RAMPOGNA GIOVANNI Data di nascita

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RAMPOGNA GIOVANNI Data di nascita
RAMPOGNA GIOVANNI
Data di nascita: 1935
Intervista rilasciata in italiano nel mese di ottobre 2004
Intervistatore: Elisanna Dai Pra
Io sono Giovanni Rampogna, sono nato a Pordenone il 24/05/1935 all’ospedale civile di S. Maria
degli Angeli, da allora sono rimasto sempre a Pordenone, ad esclusione di un paio di pause o
trasferimenti; io sono di famiglia povera e avevo solo la mamma, con quattro sorelle. Nel 1943,
un’associazione di volontari che va anche oggi per la maggiore, mise gli occhi sulla mia famiglia, io
allora avevo 8 anni e queste persone, dame della carità…
Non vuole dire il nome di questa associazione?
Per ora no, magari nel prosieguo! Anche perché questi sono fatti, non sono nuvole e devo fare
ancora i conti con questa associazione; conti importanti che hanno coinvolto la mia famiglia, me
stesso, l’educazione ed il futuro della famiglia stessa. Insomma misero gli occhi su di me, su
“Nanni”, perché mi chiamo Giovanni, ma a Pordenone mi chiamavano Nani. La frequentazione di
queste donne vedevo che preoccupava mia mamma, ma io piccolo, constatavo questa
preoccupazione. Mia madre non era vecchia era del 1904, aveva 40 anni, era una bella donna, molto
modesta ma onesta. Una mattina, era il 22 febbraio 1944, mia madre mi svegliò presto dicendomi
“Nani, svegliati che ti lavo”, mi fece il bagno nella bacinella di zinco. Da lì a poco comparvero due
persone e dissero che mi erano venuti a prendere; alle 8,10 avevo il treno per Venezia; poi venni a
sapere che erano due della Questura. Mi portarono via in un collegio a Venezia, ma non in un
collegio di quelli belli a pagamento: era un centro di rieducazione alle Zattere, 423. Io avevo la
matricola 525. Lì rimasi per 10 anni. Tornai a casa che Pordenone era diventata piccola per me,
perché partii che ero piccino e sono tornato che ero grande. Sì, imparai a leggere ed a scrivere, ma
passai anche 10 anni di buio assoluto. Il 24 di maggio del 1954, ho iniziato a lavorare a Pordenone
come garzone del pasticciere. Quindi come garzone del fornaio, quindi il servizio militare, poi il
rientro dal servizio e il Cotonificio Veneziano. Il Cotonificio Veneziano era reduce da una grande
lotta, contro la chiusura dello stesso nella prima era. Io all’epoca, al rientro facevo già l’attivista
politico. Giovane, mi hanno iscritto, però ho aderito consapevolmente alla FGCI, Federazione
Giovanile Comunista Italiana, facevo il vivandiere durante gli scioperi ed i picchettaggi contro la
chiusura del Cotonificio Veneziano.
In che anni siamo?
Nel ’54: siamo alle ultime battute; facevo il vivandiere, come altri giovani e portavo di sera il
mangiare alle donne che picchettavano le fabbriche del Cotonificio Veneziano di Pordenone e
quello di Torre. Quindi avevo subito preso contatto con i tessili.
Storia, palestra di lotta e di cultura! Queste operaie, uscivano in una fiumana dallo stabilimento
Amman di Borgomeduna, a piedi, alle volte scalze, ma piene di voglia di lavorare e di condurre una
vita onesta.
Quindi poi la vita prosegue, ma il primo contatto l’ho avuto lì; ho trovato anche alcuni dei miei
famigliari, erano i miei zii, che lavoravano. Poi una volta chiusa questa parentesi, chiuso il
Cotonificio, le battaglie e la gente sfinita, ma non doma, hanno chiuso i cancelli.
Poi c’è stato un rilancio dall’Ufficio di collocamento di Pordenone, che era in piazza della Motta,
dove ora c’è il Museo Naturale. Siccome ero disoccupato, il collocatore mi dice che stavano
costituendo la terza squadra notturna al Cotonificio Veneziano a Torre: “Se vuoi andarci, di giorno
vai a spasso!”, mi disse. Io nell’entusiasmo della mia giovinezza e nell’entusiasmo di avere dei
soldi in tasca - avevo già imparato da mia madre, donna onesta, che il lavoro era l’unico mezzo
onesto per guadagnare da vivere - accettai. Ma avevo commesso un errore di valutazione, perché di
giorno non potevo andare a spasso, ma dovevo dormire, di giorno!
Mi hanno assunto come manovale in Cotonificio Veneziano a Torre, che è la filatura; ho iniziato il
terzo turno dal lunedì al lunedì di notte, tutte le sere dalle ore 22 alle 6 del mattino, 8 ore di lavoro,
ma 8 ore conquistate da precedenti contratti di lavoro, perché prima erano, 9, 10 e addirittura 12 nel
1907! Mi hanno subito passato di qualifica: titolare, ero addetto alla conduzione delle macchine
pettinatrici.
Il cotone grezzo entrava dalla portineria centrale, andava in fondo al batur, si chiamava così.
C’erano degli operai che spaccavano le balle di cotone con degli arnesi in ferro, pesantissimi, tipo
mazze appuntite. Venivano disfatte le balle e passate al batur, che era un’operazione che consisteva
in una prima sgrezzatura del cotone grezzo e sporco che da lì veniva pulito e garzato, ecc.
Dopo venivano fatte delle balle su dei macchinari chiamati “le garze”; mi avevano anche messo alle
garze: queste macchine dovevano raccogliere la prima filatura pesante, grezza e la trasformavano in
un velo, detto garza, più leggero. Avevamo dalle 10 alle 21 macchine a testa da guardare, erano a
trasmissione centrale, cioè un motore elettrico in fondo con trasmissione a cinghia e le macchine in
fila con un motore da 200/300 cavalli, mandavano avanti 20/30 macchine a seconda della potenza
del motore stesso.
L’ambiente era estremamente disumano, veramente pietoso: non si poteva mangiare durante l’orario
di lavoro, non si poteva fumare per ovvi motivi di sicurezza, quindi un rapporto di lavoro e basta! Il
prodotto finito dalle garze, veniva alle pettinatrici e lì, io assieme ad altre, ero titolare, prima di 4
dopo 6 infine 8 macchine. C’era da lavorar forte!
E queste pettinatrici nei confronti del filato che operazioni svolgevano?
Lo rifilavano ancora, lo tessevano e lo facevano più sottile, ma sempre su veli. Arrivavano dei veli,
su delle balle che si erano rimpicciolite, prima erano lunghe 1,80 e ora larghe 80 cm e così via.
Questo filato, questo velo, veniva messo sopra alla macchina e lavorato con dei pettini, usciva dalla
testata della macchina in un cavetto, grosso un dito, che veniva raccolto in contenitori che vedremo
nelle fotografie, i vasi che venivano portati ai banchi, poi agli stiratoi, poi ai ring.
Le faccio una domanda: la pettinatura era solo un reparto che riguardava la tessitura o c’era
anche in filatura?
No era solo in tessitura (ndr: probabilmente è caduto in contraddizione: inizialmente dice di essere
assunto a Torre dove c’è la filatura. L’intervistatrice chiede se la pettinatura ero solo in tessitura;
di qui l’errore, che viene reso evidente dalle frasi seguenti). Quindi le operazioni del piano terra
dello stabilimento di Torre erano così, e finivano con i banchi roccatrici…
A Torre?
Sì, ero a Torre, non a Pordenone, perché lì c’era la tessitura e facevano le tele; noi facevamo i fili,
eravamo in filatura. A Torre facevano questa lavorazione.
Il rapporto all’interno della fabbrica era veramente di sudditanza; i capi erano proprio dei kapò, una
disciplina ferrea, che oggi come oggi non credo esista ancora, ma se dovesse esistere sarebbe
tragico. Non potevi pensare, non potevi parlare, dovevi solo lavorare. Non c’era la mensa, c’erano i
richiami verbali e scritti per i ritardi, eccetera; la fabbrica era veramente luogo di disciplina e di
produzione.
Tant’è che voglio raccontare un fatto su un direttore, di cui non dirò il nome perché poverino è
morto anche lui come tutti i direttori, forse prima dei lavoratori, forse per l’accanimento della classe
operaia nei confronti di quel gruppo dirigente! Quelli del Cotonificio Veneziano, non erano né
capitani d’industria né dirigenti, ma erano dei personaggi messi lì a capo della produzione, per far
uscire la produzione.
Una notte entrò il direttore. Io ero addetto ai garzi, avevo un ventilatore regolabile con le alette che
faceva entrare l’aria nel reparto; sto parlando di un ventilatore del diametro di 30 cm, forse il foro lo
troveremo ancora nelle foto. Passando il direttore vicino alle mie macchine, gli dissi: “Signor
Direttore, se mi facesse alzare le alette del ventilatore, non mi si romperebbe sempre il telo sulle
macchine, che devo sempre andare ad aggiustarlo”. Era anche un’operazione difficile perché la
macchina era piuttosto complessa e anche pericolosa; bisognava avere attenzione e professionalità,
perché sennò saltavano le dita! Allora continuai: “Mi rompe il garzo e mi tocca correre a mantenere,
quindi penso che lavorerei più tranquillo se…”. Lui mi disse: “Rampogna, lei lavori che a pensare
ci penso io!” Questo era il clima di quel tempo, eravamo negli anni ‘59-‘60.
Per quello che riguarda le lotte sindacali e il rapporto con il sindacato, io già facevo parte della
FIOT, Federazione Italiana Operai Tessili. Facevamo qualche movimento più fuori che dentro,
perché in fabbrica, tutti avevano paura di iscriversi al sindacato, malgrado la grande esperienza
vissuta precedentemente in Cotonificio Veneziano dalle cotoniere pordenonesi, che durante il
fascismo scioperarono per bloccare il trasferimento delle macchine dirette in Germania. Questa
nuova classe era più timorosa; quindi pochi iscritti al sindacato e quei pochi si muovevano sotto e
non c’era grande movimento; ma ci dava una mano in quel momento il Governo Tambroni, ovvero
il ministro degli Interni Selva, il quale per mettere a tacere il movimento sindacale italiano degli
anni ’60, pensò bene di sparare sui lavoratori. Ecco che nel 1960, il governo spara, il governo con la
polizia intendo, spara sui lavoratori ed uccide 5 operai in Piazza Ferraris a Genova. Lei può
comprendere, che non c’erano i cellulari, ma il telefono c’era e la notizia è arrivata al partito, al bar,
nel sindacato. “Si proclama lo sciopero generale”, la FIOM-CGIL proclama lo sciopero generale, io
essendo iscritto alla FIOM-CGIL aderisco, mi trovo con alcune lavoratrici alla sera, perché io ero
sempre col turno di notte, e ci mettiamo d’accordo per scioperare. Andiamo in portineria e tentiamo
di bloccare le persone che arrivano, ma purtroppo l’adesione allo sciopero fu molto scarsa. Fummo
in due o tre, a fare lo sciopero nel turno di notte, e quattro o cinque nel turno di giorno; non è andata
bene. Vado a casa, ci salutiamo con quel gruppo di attivisti; la sera dopo riprendo il lavoro, felice
della vittoria, e mi chiedono se ho scioperato, rispondo: “Certo, non sono mica andato in
campagna!” scioperare quella volta, significava, mettere a repentaglio il posto di lavoro, mica
scherzi! C’erano i licenziamenti, lo slogan dei padroni pordenonesi, e non hanno cambiato, era: “Se
non ti piace questo posto vattene fuori, perché io ne trovo un altro. Per tanto meno anche!” (Se no te
piase questo posto, va fora che mi ghe ne trovo un altro! Par tant manco anca). Così la sera con la
mia borsetta con dentro il caffelatte, la minestrina ed il pane, mi presento a lavorare, passo per la
portineria - all’epoca non c’era l’elettronica e le macchinette, ma c’erano queste marchette, appese
ad una rastrelliera - io vado nel mio numero e non trovo la mia, che aveva due sensi, marchetta del
lavoro e marchetta del casino, e siccome ero anche un po’ spiritosello dico al portinaio: “Chi è
venuto a lavorare al posto mio?” Lui mi disse: “Rampogna vai dal caporeparto”. Vado dal capo. La
rumorosità nel Cotonificio era tale che o parlavi a bassa voce, a bassa frequenza, o dovevi strillare,
tanto era il rumore che l’inizio e la fine del lavoro, veniva segnalato all’esterno da una sirena e
all’interno da delle lampade lungo il muro, quindi era una segnalazione più visiva che acustica.
Si gesticolava da lontano, perché era un reparto lunghissimo, sarà stato 150 metri, interrotto di tanto
in tanto da delle paratie che dividevano i reparti. Io entro nel reparto, vado in cerca del capo e lo
vedo in fondo; lui mi segna con la mano di avvicinarmi e io mi avvicino, ma gli faccio il gesto con
la mano, arrotondo l’indice col pollice, per segnare la mia marchetta, lui la tira fuori dalla tasca e
me la pone a mo’ di cartellino rosso, mi avvicino e mi dice: “Tu hai scioperato ieri sera?” “Sì, c’era
sciopero degli operai e l’ho fatto!” gli rispondo. Lui mi dice di andare con lui dal direttore che le ho
raccontato prima. Il direttore mi dice “Guardi che questo era uno sciopero politico, lei non doveva
scioperare”. Io gli chiesi se scherzava, ma ero un po’ timoroso perché c’era il posto di lavoro in
pericolo.
Insomma esco licenziato. Allora vado al mio sindacato ed inizia una vertenza lampo: vengo
riassunto fra virgolette, dopo una trattativa in cui ho avuto ragione perché sono tornato a lavorare.
La commissione interna e gli organismi sindacali non c’erano ancora perché l’accordo
interconfederale sulle commissioni interne viene solo nel 1963. Nel 1960 non c’erano ancora le
commissioni interne e se c’erano a Pordenone, non c’erano a Torre. Gli ex attivisti sindacali della
CISL e della CGIL erano diventati vecchi ed i giovani, non avendo avuto un insegnamento
sindacale, non avendo seguito le grandi lotte dei tessili che erano state delle palestre, non
riuscivamo a mettere insieme il desinare con la cena, sindacalmente e politicamente.
Così, ho ripreso a lavorare, sempre di notte fino al 1963, anno in cui mi sono sposato e per ovvi
motivi ho chiesto di fare il turno di giorno, ma mi hanno detto di no perché avevo firmato un
contratto notturno. Così, ho pensato di cambiare posto di lavoro e sono andato a lavorare da Zanette
a Pordenone, che faceva porte, finestre e teste di legno! Perché ho fatto questa battuta? Perché
anche quell’azienda lì, fallì dopo pochi anni, miseramente, perché a conduzione familiare. Non
riuscirono a far fronte, nonostante i 600 operai, alle nuove tecnologie, allo sviluppo dell’edilizia
popolare ed in generale, da Palermo a Bolzano, non riuscirono a mettere insieme la partita
produttiva con le vendite commerciali; così fallì miseramente. Ma prima del fallimento, io cambiai
lavoro e andai alla Zanussi, dove ho vissuto in pieno, con grande fermento e passione, l’attività
sindacale. Alla Zanussi c’era la commissione interna; sono stato l’ultimo alla commissione perché
poi c’erano i comitati cottimi, quindi i rappresentanti di linea che avevamo fatto delle grandi
battaglie. Quindi la mia vita di 36 mesi nel Cotonificio Veneziano, ha servito ad arricchirmi di
questa potenza e volontà di lotta, per la giustizia, dignità e rispetto del posto di lavoro. Quindi il
Cotonificio Veneziano ora non c’è più, ripeto, dopo tanti anni di lotte avvilenti. Le ultime si
strascicavano, nemmeno con inerzia, ma con un fango che si dilata in una discesa che finiva in una
valle, e purtroppo non c’è più. Con la chiusura dei Cotonifici Veneziani, abbiamo perduto un
patrimonio di operai, di lavoratori, un patrimonio industriale, ma non tanto in virtù
dell’investimento capitalistico, ma della capacità del lavoratore pordenonese. Il lavoratore
pordenonese, spero di venire contraddetto, non è secondo me una cima, ma ha un sottobosco così
ricco e fiorente, che fa fiorire delle piante meravigliose, sull’ingegno, sulla laboriosità e soprattutto
sull’onestà. Il Cotonificio Veneziano è stato un caposaldo, una palestra di lotta, dove le donne
hanno saputo conquistare la loro dignità sul lavoro, in prima persona. Non si è mai sentito dire:
“Vai avanti tu che sei uomo!”; anzi erano loro ad andare avanti e anzi dicevano ai ragazzi: “Vieni
con me” (Vien con mi). In Cotonificio Veneziano come ho detto, c’era una disciplina che sfiorava la
brutalità, ma continuavamo ad andare lì a lavorare, per uno stipendio. Io prendevo 43 mila lire al
mese…
Una mia domanda è questa, quando lei mi parlava dei primi passaggi del cotone, le dice niente la
parola “lupo”?
Sì, la “bocca di lupo”, dall’addetto del batur, era quella ciminiera che metteva a fuoco, bruciava, i
rimasugli,
le terraglie, delle balle di cotone, quindi possiamo dire che è una fornace, una stufa,
diciamo a bocca di lupo.
Anche le reggette?
No, le reggette venivano messe da parte…
Ma ad esempio in quel contenitore del cotone…
Anche quello veniva messo da parte, venivano bruciate alcune cose; poi all’epoca si raccontava che
avrebbero trovato anche qualche corpo umano di colore dentro la balla. Il primo punto di inizio
lavoro del Cotonificio era il batur, il secondo era la bocca di lupo in cui si buttava quello che
rimaneva.
Un’altra domanda, che cosa le dice il nome “Noce”?
Ma io ero a Pordenone… No non mi dice nulla.
Se vuole dirmi qualcos’altro che si ricorda…
Il rapporto straordinario che c’era all’interno fra operai, di fratellanza. Disponibili ad aiutarsi,
solidali con le persone; erano vicini ad esempio ai lutti delle famiglie, facevano delle collette per i
matrimoni, erano cose sociali. Ci si distingueva all’interno del Cotonificio di Torre anche fra laici e
non laici. Ad esempio in Piazza a Torre, dove c’è ora la banca, c’era la sede delle ACLI, che aveva
la scritta “Lavoratori riuniamoci in Cristo”. Noi invece scendevamo lungo la discesa e ci riunivamo
nella nostra sofferenza, nel nostro lavoro. Nel Cotonificio di Torre c’è ancora all’entrata, sulla
parete centrale del reparto, la scritta “Credere, obbedire, combattere”, che andrebbe vista, pulita e
ripresa. Io ho tentato con le fotografie ma non credo di averla presa. E’ stato un ricordo, una
parentesi di lavoro della lunga vita lavorativa di una persona comune come me, che ha dato un
contributo allo sviluppo di lotta ai lavoratori della città di Pordenone. Poi come ho detto sono
andato alla Zanette, alla Zanussi e quindi sono uscito dirigente sindacale in aspettativa.