Recensione - accademia degli intronati
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Recensione - accademia degli intronati
ANNA BENVENUTI (a cura di), La spada nella roccia. San Galgano e l’epopea eremitica di Montesiepi, testi di Anna Benvenuti, Glauco Maria Cantarella, Eugenio Susi, Italo Moretti, Isabella Gagliardi, Fabio Gabbrielli, Riccardo Francovich, Alessandra Nardini, Andrea Conti, Franco Cardini, Firenze, Mandragola, 2004, pp. 171. Il volume rappresenta la pubblicazione degli atti prodotti in occasione dell’omonimo convegno di studio svoltosi sotto la guida di Anna Benvenuti il 20 ed il 21 settembre 2001 presso l’abbazia di San Galgano dedicati alla poliedrica e, assai spesso, travisata, figura del santo di Chiusdino come pure a tutta una serie di fenomeni religiosi, insediativi, architettonici, antropologici direttamente e/o indirettamente collegati alla sua vicenda storica ed agiografica. Come sottolineato da Anna Benvenuti nel suo saggio introduttivo, Medioevo open source, il tema del “santo cavaliere” che al termine di una vita avventurosa e dissipata intraprendeva un percorso interiore di conversione e di pentimento rinunziando alla mondanità e ai principi della laicità simbolicamente sottesi alla vestizione cavalleresca sancendo in questo modo il proprio passaggio dalla militia saeculi alla militia Christi, corrisponde ad un diffuso topos agiografico cronologicamente riconducibile ad un periodo che va dagli ultimi decenni del XII secolo agli inizi del XIII secolo. Esso fu il risultato di un processo di sintesi tra l’epopea guerresca dei cavalieri e quella penitenziale dei santi che proprio in quei decenni stava producendo e legittimando una nuova spiritualità cavalleresca veicolata in tutta Europa attraverso il repertorio narrativo dell’epica: dalle chansons de geste ai romanzi del ciclo del Graal. La contemporanea contaminazione semantica tra la figura del miles e quella del monacus, originatasi all’indomani del fenomeno crociato e della conseguente creazione degli ordini cavalleresco-militari, fu infatti espressione di una nuova rilettura in termini mistici ed ascetici del tema della militia, tesa adesso, sulla base del programma ideologico formulato da Bernardo di Chiaravalle, al raggiungimento di un percorso di purificazione interiore. In un tale contesto, mette in risalto la Benvenuti, “le imprese dei cavalieri si saldarono spesso con le avventure dei santi, generando una “materia” di carattere epico-agiografico che offrì il suo repertorio a molte delle leggende di fondazione con cui si legittimò la rinascenza monastica e antropica dell’Europa”. Il caso agiografico di Galgano Guidotti da Chiusdino è uno dei più noti esempi di questa interazione culturale e rappresenta una vicenda importante per quanto concerne lo studio e l’indagine di molteplici aspetti: dalle componenti storico-politiche a quelle più marcatamente religiose, dalle suggestive elaborazioni antropologiche connesse con la sua leggenda agiografica ai frequenti rimandi nei confronti del ciclo arturiano. L’intervento di Glauco Maria Cantarella, Cluniacensi e cistercensi (secoli XI e XII), ripercorre la storia istituzionale dei due ordini monastici francesi, cluniacensi e cistercensi, evidenziando similitudini e difformità ideologiche e logistiche. Lo studio si sofferma in particolare sulle relazioni promosse dalle due realtà religiose nei confronti del papato e delle varie signorie e monarchie europee in relazione alla loro diversa capacità di attrazione ed auto-promozione: più osteggiato l’ordine cluniacenze, meno avversato – e quindi maggiormente diffuso – quello cistercense sino al punto di essere assunto, a partire dal pontificato di Alessandro III, a modello generale per tutte le esperienze monastiche coeve. Cantarella, studioso impegnato da molti anni nell’analisi del fenomeno cluniacense, offre in queste pagine un prezioso compendio sull’argomento accompagnato da puntuali rimandi bibliografici volti ad evidenziarne gli studi principali, rilevando, in taluni casi, anche l’inesattezza di alcune sorpassate interpretazioni di cui talvolta, sottolinea l’autore, permangono tracce anche all’interno degli studi più recenti. Eugenio Susi invece, già attento studioso della figura di Galgano, propone nel suo saggio, La memoria contesa: il dossier agiografico di San Galgano, una lettura volta ad evidenziare come la redazione delle molteplici e, sotto vari aspetti, discordanti scritture agiografiche facenti capo al santo di Chiusdino siano riconducibili ai molteplici tentativi da parte degli ordini agostiniano e cistercense di rivendicare l’esclusività del culto di Galgano. Lo studio chiarisce come alla morte del santo chiusdinese, fissata dalla tradizione agiografica nell’anno 1181, l’eredità spirituale di Galgano sia stata originariamente raccolta dalla piccola comunità eremitica di religiosi di cui egli in vita aveva fatto parte. La promozione, di lì a una decina d’anni, da parte del vescovo volterrano Ildebrando Pannocchieschi, dell’insediamento cistercense a Montesiepi determinò l’assuefazione del culto di Galgano Guidotti alla tradizione del nuovo ordine religioso il quale ne avrebbe fatto uno dei propri padri fondatori. Tale evento produsse l’abbandono di Montesiepi da parte della primigenia comunità eremitica, la quale, dopo aver edificato ulteriori insediamenti in territorio toscano, al pari di altre esperienze ascetiche della penisola, finì per confluire nella Magna Unio agostiniana del 1256 dando origine ad un proprio insediamento entro la cerchia urbana senese. A partire da questo momento, sostiene il Susi, la rivendicazione del culto di Galgano da parte dei due ordini religiosi trovò uno dei suoi ideali e metaforici ‘terreni di scontro’ nella redazione alternata di testi agiografici tesi di volta in volta ad evidenziare l’adesione da parte del santo di Chiusino ora ai modelli cistercensi e guglielmiti, ora a quelli agostiniani dando vita da una ‘disputa’ agiografica perpetuata sino alla metà del XVII secolo quando sopraggiunse il definitivo abbandono dell’abbazia da parte dei cistercensi. Italo Moretti, nel suo contributo, La rotonda di San Galgano sul Monte Siepi, presenta invece una dettagliata analisi architettonica della cappella di Montesiepi attraverso la quale vengono proposte suggestive ipotesi di confronto con altri edifici più o meno coevi in grado di offrire interessanti rimandi alle realtà storico-religiose entro le quali maturarono l’esperienza eremitica successiva all’episodio galganiano, e, in un secondo tempo, la vicenda cistercense. Lo studio mette in evidenza come l’apparato bicromo della cappella di San Galgano, riconducibile nella sua parte basamentale e centrale alla fine del XII secolo e sovente ricondotta ad un modello cistercense o senese, risulti invece più coerentemente inquadrabile in un ambito di influenza volterrana presumibilmente sotto forma di rielaborazione in chiave locale del cromatismo pisano. Anche il motivo delle decorazioni in cotto con andamento radiale presente nella fronte dell’arco di accesso al portico viene ricondotto a motivi lucchesi, pisani, valdelsani ma certamente non senesi. Moretti sottolinea inoltre come la poco usuale forma circolare della cappella, diversificandosi per finalità costruttiva dall’edificio battesimale, sia una diretta conferma di come un modello architettonico con funzione celebrativa a pianta centrale non sia mai venuto meno durante i secoli centrali del medioevo; tanto che, proprio sulla base del confronto nei riguardi di altri edifici più o meno simili e coevi – fra i quali spicca in particolar modo la cappella ottagonale di Santa Maria a Dofana –, lo studioso propone un’ipotesi di ricostruzione dell’originaria copertura della cappella presumibilmente costituita da una cupola realizzata con un sistema di muratura affine alla volta. Ed è proprio il paragone di una simile copertura nei confronti di quelle facenti capo ad alcune piccole chiese correlate ad eremi della Maremma di matrice guglielmita a spingere l’autore a proporre per la prima volta un suggestivo e provocatorio accostamento anche sotto il versante architettonico dell’esperienza galganiana con quella eremitica facente capo a Guglielmo di Malavalle. Isabella Gagliardi dedica invece le sue pagine a Il culto di san Galgano a Siena tra Medioevo ed Età Moderna, evidenziando come la devozione del santo di Chiusdino, inizialmente promossa a livello locale dagli eremiti di Montesiepi, sia stata successivamente sostenuta e divulgata in Siena attraverso l’operato dei monaci cistercensi. I legami sempre più stretti tra il Comune senese e l’Ordine determinarono infatti per riflesso la progressiva introduzione del culto di Galgano nel novero dei santi cistercensi venerati in ambito civico sin dai primi decenni del XIII secolo fino al 1403 quando, in seguito alla partecipazione da parte dell’abate di San Galgano alla così detta congiura dei Galeazzi ai danni del governo senese, il comune si appropriò della più importante reliquia dell’Ordine – vale a dire la testa di san Galgano – mettendo in moto un meccanismo di acquisizione a livello civico del culto connesso. La raffigurazione di Galgano tra i dodici santi cittadini – evidente trasposizione dei dodici apostoli – dipinti nel 1445 dal Vecchietta sull’Arliquiera rappresenta una chiara testimonianza del graduale inserimento del santo chiusdinese all’interno del pantheon religioso senese. Una presenza quest’ultima destinata a protrarsi nel tempo, tanto da indurre, alla fine del XVI secolo, Francesco Vanni nella sua Veduta della città di Siena e delle sue sante glorie a proporre una triade senese – successivamente ripresa anche da Ventura Salimbeni nella realizzazione tra il 1608 e il 1611 di un affresco da collocarsi in duomo –, in cui al fianco di san Bernardino e santa Caterina veniva accostata la figura di Galgano, ormai definitivamente annoverato come uno dei santi senesi più venerati. Il saggio di Fabio Gabbrielli invece, Il cantiere della chiesa gotica: maestranze e tecniche costruttive, si interroga sulle modalità di trasmissione dei ‘modelli architettonici’ che hanno fatto capo alla costruzione dell’abbazia di San Galgano evidenziando il ruolo ivi svolto dai religiosi a livello progettuale e materiale oltre che in relazione ai rapporti da loro intrattenuti con le varie maestranze. Lo studio evidenzia come i monaci avessero il controllo totale del progetto anche se non pare che essi siano intervenuti per uniformare le molteplici tecniche costruttive determinate dall’impiego, nel corso di tutto il XIII secolo, di maestranze diverse: nella prima metà del secolo il cantiere annoverava infatti scultori di formazione cistercense-borgognona e lapicidi toscani provenienti dall’area pisana e valdelsana, mentre nella seconda metà del secolo, seppur non estinguendosi mai la collaborazione nei confronti di maestranze pisane o d’oltralpe, in virtù del forte avvicinamento dei monaci alle istituzioni cittadine senesi vennero impiegati nella costruzione dell’abbazia la medesima manodopera scultorea che proprio in quegli stessi anni veniva impiegata nei lavori del duomo di Siena. Riccardo Francovich e Alessandra Nardini passano poi ad illustrare le Vicende insediative del territorio di Chiusdino fra Tardo Antico e Basso Medioevo evidenziando le corrispondenti e, sotto alcun punti, peculiari linee evolutive del popolamento della Val di Merse. Gli studiosi mettono in evidenza come dal VI secolo in poi risulti documentabile nella zona un tessuto insediativo disposto in maniera non pianificata costituito dall’aggregazione spontanea di più unità familiari con un’economia sostanzialmente chiusa ed articolata per lo più in produzioni mirate a soddisfare il fabbisogno interno. Agli inizi del VII secolo invece viene fatta risalire una progressiva riorganizzazione insediativa in complessi di villaggio per effetto della comparsa in loco di strutture ecclesiastiche e di iniziative a carattere signorile. Il fenomeno dell’incastellamento viene invece ricondotto all’ingerenza nella zona dei conti della Gherardesca e dell’episcopato volterrano i quali, attraverso diverse modalità di gestione dello spazio rurale, operavano per definire la loro sovranità sul territorio. L’Alta Val di Merse si configurò dunque suddivisa tra la fine del X secolo e gli inizi dell’XI secolo tra il settore nord-ovest, sede degli interessi volterrani, ed il versante sud del poggio di Chiusdino, il Poggio della Badia e la Costa Castagnoli, area sottoposta all’influenza dei conti. In particolare, lo studio mette in luce come questi ultimi esercitarono il controllo diretto della zona sfruttando la posizione strategica del castello di Serena e la fondazione al suo interno di un’omonima abbazia benedettina in grado di svolgere il ruolo di coordinamento delle attività di produzione agricola della zona attraverso l’esercizio dei diritti sulle strutture molitorie da grano. Avvalendosi della diretta supervisione del castello di Miranduolo, inoltre, essi istruirono anche un controllo diretto sulle attività minerarie – estrattive e produttive – del chiusdinese meridionale. Lo scontro a fasi alterne per il controllo della zona tra la famiglia comitale della Gherardesca e la diocesi volterrana si tradusse nel corso del XII secolo nell’affermazione egemonica definitiva dell’episcopio e nella progressiva esautorazione dei conti. Nonostante tale supremazia, il tentativo da parte del potere vescovile di rivitalizzare la propria autorità attraverso la promozione della comunità cistercense in Val di Merse non ottenne l’esito sperato per effetto del progressivo scivolamento dell’abbazia nell’orbita senese. Gli scavi e la documentazione relativa hanno messo in luce come i cistercensi abbiano rivendicato un ruolo imprenditoriale nella gestione delle risorse del territorio procedendo al sistematico rilevamento di quote fondiarie nella zona finalizzato all’erezione ex novo e alla trasformazione di nuclei insediativi preesistenti in grance. La presenza dell’abbazia segnò un periodo di forte dinamismo economico e sociale per l’intero territorio chiusdinese sino alla metà del XIV secolo quando le concomitanti carestie, epidemie e incursioni belliche determinarono il definitivo decadimento della maglia insediativa della zona. Eugenio Conti ricostruisce le vicende istituzionali facenti capo a La confraternita di San Galgano di Chiusdino, compagnia documentabile sin dal 1348 alla quale alcune memorie, redatte alla fine del XVII dal dottor Giulio Vincenzo Bigini, adducono in maniera non comprovabile un’origine ben più remota e stabilita nell’anno stesso della canonizzazione del santo, vale a dire nel 1185. L’archivio della compagnia, conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, ha invece inizio a partire dal 1518 e mostra come all’epoca la confraternita si componesse di soli quindici membri di cui dodici confratelli – in aperto riferimento agli apostoli presenti nella leggenda agiografica galganiana –, un priore, un camerlengo ed un cappellano originariamente designato tra i monaci della vicina abbazia cistercense. La compagnia aveva sede nella casa natale di Galgano presso la quale risultavano documentate due chiese. Gli obblighi spirituali della confraternita consistevano nella celebrazione di funzioni e processioni annuali. A partire dal 1683 si procedette ad un allargamento del numero dei confratelli e all’introduzione nella compagnia delle donne. La soppressione di gran parte delle confraternite indetta nel 1785 dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo non fermò l’operato del sodalizio che continuò di fatto a svolgere le proprie attività sino al 1799 quando esso venne ufficialmente ricostituito ad opera delle famiglie chiusdinesi più abbienti. La sottrazione della sede in occasione dell’occupazione francese determinò il trasferimento della compagnia nella vicina chiesa di San Sebastiano; infine nel 1899 il governatore Piero Masserizzi ottenne dal comune di Chiusdino la cessione di uno degli oratori attigui all’originaria sede della confraternita, promosse tutta una serie di restauri, indisse una campagna di scavo presso l’eremo di Montesiepi alla ricerca delle sacre reliquie, patrocinò nuovi studi biografici sulla vita del santo e sostenne il recupero ed il trasporto gratuito dei defunti di misera condizione. Da allora, conclude il Conti, l’attività della compagnia è proseguita sino ai nostri giorni attraverso la promozione di attività di ordine caritativo-assistenziale e l’incentivazione del culto del proprio santo patrono. Chiude infine l’opera un suggestivo intervento di Franco Cardini, In luogo di conclusione. Riflessioni storico-antropologiche sul “passaggio del ponte pericoloso”: un tema escatologico comune al mazdaismo, al cristianesimo e all’Islam. Lo studio muove dall’analisi del sogno che, secondo la tradizione agiografica, avrebbe condotto Galgano sulla via della conversione religiosa; in esso egli veniva condotto dall’arcangelo Michele attraverso un cammino aspro e periglioso nel quale si imbatteva in un ponte lungo e stretto al di sopra di un fiume vorticoso e turbolento sovrastato da un mulino che muoveva incessantemente le sue pale, simbolo di vita terrena. Dopo aver passato il ponte, Galgano giungeva in un prato bellissimo e fiorito e di lì, attraverso un condotto sotterraneo, in Montesiepi, dove il santo aveva una visione dei dodici apostoli e di Dio. Con argomentazioni convincenti, Cardini mostra come l’impianto del sogno di Galgano si configuri come un cammino iniziatico, un viaggio nell’Aldilà attraverso il quale innalzarsi ad una nuova purezza spirituale, ideologicamente rappresentata dalla vita eremitica; un percorso nel quale i vari elementi del sogno assurgono ad altrettanti modelli culturali in grado di sottolineare il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti. In particolare, lo studioso mette in evidenza come il tema del passaggio di un “ponte pericoloso” sia un caratteristico archetipo, storicamente ed antropologicamente presente in numerose culture: dalla tradizione iranica a quella islamica sino a quella cristiana. Un “simbolo-chiave”, forse originariamente derivante dal mazdaismo e progressivamente diffuso anche nelle altre civiltà orientali ed occidentali, in grado di presagire uno scarsamente studiato substrato culturale comune nella configurazione cristiana e musulmana di un immaginario relativo al destino dell’anima dopo la morte. BARBARA GELLI