I fondamenti antropologici dell`indissolubilità del matrimonio Prof

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I fondamenti antropologici dell`indissolubilità del matrimonio Prof
TESTO PROVVISORIO
XIX CONVEGNO DI STUDI – FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO
MATRIMONIO E FAMIGLIA
LA “QUESTIONE ANTROPOLOGICA” E L’EVANGELIZZAZIONE DELLA FAMIGLIA
Venerdì 13 marzo 2015
I fondamenti antropologici dell’indissolubilità del matrimonio
Prof. Pedro-Juan VILADRICH
I. RICERCA DEL MODELLO ANTROPOLOGICO
1. Porsi domande sull’indissolubilità, sull’“amarsi per tutta la vita”, equivale a farsi domande
sull’unità, ovvero sulla “durata della fedeltà esclusiva tra un uomo e una donna”. Unità e
indissolubilità si predicano del medesimo soggetto, dell’unione coniugale e per questo sono state
definite sue proprietà essenziali. Di conseguenza, la risposta al “perché tutta la vita” e al “perché un
uomo e una donna” è nell’unione. Questa unione, però, forse richiede siffatte proprietà a una “fonte
esterna”? Ad esempio, al senso comune, all’esperienza e alla ragione efficiente, le quali
dimostrerebbero quanto siano convenienti per facilitare la realizzazione dei fini matrimoniali, per
costruire un focolare che sia luogo sicuro per l’educazione dei figli, per favorire una certa armonia
famigliare tra gli sposi e tra questi e i figli in quanto loro genitori comuni, nonché tra i figli in
quanto fratelli perché figli degli stessi genitori? Questa stabilità e armonia delle famiglie, inoltre,
non è un valido fattore di buon ordine sociale e di interesse comune, perché previene conflitti
perniciosi, destrutturazioni e anomalie? Non sembrano queste ragioni sufficienti affinché il
legislatore – la “fonte esterna” – nell’istituzionalizzare l’unione coniugale, la progenie e
l’educazione delle nuove generazioni, stabilisca che il matrimonio debba essere solo tra un uomo e
una donna e per tutta la vita? Gran parte della tradizione ci ha lasciato in eredità questi fondamenti
dell’unità e dell’indissolubilità, e i fini del matrimonio li giustificano (1).
2. I fini però non sono l’unione coniugale stessa, perciò un’eccessiva fiducia nella forza
esplicativa e giustificante di essi presenta limiti e pericoli. In effetti, contro tutto questo elenco di
buone ragioni, quella “fonte esterna” – il legislatore contemporaneo – ha introdotto il divorzio come
diritto civile, come una facoltà essenziale di ogni coniuge. Ora, sposarsi nel regno di Cesare è
fondare un vincolo di per sé dissolubile. E il potere pubblico si riserva la potestà di regolare le
condizioni e gli effetti della dissolubilità essenziale del matrimonio civile. La “fonte esterna” ha
soppresso l’indissolubilità (2).
3. L’indissolubilità rappresenta solamente la proibizione del divorzio? E, a sua volta, l’unità si
limita a essere un divieto della poligamia e della poliginia? Oppure, molto più radicalmente, sono
affermazioni positive delle componenti valide ed essenziali dell’essere unione dell’amore
coniugale? Le risposte a queste domande le troviamo nell’unione, al suo interno e non fuori di essa.
Le troveremo solo addentrandoci nel suo essere intima comunione di vita e di amore. Converrà,
inoltre, farlo in modo che gli sposi riconoscano la loro intimità amorosa, con quella luce diafana (3)
che commuove i loro cuori e le loro vite, piuttosto che con argomentazioni apologetiche riposte in
magazzini dottrinali (4). Non sembra pleonastico aggiungere, su questo punto, che l’amore, pur
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essendo ragionevole, non è certamente un prodotto della ragione, né la deduzione che conclude
un’argomentazione intellettuale. L’amore pensato – le dottrine e le ideologie – non ama (5).
4. All’interno di qualsiasi proposta di matrimonio è latente un modello antropologico. È una
presenza sostanziale, a volte espressa, altre implicita e sottintesa. Si tratta di un modello di
riferimento su ciò che è l’essere umano, proprio in quanto uomo e donna, e sulle sue relazioni di
intimità e di generazione. È per sua ispirazione che avviene il processo di istituzionalizzazione del
matrimonio in campo sociale e culturale, morale e giuridico. Ma questa dipendenza antropologica
va ben al di là di ogni istituzione legale. È presente anche in quei modelli vissuti praeter o contra
legem. Essi concorrono al processo di istituzionalizzazione del matrimonio, lo assediano e alla fine
riescono a introdurvi modifiche sostanziali. Non potrebbero farlo se i loro cavalli di Troia non
contenessero i loro stessi modelli antropologici. Il risultato di questo assalto è che all’interno
dell’istituzione legale del matrimonio viene forzata una coesistenza tra modelli antropologici diversi
e in contraddizione. È un’esperienza tutta contemporanea: i modelli hanno de facto aggredito il de
iure e hanno disintegrato la sua antica unità di ispirazione. Da un certo punto di vista, questa lunga
battaglia è stata chiamata processo di secolarizzazione del matrimonio. Oggi il matrimonio nel
regno di Cesare – il matrimonio civile – ha perso le mura maestre ereditate dalla sua costruzione
canonica: l’eterosessualità, l’unità e l’indissolubilità, la finalità della prole. È divenuto difficile, e
forse impossibile, definire in maniera inequivoca e specifica il matrimonio civile. E questa
indefinibilità, per di più, è stata ritenuta una virtù in base al fatto che il pluralismo di una società
democratica – considerato uno dei valori politici principali – soffrirebbe un danno intollerabile se
l’ordinamento giuridico imponesse un modello istituzionale “dogmatico”, i cui profili inequivoci,
certi ed esclusivi lascerebbero fuori dal matrimonio tutta una pluralità di alternative sessuali. Oggi,
in un certo senso, il matrimonio civile democratico, più che essere carente di un modello
antropologico, sembra accoglierne quanti ne esistono nella prassi sociale, purché abbiano un
sostegno parlamentare (6).
5. Navigando questi mari, avvolti in fitte nebbie, il matrimonio che propone la Chiesa ha dei
profili nitidi. È l’intima comunione di vita e di amore tra un uomo e una donna: comunione di uno
con una per tutta la vita, determinata dalla volontà congiunta di questo uomo e di questa donna; un
consenso sovrano che nessun potere umano può supplire. Né il consenso che fonda il vincolo
matrimoniale, né l’intima comunione di vita e di amore sono istituzioni ecclesiastiche, cioè
creazioni giuridiche della Chiesa, costruite e riservate per i suoi fedeli. La proposta cristiana di
matrimonio – quello stesso che, senza alcuna aggiunta coniugale, è fonte di grazia sacramentale per
i battezzati – corrisponde alla verità antropologica dell’uomo, di qualsiasi uomo o donna
indipendentemente dalla sua razza, religione, convinzione, posizione sociale e politica (7). Detto in
altri termini, non siamo marito e moglie – e nemmeno padri, madri, figli, fratelli e sorelle – perché
siamo cristiani, islamici, buddisti, agnostici o atei, oppure perché siamo russi, cinesi congolesi o
boliviani, e nemmeno perché siamo ricchi o poveri. Lo siamo in quanto esseri umani. Qual è allora
questa verità antropologica che ispira la proposta canonica?
6. La verità sull’uomo è un patrimonio affidato alla Chiesa e forma parte irrinunciabile della
stessa ispirazione con la quale essa comprende l’unione coniugale. Ma questa verità, che secondo
parte della cultura contemporanea è un’arroganza insostenibile, convive con situazioni
contrapposte. Molti sposi cristiani vivono il loro amore coniugale e i diversi legami famigliari
affermando, quotidianamente e senza dubbi esistenziali, “l’uno con una e il loro per sempre” grazie
al senso d’amore con cui affrontano i sacrifici, le rinunce, i dolori e le prove, a volte in modo
eroico. Il risultato è che queste virtù a loro volta portano altre virtù e che dove si mette amore si
ottiene più amore e più unione. Altri, invece, non riescono a ravvivare il loro amore che si trascina
tra delusioni, recriminazioni e poche speranze. C’è anche chi – e non sono pochi – si arrende
definitivamente, ricorrendo al potere civile per ottenere un divorzio del matrimonio canonicamente
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contratto. Probabilmente non staremmo qui ancora una volta a riflettere sull’indissolubilità se la
maggior parte dei nostri matrimoni appartenesse al primo gruppo, invece di andare a ingrossare il
numero di quelli che appartengono al secondo e soprattutto al terzo gruppo. Le quantità sono
importanti (8).
7. In questo scenario sorgono domande sugli orientamenti e dubbi antropologici. Che fare con
i divorziati con un vincolo matrimoniale canonico contratto precedentemente e risposati civilmente?
Che fare se vogliono, a volte con sincero fervore, tornare alla Chiesa e ai sacramenti? Come è noto,
le varie circostanze sia generali che particolari sono assai complesse, e studiarle minuziosamente e
in maniera approfondita non è il compito di queste pagine. Stiamo tirando in ballo questo problema
perché è creta per la costruzione di un altro cavallo di Troia: i dubbi e le confusioni antropologiche.
Ad esempio, è realmente possibile per esseri umani pieni di limiti e difetti amare fedelmente per
tutta la vita una sola persona? Come si possono esigere condotte future definitive se non
conosciamo il futuro, se nessuno può conoscere se stesso interamente e senza dubbi, se i
cambiamenti nella vita sono imprevedibili, così come lo sono i loro effetti e le nuove opportunità
che ci si presenteranno? Non sembra irreale e perfino impossibile che un atto nel presente, qui e ora,
possa impegnare tutta una vita? E dopo tutti questi dubbi arrivano le nebbie finali: che cosa è
l’amore se non una tempesta biochimica, uno stato anomalo, tanto intenso quanto insostenibile, di
inondazione transitoria di neurotrasmettitori ormonali? Per di più, il sesso non è forse una mera
circostanza biologica che non può determinare la libertà e l’indipendenza del genere? Considerarsi
uomo o considerarsi donna – quindi anche marito o moglie – non è solo un ruolo culturale? E se le
cose stanno a questo modo, un matrimonio così dogmatico come quello cristiano, con la sua unità e
indissolubilità, non appare come un’imposizione delle autorità religiose, la cui giustificazione sta
nell’opportunità di controllare, reprimere e sottomettere queste facoltà dei loro fedeli? (9). Ecco qui
come, alla fine di questo labirinto, la questione dell’indissolubilità si è convertita in una
controversia intellettuale interna, da un lato, e in un esercizio di potere della gerarchia, dall’altro.
8. Per fortuna, questo scenario di controversia e potere paradossalmente non è affatto nuovo.
Non lo ricordiamo? Sembra un calco del celebre passo in cui un fariseo interroga Gesù sulla liceità
del ripudio (10), e la risposta è decisiva, è la chiave, perché proprio su di essa per venti secoli si è
basato il Magistero della Chiesa, i più importanti autori e la Tradizione (11) per affermare l’unità e
l’indissolubilità come proprietà interne, fin “dal principio”, dell’unione d’amore dell’uomo e della
donna nell’unità dei loro corpi. In sintesi, la verità dell’amore nella una caro è l’amarsi di un uomo
e di una donna per tutta la vita. Ma c’è di più, perché la risposta di Gesù, come maestro di umanità,
ha uno straordinario valore antropologico per qualsiasi “ragione aperta al cuore e al suo amore”
(12), in quanto sistematizza dialogicamente l’indice delle questioni principali di cui va tenuto conto
al momento di “comprendere per viverlo” (13) l’essere umano in quanto uomo e in quanto donna e
l’amore nuziale, che esso è indissolubilmente fedele e che questa maniera di amare non solo è
possibile ma è imago Dei: spiegazione della nostra origine e del nostro destino. In sostanza, nella
risposta agli scribi sul ripudio, Gesù compendia il modello antropologico che la Chiesa propone a
tutta l’umanità come verità dell’amore coniugale. Vediamola.
II. I SEGNI DEL MODELLO ANTROPOLOGICO
9. «Non avete letto…?». Il testo suggerisce che una conoscenza è possibile, perché vi sono
segni che indicano la verità dell’uomo, maschio e femmina. Indica anche che è possibile guardare
senza vedere, udire senza ascoltare, ovvero che la ragione può “ragionare” rinchiusa in se stessa,
sordomuta, sprezzante, spietata e, soprattutto, separata dalle inquietudini e ispirazioni che pulsano
nel cuore amoroso e misericordioso. Questo possibile divorzio tra “ragione e cuore” è un importante
indicatore antropologico. Qual è questo segno? Si tratta dell’unità sostanziale dell’essere umano che
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è spirito incarnato, corpo personale, che mette a rischio la propria integrità se “divorzia” anima e
corpo, “ragione e cuore”, e opta per una scienza che ripudia la saggezza trovando più soddisfazione
nel potere che nell’amare (14). Facciamo un piccolo ma significativo esempio: come possiamo
spiegarci che un premio Nobel di astronomia o biochimica, un maestro internazionale della propria
scienza, possa essere allo stesso tempo un pessimo, crudele, violento o spietato coniuge, figlio,
padre o madre, fratello o amico? La possibilità di questa schizofrenia – sfortunatamente non rara – è
segno della nostra unità sostanziale tra corpo e spirito che l’amore riunisce, ma spesso indica anche
che possiamo vivere lacerati, frammentati e in contraddizione.
Questa lettura antropologica ha enormi conseguenze quando si deve “comprendere per meglio
vivere” quel modello umano che rende possibile un amore indissolubilmente fedele. Anzitutto, ci
spinge a rivisitare una certa concezione della nostra “natura” eccessivamente fisica e immersa
nell’istintivo e nel biologico, in sostanza una natura determinata e chiusa in se stessa. Il termine è
stato usato per alludere all’attrazione tra un uomo e una donna: la cosiddetta inclinatio naturalis
(15). Ci sono tre osservazioni su questa inclinazione. La prima. Il fatto che mentre viviamo
possiamo dividerci, separarci e perderci, significa che non siamo soltanto una natura chiusa in se
stessa e che l’inclinatio non è una compulsione istintiva irresistibile, anche se rivolta al bene.
L’inclinazione può corrompersi. Certamente in noi esiste un “essere dato”, se con esso intendiamo
la natura. Ma è altrettanto certo che abbiamo ricevuto il “potere di disporre” della nostra natura
(16), ovvero una libertà creativa e autobiografica. Quest’ultima appartiene alla sovranità della
persona ed essa vi partecipa per realizzare se stessa, in modo che sia sempre un’opera e un compito
proprio. L’inclinazione può deviare già a causa della sua passività con il potere di orientarla verso il
suo dover essere o perché questo medesimo potere la può corrompere. La seconda. Tra la natura
data e il nostro potere di disporne c’è una relazione descrivibile come transito da ciò che siamo (ciò
che abbiamo ricevuto) a ciò che possiamo essere (ciò che abbiamo scelto o disposto), ovvero tra
“essere e dover essere”. In tal senso, la inclinatio naturalis non è un dinamismo irresistibile ma la
potenza di ciò che possiamo essere, un invito a realizzarlo e un segno lungo il cammino. La terza.
L’unione coniugale tra un uomo e una donna per tutta la vita va contemplata nello scenario
dell’unità tra corpo e anima, da un lato, e dell’unità tra l’essere dato e il dover essere scelto,
dall’altro. Unità e indissolubilità sono la verità dell’amarsi, ma sono dentro di noi come potenza e
invito alla nostra libertà personale. Ma non come imposizione interna o istinto irresistibile. Una
ragione sensibile al cuore è in grado di comprendere la una caro, la sua unità e indissolubilità,
mentre un cuore aperto alla ragione può trovare il modo di riuscire a vivere questa unione di amore.
Invece, una ragione priva di cuore, chiusa in se stessa, superba e senza misericordia, sarà incline a
considerare questa unione di fedeltà a un unico coniuge per tutta la vita come irrazionale perdita di
se stessi, un pessimo affare, uno stato di prigionia che la induce a non sposarsi nemmeno per
scherzo. E, a sua volta, un cuore senza ragione si esporrà a disperdere il suo tesoro di amore in un
cammino verso un dover essere che, come è a tutti noto, è una strada stretta, piena di rinunce,
sacrifici e privazioni volontarie. Al “pazzo”, per così dire, risulta impossibile una perseveranza
costante che implica la fedeltà di tutta una vita.
10. La imago Dei nell’essere maschio e femmina. L’espressione “al principio” ha un valore
antropologico inestimabile. In maniera radicalmente differente dai miti antichi sull’origine dei sessi
– ad esempio, il mito dell’androgino (17) – ciò che siamo in quanto esseri umani, maschio e
femmina, è un bene supremo e non una maledizione o un castigo divino. Perché questo? Tra le
molte ragioni, vediamo quelle principali. La prima è che la decisione di creare l’essere umano a
immagine e somiglianza di Dio si manifesta “proprio” nel crearlo maschio e femmina. Il sigillo
della imago Dei, quindi, non può appartenere a un essere umano che sia solo, ma principalmente a
un’umanità che è maschio e femmina. Dio e la sua imago, secondo l’autore del libro della Genesi
che probabilmente scrive durante la deportazione a Babilonia, non apparivano in forma di Trinità,
come invece accade chiaramente in Gesù e nei suoi insegnamenti. Per noi, invece, dopo
l’Incarnazione del Verbo in Gesù, la imago Dei dell’essere, in quanto umani, maschio e femmina è
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chiaramente riferita al modo di essere di Dio che è la Trinità. Se mi è concesso prendere a prestito
un’espressione (18) così audace e suggestiva, potremmo dire che Dio decise di non essere un dio
solitario ma di essere Padre, Figlio e Spirito Santo, unità di tre Persone in un’eterna comunione
d’amore. La seconda ragione della imago Dei è, di conseguenza, che se l’essere umano è maschio e
femmina, lo è per amore e per amare (19). In questa origine e in questo destino risiede la radicalità
più profonda della imago Dei. E, in tal senso, l’amore e l’amare – ovviamente, l’amore trinitario è il
riferimento assoluto che Gesù annuncia in un altro testo memorabile (20) – sono la causa
antropologica più intima e profonda dell’essere uomo, o meglio dell’essere maschio e femmina.
Da questo punto di vista si spiega come, di fronte ai dubbi farisaici sul ripudio permesso da
Mosè, Gesù, piuttosto che inquadrare la sua risposta nell’ambito spazio-temporale di Deuteronomio
24,1, o arenarsi in disquisizioni giuridiche sulla casistica, va dritto “al principio”. E agisce in questa
maniera perché nella imago Dei originaria si trova la risposta all’essere e al dover essere dell’amore
coniugale tra maschio e femmina, che è la una caro. E anche perché, inoltre, nell’immagine e
somiglianza con l’amore eterno e infinito che unisce la Trinità ha senso ed è opportuno ricordare
che “ciò che Dio ha unito, l’uomo non osi separare”. Sottolineiamo pure che il riferimento “al
principio” non ha in Gesù un significato archeologico. È un altro segno antropologico: il “principio”
è costantemente presente in ogni “qui ed ora”, in ogni coppia umana che vuole amarsi, in ogni
unione coniugale. Questa “attualità” dell’originario si annida in ogni uomo e in ogni donna, in ogni
luogo e in ogni tempo; è latente in ogni vero e buon amore: ne è la potenza, quell’invito interiore
che gli innamorati sentono in loro stessi, segnale certo del cammino di viverlo.
Detto questo, tuttavia, spesso conviene evitare la riduzione di “ciò che Dio ha unito” all’atto
di contrarre matrimonio, come se Dio, più che il consenso dei contraenti, fosse quello che li unisce
in quel momento. Certamente, Dio Trino è presente alla fondazione di ogni vero matrimonio, e
Gesù compare sacramentalmente con la sua grazia come l’amico più intimo in questo connubio tra
battezzati. Va però sottolineato che, da un lato, solamente il consenso dei contraenti fonda la una
caro e che, soprattutto, non è Dio che consente o supplisce al consenso degli sposi se questi non lo
hanno o se “cadono dalle nuvole”.
“Ciò che Dio ha unito, l’uomo non osi separare” è un’espressione dal significato molto più
ampio. Sostanzialmente e per tutti – sposati, celibi e nubili – ciò che Dio unisce, creando a sua
immagine e somiglianza l’essere umano maschio e femmina, sono questi due modi di essere, in
maniera uguale e diversa, un’unica natura umana. Entrambi esprimono l’unione della famiglia
umana, la concordia dell’essere umanità. Essi lo sono e lo manifestano attraverso tutte le relazioni
sociali fin dalla prima cellula umana che è il matrimonio. Lo diciamo anche alla rovescia, magari
per comprenderlo meglio. La differenza tra i sessi non è uno scenario di potere e di dominio, non
esprime una relazione tra servo e padrone, tra superiore e inferiore, tra vincitori e vinti. Non
risponde a una logica propria di avversari o di nemici, né a una dialettica tra oppressori e oppressi.
Tutto questo è “disunione” creata dall’uomo e che Dio “al principio” non ha voluto, o meglio non
ha mai voluto. Da questo nuovo punto di vista, dobbiamo considerare l’impatto devastante del
divorzio che va ben al di là della semplice separazione degli sposi, giungendo a corrodere quei lacci
che tengono unita l’intera società. Il divorzio diffonde la sua disunione, la trasmette al cuore di
molte altre relazioni, non solo quindi ai figli e ai famigliari in esso coinvolti, arrivando a diventare
lo spirito dell’educazione, della cultura e della società intera. Il divorzio genera una lente deforme
attraverso la quale l’uomo e la donna – il maschile e il femminile – si guardano con sospetto e
sfiducia, avidità e disprezzo, paure e ansia di dominio (21).
11. Uguaglianza e differenza. Torniamo alla domanda. Siamo maschi e femmine per amore e
per amare…, o per dominare e usare l’altro per le proprie soddisfazioni? Già sappiamo che questa
domanda richiama il “principio”, ovvero contiene in sé la questione dell’origine dell’umanità. In
altri termini, la tesi dell’amore – con la sua fedeltà definitiva – trae fuori l’umanità dalla sua
condizione di specie ed eleva ogni uomo e ogni donna dalla condizione di mera differenza specifica,
di individuo del branco, di semplice ape dell’alveare umano. La tesi del potere e dell’uso dell’altro
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da parte del più forte o più astuto, invece, ci immerge nella specie e relega la nostra sessualità
all’ambito della lotta per riprodursi e adattarsi ai cambiamenti. Su questo aspetto le antropologie
materialiste e panteiste concordano nell’elaborare una teoria dell’amore assai povera: che la nostra
origine sia il caso e la necessità della materia che scorre senza fine, o che il nostro principio sia
quello di essere effimere determinazioni di un universo la cui totalità e infinità sono equiparate al
divino ma che resta radicalmente anonimo e impersonale, in ogni caso per l’una o per l’altra via il
nostro amare è casualità biochimica e sentimento effimero (22). Considerate secondo la loro interna
coerenza, le uniche spiegazioni possibili dell’unità e dell’indissolubilità fornite dalla ragione
materialista o panteista sono quelle di un’imposizione opportuna da parte dei principi della specie,
una legge coattiva, oppure una fortunata causalità, una vincita alla lotteria, che ogni tanto accade.
L’amare seriamente, quindi, quello con la A maiuscola – anelito umano reale e universale –
richiede agli amanti il possesso di una condizione che trascende la mera animalità e un’origine
anonima e impersonale. Comprendiamo bene perché Gesù di Nazareth, noto maestro di umanità, si
rifà a un “principio originario” personale e di amore: a Dio che è Trinità. Con una semplicità
geniale sant’Agostino e altri autori hanno detto che l’amore è tre cose: l’amante, l’amato e l’amore
stesso o la loro unione (23). Questa triade riflette le tre Persone divine: il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo. Qui, in questa imago Dei trinitaria inscritta nell’essere umano, troviamo un’altra fonte
antropologica per il maschio e la femmina. A immagine e somiglianza delle tre Persone divine – sia
infinitamente diverse che ugualmente divine ed eternamente unite nel seno del loro amore – anche
maschio e femmina sono due maniere differenti di essere uguali, interamente e completamente
esseri umani. L’antropologia cristiana, quindi, si fonda sull’uguaglianza e diversità umane del
maschio e della femmina. Adamo non è più di Eva, essere maschio non è essere più uomo, così
come essere femmina non è esserlo di meno: egli non è il padrone ed ella non è la serva. La loro
differenza non produce gerarchia, non è disuguaglianza, né superiorità del mascolino e
sottomissione del femminino, non è una lotta della donna contro il maschio per scalzarlo e occupare
il suo trono. La differenza – e qui si ode l’eco dell’origine maledetta, del castigo divino, così come
lo riassume il mito dell’androgino – non è ingiusta e malvagia e la soluzione non è perciò estirparla
attraverso l’uniformità sessuale e la trasformazione della dualità maschio/femmina in mutevoli ruoli
culturali, privi di ogni radice ontologica (24). Che cosa è e qual è il fine di questa differenza tra
pari?
La differenza nel modo di essere umani è necessaria affinché l’uomo e la donna possano
essere, ciascuno per sé e anche tra loro, amante, amato e unione. In cosa si amano, però? Ovvero,
qual è il contenuto del loro donarsi e riceversi in cui si uniscono? Ciò che contiene e che compone
l’essere umano è la “materia” stessa del donarsi e riceversi tra uomo e donna. Qui è assai importante
sottolineare che tra uomo e donna vi sono molti livelli complementari del donarsi e riceversi. Non
tutti hanno un’identica interiorità di incontro, intima connessione, dono e accoglienza. A partire
dalla loro diversità, uomo e donna partecipano a tutti gli ordini della vita umana. Ma la
collaborazione professionale, sociale, politica, e perfino quella ludica e sportiva, è più eccentrica
rispetto a quella esistente nella comunicazione della carne e del sangue, come accade nell’unione
coniugale e nei legami di sangue. Spesso la mera menzione dei termini maschio e femmina sembra
limitare i loro possibili campi di relazione a ciò che è strettamente coniugale. Non è così. C’è
un’ampia complementarietà, generica e non intima, in cui esistono collaborazioni reciproche, e sono
assai positive anche se in esse non si dà coappartenenza di corpi diversi. In qualsiasi ambito o
relazione umana appariamo per quello che siamo, uomini e donne, ma in esse – la medicina,
l’ingegneria, la politica, il mercato e le sue attività – non ci presentiamo come intimamente nuziali,
ma solo come esseri umani.
In queste pagine non ci occupiamo di complementarietà generale, ma solo di quella
strettamente coniugale. Per sottolineare la portata e l’ambito così intimi della relazione coniugale,
agli autori medioevali piaceva usare la formula “unione di corpi e anime” e anche il paragone con
l’unione tra anima e corpo (25). Ce ne occuperemo più avanti, ora ricordiamo queste espressioni
tradizionali perché indicano quattro cose: che ciò che si danno e ricevono l’uomo e la donna è la
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loro stessa natura umana; che questo dono e questa accoglienza è integrale – corpo e anima –,
quindi non parziale nel suo contenuto o nella sua durata nel tempo; che il donarsi e il riceversi sono
“intimi”, appartengono al novero di cose che sono interiori, che non sono esterne, non sono un
avere ma un essere. La quarta cosa, che apre un affascinante cammino per comprendere l’unità e
l’indissolubilità, riguarda l’“unione” intima in ogni singolo uomo e in ogni singola donna tra la sua
anima e il suo corpo, unione di ogni persona con il proprio essere, “con se stessa”; unione che è
“per tutta la vita” e che non può essere ripudiata a favore di un’altra anima e di un altro corpo.
La differenza della dualità sessuata, quindi, è un fondamento antropologico, perché senza di
essa non sarebbe possibile dialogo alcuno tra amante e amato. Senza questa differenza l’essere
umano sarebbe in uno stato di solipsismo naturale, sarebbe condannato a un monologo con se
stesso; non potrebbe amare perché l’amore è relazione con l’altro e graviterebbe solo intorno a se
stesso, che non è amore ma mero egocentrismo. Dunque, la differenza imprescindibile nella propria
natura e necessaria per amarsi non può essere una differenza qualsiasi. La differenza ha origine
dall’amore ed è destinata all’amore. È assolutamente essenziale considerare questo principio e
questo fine nel senso rigoroso e integrale del termine: ontologico, psicosomatico, psicologico,
sociale, culturale e biografico. La differenza – essere amante, amato e unione d’amore – deve essere
una differenza radicale e integralmente complementare (26). Questo termine può, di fatto, essere
interpretato in maniera insoddisfacente e deviata se lo intendiamo, come è storicamente accaduto,
come “utile servitù”: il significato esistenziale di Eva, la femminilità, sarebbe soltanto servire,
un’utile donna di casa, segretaria, aiutante e seno materno per il primato di Adamo e per dargli figli
che assicurino il suo primato e il suo potere.
Ma la complementarietà indica un’altra cosa per il semplice motivo che la sua ragion d’essere
è l’amarsi e non certamente le relazioni di potere interne a una specie animale. Dal punto di vista
dell’amore, che è quello vero, la complementarietà esprime la sua struttura e la sua dinamica di
amore. L’amante ha infatti il suo fondamento nell’amato, in quanto senza quest’ultimo non si può
essere amanti di nulla. Il dono dell’amante è un moto la cui perfezione – riuscire a essere dono, che
ciò che è mio sia tuo – si realizza quando l’amato lo riceve e lo accoglie, cioè quando accetta come
“suo” quel “mio” dell’amante che quest’ultimo gli offre. La complementarietà quindi è una
relazione intima in cui amante e amato, l’uno per l’altro, riescono a realizzarsi proprio come dono e
accoglienza. Questa relazione a sua volta richiede una straordinaria affinità intima, una potenza di
congiunzione del diverso, un essere “ossa delle mie ossa e carne della mia carne”; in sostanza, una
natura comune in cui entrambi, uomo e donna, siano parimenti e senza discriminazione alcuna la
stessa medesima e intera natura umana.
12. L’uguaglianza in dignità e bontà umane dell’essere donna. Nuovamente, nella
differenza sessuale e nella sua identica umanità è latente l’imago Dei. Nella Trinità vi sono tre
Persone ma non tre dei. La differenza è infinita ed eterna, in quanto il Padre non è il Figlio, né il
Figlio è il Padre, ma il Padre è tale per il Figlio e quest’ultimo lo è per il Padre, ed entrambi, in
quanto amante e amato, si amano nell’unione di amore che è lo Spirito Santo. Ora, dunque, le tre
Persone, che non sono tre dei, partecipano ugualmente, interamente e completamente della stessa
natura divina e sono un unico Dio (27). Questa somiglianza la ritroviamo nell’uomo, maschio e
femmina: Adamo ed Eva sono differenti, ma per origine e destino d’amore – e per questa causa e
per questo fine – sono in intima relazione di complementarietà. Entrambi, senza alcuna
disuguaglianza gerarchica o discriminazione, partecipano in qualità di amanti, amati e di unione
intima, interamente e completamente alla stessa natura umana.
Malgrado ciò, nel corso della storia la differenza tra i sessi è stata, se mi si permette
l’espressione, un “maledetto imbroglio” per le luci della sola ragione, per l’organizzazione sociale,
economica e politica del potere, e per l’ampio arsenale di limitazioni, superficialità e malizie della
“specie” umana. La ragione di ispirazione mitologica ritenne la differenza sessuale un castigo
divino e la donna quindi – ricordiamoci di Pandora – apparve come l’incarnazione di quella
maledizione e di tutti i mali che affliggono l’uomo. Sotto l’influenza platonica, il mascolino fu
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identificato con il nous, la razionalità superiore che penetra, conosce e governa; invece il femminile
fu identificato con la aisthesis, il mondo meno razionale e inferiore dei sensi e delle affezioni del
cuore, da confinare nel domestico per esentarne la res publica. Siamo di fronte a un’antropologia
della discriminazione della donna, perché ivi è considerata una modo inferiore dell’essere umano.
La differenza, secondo questa prospettiva, è una distribuzione in parti dell’umano, non quindi una
complementarietà dell’intero. All’uomo spetta la parte migliore e ciò che gli viene attribuito alla
donna manca, con il risultato che entrambi sono incompleti (28). Non è però Platone ad aver
iniziato la discriminazione della donna, piuttosto egli eredita una cultura e una prassi assai
generalizzata nell’antichità e comune a parecchie culture. La ragione organizzativa del potere,
ispirandosi a quanto accade nelle specie animali, ritenne questa differenza una disuguaglianza
gerarchica, la forza fisica e la violenza come regola del dover essere di fronte alla fragilità
femminea, e l’ordine sociale fu istituito su ciò che denominiamo patriarcato, se con esso intendiamo
la supremazia dell’uomo, che è sfociato in un inquadramento servile della donna e, soprattutto, in
un primato della consanguineità sull’unione coniugale. In tal modo, la donna, a causa del suo ruolo
di madre, resta incorporata alla famiglia consanguinea dell’uomo e gli sposi sotto l’autorità del
patriarca o del parente riconosciuto come capo della famiglia. All’interno di queste culture
discriminatorie, la malizia umana, con tutta la sua capacità di usare e abusare della donna e
dell’inferiore, ha fatto e disfatto a suo piacimento.
L’unità coniugale diviene oscura e difficile dove vige la discriminazione della donna e la
disuguaglianza tra marito e moglie – poligamia –, o la disuguaglianza utilitarista o di specie – ad
esempio la poliandria –, dove il mascolino è mera genitalità riproduttiva e ci sono molti più uomini
che donne. L’indissolubilità, a sua volta, appare come un “cattivo affare” per l’uomo superiore,
quando la donna inferiore e servile cessa di soddisfarlo e di compiacerlo: è il caso del ripudio (29).
È sorprendete che, malgrado questi errori antropologici, le cui ingiustizie sono recidive e
durano fino ai nostri giorni, il soffio della imago Dei abbia mantenuto la sua ispirazione contro
venti, nebbie e mareggiate. La risposta di Gesù alla domanda sul ripudio ha costituito un baluardo
permanente per quel soffio originario e incessante. Con molte più luci che ombre, la Patristica ha
sostenuto la fondamentale uguaglianza umana tra uomo e donna, applicandola alla dignità della
donna e all’uguaglianza coniugale degli sposi, nonché lasciandosi alle spalle echi androgini con
l’affermare la bontà della differenza sessuale e del matrimonio. Inquadrò in maniera adeguata il
coniugale come un qualcosa di più intimo del consanguineo, combattendo la misoginia e le
aberrazioni sessuali degli gnostici, culminando nella costruzione agostiniana dei beni dell’unione
coniugale. Non fu un compito facile. L’apparente creazione di Eva dopo Adamo secondo
un’interpretazione letterale cronologica, la sua colpa nella caduta, considerata principio e causa del
comportamento dell’uomo, nonché la condanna al parto doloroso e a essere sottomessa all’uomo,
furono tutti ostacoli contro l’uguaglianza della donna e a favore della supremazia dell’uomo.
L’ipotesi che l’imago Dei fosse stata infusa direttamente solo nell’uomo e che solo attraverso la sua
mediazione raggiunse la donna, sua “costola”, fece sì che quest’ultima ricevesse una dignità umana
minore e, in ogni caso, sempre attraverso l’uomo, e fornì un valido sostegno a tutte quelle
interpretazioni aprioristiche sollecitate da società e culture di costumi patriarcali e usi maschilisti, la
cui tradizione ancestrale – la simbiosi di molte specie animali – fu confusa con la “natura delle
cose”. In alcuni settori del cristianesimo giudaico – e per alcuni secoli – esercitò parecchia influenza
l’estrapolazione di alcuni testi della predicazione paolina relativi al ruolo sottomesso della donna,
che furono sottolineati a detrimento di altri testi relativi all’amore del marito per la sposa, da amare
“come se fosse la sua stessa carne” (30). Secondo la visione del mondo tipica dell’epoca, non
furono minori gli ostacoli derivanti dalla forma mentis della filosofia greca: l’ente è la questione
delle questioni e il pensiero è affare dell’uomo, mentre il matrimonio è una questione minore che
piuttosto appartiene alla specie, e la donna o è fonte di piacere o utile domestica, in entrambi i casi
“conflittuale”. Questo “razionalismo” greco ebbe anche influenza nella supposizione che la imago
Dei consista nella razionalità umana, che l’uomo possiede in misura maggiore rispetto alla donna
sentimentale e mutevole. Malgrado tutta questa temperie culturale, la Patristica non ebbe un solo
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dubbio sull’unità e sull’indissolubilità, né sull’indole amorosa dell’unione coniugale, né sul sigillo
dell’alleanza di Dio con l’umanità presente fin dal “principio” nel matrimonio e nemmeno sul suo
significato sacramentale (31).
Sarebbe stato facile per venti secoli perdersi in una siffatta avventura antropologica, nelle
difficoltà intellettuali e nelle oscurità dei costumi sociali, senza l’incessante soffio dell’imago Dei.
L’arsenale concettuale e argomentativo impiegato, come è ovvio, fu quello possibile in ogni secolo.
Come una navigazione di esploratori, ha avuto derive, perdite di tempo, tempeste e naufragi. Ad
esempio, il sesso come accidente di un corpo poco o nulla personale e un’anima eccessivamente
disincarnata; contraddizioni circa la donna e la propensione a definire il suo modello ideale in
ambito domestico unicamente come madre e donna di casa sotto l’autorità del marito; il povero
sviluppo di un’antropologia integrale sull’amore, che quindi era visto come un qualcosa di
passionale e volatile; una visione del matrimonio alla luce della “specie” e non delle persone; il
divorzio tra amore e consenso matrimoniale efficiente, ritenendo che l’amore – mero sentimento –
conviene agli sposi ma non è parte essenziale del loro vincolo, cosa che ha favorito l’interpretazione
del matrimonio come contratto. Siano sufficienti questi esempi. Ma la rotta è stata sempre
recuperata e mantenuta, anche se il viaggio ancora non si è concluso. Le strutture concettuali
apportate da ogni momento di riflessione sono state vagliate dalla brezza e scosse dall’uragano di
quel soffio, come se nessuna di esse fosse definitiva, né sufficiente e né soddisfacente per esprimere
quanto contiene “il principio”. In tal senso, i traguardi raggiunti dal considerare l’essere umano
come persona e il corpo maschile e femminile come componenti essenziali dell’essere personale
umano, più che un mero traguardo, hanno costituito la possibilità di fare passi in avanti nella
conoscenza della nostra condizione sessuata. In questo progresso va sottolineato l’apporto di san
Giovanni Paolo II (32). La nostra identità sessuale, in quanto uomini e donne, è personale e
sponsale.
13. Siamo sponsali. Se accettiamo l’eccellenza dell’amare come un’esclusiva dell’essere
personale, è in tal caso difficile negare quanto ragionevole e plausibile sia l’antropologia ispirata
all’imago Dei, specialmente se essa viene contrapposta ad altre antropologie materialiste e
panteiste. Noi umani non abbiamo inventato l’amore! Però siamo stati invitati alla sua festa!
Quando è accaduto? Il primo invito è stato fatto nel momento stesso della nostra creazione. La
Trinità amò per prima e ognuno di noi in particolare. In questo significato originario, il nostro
primo contatto con l’amore sta nell’essere stati amati con il nostro nome proprio (Ap 2,17) e
nell’essere prima “amati” e non originariamente “amanti”. Il nostro primo movimento è quello di
ricevere il dono dell’amante che a sua volta è, da un lato, l’esistere e l’essere chi siamo e ciò che
siamo e, dall’altro, essere amati da Dio e invitati a corrispondere. Siamo “amanti”, ovvero persone
sponsali. Secondo la ragione, molto più profondamente e radicalmente che enti, siamo dono e
accoglienza della nostra stessa persona incarnata maschio o femmina. Se quel singolare “atto” di
amore di Dio, che mi chiama all’esistenza dicendomi “amato mio”, è lo stesso mio “atto di
esistere”, allora ad esempio una metafisica dell’ente – dell’essere un “qualcosa” che condivido con
ogni qualcosa – non è più sufficiente per conoscermi e riconoscermi come “persona amata”. Ciò che
ricevo – la mia natura data – ha dei trascendentali comuni a qualsiasi “ente”, di cui si possano
predicare essere, verità, bontà e bellezza. Ma “essere amato” è, per così dire, un altro universo
dell’essere radicalmente distinto ed eccellente. Se sono amato, per questa stessa ragione sono una
persona. E, ancor di più, sono questa singolare, irripetibile e unica persona maschile o femminile. I
trascendentali del mio status ontologico, oltre all’essere, la bontà e la bellezza comuni con ogni
altro ente, sono quelli esclusivi dell’essere personale: sapienza, libertà e amore (33). Come sarebbe
possibile tutto questo se noi non fossimo fatti così, e se fosse illusorio e arrogante dire a Dio, “Dio
mio”? Che senso avrebbe, se fosse impossibile, che Dio stesso ci chieda di amarlo con tutto il
nostro essere o che, detto in altri termini, Dio ci permetta di dirgli, di cuore (34), “amore mio”?
Con questo bagaglio antropologico dobbiamo considerare ogni uomo e ogni donna, il
significato della loro complementarietà e la loro condizione sponsale di “amanti” impressa nel loro
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corpo e nella loro anima personali. Sono, ognuno, un’unica persona corporea maschile o femminile;
ognuno è stato singolarmente “amato” dal Creatore, primo amante; e, per ciò stesso, ognuno,
singolarmente e come unione, nell’atto di essere “amato” ha ricevuto nel proprio essere il potere di
accogliere come amato, di corrispondere come amante e di essere unione d’amore. Nell’atto di
amore creatore abbiamo ricevuto un essere personale e sponsale: un essere “mio” capace di essere
“tuo”, di ricevere il “tuo” come “mio” ed essere entrambi una caro. Questo essere dono e
accoglienza può raggiungere ciò che è “più intimo”. Questa sponsalità è la chiave dell’essere umano
maschio e femmina. È anche la chiave, come vedremo, dell’unità e indissolubilità della una caro,
perché ogni uomo e ogni donna, essendo stati “amati” nello stesso atto in cui hanno ricevuto
l’esistenza da Colui che ama con fedeltà e per sempre, furono dotati del potere di corrispondere
all’amore divino e, a sua immagine e somiglianza, anche all’amore umano.
Questo potere di essere “amanti” è ciò che la caduta ha corrotto, perché in essa l’uomo,
maschio e femmina, abbandona la predilezione di “amato” a favore di quella egocentrica di se
stesso. In tal senso, la “caduta” è volgere le spalle al primo “amante”, alla trasparente condizione
sponsale di “amato” che accoglie e corrisponde e al potere di amare interamente e sinceramente. Il
cuore – l’intimità sponsale dell’uomo e della donna – si è “indurito” convertendosi nell’amante e
nell’amato di se stessi, ovvero al chiudersi in se stessi. E, sebbene siffatto inciampo non abbia
cancellato del tutto la nostra originaria condizione sponsale, essa ha ora bisogno di un riscatto, di
una redenzione che solo può compiere Colui che ci ha amato per primo e che, nell’amare, è per
sempre fedele agli amati. Da questo punto di vista, l’originaria unione coniugale dell’amore, la sua
unità e indissolubilità, soffre a causa della caduta il vasto universo degli egoismi, l’infezione della
turpe concupiscenza nelle intenzioni di unità e di benevolenza, la sfiducia del sospetto, i dolori
dell’abbandono e del tradimento, i morsi dell’effimero e del passeggero, il distacco
dell’incomunicabilità; in sostanza, la forza della disunione “per la durezza del cuore” (35).
Di fronte a queste esperienze di oscurità e corruzione dell’amore umano – ben rappresentate
dalla “durezza di cuore del ripudio” – la risposta di Gesù, invocando il “principio” dell’unione
coniugale, innalza il valore antropologico. Ci dice che la “una caro” è originaria, ovvero che non è
posteriore alla caduta, che non è un male minore o un rimedio di seconda classe, un’unione nata per
interessi dei potenti, una sottomissione della donna da parte del patriarcato maschilista o uno dei
ruoli culturali. Sottolinea che “il principio” continua a essere vigente, che è il modello di
riferimento, che la condizione sponsale nell’uomo e nella donna non è morta, che amarsi è
possibile. Siamo ora in grado di comprendere la verità alla base della tesi, mai venuta meno, che c’è
un’unità e un’indissolubilità coniugale ancora vive nell’umanità, che “amarsi fedelmente per tutta la
vita” sorge indubbiamente come anelito intenso e profonda speranza nell’esperienza limpida e retta
di ogni amore umano. Questa convinzione antropologica riposa nell’affermazione della tradizione
dottrinale e magisteriale che, ricorrendo al dizionario giusnaturalista, definì l’unità e
l’indissolubilità come proprietà del vincolo “per diritto naturale” (36). Ora siamo anche in grado di
spiegarci che l’ordine della grazia redentrice, nel battesimo prima e poi specificamente nel
sacramento nuziale, non introduce ex novo l’indissolubilità e l’unità nel matrimonio cristiano ma le
arricchisce e le rafforza, perché trae nuova linfa – il vino nuovo delle nozze di Cana – a una
sponsalità anemica. Non lo fa garantendo agli sposi battezzati la felicità del Paradiso perduto con
tutte le sue perfezioni, ma assicurando che lo sforzo congiunto di amarsi fedelmente per tutta la vita,
al di là di tutte le sue croci, è redentore, è “cammino sicuro di santità e di salvezza”, sulla cui via gli
sposi sono accompagnati dalla viva presenza di Gesù Sposo. Natura originaria, caduta e redenta si
riuniscono tutte nel sacramento del matrimonio. Ma il sacramento non apporta nessuna novità
coniugale al matrimonio, non lo sostituisce con un’istituzione ecclesiastica per fedeli. Pone invece
Gesù Cristo vivo nell’intimità o “cuore” degli sposi e della loro vera unione naturale.
14. “Per questo l’uomo (maschio e femmina) lascerà suo padre e sua madre e si unirà a
sua moglie e i due saranno una sola carne”. Gesù vuole dire che la spiegazione dell’unità
indissolubile – la risposta alla questione sulla dissolubilità o ripudio – passa attraverso
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l’identificazione dei territori dell’intimità d’amore cristiana e attraverso l’ubicazione dei suoi
vincoli nel loro ordine adeguato. Qual è il vincolo d’amore più profondo e importante cui l’uomo,
maschio e femmina, rimane vincolato in modo più integro e intimo: quello filiale o quello
coniugale? La risposta a questa domanda ha un enorme valore antropologico, ma ne ha ancor di più
su un piano pratico per l’educazione, la psicologia e per il trattamento terapeutico di alcune
anomalie famigliari.
Il nostro eccellente maestro di umanità ci situa immediatamente di fronte all’intimità e ai suoi
legami amorosi. Ma cosa intendiamo noi per intimità? È l’interiorità di ogni persona umana, nelle
cui viscere risiede il suo “chi” personale, “nudo”, ovvero spoglio degli adorni e delle miserie
accidentali ed esteriori, palesi od occulte, quali sono ad esempio la ricchezza o la povertà, la
posizione sociale, le influenze e il potere, il prestigio o la sua mancanza, la salute o la malattia, la
fortuna o la disgrazia. Un’intimità dove, nuda di tutte queste cose, risiede la nostra singolare dignità
e il nostro valore incondizionato. Qui risiede il “chi” personale amante e amato, quel “chi” nudo e
presente nel suo incarnarsi, che irradia la sua personale “amabilità” innata, permanente e
incondizionata, a tutto il suo corpo maschile e femminile, oltre ogni circostanza o contingenza della
sua vita. Questa intimità nuda ha, per così dire, vari livelli di profondità, ambiti o “territori di
umanità” distinti per il dono e l’accoglienza d’amore. Al riguardo, ci può essere confusione o
disordine per quattro cause. Da un lato, perché per tutti è in gioco la nudità incondizionata; perché
in tutti vi è la comunicazione intima della natura umana; perché, essendo tutti vincoli d’amore,
costituiscono identità reciproche in cui essere padre o essere madre lo è per il figlio, e quest’ultimo
lo è per i suoi genitori; così come i fratelli lo sono tra loro perché condividono gli stessi genitori, e il
nonno lo è per suo nipote e il nipote per suo nonno; lo stesso il marito per sua moglie e questa per il
suo sposo. E, infine, perché la filiazione è la prima identità cronologica e questa antecedenza –
prior tempore potius iure – può essere interpretata come superiorità biografica della correlazione tra
padri e figli.
Tuttavia, tra i legami della genealogia di consanguineità e il legame coniugale vi sono
differenze essenziali. Come vedremo esaminando cinque aspetti, la più straordinaria rivelazione del
maestro di umanità è quella della sponsalità nuziale. Vediamolo.
1) Nei vincoli di consanguineità – dove si condivide la ragione di bontà della genealogia
comune, con tutto il suo universo di beni – l’altro o partner intimo mi è dato e non è oggetto
di scelta. In altri termini, tra padri e figli, tra fratelli, tra nonni e nipoti, “l’amato e il suo
amante”, gli uni e gli altri, non sono soggetti scelti dalla libertà, ma dati dalla natura. Si danno
e si accolgono, come è comune all’amare, per ragioni di “amabilità” che provengono dai
diversi beni della comune genealogia: generare la vita (paternità e maternità), riceverla
(filiazione) e la fraternità che condivide l’uguaglianza di origine negli stessi padri.
2) Pur condividendo qualcosa di così intimo come l’origine, tra genitori e figli – e nel
resto dei vincoli di consanguineità – non c’è coappartenenza dei corpi generati (37). I
genitori servono con amore specifico la vita dei loro figli, ma non sono padroni dei loro corpi
sessuati, come nemmeno i figli lo sono dei loro genitori, né i fratelli tra loro e i nipoti con i
nonni.
3) Grazie a questo contrasto ci appare, così, uno straordinario livello di intimità in ogni
persona maschio e femmina – ovvero, dove non c’è un amato già dato attraverso la comunità
di origine – che è la sua identità specifica di essere questo uomo o questa donna, un
“territorio” sul quale ogni singolo esercita la propria sovranità e signoria esclusiva, potere di
disporre e libertà di scelta. Si tratta di un’intimità umana più profonda e sovrana – più mia e
solo mia – di quella occupata dalla filiazione e dalla paternità in cui amati e amanti sono già
dati e non si scelgono. Invece, l’intimità dell’identità personale maschile e femminile è nella
sua origine libera da qualsiasi “amato” e vergine. Possiamo qualificare questo livello di
intimità in senso stretto e rigoroso come sponsalità “nuziale”.
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4) Essere uomo ed essere donna – sovranità dell’intimità, proprietà di se stessi e
massima libertà – sono intimità sponsali, ovvero hanno la capacità di questo specifico dono di
sé e di accoglienza in sé. Sono il potere di essere amante, amato e unione in territorio vergine;
ma con un amore di unione unico ed esclusivo, che chiamiamo sponsalità “nuziale”. Ci
appare quindi come un ambito intimo di signoria e sovranità sui loro corpi maschile e
femminile – il mio, vergine e solo mio –, gli stessi che dispongono di condividere come
“nostri”, costituendo il mio nel tuo e il tuo nel mio.
5) Anche i vincoli consanguinei hanno la loro specifica “indissolubilità” perché, buone
o cattive che siano le loro relazioni affettive, i genitori lo sono dei figli “per tutta la vita”, e lo
stesso i figli nei riguardi dei loro genitori. La medesima cosa accade tra nonni e nipoti. La
causa di questo “non dissolversi”, senza dubbio, ha un inamovibile fondamento nella
comunione genetica, che è un fatto definitivo sui cui non c’è scelta. Ma la genealogia umana
non è soltanto una catena biogenetica; richiede di essere assunta e racchiusa in amori specifici
e solo allora diviene genealogia tra persone. Questo “per tutta la vita” genealogico, tuttavia,
non ha la stessa esclusività dell’“uno con una” coniugale. I genitori possono avere parecchi
figli, non solo uno, e di tutti sono ugualmente genitori. Lo stesso si può dire dei fratelli e dei
nipoti. Qui va ricordato che, secondo il suo retto ordine, il potere di generare, da cui discende
la consanguineità, risiede nell’unione “coniugale” dei genitori, nella copula tra uomo e donna,
ovvero nella comunicazione e coappartenenza sessuale. In tal modo, la “non-esclusività
consanguinea” di figli, fratelli e nipoti proviene proprio da una “esclusività coniugale”, cioè
dall’unione sessuale di “uno con una”. Il procreare non è un potere che fu dato all’uomo e alla
donna separatamente, ma alla loro congiunzione. Perciò, la dignità di ogni essere umano,
l’essere figlio, richiede di essere originata dall’amore e dall’unione dei suoi genitori. Solo la
“caduta” e la “durezza del cuore” disuniscono ciò che Dio ha unito, che è la comunione
coniugale dei genitori, provocando traumi nei figli abbandonati o con genitori in lite, separati
o divorziati.
Possiamo proporre una conclusione. A differenza dei vincoli di consanguineità, il coniugabile
del maschio e della femmina è un territorio o ambito di intimità più libero e vergine, più sotto la
propria signoria, molto esclusivo ed escludente, e più radicale. Amarsi e unirsi in questo “territorio”
fornisce valide ragioni proprie all’“uno con una e per tutta la vita”. Esse risiedono in ciò che si
danno e in ciò che ricevono, in quello per cui si uniscono e sono fecondi.
15. L’intimità della sponsalità nuziale. Ci avvarremo ora dello straordinario e suggestivo
paragone degli antichi maestri, secondo il quale l’unione tra gli sposi somiglia alla “unione tra
anima e corpo”. Senza alcun dubbio, questo “punto di unione”, dove la persona di ogni uomo e di
ogni donna è e convive con il proprio corpo mascolino e femminino – ci si perdoni la pochezza
delle parole –, appare alla ragione e all’esperienza come uno stare “con se stessi” nella maggiore
intimità. È un ambito “vergine” perché nessuno, eccetto la persona stessa, già lo occupa. Inoltre, è
un’intimità in assoluta sovranità: “solo mio” è il mio corpo, “solo mia” la mia anima, e “solo mio”
il mio “chi” personale che abita in essi. Siamo di fronte a un esclusivo solipsismo (mio, solo mio),
aperto però a un’esclusiva compagnia, perché solo un’altra solitudine umana sarebbe la compagnia
adeguata (38). Questo ambito intimo è personale e sponsale, ovvero è il “mio” più radicale che ha
però in sé la vocazione a darsi e a ricevere “qualcuno”, affinché questo mio divenga tuo e il tuo
mio. Questo ambito lo possiamo definire come la mascolinità o femminilità del corpo personale
umano. È la nostra condizione sessuata come intimità nuziale e procreatrice. Chi è il suo “sposo”?
Non può essere chiunque, ma quello o quella che riconosco complementare di questa intimità
nuziale e feconda, che appare dentro di me come “carne della mia carne e osso delle mie ossa”.
Detto in altri termini, quello o quella del cui “intimo e nuziale”, che è il suo corpo personale
maschile o femminile, posso e voglio essere dono e accoglienza. Essere maschio ed essere femmina
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è intima e radicale potenza di essere – tra la propria mascolinità e femminilità – amante, amato e
unione d’amore.
16. La radice dell’unità e l’indissolubilità nella natura “data”. Il paragone con l’unione di
anima e corpo contiene altre piste antropologiche. Nessun essere umano, maschio o femmina, è
“vario” con se stesso, né “possiede” vari corpi e varie anime che possa distribuire a destra e a
manca come i libri della sua biblioteca, le pecore del suo gregge o le monete del suo portafoglio.
Ogni persona è unicamente un solo corpo maschile o femminile, il suo. E non lo ha, lo è. Quindi,
questo “stare” così intimo, dove il corpo maschile o femminile è con la propria persona, è nuziale,
cioè ha potenza di essere condiviso. È il “mio” maschile o femminile che può darsi come “tuo” e
accogliere il “tuo” come “mio”. Va notato che “ciò che si danno e in cui si accolgono” è un’intimità
della persona con il suo proprio corpo maschile o femminile, che è unità con se stessi, unità sua,
esclusiva e indissolubile per tutta la vita. Dunque, questa una e indissolubile unità intima è ciò che
gli sposi condividono come il “nostro”, e questa “unione nostra” riceve le proprietà dell’unità e
dell’indissolubilità che possiede l’unione “dell’anima con il suo corpo”, come hanno suggerito i
classici. In un’antropologia personalista diremmo che nella comunione coniugale gli sposi
condividono l’esclusiva e indissolubile unità di ciascuna delle loro persone con il loro corpo
maschile o femminile.
Questa unità della persona con il proprio corpo è il fondamento “dato” che rende possibile,
secondo la libera volontà di ogni persona, realizzarsi in unità o congruenza di vita. Fa parte di ciò
che Dio ha unito, che però l’uomo separa. Potremmo dire, a titolo di esempio, che la nostra “natura
data” e il nostro “potere di disporre o libertà” – l’intimità nuziale e l’essere unione coniugale – sono
in relazione come la creta con il vasaio, salvo poi aggiungere che in questo caso il vasaio è anche il
suo fango. Proprio per questo, se la persona umana cerca di dividersi usando il proprio potere di
disporre, non ottiene di essere vari corpi e varie anime, ma frammenta il suo dono e la sua
accoglienza, il suo amare, e fa in pezzi la propria unità biografica (39).
Abbiamo visto che questa intimità unica e biografica è nuziale e che è un bene straordinario
della persona. Il suo dono e la sua accoglienza amorosa sono un bene di intima compagnia alla sua
solitudine e la loro congiunzione è procreatrice. Quindi, se la persona vuole vivere ciò che è e
raggiungere i suoi fini propri, non può scomporre la sua unità antropologica e psicologica, né
frammentare l’unione in varie unioni, né la coppia in varie coppie, né l’unità procreatrice, che è
l’unità di origine dei suoi figli, in abbandoni o sostituzioni – patrigni e matrigne –, destrutturando in
tal modo l’identità e l’equilibrio interiore dei figli. Deve, invece, poter ratificare, rafforzare e
portare a termine l’unità con se stessa e l’unità biografica intima, proprio grazie all’intima
comunione di amore e di vita.
Questo sentiero antropologico conduce all’“uno con una” e al “per tutta la vita”. L’unità con
se stessi, con il proprio unico corpo e la propria unica anima, maschili e femminili, è la “intera”
unità nuziale e feconda che l’uomo dona e nella quale accoglie la donna, e l’unità intima che la
donna dona e nella quale accoglie l’uomo. È l’uno con una per tutta la vita che esiste nella natura
“data” della sessualità maschile e femminile. È ciò che “Dio unì” imprimendo la imago Dei nel
maschio e nella femmina. Questo sigillo è un dover essere: un invito alla libertà nella verità.
Nessuno nasce sposato, né l’unione una e indissolubile si produce spontaneamente o contro la
libertà, esternamente ai nubendi. Entrambi, mediante il loro potere di disporne, devono darsi e
accogliersi, devono “attualizzare” questa potenza di comunione, devono dire “lo voglio” attraverso
un atto congiunto delle loro volontà libere.
17. L’unione d’amore dovuta per giustizia. La questione del vincolo giuridico. Le
precedenti basi antropologiche lasciano ancora da parte due importanti aspetti dell’unità e
dell’indissolubilità. Il primo è che queste proprietà, da un lato, riflettono la natura data, mentre,
dall’altro, il potere di disporne, cioè natura e libertà. Il secondo è che nessun uomo e nessuna donna
nasce già vincolato, ma vergine e libero. La pienezza dell’unità e dell’indissolubilità richiede,
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pertanto, da ogni singola coppia un atto congiunto di “libertà”, un esercizio concreto del loro potere
di disporre della propria condizione sessuale di uomo e di donna, un atto di volersi dare e
accogliersi nella propria intimità nuziale e con la congiunta intenzione di fondare quell’unione una e
indissolubile, che la natura “data” contiene già in potenza e la propone come verità e bontà
dell’amore umano. In questo secondo significato, l’unità e l’indissolubilità dell’unione sono parte
essenziale del consenso, sono il midollo della intentio vere coniugalis (40). Siffatto consenso non
inventa o crea la natura “data” dell’essere uomo o essere donna, né l’unità nuziale dei loro corpi e
delle loro anime e nemmeno la dinamica unitiva dell’amore. Non è il consenso a creare l’unità e
l’indissolubilità. Esso, tuttavia, in quanto atto libero che articola libertà e natura, le riconosce come
verità e bontà dell’amarsi e le pone nell’unione coniugale che va a costituire. Perché questa
costituzione non è opera della natura “data”, ma del consenso libero e sovrano degli sposi. Questa è
la ragione, a sensu contrario, per cui la Chiesa non riconosce come matrimonio quell’unione il cui
consenso fondazionale non l’ha voluta una e indissolubile (41).
Perché allora si dice che l’essenza dell’unione coniugale è un vincolo e, per di più, giuridico?
Perché le proprietà dell’unità e dell’indissolubilità albergano in questo vincolo? È natura data o
potere di disporne? È necessario che sia entrambe le cose. La risposta richiede di aggiungere a tutte
le ragioni precedenti la congiunzione tra amore e giustizia. Attraverso questa riunione appare il
concetto di vincolo, con il suo inquietante ma vero aggettivo “giuridico”, da intendersi non in senso
legale positivo ma in quello di ipsa rei iusta, ciò che giustamente è dovuto. Uno dei più illuminati
canonisti si azzardò a dire che questo “vincolo” era la quidditas del matrimonio. È forse vero? E
perché?
Per parecchie ragioni di peso antropologico, psicologico ed empirico. Tutte però, in ultima
istanza, si rifanno a quell’amore che l’essere imago Dei ha impresso dal principio, in origine e per
sempre, nell’intimità nuziale tra uomo e donna. Voglio dire, in breve e in modo diretto, che l’amore
di Dio trino, che ispira il potere di amare dell’uomo, è assolutamente fedele e giusto. Giusto? Allora
noi uomini siamo i debitori di un Dio creditore? È successo che Dio ha deciso di amarci come
amante dovuto per essere accolto da ogni essere umano come “mio Dio e mio amore”. Non sarebbe
strano chiamare questa decisione “pazzia d’amore”. Ma questa pazzia è impressa con il sigillo della
imago Dei nell’amore umano. È offerta alla libertà umana, ma offerta in verità. Colui che ha amato
per primo vuole essere il “suo” dell’amato.
Questo sigillo è alla portata dell’esperienza umana in qualsiasi luogo e tempo. L’inclinazione
amorosa tra i due sessi comincia come un invito all’unione: è una dinamica verso l’unione. Non è
un invito privo di finalità, una sorta di impulso irrazionale, arbitrario, senza indicazioni sicure per
arrivare all’appuntamento. Nel vero innamoramento, che rappresenta la giovinezza dell’amore, gli
amanti desiderano stare uno accanto all’altro, prossimi, vicini; è molesta qualsiasi cosa li separi,
odiano chi vuole separarli. È qui che nasce l’intenzione unitiva. Desiderano che la profonda intimità
che è cresciuta dentro di loro sia qualcosa che avvenga esclusivamente tra loro, provano gelosia,
odiano i “terzi” e non vogliono che nessuno li disunisca. È l’intenzione di fedeltà esclusiva tra un
uomo e una donna. Vorrebbero che il loro amore non passasse mai, che si convertisse in un
“eterno” istante, che durasse per sempre; per questo temono lo scorrere del tempo, cambiamenti
inaspettati, l’incertezza di un futuro ignoto. Non vogliono perdersi, non vogliono che nulla li separi:
emerge l’intenzione del “per tutta la vita”. Sentono che il loro amore illumina l’ordinario, dissipa la
routine quotidiana, che è fecondo e vivifica tutto perché è pura energia vitale: è l’intenzione di
fecondità, il cui paradigma è l’intenzione di procreare figli propri. Il loro amore fa emergere il
meglio di loro stessi, un darsi e riceversi massimamente sincero, caloroso e buono, devoto e mai
egoista, per attrarre l’amato: si tratta dell’intenzione di benevolenza che sostituisce l’egocentrismo e
la sua concupiscenza. Queste sono tutte chiamate tipiche della dinamica unitiva: chiamata a essere
unione esclusiva per tutta la vita, chiamata alla fecondità e alla procreazione della vita. Tutte queste
intenzioni in connessione tra loro costituiscono l’intenzione unitiva. Nonostante la “caduta”, la sua
corruzione e la durezza dei cuori, ogni volta che un uomo e una donna si innamorano davvero,
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TESTO PROVVISORIO
sentono questa chiamata dentro loro stessi e la condividono. Ma c’è di più. La qualità e l’integrità di
queste intenzioni rappresentano un test infallibile della verità e bontà di un innamoramento.
Noi siamo tempo. Non tutto ciò che l’amarsi contiene in potenza può realizzarsi qui e ora, a
tempo zero e velocità infinita. Per questo, le chiamate dell’innamoramento, che è giovinezza,
richiedono una crescita, una seconda età di questa unione, e stavolta più profonda. Il corpo maschile
e femminile – la “carne” – chiede alle proprie persone di trasformare queste inclinazioni unitive in
un modo di essere. E, inoltre, a essere non più due ma un noi, un’unione unica per tutta la vita che
niente e nessuno possa separare (42). In questa trasformazione dei due in un’unica comunione
dobbiamo distinguere due aspetti. È attraverso la condivisione del corpo maschile e del corpo
femminile – un “nostro in comune” – che le loro persone si uniscono. In tal senso, l’intima
comunione coniugale è stata definita rigorosamente come unione delle persone nell’unità della loro
carne o natura maschile e femminile (43).
La struttura psicologica del consenso ci dice quanto segue. Mi dono come tuo uomo e ti
prendo come mia donna; mi dono come tua donna e ti accolgo come mio uomo. Ciò che io sono, in
quanto uomo, è tuo, e ciò che tu sei, in quanto donna, è mio; ciò che io sono, in quanto donna, è tuo,
e ciò che tu sei, in quanto uomo, è mio. Appartenere l’uno all’altra è il “suo” dell’unione, ciò che è
dovuto, la ipsa res iusta. L’unione d’amore cessa così di essere una serie di chiamate, di inviti. Essa
è divenuta un’unione dovuta per giustizia. Questo doversi per giustizia l’intima unione di amore e
di vita – e quindi avere entrambi diritto a questa unione – è stato chiamato vincolo coniugale. Gli
sposi sono coloro che, attraverso il loro consenso, hanno trasformato la propria inclinazione
d’amore unitiva in un’unione dovuta per giustizia. Essere unione è quel “suo giusto”, la ipsa res
iusta coniugalis, dovere e diritto. Nella vera unione coniugale – accogliendo quanto Dio unì nella
imago Dei impressa nel cuore del maschio e della femmina – l’amore si è vincolato con la giustizia.
Questo è il significato del vincolo coniugale e la ragione per cui si può definire come la quidditas
del vero matrimonio (44), perché questo vincolo di giustizia è la componente differenziale che, de
iure, distingue l’autentica comunione coniugale dal resto delle alternative sessuali, possibili de
facto.
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