacemente su un piano di parità nel mercato interno. Il Prof.
Santa Maria, dopo aver scorso alcuni casi di sostegno economico e
finanziario da parte delle autorità locali o addirittura statali in alcuni
Paesi europei, si è soffermato sugli interventi di sostegno allo sport
professionistico in Italia e sulla conseguente decisione della
Commissione di dare avvio alla recente procedura di infrazione
contro l'Italia.
La terza sessione del Convegno si è conclusa con una Tavola
Rotonda, moderata dall'Avv. Barry Hawk di New York, cui hanno
partecipato il Prof. Michele Grillo, membro dell'Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato, il Dott. Götz Drauz, Direttore
aggiunto facente funzione per le fusioni della Commissione
Europea, e l'Avv. Mario Siragusa. Il tema molto attuale della
discussione, il nuovo Regolamento CE n. 139 del 2004 comunitario
sul controllo delle concentrazioni (entrato in vigore proprio nel
maggio del 2004), ha offerto l'occasione di discutere delle principali
novità introdotte nella nuova normativa comunitaria e animato il
dibattito anche tra i partecipanti al Convegno.
La prima parte dell'ultima sessione del Convegno, “Antitrust –
Le nuove sfide”, presieduta dal Prof. Bruno Nascimbene
dell'Università di Milano, ha approfondito il rapporto tra normativa a
tutela della concorrenza e consumatori e gli effetti subiti dai
consumatori a seguito di condotte anti-concorrenziali.
In tal senso l'intervento dell'on. Benedetto della Vedova del
Parlamento Europeo ha evidenziato come una politica tesa a limitare
la concorrenza in un dato mercato, attraverso la creazione di barriere
all'ingresso e politiche di dumping, possa riflettersi in una grave
perdita per l'insieme dei consumatori. In tal senso anche l'intervento
di Paul Victor di New York che ha illustrato il tema della tutela
privatistica dei consumatori nell'esperienza antitrust statunitense,
offrendo una panoramica generale dell'efficacia della normativa
antitrust negli Stati Uniti ed focalizzando la propria attenzione sui
rimedi previsti dal legislatore statunitense per i consumatori che
hanno subito danni, anche patrimoniali, a causa di condotte
anticoncorrenziali.
Il tema della tutela del consumatore nella politica della
concorrenza è stato ulteriormente approfondito dal Prof. Alberto
Pera il quale ha introdotto il concetto del “consumer welfare
paradigm” quale metro di valutazione per la corretta applicazione
delle norme antitrust.
L'ultima parte è stata animata dalla Dott.ssa Rita Ciccone,
Segretario Generale dell'Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato, e dall'Avv. Vittorio Di Bucci, del Servizio Giuridico della
Commissione Europea. La Dott.ssa Rita Ciccone ha esaminato la
sentenza C-198/01 della Corte di giustizia nel caso Consorzio
Industrie Fiammiferi, che ha destato evidente interesse in quanto si
tratta della prima pronuncia della Corte di giustizia adottata a seguito
di un rinvio pregiudiziale in materia di concorrenza, da parte dei
giudici amministrativi italiani in sede di controllo delle decisioni
antitrust. Due i profili principali della sentenza illustrata dalla
Dott.ssa Ciccone: quello relativo alla disapplicazione di norme
nazionali contrastanti con le norme del Trattato CE in materia di
concorrenza da parte di un'autorità nazionale di concorrenza, e
quello dell'imputabilità alle imprese di condotte anticoncorrenziali
attuate in contesti regolamentati e, quindi, dell'applicabilità dell'art.
81 nei loro confronti. Infine l'Avv. Vittorio Di Bucci ha delineato gli
effetti che l'allargamento a dieci nuovi Stati Membri dell'Unione
Europea attuato il 1o maggio 2004 comporterà sulla disciplina degli
aiuti di Stato.
Se il programma scientifico ha avuto grande riscontro nei
numerosi partecipanti, non si può tacere il successo del programma
sociale organizzato per i partecipanti al Convegno di Treviso e i loro
accompagnatori. La cena di gala nella suggestiva cornice del
Castello di San Salvatore a Susegana o la cena “in amicizia” da
Gigetto hanno serenamente e amichevolmente accompagnato e
concluso i lavori del Convegno.
La cronaca è di Stefano Nanni Costa
avvocato in Milano
LA PROCEDURA DI VALUTAZIONE DELL'IMPATTO
AMBIENTALE: UNO STRUMENTO GIURIDICO
DI TUTELA DELL'AMBIENTE (*)
(ATELIER UNITAR - Aix en Provence (France),
16-17-18 giugno 2004)
Nell'ambito del Programma di formazione in diritto
internazionale dell'ambiente promosso dall'UNITAR (l'Istituto delle
Nazioni Unite per la Formazione e la Ricerca), si è svolto dal 16 al
18 giugno 2004 ad Aix en Provence il quarto Atelier
“Environnement et Justice”, destinato a magistrati ed avvocati di
Belgio, Francia, Spagna, Svizzera e Italia.
L'incontro si proponeva di analizzare, con l'aiuto di studiosi
dell'Università di Aix en Provence, le direttive comunitarie che
hanno imposto agli Stati dell'Unione Europea l'applicazione di
procedure di valutazione dell'impatto ambientale. L'oggetto di
questo studio interdisciplinare, che il richiedente di un permesso di
costruire deve allegare al proprio progetto, consiste nella verifica dei
possibili danni all'ambiente provocabili dalla costruzione e
dall'indicazione, tra le varie alternative possibili, dei mezzi più
efficaci alla loro minimizzazione.
Un'analisi comparata delle diverse modalità di recezione
nazionale delle direttive, attraverso il confronto delle normative e
soprattutto dell'apporto giurisprudenziale in materia, ha costituito
l'approccio seguito in questi tre giorni di studio, conclusisi con la
presentazione, da parte del rappresentante di ciascun Paese, della
giurisprudenza nazionale.
Parte della seconda giornata è stata dedicata alla visita del sito
su cui sorge l'impianto di trattamento rifiuti di Septèmes-LesVallons, di cui è stato presentato il contesto storico e ambientale, e
illustrate le attuali modalità seguite nelle procedure di stoccaggio,
compostaggio e valorizzazione del biogas. La visita è stata
organizzata da Veolia Environnement, partner dell'UNITAR,
assieme all'Ecole Nationale de la Magistrature francese e all'Ufficio
*
(*) Roberta D'Antoni, Dottoranda di ricerca in Diritto penale all'Università di Trento,
Avvocato del foro di Venezia.
Federale Svizzero dell'Ambiente, delle Foreste e del Paesaggio, nella
realizzazione dell'Atelier.
***
Dopo l'apertura dei lavori da parte della Prof.ssa M. Sancy,
coordinatrice del Programma UNITAR di diritto dell'ambiente,
l'illustrazione della normativa comunitaria è stata affidata ad una
rappresentante della Direzione Generale della Commissione
Europea, M. Thisvi Ekmektzoglou, che ha illustrato le principali
modifiche della Direttiva 97/11/EC alla precedente 85/337/EEC, pur
continuando a distinguere tra i progetti appartenenti alle classi
elencate nell'Allegato I e quelli di cui all'Allegato II, per i quali la
valutazione circa la necessità di V.I.A. spetta agli Stati, che possono,
a tale scopo, individuare tipologie, fissare criteri o soglie limite.
Dopo quest'ultima fase, detta di “screening”, la normativa
interna dovrà dettagliare quella cosiddetta di “scoping”, al fine di
delimitare il campo di fattori ambientali da prendere in
considerazione (genericamente indicati dalla direttiva in uomo,
fauna e flora, suolo, acqua, aria, clima e paesaggio, beni materiali e
patrimonio culturale, e loro interazione). La relatrice si è soffermata
sul contenuto della fase di consultazione pubblica, il cui presupposto
è dato dalla previsione normativa di un termine ragionevole a
disposizione del pubblico per poter visionare la domanda di
autorizzazione del progetto e il rapporto di studio d'impatto, di
precise modalità e luoghi di consultazione. Comprese le
consultazioni transfrontaliere di cui alla Convenzione Espoo del
1991. Oportune modalità di pubblicità dovranno riguardare anche la
decisione.
La Dott.ssa Truihlé-Marengo, professoressa incaricata
all'Università di Aix-Marsiglia, ha approfondito l'analisi della
Convenzione di Espoo, sottolineando le varie fasi della procedura
d'inchiesta promossa dalla Parte d'origine per valutare gli effetti
transfrontalieri dell'impatto ambientale prodotto dall'installazione
richiesta e la procedura d'arbitrato prevista dalla Convenzione per le
controversie.
La Dott.ssa Brosset, ricercatrice del CERIC (Centro Studi di
Ricerche Internazionali e Comunitarie), ha invece illustrato l'altra
fonte della Commissione Economica dell''ONU per l'Europa, origine
del diritto comunitario della materia, la Convenzione di Aarhus
sull'accesso all'informazione, la partecipazione del pubblico al
processo decisionale e l'accesso alla giustizia in materia ambientale
(1999).
***
Il panorama della giurisprudenza francese è stato tracciato dal
Prof. M. Billet, associato di Diritto Pubblico all'Università di Metz,
che ne ha indicato le linee guida nel rifiuto di formalismi che
eccedano il sostanziale rispetto delle esigenze legali, nell'esigenza di
minimi di qualità dello studio e nella tendenziale completezza di
questo, le cui conclusioni non potranno essere corrette
successivamente all'inchiesta, né richiedere, per la comprensione del
pubblico, studi ulteriori, cui ci si potrà al massimo riferire come
fonte di informazioni complementari e non essenziali.
Il relatore, ricordando l'art L.122-1 del Codice francese
dell'ambiente, che impone allo studio d'impatto un contenuto
proporzionale all'importanza dei lavori e all'incidenza prevedibile,
ha illustrato alcune sentenze (tra cui TA Strasburgo, 19 gennaio
1993 e altre in RJE 1995, n°. spec., pag. 11) che hanno consentito il
riconoscimento della legalità di alcuni studi, a prima vista
insufficienti, ma che nel contesto generale del progetto non
mancavano di elementi essenziali.
Tra le caratteristiche individuate nella recezione normativa
francese (Decreto n. 77-1141 del 12 ottobre 1977) è stato
menzionato il requisito di un studio dello stato iniziale del sito, che
tuttavia deve essere “attualizzato” rispetto alla domanda di
autorizzazione nel senso di non fotografare una realtà troppo
risalente (oltre i sei anni indicati dal Consiglio di Stato), con la
necessità di sottoporre a studio anche l'ambiente naturale che si trova
in prossimità del sito interessato e l'estensione di tale studio agli
effetti sulla salute. A questo proposito veniva citata, tra le altre, la
sentenza del TA Montpellier, 30 dicembre 2003, che ha ritenuto
insufficiente la valutazione allegata dal richiedente l'autorizzazione a
costruire un impianto depuratore, rispetto al quale non erano stati
analizzati i rischi sanitari diretti ed indiretti che, attraverso la catena
alimentare, avrebbero potuto interessare gli abitanti delle zone
costiere del Golfo d'Aigues-Mortes, su cui avrebbe scaricato il
depuratore.
Il Decreto del 1977 (con le successive modifiche del 1993),
impone altresì l'espressa menzione, nello studio, dell'analisi del
metodo di valutazione seguito, la cui mancanza, come sottolineato
dal Prof. Billet citando la Sentenza della CAA di Douai 21 dicembre
2000, è causa di invalidazione del progetto.
È stato inoltre osservato come il Decreto imponga, al fine di
facilitarne la comprensione al pubblico, che lo studio sia corredato
da un riassunto caratterizzato da una minor tecnicità.
Altri casi affrontati dalla giurisprudenza francese sono stati
presentati da M. Harangp, commissario governativo, che ha
sviluppato soprattutto il caso sollevato da alcuni privati e da
un'associazione ambientalista attorno alle modalità di sfruttamento
di una discarica, decise dal prefetto di Bouches du Rhône,
considerata esistente e non nuova, e dunque non necessitante della
procedura prevista per le discariche di cui si chieda l'autorizzazione
dopo il 2 marzo 2002, analizzando le difficoltà di verificare tale
“esistenza” in senso giuridico.
Il contributo della giurisprudenza belga è stato fornito dal Prof.
L. Lavrysen, Giudice alla Cour d'Arbitrage di Bruxelles e da M.
Neuray, primo uditore al Consiglio di Stato del Belgio. Il primo
esperto ha preso in considerazione alcune sentenze della Cour
d'Arbitrage (che vigila sull'osservanza della ripartizione di
competenze tra i vari legislatori del Paese Federale), affrontanti tra
l'altro il problema, ben noto nella giurisprudenza costituzionale
italiana, della delimitazione tra i poteri urbanistici e di vincolo
ambientale spettanti alle Autorità Locali (in questo caso la Regione
di Bruxelles) e quelli di ordine sanitario che permangono di
competenza federale. Il secondo relatore belga, esposte le differenze
tra le discipline sulla procedura di valutazione applicate delle
Regioni vallone, fiamminga e di Bruxelles, ha esposto un caso
riguardante la Regione vallone e il permesso a costruire una
costruzione destinata allo stoccaggio di oli combustibili usati
provenienti da una centrale nucleare, in cui il Consiglio di Stato (12
agosto 1993) ha puntualizzato come i poteri di valutazione d'impatto
della Regione non possano estendersi oltre i confini della gestione
del territorio, impedendo di fatto allo Stato di perseguire le proprie
strategie economico-produttive.
L'esperienza “extracomunitaria” portata dalla Svizzera, ha
permesso di comprendere il caso di una realtà federale che può
conoscere, al suo interno, delle divergenze tra le normative e
soprattutto tra le prassi cantonali. Il punto della situazione è stato
fatto da André Jomini, Cancelliere del Tribunale Federale Svizzero
di Losanna, che ha ricordato l'entrata in vigore dello strumento di
valutazione il 1° gennaio 1985, con l'emanazione della legge
federale sulla protezione dell'ambiente. Il caso citato (T. féd. 1A 17
agosto 2000) si caratterizzava per l'applicazione della c.d. “clausola
di bisogno”, cioè della espressa “giustificazione” del progetto
soggetto a studio, nonostante l'impatto ambientale e con la
descrizione delle misure di protezione attuate.
Un rapido riassunto della normativa e della giurisprudenza
italiana in materia di valutazione d'impatto ambientale, per quanto
riguarda le installazioni di ripetitori di telefonia mobile, è stato
tracciato da chi scrive, in qualità di membro dell'U.A.E., partner
dell'ultimo Atelier UNITAR (Inverigo 21-23 aprile 2004), assieme al
CSDPE, al FEIN, alla Camera Penale di Como Lecco e
all'Università dell'Insubria, che hanno sostenuto l'incontro, voluto e
promosso dal Vice-presidente dell'U.A.E, Avv. Giovanni Bana,
Il particolare punto di vista (l'inquinamento elettromagnetico)
da cui la materia è stata trattata ha consentito di fare il punto sullo
stato di applicazione del principio di precauzione, che qui
interessava fondamentalmente per discuterne l'inserimento o meno
tra i poteri urbanistici del Comune, quelli di localizzazione strategica
della Regione o quelli sanitari dello Stato, nel quadro del già
accennato problema di distribuzione delle competenze risolto dalle
sentenze della Corte costituzionale nn. 303 e 307 del 2003.
Tra i prossimi appuntamenti del Programma di diritto
ambientale dell'UNITAR è previsto un nuovo incontro ad Inverigo
per la primavera 2005, sempre con la promozione ed il sostegno
dell'U.A.E. e del CSDPE.