Scarica la versione integrale della testimonianza

Transcript

Scarica la versione integrale della testimonianza
Giuseppe Algeri
Mi chiamo Giuseppe Algeri, sono nato a Caltagirone, in provincia di Catania, il 17
novembre del 1921. Sono stato arrestato il 9 settembre del 1943 a Tirana, in Albania,
catturato dai tedeschi. Io ero in Albania come militare, aviere di Go verno. Quando sono
stato preso, mi hanno portato in un campo tra Durazzo e Tirana, un campo di
concentramento per Greci... Allora c’erano i Greci, perché in queste baracche c’era scritto
“Noi spezzeremo i reni ai Greci”. Dopo dieci, quindici giorni di prigionia in questo campo di
concentramento, i tedeschi ci hanno messo su dei camion e, per attraversare l’Albania, ci
hanno dovuto riarmare. Dopo averci disarmato, ci hanno riarmato di nuovo e ci hanno
portato al confine della Bulgaria. Il riarmo era dovuto alla presenza di ribelli albanesi...
Dovevamo passare in zone a rischio e i tedeschi avevano paura, così ci hanno riarmato.
Arrivati però al confine della Jugoslavia, ci hanno di nuovo disarmato.
Arrivati in Bulgaria ci hanno messo sopra i vagoni bestiame e siamo andati in Germania.
La prima tappa l’abbiamo fatta a Vienna, dove ci hanno fatto delle perquisizioni, hanno
cercato di levarci quello che avevamo... Ci hanno portato a Königsberg, in un Lager, in un
campo di concentramento. Sono arrivato il pomeriggio – sarà stato verso la fine di
settembre, non ricordo con precisione le date – e l’indomani mattina mi hanno scattato
delle foto segnaletiche, mi hanno preso le impronte digitali e basta. Al pomeriggio, ci
hanno detto... Cercavano degli operai specializzati e, siccome io ero falegname, mi hanno
preso... Mettevano da un lato chi era buono e dall’altro chi era malato; io avevo un po’
paura di essere messo tra i malati, anche se io stavo benissimo, non avevo nessun
problema, ma mi ha fatto paura lo stesso. La mattina dopo, un ufficiale, ci ha messo sul
treno – eravamo una trentina – e ci ha portato a Nordhausen. Nel tragitto siamo passati
prima per Berlino, dove abbiamo fatto una prima tappa e dove ci siamo fermati lì tutta la
notte. È stata la prima volta che ho visto una scala mobile, non sapevo proprio cosa fosse.
Dopo Berlino, siamo passati poi per Essen – o Assen, una cosa del genere – e siamo
quindi arrivati a Nordhausen, che si trova a quattro chilometri dal lago Dora, Dora
Mittelbau.
Appena arrivati, ci hanno portato subito... Ci hanno preso i nomi e poi ci hanno portato in
una specie di bagno, ci hanno fatto rapato a zero, ci hanno spogliato di tutto e, finito di fare
la doccia, ci hanno fatto vestire con le divise a righe. Noi che eravamo militari ci
chiedevamo per quale motivo fossimo vestiti a righe... C’è stato un momento di sconforto
generale... eravamo una trentina: alcuni venivano dai balcani, altri – cinque, dieci –
venivano dalla Russia, dopo aver fatto undici mesi di ritirata... insomma... C’era anche un
alpino, che era diventato sergente al valore militare, che ad un certo punto si è messo a
piangere come un bambino, noialtri ci siamo guardati in faccia. Ci hanno portato di nuovo
fuori ed è arrivato un contrordine: ci hanno spogliato di nuovo, lì all’aperto, e ci hanno dato
di nuovo la divisa. La mia divisa aveva il numero 0162... La matricola che già mi avevano
dato a Königsberg non serviva più e così il mio numero di matricola era diventato 0162.
Siamo così entrati in una galleria. Nella galleria ci hanno dato una zuppa, una zuppetta
dolce, mai mangiata prima... Poi la notte mi è venuto un forte mal di stomaco e sono stato
male. A mezzanotte mi hanno mandato già subito a lavorare, dentro la galleria stessa, mi
hanno dato un martello pneumatico, che non sapevo neanche cosa fosse. Abbiamo così
cominciato a fare buchi in questa roccia, in questa galleria... Era un tunnel. Abbiamo
fatto... Facevamo dei buchi profondi quattro metri e venti. Come turno, facevo da
mezzanotte a mezzogiorno, fin dal p rimo giorno in cui sono arrivato, i primi giorni d’ottobre,
non ricordo con precisione le date. A mezzogiorno si doveva andare a dormire per regola,
dopo dodici ore di quel lavoro snervante. Si dormiva in castelli di cinque piani. Siccome io
già avevo addosso qualche pidocchio, me n’andavo all’ultimo piano, perché avevo la
lampadina più vicina, in modo da potermi schiacciare questi pidocchi, ucciderli. Alle cinque
di sera, arrivavano gli altri deportati, quelli che lavoravano fuori. Allora, figuratevi il casino
che c’era, con la gente che ritornava da lavorare. Noi dovevamo dormire e non si dormiva.
Alle undici, poi, di nuovo sveglia, ma già eravamo svegli. “Italiani! Undici! Lavorare!” e si
andava di nuovo a lavorare nella gallerie, sempre a fare lo stesso lavoro, perforare questa
roccia. Una volta finito questo lavoro – eravamo circa dodici persone a bucare questa
roccia – l’indomani mattina, venivano i minatori, che riempivano d’esplosivo e facevano
saltare la roccia. Questo lavoro l’ho fatto per sei mesi consecutivi, dodici ore al giorno, da
mezzanotte a mezzogiorno e da mezzogiorno a mezzanotte, a settimane alterne...
Dopo sei mesi che io... Il morale era abbastanza alto... Avevo ventidue anni... Ma mi
cominciava a pesare, non era tanto per il lavoro, qua nto perché non dormivo né di notte né
di giorno. Ad un certo punto è venuto un cecoslovacco – mai conosciuto, né visto, forse
veniva da fuori – e gli ho detto: “Vedi se mi puoi fare la cortesia... Se mi puoi far uscire da
qui dentro, perché io qui sto morendo, non ce la faccio più...”. Non so se per simpatia o
cos’altro, ma dopo due gironi mi ha detto di andare a lavorare fuori. Uscito fuori, mi hanno
mandato alla baracca n. 18, dove c’erano tutti gli italiani. D’italiani io ne avevo visti pochi.
Se anche c’era qualche italiano, non ci incontravamo mai quando si smetteva di lavorare,
perché uno cominciava, faceva da mezzanotte a mezzogiorno, e l’altro finiva, faceva da
mezzogiorno a mezzanotte. Ciascuno dei nostri turni corrispondeva a due turni normali,
due turni di civili... Gli operai facevano normalmente turni dalle sei alle sette... Dovevamo
essere sempre pronti, freschi, sempre.
Da mangiare, ci davano un po’ di zuppa: la zuppa consisteva in un litro di brodaglia, di
brodaglia, circa duecento, duecento grammi di pane, di mattina ci davano un po’ di caffè
amaro, sarà stato surrogato e con quella roba lì si tirava avanti. Il caffè era importante,
perché dentro alla galleria non c’era acqua potabile. C’era solo dell’acqua dal colore
bianco... Chi la beveva – e qualcuno l’ha bevuta – moriva a causa della diarrea.
Per sei mesi mangiare, dormire, lavorare, fare i nostri bisogni, tutto in galleria. Si trattava
di due tunnel scavati dai tedeschi in precedenza. Questi due tunnel erano paralleli e noi
foravano delle piccole gallerie, in modo da poterli congiungere. I nostri bisogni si facevano
di fronte a tutti: nel tunnel c’erano circa 30, 40 bidoni, dei fusti di benzina tagliati in due. Ci
si metteva un pezzettino di tavola e su quella tavola dovevamo fare i nostri bisogni. Buona
parte di noi poi aveva la dissenteria, come ho già detto. Dovevi essere fortunato, però, nel
fare i tuoi bisogni, perché se passavano le SS erano botte, perché pensavano che
andavamo lì a riposarci... Effettivamente qualche volta andavamo a nche per riposarci, così
se arrivava la SS dovevamo scappare con le brache in mano, correre e andare via subito
da lì.
Dopo questi sei mesi è inutile dire che io ero proprio finito, così mi hanno portato fuori a
lavorare. Mi hanno mandato a costruire delle strade... Per un falegname, un ebanista
com’ero io, ecco quale era il lavoro. Quando si andava fuori a lavorare, eravamo trenta
uomini, trenta prigionieri scortati da un caposquadra – che portava il triangolo verde ed era
tra gli uomini più pericolosi, più delinquenti che c’erano – e da quattro guardie della SS,
con i fucili spianati e quattro cani –cani lupo – addestrati. Questo sia all’andata e al ritorno
dal lavoro, sia sul lavoro. C’era anche un civile che, di sera, quando passava un
uccellaccio, ci diceva: “Badoglio, ecco Badoglio!”. Al rientro dal lavoro, la sera, i tedeschi si
divertivano ad aizzarci contro i cani, man mano che camminavamo. Una volta, una di
queste SS che ci scortavano non ha fatto in tempo a trattenere il cane, che mi ha dato
nella gamba sinistra un morso, di cui ho ancora la cicatrice. Sono dovuto andare in
infermeria, dove mi hanno chiesto cosa era successo. Io ho detto: “Un cane”. Quasi mi
picchiarono, perché dicevano: “Allora tu volevi scappare se il cane ti è corso dietro e ti ha
azzannato!”. In più loro non capivano l’italiano, né io capivo il tedesco. Eravamo sempre
tutti deportati, anche in infermeria, non si vedeva altro. Per medicarmi, mi hanno dato un
pezzo di carta igienica, con cui mi hanno fasciato la gamba... E basta. L’indomani, sono
andato di nuovo a lavorare.
Dopo sei mesi, mi si sono gonfiate le gambe, grosse e sproporzionate. Non ce la facevo
più a camminare, non mi potevo muovere e lavorare nelle strade. Mi dissero: “Riposo,
riposo a letto” e mi misero con le gambe per aria. Un giorno sì e uno no dovevo andare a
fare la visita, in questa specie d’infermeria, d’inverno, col freddo che c’era – perché
quando sono uscito dalle gallerie, a marzo, faceva ancora freddo – ma avevo sempre le
gambe gonfie. Però mettendomi con le gambe per aria, come mi dicevano, le gambe
cominciarono a sgonfiarsi. Se Giuseppe Algeri è ancora qui, è stato proprio per il riposo di
quasi due mesi nella baracca e per la fortuna di non essere andato a lavorare... Non
andare a lavorare significava riuscire a vivere, perché, per noi deportati del Dora, quello
era l’inferno. Stando due mesi a riposo, mi sono ripreso da tutto il male che avevo subito
nelle gallerie. Così, nel mese di maggio, quando la temperatura è cambiata e ha fatto un
poco più caldo, senza mettermi con le gambe per aria, le gambe si sono sgonfiate.
Giuseppe doveva andare a lavorare, non c’era niente da fare.
Un pomeriggio accadde che quello che faceva da caposquadra nelle gallerie... Era quello
che non mi voleva fare uscire dalle gallerie, era un siciliano, un mio compaesano, che non
mi voleva fare uscire, perché diceva che io ero l’unico a saper fare il lavoro e che se mi
levava, quel lavoro non andava avanti, così gli dissi: “O mi fai uscire o ti ammazzo, loro
ammazzano me e io ammazzo te”. Questo caposquadra fu portato alla baracca 18, dove
dormivamo tutti noi italiani, e si scoprì che aveva il tifo pidocchiale. E ai tedeschi è venuta
una paura tremenda, anzi a tutto il Lager Dora, perché non era un campetto, là era un
Lager dove c’erano venticinque, trentamila persone.
Il Lager Dora era organizzato così... All’interno del tunnel, non c’era niente. Si dormiva
dentro le gallerie stesse. C’erano questi enormi castelli a cinque piani... Ogni piano era
alto sessanta, settanta centimetri e dovevi stare disteso, perché era troppo basso. I piedi
non dovevano sporgere, perché, se passava la SS, ti dava delle botte tremende, quindi
dovevi stare sempre rannicchiato. All’esterno, invece, dopo sei mesi, avevano costruito
delle baracche. Io ho passato sei mesi all’interno delle gallerie senza mai uscire,
nemmeno per... Io per sei mesi non ho mai visto la luce del sole. Si sentiva solo un po’
d’aria, perché i tunnel erano lunghi circa due chilometri e c’era corrente, faceva anche
freddo, delle volte, lì dentro. Non sono mai uscito, mai; nemmeno per andarmi a lavare,
niente. Anzi, quando certe volte cercavo di prendere dell’acqua con il recipiente per la
zuppa, quello degli avieri, ho preso tante di quelle botte – gli occhiali mi andavano a finire
per terra, come non si sono rotti, non lo so – perché credevano che io volessi bere l’acqua.
Quell’acqua non si poteva bere, si poteva morire, difatti ci davano il caffè amaro ogni
giorno. Fuori, invece, c’erano delle baracche. Ognuna aveva il suo lavandino, c’era una
specie... I gabinetti non c’erano, c’erano solo dei bidoni, dove si andava a fare... Di notte,
in inverno, con ventiquattro sotto zero, uno che doveva fare i suoi bisogni, si doveva
mettere fuori, all’aperto. Anche se non era malato, uno si ammala va. Quel gelo... Alla
mattina ci svegliavamo alle cinque e mezzo, alle sei dovevamo andare a lavarci con quel
gelo a torso nudo, e se uno si portava la camicia, gliela strappavano addosso.
Questo era il Lager Dora: era l’inferno vero e proprio. Nessuno si può rendere conto... Se
sono qui oggi è perché voglio parlare di questo Lager Dora, perché... Noi italiani eravamo
pochi, circa ottocento, mille. Nel giro di tre, quattro mesi, sono morti più di trecento italiani,
di cui sette sono stati fucilati. Sono stati fucilati, perché... Dentro le gallerie, a noi che
lavoravamo con il martello perforante, si diceva, ecco... Chiacchiere... Si diceva che ci
spettava un litro di zuppa in più. In realtà, questo litro di zuppa in più se lo spartivano i
kapò, non so cosa ne facessero. Così alcuni italiani, sette alpini, si sono rifiutati di
lavorare, dicendo: “Fateci fare un altro lavoro, dato che non ci date il litro di zuppa” e sono
stati fucilati per un litro di zuppa. Non è che non volessero lavorare, avevano solo detto di
voler cambiare lavoro, dato che noialtri eravamo addetti a questi martelli perforanti: “Se ci
spetta, perché non ce lo date?”. In sostanza, noi avevamo sempre torto, mentre i kapò e le
SS avevano sempre ragione. Il giorno dell’esecuzione hanno chiamato tutti quelli che
erano fuori, a riposo e – io mi sono trovato per caso a riposo – ci hanno portato dentro una
cava di pietra, eravamo un centinaio. Ho pensato: “Qua, che vogliono fare, ci vogliono
ammazzare tutti?”, invece arrivò un plotone d’esecuzione e questi sette italiani – sei in
piedi e uno, che era malato, in barella – e siccome eravamo prigionieri militari, hanno fatto
loro un regalo: invece di impiccarli, li hanno fucilati. Le parole che ha pronunciato l’ufficiale
non le dimenticherò mai... L’ufficiale disse: “Voi italiani siete figli di una nazione che per
ben due volte ci ha tradito. Per questo voi dovete pagare, con il lavoro e con la disciplina e
chi sbaglia anche con il sangue. Su cento italiani, novantanove devono morire e uno deve
rientrare in Italia malato”. Si diceva che il Lager Dora prendesse il nome o dalla moglie o
dalla figlia di questo ufficiale.
Nel Lager Dora, di donne non ne ho mai viste, mai... Solamente qualche... Sulla collina
dove fucilarono i sette alpini avevano costruito delle baracche e tra queste avevano messo
una baracca di prostitute, Erano malate di polmonite e di bronchite e loro volevano che noi
andassimo con queste prostitute. Noi non stavamo nemmeno in piedi, non potevamo
andare. Più di una volta mi hanno accompagnato da queste prostitute, ma io... Io non
sentivo più... Per due anni, non sapevo più se ero un uomo o una donna, mi serviva solo
per fare la pipì e basta. Non lo trovavo nemmeno, niente. Per due anni. Solamente dopo la
liberazione, i miei sensi si sono risvegliati.
Tornando al discorso del tifo pidocchiale... Tutti avevamo i pidocchi. Bastava che uno
avesse un pidocchio e subito venivamo infestati tutti. Venivano dei pruriti spaventosi e in
infermeria davano un liquido, una specie d’olio. Non so che olio fosse, ma il prurito
passava. Per il tifo, però, era peggio. Recintarono tutta la nostra baracca: non potevamo
uscire, ci avevano messi come in quarantena. Mi hanno di nuovo rapato a zero, perché
ogni volta ci facevano rapare a zero e depilare in tutte le parti del corpo dove c’erano peli,
poi c’era una vasca piena di disinfettante, in cui ti dovevi infilare. Se non ti bagnavi anche
la testa, allora loro ti spingevano la testa dentro questo disinfettante, perciò gli occhi
bruciavano... Se uno era un po’ furbo, però, si lavava un po’ la testa... Quando poi era
pieno - saremo stati cento, centocinquanta, non lo so – allora aprivano le docce che ti
bruciavano, poi aprivano quelle d’acqua fredda. Dopo sei mesi, sono andato a fare la
prima doccia: finito di lavarci, uscivamo fuori. Tutta la nostra roba, gli indumenti, li davamo
prima... Li portavano in una sala di disinfezione, li mettevano a disinfettare. Dopo aver
fatto la doccia... In inverno, nel mese di marzo, aprile, stare fuori ancora un’altra mezz’ora,
tre quarti d’ora, nudo, ad aspettare gli indumenti. Dopo andavamo in baracca. Alla sera
venivano una specie d’infermieri, che con dei fari ci guardavo in mezzo alle gambe, sotto
le ascelle, per vedere se avevamo qualche pidocchio. Dopo quindici giorni si resero conto
che noi italiani avevamo fame, non i pidocchi! Ecco... Questo dopo sette mesi... Mi sono
potuto lavare. Poi sono andato sempre a lavorare... A costruire queste strade.
Sulle strade... C’erano due squadre: la prima, dove ero io, era abbastanza tranq uilla; nella
seconda, invece, tra gli italiani tutte le sere c’era un morto, perché il kapò si era messo in
testa che noi avevamo ucciso suo padre – il padre era morto nella guerra del ‘15-’18 – e
non faceva altro che dare botte senza motivo dalla mattina alla sera, mentre si stava lì a
caricare i vagoni. Io ci sono anche capitato, un giorno, con questo figlio di puttana. Come
capisquadra avevamo dei delinquenti – non erano italiani, ma tedeschi – persone
condannate all’ergastolo, che, siccome parlavano tedesco, sono state tolte dal carcere e
portate nei Lager, per comandare. Molte volte la SS non comandava nemmeno. Erano
questi capisquadra a comandare, ci potevano anche ammazzare che la SS quasi non
interveniva.
Verso maggio, giugno, anche luglio, hanno fatto i raggi a tutti gli italiani. Ci hanno fatto i
raggi al torace per vedere cosa avessimo: quelli che erano malati di tubercolosi, li hanno
messi da una parte e gli altri, tra cui c’ero anch’io, li hanno mandati a lavorare. Il Lager
Dora era stato costruito su una pianura e c’era una collina... Dopo è venuta la costruzione
della bomba volante: il lavoro nelle gallerie serviva per consentire la costruzione di
stabilimenti per costruire la bomba volante. Un giorno, dovendo andare a prendere del
materiale, sono entrato nel tunnel e ho visto Von Braun, un uomo pericoloso, che come
scienziato merita tutte le lodi possibili, ma nel Lager Dora era un assassino. Andava a
prendere la gente, man mano che moriva... I morti, che erano lì dentro, erano una cosa
spaventosa, accatastati come legna. Passavano dei camion, se li caricavano e li
portavano a Buchenwald, dove li bruciavano, perché noi non avevamo i forni. Dato però
che i morti aumentavano in continuazione furono costretti a costruire due forni crematori,
per bruciare i corpi direttamente al Dora. Ho conosciuto Von Braun dentro la galleria,
quest’uomo che è stato uno scienziato, ci ha portato sulla luna, ci ha fatto tutto quello che
ha fatto, però, dentro il tunnel, era un asssassino che come lui non ce n’era. Andava
continuamente a Buchenwald a prendere i nuovi prigionieri che arrivavano... In realtà, non
erano prigionieri, ma deportati, perché gli unici prigionieri eravamo noi italiani. Andava a
prendere questi deportati e li portava in Germania.
Prima che io fossi trasferito ad Ellrich, ci fu un sabotaggio... Le bombe volanti: si parlava di
diecimila bombe, ma io non posso dire con precisione. La bomba partiva dalla pista di
lancio, arrivava in Inghilterra, però non scoppiava più. Mi ricordo in effetti che qualc he
volta qualcuno, mentre lavoravano dentro il tunnel, nelle gallerie, ci dava qualche pezzo e
diceva: “Buttalo via”, e magari ci regalavano anche un po’ di pane. Insomma, sarà stato
quello, queste bombe andavano in Inghilterra e non scoppiavano più. Un giorno, la cosa si
è saputa e hanno impiccato ben trentadue persone. Noi prigionieri e tutti i deportati che
avevano il turno di riposo, ci hanno fatto stare dalla mattina alle sei, fino alle sei e mezzo,
sette di sera, fuori, senza mangiare, senza bere, in piedi, ad aspettare questa
impiccagione. Erano quasi tutti civili – perché erano vestiti con abiti civili – e ne hanno
impiccati trentadue. Quando uno faceva un piccolo sbaglio, se si allontanava dal lavoro o
commetteva una disattenzione, tutto era sabotaggio... La minima cosa che si poteva fare...
Si ricevevano venticinque colpi sul sedere, con... Loro li chiamavano Gummi, ma era filo
elettrico, con dentro un’anima di rame: dopo dieci colpi, nessuno brontolava.
Ho passato quasi un anno al Dora. Nel mese d’agosto, mi hanno trasferito e mi hanno
portato ad Ellrich, in un sottocampo, dove però la mia matricola non è cambiata ed è
rimasta 0162, dato che Ellrich dipendeva dal Lager Dora... Infatti il nome completo era
Ellrich Dora Buchenwald. Da Ellrich prendevo un trenino, si faceva una mezz’oretta di
treno e andavamo a lavorare dall’altra parte delle gallerie. Andavo a scavare i pozzi
d’acqua. Un altro lavoro ancora. Non avevamo delle trivelle... Siccome si era vicino ad un
fiume, bucavamo questi pozzi, facevamo dei pozzi di un metro di diametro, e con una
pompa, facendola scendere dalla gru fino lì dentro, allora aspiravamo e tiravamo su
l’acqua mischiata alla ghiaia. Quando arrivavamo ad una certa profondità, si metteva il
tubo, quello per fare i pozzi artesiani, e intorno, sulle pareti, mettevamo una ghiaia
speciale – la portavano da fuori – in modo che potesse filtrare l’acqua. Ho fatto questo
lavoro... Dunque, Pasqua è stata, mi sembra, il 1° d’Aprile del 1945, perciò dal settembre
del ’44 fino al primo aprile del ’45, sono stato ad Ellrich.
Ad Ellrich ero un po’ più libero: era arrivato l’ordine che noi italiani potevamo andare a
lavorare senza la SS, senza i cani, senza il kapò e che un italiano poteva fare da
caposquadra. Così avevamo un po’ più di libertà e una sera, finito il lavoro, ci siamo messi
a zappare con il piccone in quei terreni dove erano state piantate le patate, per vedere se
trovavamo almeno una patata marcia. Andavamo a lavorare tutti i giorni, a ventiquattro
gradi sotto zero. Faceva talmente freddo che ci avevano dato il permesso di scaldarci con
una stufetta. Fu terribile, ma per fortuna dopo il mese di febbraio, il tempo fu più clemente:
a febbraio, infatti, cominciarono le piogge – solitamente le piogge arrivavano verso aprile,
maggio – e la temperatura si alzò un po’. Le scarpe – le scarpe dell’aviazione sono delle
scarpe normali, non come quelle da militare con i chiodi – mi si erano consumate: mi
diedero così degli zoccoli, con sopra la pelle e sotto il legno, il che era un bene, tutto
sommato, perché non si sentiva tanto il freddo. Ci diedero anche i para orecchi e un paio
di guanti, che erano fatti però di un materiale che durava solo un giorno. Dato che la mia
divisa, quella di aviere – difatti nessuno mi conosceva come Algeri, ma come “l’aviere”,
“l’aviere 0162” – si era tutta rovinata, ne ricevetti un’altra di tela, tutta segnata dietro le
spalle, davanti nel petto e nei ginocchi, dove c’era scritto KLB, “Campo di Concentramento
di Buchenwald”, o almeno così decifravo io. Ma a ventiquattro gradi sotto zero non si
poteva andare a lavorare in quelle condizioni. Così rubai – questo sempre al Ellrich – un
pezzo di coperta ad un altro disgraziato come me. Rubai questa coperta e ci feci un buco:
così me la infilavo per la testa, sotto a questa divisa di tela. Alla sera, quando rientravo,
non potendo portarla nel castello dove dormivo, andavo nei bagni, mi levavo questa
coperta, la mettevo sotto uno dei bidoni d’acqua, all’ingresso; l’indomani mattina, quando
andavo a riprenderla e me la mettevo di nuovo, era più fredda che alla sera, bagnata,
umida, perché d’altronde sotto un fusto d’acqua, cosa poteva nascere?
Sia il Lager Dora che Ellrich avevano reticolati elettrificati, ad un metro di distanza, a cui
uno restava attaccato, se si avvicinava: non c’era pietà. Inoltre, su tutta la collina, c’erano
trecento cani sciolti, che si lanciavano addosso a chi avesse tentato di fare qualche
fesseria. A Ellrich, i cani non c’erano, avevamo un po’ più di libertà, come ho detto. Non
avevamo più i tedeschi che ci comandavano, che ci accompagnavano; se rientravamo
qualche ora più tardi, non succedeva niente, magari l’ufficiale la prendeva in ridere: “Siete
stati con le donne” e io gli rispondevo: “Machine kaput, non funziona più”, lui si faceva una
risata e tutto passava così. Rientravo dentro e andavo a mangiarmi quel po’ di zuppa.
A gennaio finì il pane: non ce n’era più né per noi né per i tedeschi che erano lì. Allora ci
iniziarono a darci un po’ più di zuppa, quella brodaglia, che, quando era con le rape, era
amara e puzzava talmente che non riuscivo a mangiare. Come dicevo alla mattina
prendevo il treno per raggiungere l’altra sponda, dietro i tunnel: lì c’erano delle baracche,
forse di borghesi, che alla sera buttavano via delle bucce di patata, che io raccoglievo la
mattina tutte belle bianche, per il nevischio. Raccoglievo queste bucce, prendevo qualche
carota e portavo tutto sul lavoro, dove avevo la possibilità di bollirli, e me li mangiavo. A
volte trovavo anche della crusca, che impastavo assieme alle patate marce che trovavo. Il
mio dramma, la mia disgrazia non è stata altro che la fame. Fino ad oggi – io ho
settantotto anni – a casa mia, non è mai mancato il pane: è un’ossessione, sarà
psicologico, ma il pane ci deve essere. Guai se non c’è il pane, a costo che avanzi, ma ci
deve essere. Ecco cosa mi sono portato dalla Germania: la fame.
Nei due anni che sono stato nel Lager Dora e a Ellrich, io non ho mai assistito né a un
mitragliamento né a un bombardamento, niente. Non è mai suonato l’allarme. Magari di
giorno passava qualche apparecchio e ci facevano smettere di lavorare, ne sono passati
diversi, ma non so dove andassero. Mi sono sempre chiesto perché non ci fosse mai un
mitragliamento, mai un bombardamento. Eppure Dora e Ellrich erano sempre illuminati,
anche la notte, non è che si potessero nascondere... Inoltre si sapeva che si costruiva la
bomba volante nelle gallerie. L’unico mitragliamento avvenne a Nordhausen, dopo la
Pasqua del ’45 – non so se una settimana o dieci giorni dopo Pasqua, non ricordo con
precisione – e non appena ci fu questo mitragliamento, ci fecero rientrare.
L’indomani mattina, anziché andare a lavorare, ci hanno messo su un treno, su dei carri
bestiame. Gli italiani, per stare tutti insieme – eravamo novanta in tutto – siamo saliti tutti
su un unico vagone, seduti uno dietro l’altro, pigiati, con le gambe uno attorno all’altro. Gli
altri erano tutti deportati. Ci hanno messo su questi treni, ma non si sapeva dove andare,
andavano avanti e indietro. Perché da una parte non si poteva passare, perché c’erano i
russi, dall’altra non potevamo andare, perché c’erano gli Americani, da un’altra parte
ancora c’erano gli Inglesi... Così, un giorno di questi, ci hanno fermato in una stazione –
non so che stazione fosse – su un binario morto. Siamo fermi un giorno. Nel frattempo è
passato un mitragliamento – ecco il primo mitragliamento – di caccia inglesi: hanno
mitragliato questo treno, che era fermo. Il vagone di noi italiani era chiuso, ma la
maggioranza di tutti gli altri deportati erano su vagoni scoperti. Si vedeva che c’era gente
dentro quei vagoni, ma si sono messi a mitragliare lo stesso. Con un mitragliamento, ne
hanno uccisi più di trecento. Un italiano, che avevo tra le gambe – forse è stato lui che mi
ha salvato la vita – ha preso lui le pallottole... Gli hanno fatto saltare il braccio, il braccio
sinistro, no... Il braccio destro e la mano sinistra, come se fosse stata schiacciata da un
carro armato. Come l’abbiamo steso per terra, ha detto “Tagliatemi il braccio!”, così
abbiamo preso un coltello e gli abbiamo tagliato il braccio, ma... È morto, non ce la faceva.
L’indomani mattina, i tedeschi volevano che andassimo a scavare la buca per seppellire i
cadaveri. Io ho fatto in maniera di non andare a scavare, ma comunque tanti sono dovuti
andare a seppellire...
Dopo ci hanno portato in una fabbrica. Dicevano – dicevano, io non lo so – che eravamo a
quaranta,
cinquanta
chilometri
distanti
da
Berlino,
perché
noi
sentivamo
dei
bombardamenti, delle cose... Dopo due o tre giorni, mi raparono nuovamente a zero e mi
immatricolarono di nuovo: mi diedero il numero 138636, facendomi diventare un deportato
politico, da prigioniero militare che ero. Non so per quale motivo. Il 20 aprile del ’45
abbiamo cominciato a fare la marcia della morte. Man mano che camminavamo, chi
cadeva per terra, veniva ucciso. Io sono partito con 40 di febbre. Due italiani, un ex
carabiniere che aveva fatto la ritirata della Russia e un mio compaesano – che non so
come si chiama, perché lì, cari miei, i nomi non li sapevo! – mi hanno trascinato per tre
giorni. Il primo giorno ci siamo fermati in un fienile, dove mi hanno buttato addosso due
balle di fieno e il caldo del fieno mi ha dato un po’ di respiro; l’indomani mattina mi
sembrava di sentirmi un po’ meglio, ma le ghiandole dell’inguine si erano ingrossate e
m’impedivano di camminare, per il dolore. Comunque, sono riuscito a tirare avanti per tre
giorni e il quarto giorno avevo anche un po’ di fame. Strisciavo le punte dei piedi, ma
questi due ragazzi continuavano a tirarmi... Con un soldato della SS che mi puntava il
fucile sempre dietro la schiena, perché aspettava che cadessi per terra per ammazzarmi.
Ad alcuni è capitato per disgrazia, ad altri per aver fatto i furbi: sono morti tutti.
Il quarto giorno , vedendo che non potevamo andare più da nessuna parte, ci hanno spinti
dentro un bosco. La mattina ci fecero andare a prendere un po’ d’acqua, per bere. C’erano
dei miei amici – forse loro avevano più coraggio di me, io avevo un altro stomaco – che
raccoglievano l’erba e se la mangiavano cruda... Prima di partire mi avevano dato un
pezzo di filone di pane e una scatoletta. Dato che non potevo camminare, per alleggerirmi,
ho passato il mio zainetto ad un compagno, che forse aveva più fame di me e si mangiò
tutto: quando mi venne fame, mi venne una crisi di nervi, ma comunque passò tutto. Alla
sera, un ragazzo aveva raccolto delle ortiche – era un contadino e forse era più – per
bollirle. Dopo averle mangiate, durante la notte, mi è venuto un forte mal di stomaco, forse
perché ero stato senza mangiare per tre, quattro giorni o forse perché la buttavo giù intera.
Ad un certo punto ci hanno portato anche dei pacchi, dicendo che erano della Croce
Rossa Canadese. In realtà, non so di chi fossero, comunque hanno portato dei pacchi:
ogni pacco conteneva cinque chili di viveri da dividere in cinque persone. Molti si sono
messi a mangiare con voracità, senza controllo, e qualcuno è anche morto, perché il
nostro stomaco si era rimpicciolito e noi non eravamo più in grado di digerire e saziarci.
L’indomani mattina ci hanno messo di nuovo in cammino. Era un camminare a piedi avanti
e indietro: qualche volta guardo la cartina geografica, ma non riesco a rendermi conto. La
Croce Rossa aveva dato per ordine che chi non poteva camminare doveva essere lasciato
al margine della strada. Io non potevo più camminare e in più, durante la notte, un insetto
mi aveva morso il naso, che diventato grosso, una cosa sproporzionata. Perciò sono
rimasto con altri compagni ad aspettare la Croce Rossa. Per ripararci, ci siamo infilati
dentro un fienile sulla strada. Dopo qualche giorno è arrivato un altro camion, che ci ha
lasciato un altro pacchetto da due chili e se n’è andato. Siamo stati ancora altri due giorni.
Erano i primi di maggio – il tre, quattro maggio, non ricordo esattamente, ma era
comunque quel periodo – quando sono arrivate le SS, che a colpi di calcio di fucile nella
schiena – sembrava ci spezzassero la schiena – ci hanno fatto uscire da questo fienile.
Ero più nudo che vestito, avevo una coperta e me la sono messa sulla testa: sembravo un
barbone. Siamo andati verso il centro di un paese – non so quale fosse – e, arrivati lì, ci
ha visti un vigile, che ci ha portato dentro il Municipio, dove ci hanno dato un piatto di
zuppa di piselli. Mentre ero lì, ho sentito dire a che a pochi chilometri di distanza c’erano i
Russi che avanzavano. Abbiamo dormito per terra. L’indomani mattina sono venuti due
olandesi, che hanno cominciato a dire: “Italiens, la guerre est finie!”. Non ci potevo
credere. Poco più in là, c’era un treno abbandonato. Siamo andati a vedere: abbiamo
trovato delle divise, della roba da mangiare, delle medicine, insomma le SS si erano
spogliate e avevano abbandonato tutto per fuggire. Io, che ero più nudo che vestito, ho
preso un giubotto della SS e me lo sono messo.
I Russi stavano avanzando e sapevamo che avevano l’intenzione di raccogliere tutti i
prigionieri, per portarli di nuovo a lavorare, nei campi di concentramento in Russia. Non
sapendo parlare né il russo né il tedesco, siamo andati alla stazione per scappare e
andare verso gli Inglesi. Siamo arrivati in stazione, dove abbiamo incontrato un siciliano
che ci ha detto: “Ma dove andate? I Russi vi portano a lavorare nel Lager”. Così siamo
tornati indietro con il treno. Durante il viaggio, ho incontrato dei deportati che erano nel
Lager Dora, non so di che nazionalità fossero, se svedesi, olandesi, non so, c’erano tutti
nel Lager Dora e Ellrich. Questi due ragazzi ci dissero di saper parlare un po’ il francese e
di andare con loro. Siamo andati quindi in un posto di smistamento, era il confine tra Russi
e Inglesi. Siamo andati lì, mi hanno chiesto il mio nome e cognome, ma io ho detto subito:
“Sono tre giorni che non mangio, mi dia un pezzo di pane!”. Ci hanno dato del pane e ci
hanno portato sopra i camion degli inglesi, dove c’erano sigarette, scatolame, ogni ben di
Dio: a noi mancava tutto, mentre lì c’era tutto. Ci hanno trasportato ad Amburgo, dove ci
hanno spogliato e disinfettato, con tutta quella polvere addosso, poi ci hanno fatto andare
a mangiare. C’era tanto pane bianco buttato per terra e noi, che eravamo morti di fame, ci
siamo messi a raccogliere tutti i pezzi che trovavamo, allora altri ragazzi ci hanno detto:
“Ma come? Cosa raccogliete? Qui si mangia cinque volte al giorno. Gli inglesi ci chiamano
in continuazione per andare a mangiare”. Comunque, per precauzione, un po’ di quel pane
me lo sono preso, non potevo sapere cosa poteva succedere...
Dopo qualche giorno ci hanno fatto una visita per vedere se, sotto l’ascella, avevamo lo
stesso gruppo sanguigno delle SS. Poi mi hanno mandato in un paesino vicino, dove
incontrai degli italiani – erano napoletani – con cui sono scappato. Uno di loro, che era
addetto alla cucina, mi ha detto: “Non ti preoccupare, usciamo”. Era mezzanotte.
Purtroppo abbiamo incontrato degli inglesi, che ci hanno arrestato e ci hanno portato in
carcere, in un vero carcere, dove siamo rimasti per otto giorni. Ci hanno portato in
tribunale, ma non capivo niente... Insomma, sono ritorna to di nuovo nel campo di
concentramento dov’ero prima e gli inglesi mi hanno messo di nuovo a lavorare. Io avevo
una fame... Ci hanno dato una divisa inglese, perché non avevamo niente. Siccome ho
lavorato poi in cucina, per lavare le gamelle, ho potuto mangiare carne grassa e, se mi si
vede nella fotografia scattata dopo la liberazione, sono bello gonfio, sembro un pallone.
Solamente dopo quindici giorni che ero arrivato a Caltagirone, nel mio paese, mi sono
sgonfiato completamente, tanto che nessuno mi credeva. Dicevano: “E poi dicevano che
hanno sofferto! E come mai stanno così?”. Per trentuno anni non ho parlato più di
prigionia, perché nessuno mi credeva, anzi ancora oggi certuni si fanno delle risatine,
specie in Sicilia, perché nel meridione la guerra non l’hanno vista com’è stata fatta nel
nord.
Sono rientrato in Italia e sono arrivato nel mio paese il 28 settembre del 1945. Per tornare
a casa, ho impiegato diciotto giorni di carri bestiame. Questa è la mia storia e la mia
disgrazia. Però ringrazio Dio che sono ancora vivo. Non so se è stato un miracolo, se è
perché ero particolarmente sano e il mio sangue veramente buono. Forse è stata fortuna,
tutti i deportati che sono rientrati, tutti hanno avuto un tantino di fortuna, tutti.