L`AVVOCATURA DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI «L`avvocato ha
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L`AVVOCATURA DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI «L`avvocato ha
L'AVVOCATURA DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI «L'avvocato ha meravigliosamente difeso un cliente che aveva poco o nulla da sperare. `Avvocato _ gli dice il presidente dopo avere letto la condanna _ noi non avremmo certo saputo difendere come lei ma lei avrebbe certamente deciso come noi'» (in F. Grande Stevens, Vita di un avvocato, Cedam 2000, p. 265). 1. Avvocati veri, avvocati finti. Anni fa un poveraccio venne sorpreso ad appiccare il fuoco a una cantina di Borgo San Paolo a Torino. Invitato a scegliersi un difensore di fiducia, egli nominò l'avvocato Giovanni Agnelli. Il Tribunale respinse la designazione motivando che il difensore prescelto non risultava iscritto all'Albo degli avvocati. Siccome nel «Salve Regina» noi diciamo «avvocata nostra», devo pensare che se quel tale avesse preso alla lettera la preghiera, il Tribunale avrebbe respinto la designazione motivando che la Madonna non risultava iscritta all'Albo degli avvocati di Nazareth. A volte la burocrazia anche giudiziaria attinge il sublime. «Catania, l'avvocato settantenne aveva solo la quinta elementare. Era titolare di uno studio nel centro della città», ho letto su un giornale. Questo avvocato irrituale meriterebbe un qualche riconoscimento, se non altro per avere dimostrato l'inutilità del valore legale del titolo di studio. Propongo però una motivazione più modesta: «Per avere esercitato la professione forense per oltre trent'anni con risultati non inferiori alla media dei colleghi». Trovo tutto sommato normale che questo «avvocato» catanese abbia ingannato i magistrati, la polizia giudiziaria, gli uffici finanziari, il personale del suo studio e così via; ma trovo straordinario che abbia ingannato per trent'anni i colleghi, in quanto la colleganza, secondo la nota definizione di Luigi Majno, è «la forma che assume l'odio vigilante». Che a volte è anche permalosetto. Nel 1986, un consigliere dell'ordine di Parigi scrisse un rapporto pubblico al Batonnier, che era Philippe Lafarge, sulle condizioni della professione forense, un ritrattino realistico nelle lungimiranti ancorché funeste previsioni. La colleganza, sempre un po' biliosa, gli affibbiò per quello scritto un nomignolo di rara perfidia. Con un gioco di parole, lui, che si chiama (Daniel) Soulez Larivière (lett. «prosciugate il fiume»), venne soprannominato Roulez Lasivière (lett. «portate la barella»). Avvocati veri, avvocati finti. Difensori negati. Montanelli si sorprese quando seppe che, nel nuovo codice di procedura penale, la formula del giuramento era stata modificata. Non più consapevoli della responsabilità da assumere davanti a Dio e agli uomini, soltanto davanti alla propria coscienza. «Eppure dio _ egli commentò _ con tanti democristiani nella commissione di riforma, avrebbe meritato, non diciamo un difensore di fiducia, ma almeno una comunicazione giudiziaria». A volte un difensore non serve più, perché la cosa va a finire a tarallucci. Due automobilisti erano venuti alle mani, lo segnalò un lettore proprio a Montanelli quando dirigeva Il Giornale, e uno aveva ferito l'altro. Intervenne la polizia che, per farla breve, accompagnò uno al pronto soccorso e l'altro al commissariato. Il ferito venne però dimesso perché non c'erano posti-letto e così, dopo una medicazione, il poveraccio andò a ristorarsi in una tavola calda. Dove incontrò il suo feritore, che era stato rilasciato perché non c'erano posti liberi nemmeno in carcere. I due finirono per cenare seduti allo stesso tavolo, dove furono costretti a spiegarsi e a berci sopra. Un avvocato può salvarti la vita. Calvin Burdine, che dal 1984 si trova nel braccio della morte in Texas, se l'è cavata l'estate scorsa grazie al suo difensore. Avrà diritto a un nuovo giudizio, quindi a una rinnovata speranza, per il fatto che il suo avvocato, come hanno dimostrato diversi testimoni in Corte di appello, si era spesso assopito durante il processo, talvolta aveva dormito di brutto, violando in tal modo il diritto alla difesa del suo assistito. Non escludo che, chiamato a risponderne in sede disciplinare, quel collega sosterrebbe di avere adottato, in un caso senza rimedio, la sola strategia difensiva possibile. A volte un difensore può essere peggio, suo malgrado. E il caso è serissimo. All'epoca delle Brigate Rosse alcuni componenti del nucleo storico, i vari Curcio, Franceschini ecc., sotto processo a Torino, rifiutarono di nominare dei difensori di fiducia. L'ordine, presieduto da Fulvio Croce, pensò allora di designare come difensori d'ufficio i consiglieri. La reazione dei terroristi fu l'omicidio del presidente dell'ordine. La nostra Costituzione riconosce il diritto alla difesa ma non impone l'obbligo di difendersi, così come garantisce il diritto alla salute ma non obbliga nessuno a prendere le medicine. La difesa in giudizio d'altra parte non è solo quella tecnica, assicurata dall'avvocatura: può anche essere personale, basta che l'imputato sia posto in grado di esercitarla. Alla Corte penale internazionale dell'Aja, come previsto dalla stessa Convenzione europea sui diritti dell'uomo, nessuno può essere obbligato a subire la difesa tecnica. Milosevic l'ha rifiutata, fatti suoi. Alla domanda del presidente se volesse un difensore, ha risposto che era un problema del Tribunale (vero). 2. Tra Paul Newman e Lino Banfi. Di avvocati abbiamo discusso una volta, tra colleghi, durante una cena a Lussemburgo, in occasione di un convegno dell'Unione Avvocati Europei. All'estero certe cose vengono meglio. Ha cominciato uno col chiedersi perché nel cinema americano gli avvocati hanno la faccia, per dire, di Paul Newman o di Tom Cruise, mentre nel cinema italiano hanno quella di Lino Banfi e, quando va bene, di Alberto Sordi. Non tutti gli avvocati americani vengono da Harvard o da Yale, né sono tutti disinteressati coraggiosi e sexy, ragionava il collega, così come non tutti gli avvocati italiani sono dei comici da avanspettacolo. Né suonano il mandolino. Uno di noi liquidò la faccenda con un terribile: «Ce lo chiediamo perché non siamo sinceri con noi stessi». Un altro se la prese con i dirigenti delle associazioni di categoria, Consiglio nazionale forense e Cassa di previdenza in ispecie, in quanto non promuovono campagne di immagine del tipo Pubblicità Progresso. Altri accusò la letteratura moralistica e anche la cultura cattolica si ebbe le sue perché nel processo canonico, confermò un altro, l'unico avvocato ammesso è quello del diavolo; e, d'altra parte, se il colpevole è un peccatore c'è poco da difenderlo, come dimostrano i processi dell'Inquisizione. Lì di avvocati non ce ne potevano essere. Ma allora, ci chiedemmo rientrando in albergo dopo la immancabile crociera notturna sulla Mosella, perché l'avvocatura professionale sconta da noi un'immagine tanto deteriore? In effetti, se parliamo di come la gente comune vede gli avvocati, non c'è dubbio che si senta odore di animale abbattuto, e che si debba rispondere a domande del tipo: «Ma come fate a difendere gli assassini» e altre del genere. Sono domande che nascono da fraintendimenti, certo, il primo dei quali è che l'avvocatura abbia a che fare con la giustizia e dunque con la verità. Ci cadde anche Socrate, che difendendosi personalmente disse, rivolto ai suoi giudici: «sarà lecito pure adesso pregarvi di passar sopra la forma del discorso e di concentrare tutta la vostra attenzione solo sul problema se dico cose giuste o meno. È questa infatti la virtù del giudice, e quella del retore (cioè dell'avvocato) sta nel dire la verità» (il risultato si è visto). L'equivoco sta nel fatto che l'avvocatura attiene alla difesa, non alla giustizia, compito dei giudici. Nel processo talmudico, così mal raccontato dagli evangelisti, i magistrati del sinedrio erano divisi tra accusatori e difensori (c'era la separazione delle carriere), pertanto anche la difesa era svolta da giudici. Potrebbe tornare ad essere così, sia pure con altre motivazioni? È un malinteso che scontano anche i giornalisti, come se il loro mestiere avesse a che fare con la verità invece che con l'informazione. Quando un giornalista ha controllato le sue fonti, le ha vagliate con spirito critico e le ha riferite con completezza, ha bene operato. Il giudizio spetta ad altri, in questo caso ai lettori. Noi umani infatti, quando va bene, possiamo accertare se alcune cose sono singolarmente vere o false alla stregua di certi parametri di valutazione, legali o empirici; ma non sappiamo con assolutezza cosa siano il Vero e il Falso e d'altra parte, come diceva Hermann von Kirchmann, «all'ingegneria sociale basta dell'abilità pratica». La dimensione etica dell'avvocatura sta altrove: nell'osservanza della deontologia e nel rifiuto delle prestazioni che ripugnano alla coscienza... Un penalista straniero di gran nome non la pensa così, ha un'opinione che riferisco senza commenti. Agli inizi della carriera egli credeva che il processo fosse la celebrazione delle fauste nozze tra il Fatto e la Norma, e che la funzione dell'avvocato fosse quella di incedere con eleganza reggendo lo strascico della sposa (la Legge). In effetti anche in questi casi la cerimonia è pubblica, ci sono dei testimoni e sono previste delle opposizioni. Diceva di avere compreso, dopo alcune brucianti sconfitte, che la sua funzione era quella di violentare la sposa. Ci sono perfino magistrati che coltivano pensieri torbidi. Uno di essi, lo raccontava il collega di prima, sostiene in privato che il giudice non sbaglia mai, semmai si sbaglia giudice. Anni fa ci fu uno scontro di piazza tra studenti e forze dell'ordine, con feriti da ambo le parti perché eravamo nel Sessantotto e accadevano fatti di questo tipo, un po' come a Genova durante il G8. I feriti giungevano al Policlinico e venivano soccorsi nell'ordine in cui si presentavano o venivano trasportati. Un commissario di polizia, vedendo che i suoi uomini erano in attesa mentre i dimostranti venivano curati, fece una scenata ai medici ordinando che fossero curati prima gli agenti. Mal glie ne incolse perché il prof. Staudacher, primario di chirurgia di urgenza, si mise a urlare che negli ospedali c'erano solo feriti e che il dovere dei medici era solo di soccorrerli. Se un criminale viene trasportato al pronto soccorso, magari ferito dalla polizia in uno scontro a fuoco, viene curato con la stessa diligenza dei poliziotti da lui stesso feriti, ci mancherebbe altro!, ma nessuno se ne scandalizza perché tutti conveniamo che la missione che la società civile affida alla medicina non è quella di giudicare. Nessuno chiede ai medici come possono salvare la vita degli assassini, nemmeno nei Paesi in cui c'è la pena di morte. Nessun benpensante chiederebbe al concessionario di auto di lusso come ha potuto vendere la fuoriserie a un noto racketer, al ristoratore alla moda come ha potuto ossequiare il boss servendolo per anni. La gente sembra credere che difendere un criminale significhi difendere il crimine, mentre servire lo stesso individuo nella quotidianità faccia parte della vita sociale. 3. Tu di che diritto sei? Un altro pregiudizio riguarda la pretesa disinvoltura nel sostenere le tesi più disparate. Ogni professione ha la sua dose di ciarlataneria (e peggio), beninteso, ma questo dipende dalla persona che siamo, non certo dalla professione, anche se quella di avvocato è tra le più esposte. Maria Goretti o Moana Pozzi, non tocca a noi giudicare: solo uno di noi (Edgard Lee Masters) poteva scrivere l'Antologia di Spoon River. Da un punto di vista tecnico, non è vero che in diritto si possa sostenere qualunque tesi, fargli emettere qualunque suono: i margini dell'interpretazione giuridica sono ben più stretti di quelli dell'interpretazione musicale, dove un madrigale può venire eseguito come si vuole, anche a ritmo di merengue; dove da un motivo di Bach si può trarre un jingle per vendere whisky. Il diritto serve «solo» ad evitare che la gente si faccia giustizia da sé, che le liti possano trovare una composizione ragionevole e così via: per questo il diritto è un insieme di tecniche che, per essere utili allo scopo sociale, devono essere in grado di regolare con sufficiente elasticità, dunque con intelligenza, l'infinita casistica della vita pratica. Lo fa con metodo scientifico, sì, ma la missione resta pratica, perché siamo nel campo dell'ingegneria sociale. D'altra parte, se il diritto avesse l'ottusa precisione delle matematiche, fondate su algoritmi che implicano ogni deduzione, non sapremmo cosa farcene, perché noi vogliamo discutere e salvarci e se siamo condannati vogliamo ricorrere in appello. Ci fosse un software che decide le cause, litigheremmo su quello. Tutti i corpi elastici hanno un proprio punto di rottura, differente l'uno dall'altro, e anche il diritto ha i suoi, incappando nei quali bisogna arrendersi: non prima però di averne saggiata la duttilità, che resta notevole proprio nell'interesse di ciascuno e di tutti. Gli esiti saranno diseguali ma, suvvia, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è più un anelito ideale che l'oggetto di una constatazione empirica. A volte però il limite viene superato, magari dai giudici. In un paese di elevate tradizioni giuridiche come la Francia, è potuto accadere che un processo celebrato lo stesso anno (era il 1857), davanti alla stessa Sezione del Tribunale di Parigi (la sesta), contro due accusati dello steso reato (oscenità), ha potuto concludersi con l'assoluzione del primo e con la condanna del secondo. Gli imputati erano Gustave Flaubert per «Madame Bovary» e Charles Baudelaire per «Les fleurs du mal». Alcune sentenze fanno discutere perché frutto talvolta di un formalismo che ripugna alla coscienza sociale: sentenze di incomprensibile bravura, emesse da giudici lunari, direbbe lo Scalfaro. C'è gente condannata e assolta una infinità di volte per le stesse cose, magari dopo una diecina di processi fatti e disfatti. La giurisprudenza può essere problematica, ma non può diventare un mandala. Tra l'altro risulta dagli atti che in uno dei processi per il delitto Calabresi (ma quanti ne avranno fatti?), quello ad Adriano Sofri e ad Ovidio Bompressi, certo, qualche giudice si era assopito in udienza, come il collega del Texas. «Nessun dorma», canterebbe Pavarotti. È il minimo che possa pretendersi da chi poi condanna all'ergastolo. Si sa che in Inghilterra sono chiamati alla funzione giudiziaria i migliori avvocati, conservatori magari, temibili anche, ma alla loro maniera ammirevoli per spirito di servizio. Quando il collegagiudice inglese si è fatto un'idea precisa del caso, e quindi ha messo a punto un progetto di sentenza confortato dai precedenti (che non mancano mai), si chiede: «Does it work?» Funziona? Proprio così, come se lo chiederebbe un idraulico che ha appena finito di riparare una perdita. Il massimo del diritto rischia sempre il massimo dell'iniquità, è risaputo. Non è un mistero che, secondo il comune sentire, non sempre ciò che è legale è percepito come «giusto», non sempre ciò che è formalmente irreprensibile (che so? Tre anni di carcere per un furto di mele o l'assoluzione di un bancarottiere) è anche socialmente accettabile. La giustizia è pur sempre amministrata in nome del popolo e per rispettarne la sensibilità non occorre invocare, come un pretore di Como, «le immutabili leggi divine», né rifarsi come lui all'insegnamento del «compianto Ulpiano». In Inghilterra una Corte suprema di cassazione, un giudice cioè che sia autorizzato a stabilire le regole di diritto applicabili in via generale ed astratta, non può esistere per incompatibilità con un sistema che predilige i casi concreti, che sono sempre uno diverso dall'altro: anche i nostri repertori del resto sono raccolte di casi analoghi, non di casi uguali. Un fine giurista, Galgano da Bologna, ha scritto un divertente libello per dimostrare che il rovescio del diritto è il buon senso. Ad affermarlo sarebbe nientemeno che la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di arbitrati. Si sa che nei contratti le parti inseriscono spesso, per motivi di riservatezza e di speditezza, una clausola che fa giudicare le eventuali controversie da un collegio di arbitri, ai quali va precisato se devono deciderle secondo diritto o secondo equità. Ebbene, la giurisprudenza della Cassazione ammonisce che gli arbitri, se chiamati a decidere una controversia secondo equità, non devono giudicare secondo diritto, pena la nullità della decisione (il lodo). A meno che, precisa la suprema Corte, gli arbitri non diano dimostrazione che in quel caso concreto l'equità coincideva con il diritto. Siccome l'equità non è altro che il buon senso, resta dimostrato che tale coincidenza non è la regola, bensì l'eccezione, una eventualità tutta da dimostrare. L'ingegnosa tesi è inconcepibile in un giurista di common law, per il quale il diritto e il buon senso non possono che coincidere. Laddove questo non succede c'è poco da ridere, bisognerebbe spiegare agli abitanti di quella nazione che esiste da loro una frattura sociale, dunque politica. Al tempo dell'unificazione del Regno d'Italia esistevano delle Corti di cassazione regionali (avete letto bene). Il conte Mirabelli, che presiedeva la Cassazione di Napoli, quando si riuniva con gli altri giudici in camera di consiglio per decidere questioni di diritto, era solito rivolgersi al consigliere relatore chiedendogli: «Chi è `o fetente'?». Capito questo, le eleganti eccezioni formali diventavano più semplici. Racconta Mario Casella, in un libro scritto con Cesare Rimini, che un collega di qualche decennio addietro, Willy Bagnoli _ un signore che girava in Bentley con autista _ era solito preparare dossier accuratissimi, degni di uno storico, dopo di che convocava i colleghi nella sala riunioni, dall'immensa vetrata che dava su un giardino d'epoca di via Cappuccini, e spiegava loro con passione perché il cliente aveva ragione: «I motivi tecnici non li ho ancora vagliati a fondo _ concludeva _ ma voi siete così bravi e studiosi che li troverete certamente». Per chi non crede a una giustizia-karaoke, dove la base ce la mette la Cassazione, la buona giurisprudenza, ammettiamolo, è sempre in qualche modo «d'autore». Sarà perché, come dice Cordero da Milano, «il diritto non è olimpica filologia» e del resto la dottrina più erudita sarebbe pur sempre impotente davanti a una contraria opinione dell'ultimo dei giudici (la Cassazione). Oliver Wendell Holmes, da buon americano, riduce il gioco a una spietata prognostica: chiamiamo diritto l'insieme delle previsioni su quel che faranno i giudici («the prophecies of what the courts will do in fact»). L'espressione sarà atroce, però credere che esista un buon diritto che trionfa per sua natura può essere avventato. 4. Spunti di antropologia animale. Avanzo il sospetto che se gli avvocati godono di una impopolarità maggiore di quella che meritano, dev'essere perché accade tra gli umani come nel regno animale. Ci sono animali ingiustamente diffamati ed altri che la gente apprezza per motivi immaginari. Di una persona molto intelligente, ad esempio, si dice che «è un'aquila» (in caso contrario «poveretto, non è un'aquila»). Eppure Konrad Lorenz, l'iniziatore dell'etologia (la scienza che studia gli animali nel loro habitat) ha dimostrato che l'aquila reale volteggerà pure maestosa nei cieli, ma è una deficiente. Tentò infatti di far capire a un'aquila reale dov'era la casa alla quale l'animale doveva poi tornare da sola, ma ogni volta dovette andare a riprendersela, e ricondurla a casa in bicicletta, tenendola appollaiata sul manubrio. Il «bambi» che ha intenerito tutti noi per la melassa disneyana, è una vera carogna: ti attrae con gli occhioni umidi e quando gli sei vicino tenta di colpirti dal basso verso l'alto. Il cuculo, dal richiamo così musicale che Beethoven ce lo fa ascoltare nel secondo movimento della sesta sinfonia (la Pastorale), è un teppista che si impadronisce con la violenza dei nidi altrui. Ricordate «Qualcuno volò sul nido del cuculo», di Milos Forman? Per converso, ci sono animali diffamati a torto, condannati all'ignominia perpetua. La volpe non è più astuta di ogni altro cànide, il lupo non è più feroce di altri carnivori, lo squalo non è più vorace di un luccio, il coccodrillo non piange e il cigno non canta. Ma tant'è. Si dice «fame da lupi», come se il cibo non fosse un bisogno primario di ogni vivente. Perfino le formiche, se non mangiano, nel loro piccolo si incazzano. Al di fuori delle sedi scientifiche solo Montanelli (ci manca molto, vero?) ha corretto in un'occasione il tiro, alla sua maniera. Anni fa un branco di lupi proveniente dalla Polonia, allora comunista, era giunto per la fame, attraverso i Balcani, fin sulle nostre Alpi. Ne dedusse che non erano i Polacchi ad avere una fame da lupi, ma i lupi ad avere una fame da Polacchi. Nel parco zoologico della Storia si aggirano per sempre, nelle gabbie classificatorie che abbiamo costruito per loro, il Re Buono e Maria la Sanguinaria, che non furono migliori né più crudeli di altri. Per non dire di Nerone, paradigma non solo hollywoodiano di ogni nefandezza. Ci sono poi cliché ottocenteschi inossidabili. Secondo quello romantico, il medico ci salva la vita e tanto gli basta (non chiede altro), per quello positivistico l'ingegnere costruisce le case (mica balle), gli imprenditori poi creano posti di lavoro dal nulla (con la sola passione per il lavoro): eppure, secondo le statistiche ufficiali, i medici, gli ingegneri e gli imprenditori sono stati ben più numerosi degli avvocati nelle inchieste di Tangentopoli sugli appalti pubblici e la malasanità. L'incontinenza verbale è scomparsa perfino tra i penalisti dalla cotenna più spessa, ma nell'immaginario collettivo i parolai non sono i diskjockey. Eppure gli avvocati lavorano sui concetti, non sulle parole, riserva dei pubblicitari. Chiunque esegue per mestiere delle prestazioni riceve un compenso, non importa se si tratta di onorario professionale, di profitto d'impresa, di interesse su capitale o di salario da lavoro dipendente, tuttavia solo per gli avvocati si è preteso che la loro opera fosse disinteressata, oltreché s'intende al servizio delle sole cause «giuste», cioè quelle delle persone ritenute meritevoli di patrocinio prima ancora del processo. Una legge dell'antica Roma tentò di vietare agli avvocati di ricevere denaro a qualunque titolo. Inutile dire che ci dovettero riprovare, Augusto lo fece un secolo e mezzo dopo. Nel corso dei secoli seguenti ci hanno riprovato in molti, l'ultimo fu Lenin nel 1917, ma con gli stessi risultati degli altri perché se uno deve salvare la vita, la reputazione o il patrimonio, non bada a spese e si rivolge ai migliori, con ciò determinando tra l'altro una gerarchia di valori. In un'economia di mercato infatti le diverse soglie di eccellenza generano differenze di reddito e di prestigio sociale, ed è la tensione a raggiungerne di più elevati che fa progredire la qualità delle prestazioni, in tutti i campi. Non si può forzare il mercato, perché un campione costerà sempre più di suo cugino, bisogna però assicurare a tutti i cittadini una consulenza e una difesa effettive e gratuite, o almeno a costi accettabili, insomma un Servizio legale pubblico (un Legal Aid), che sia nel contempo _ perché no? _ il banco di prova degli avvocati più giovani, oggi avviati verso un massacro professionale senza precedenti. 5. L'avvocato migliore. Chissà che sulla scelta degli avvocati non abbia ragione un cancelliere della Corte d'assise di Parigi, Maòtre Villemest, cinquant'anni di assistenza ai processi, un'istituzione che gli avvocati interrogavano con lo sguardo per capire, quando i giudici si ritiravano per decidere, quale sarebbe stata la sentenza. Un grande penalista, Philippe Lemaire, racconta di avergli domandato quale avvocato avrebbe consigliato per un processo senza speranza, nel quale l'accusato rischiava la pena di morte. La risposta costituisce l'aneddoto più terrificante che si possa raccontare sulla professione. Villemest rispose infatti che avrebbe scelto quello più bestia, più inetto, meglio se balbuziente o almeno incapace di allineare due frasi coerenti senza arrossire e farfugliare. Uno che possibilmente facesse cadere a terra il suo dossier e altre cose del genere, perché i giudici avrebbero pensato che non potevano condannare a morte uno che non era stato nemmeno difeso. Lemaire, che era super (come la benzina), ebbe una terribile rivelazione, perché aveva già avuto l'impressione, talvolta, che, difendendo bene un imputato, avesse sollevato i giudici dalla colpa, spianando loro la via verso la condanna. Se è vero che gli avvocati «giusti» sono a loro modo gli imbecilli (ce ne sarà qualcuno anche da noi, su 120 mila), allora i difensori più dannosi sono quelli troppo colti o troppo tecnici (di questi ce n'è meno), perché potrebbero più degli altri mortificare l'eventuale mediocrità dei giudici, suscitarne l'invidia sociale. Valutando l'esito del proprio lavoro, Lemaire dice che il 25% delle decisioni rese nei suoi processi lo mandavano in bestia per la totale incompetenza dei magistrati, il 50% erano delle sentenze banali, raffazzonate; il 20-25% infine gli sembravano soddisfacenti, ma il suo contributo personale nei successi non gli sembrava così evidente. Alla domanda su quale sia, in uno scenario così inquietante, il ruolo dell'avvocato, Lemaire rispose in curiosa sintonia con un aneddoto riferito da Soulez Larivière, cui un presidente, alla vigilia di un processo penale, rilasciò in privato questo consiglio: «Avvocato, non si faccia cattivo sangue. Quello che lei può dire per il suo cliente non ha alcuna importanza. Il nostro ruolo è di condannarlo, il suo di consolarlo». Per Soulez Larivière la vera funzione dell'avvocato, per paradossale che sia, è di rendere sopportabile la sua sorte a colui che ha perso, mestiere prossimo all'assistenza sociale. «E si tratta di un compito immenso _ egli aggiunge _ perché si applica alla metà delle persone che si rivolgono a un Tribunale». Dovendo ingaggiare un avvocato, il consiglio sarebbe pertanto quello di evitare i primi della classe, di preferirne uno che sia goffo e maldestro, meglio se strabico, però che abbia buone attitudini consolatorie, affinché possa confortare bene il cliente lungo il cammino che conduce all'accettazione della sua sorte: qualcuno tra Alvaro Vitali e Madre Teresa di Calcutta. Gian Luigi Rota avvocato in Como e Milano