L`ANNUNCIO DEL VANGELO AI GIOVANI 1. L
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L`ANNUNCIO DEL VANGELO AI GIOVANI 1. L
L’ANNUNCIO DEL VANGELO AI GIOVANI 1. L’urgenza del tema L’annuncio del vangelo ai giovani costituisce oggi una questione di notevole importanza, se teniamo conto di quanto ci viene restituito dalle indagini recenti sul rapporto giovani e fede. In particolare faccio riferimento a tre ricerche: una condotta dall’istituto Iard, una dall’Osservatorio Socio-Religioso del Triveneto e una terza commissionata dalla rivista il Regno al dipartimento di sociologia dell’Università statale di Milano. L’indagine che ha suscitato molto scalpore è la prima. Realizzata a marzo 2010, su commissione del Servizio per il progetto culturale della Diocesi di Novara, dall’Istituto Iard, con questa indagine si è provato ad aggiornare un’altra indagine realizzata dal medesimo istituto di ricerca nel 2004 e pubblicata nel 20061. Ciò ha permesso una comparazione tra i dati. La pubblicazione completa della ricerca del marzo 2010 è stata annunciata per il mese di settembre 2011, ma i dati più rilevanti sono stati pubblicamente diffusi e rilanciati dalle maggiori testate nazionali. Essi sono: - i giovani italiani che si dichiarano cattolici sono oggi poco più della metà della popolazione totale (circa 8.000.000), con un decremento netto rispetto al 2004 del 14% (in termini assoluti circa 1.100.000); - rimane uno zoccolo duro di cattolici praticanti molto convinti (intorno al 12% della popolazione giovanile totale), - aumenta di poco, tre punti percentuali, il numero di giovani che si dichiara non credente/agnostico; - oltre l’80% dei giovani evidenza un’attenzione verso il sacro; - diminuisce in generale la partecipazione alla S. Messa, anche a quella di Natale e di Pasqua; - diminuisce la fiducia nella Chiesa come istituzione e nei suoi rappresentanti ufficiali (unica eccezione: i frati francescani); - aumenta la partecipazione a eventi più occasionali: pellegrinaggi, feste patronali, convegni culturali; 1 R. Grassi (ed.), Giovani, religione, vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2006. 1 - si riscontra una certa “confusione sotto il cielo” per quel che riguarda ciò che teologicamente si definisce la fides quae. Una seconda molto interessante analisi del rapporto giovani e fede è stata condotta dall’Osservatorio Socio-religioso Triveneto su un campione di 72 giovani della Diocesi di Vicenza. È un’indagine a carattere qualitativo e quindi con risposte aperte. Il tutto è ora finito in un possente volume dal titolo C’è campo? Giovani, spiritualità e religione2. Portando a sintesi i dati più salienti della ricerca, emerge: - la progressiva individualizzazione dei percorsi di definizione dell’identità del soggetto moderno che tocca anche la questione della fede e quindi il passaggio da un cristianesimo sociologico a un cristianesimo di scelta, che proprio nelle nuove generazioni trova la sua più ampia illustrazione; - la presenza nell’immaginario diffuso dei giovani di una Chiesa troppo interessata a dettare regole e a fissare paletti, come un’istituzione molto ricca e ancora come una fonte di potere; - l’imporsi di un atteggiamento etico fondato sul principio del rispetto e dell’interiorizzazione della norma; - l’inedito allineamento dei comportamenti delle giovani donne, in termini di disaffezione alla pratica della fede, a quelli dei coetanei maschi; - la fatica sempre più esplicita a cogliere il senso e la convenienza del riferimento a Dio nella propria esistenza, nel cammino dall’età giovanile verso la maturità; - la diffusione di una certa semicredenza per quel che riguarda alcuni contenuti del dogma cristiano; - lo sviluppo di una pluralità di forme della spiritualità, fortemente individuali e soggettive, qualche volta anarchiche; - la difficoltà ad appropriarsi della differenza qualitativa del testo del Vangelo rispetto ad altri testi. L’ultima indagine, che è bene aver presente, ha un respiro più ampio: non è rivolta solo al mondo dei giovani ma al più generale contesto della popolazione italiana. Commissionata dalla rivista il Regno al prof. Paolo 2 Marcianum Press, Venezia 2010. 2 Segatti dell’Università degli Studi di Milano, offre tre evidenze in merito alla fascia giovanile, che merita citare in modo diretto: - «La tendenza comune a ogni aspetto dell’identità religiosa è che i giovani, in particolare quelli nati dopo il 1981, sono tra gli italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in Chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga a essere cattolici». - «Lo scarto tra la generazione del 1981 [...] e la precedente nella propria adesione alla religione, segnatamente alla confessione cattolica, è così forte da non consentire di rubricarlo in una sorta di dimensione piana, in un processo dolce e lineare di secolarizzazione». - «Accanto allo scarto generazionale va poi richiamata la riduzione sostanziale della differenza di genere. Non vi sono differenze sostanziali tra gli uomini e le donne»3. L’uso della parola estraneità per indicare l’atteggiamento complessivo dei giovani rispetto all’esperienza di fede cristiana – non al sacro, non al trascendente – ovviamente colpisce molto. E in modo interessante anche un’altra indagine, meno strutturata, a dir il vero, ma rivolta a una popolazione di studenti liceali di cinque grandi metropoli del nostro Paese, giunge a usare questa stessa parola. Cioè negli studenti intervistati, scrivono i curatori dell’indagine, «si evidenzia un’ancora più accentuata rilevanza del fenomeno dell’estraneità alla dimensione religiosa»4. Si parla qui di ragazzi di 16-17 anni. Ora la questione dell’annuncio del vangelo ai giovani presenta il carattere dell’urgenza non solo per questi dati, ma soprattutto per il fatto che non è diminuito in questi anni in modo drastico la domanda dei sacramenti né la frequenza dei piccoli al catechismo e dei più grandi all’ora di religione. Ecco dunque il problema: come è possibile che dopo cinque sei-anni di 3 P. Segatti-G. Brunelli, Ricerca de Il Regno sull'Italia religiosa: da cattolica a genericamente cristiana, in il Regno/att n.10, 2010, p. 351. E. Besozzi (ed.), Tra sogni e realtà. Gli adolescenti e la transizione verso la vita adulta, Carocci, Roma 2009, 230. 4 3 catechismo, dopo tredici anni di irc i nostri giovani siano definiti “estranei” all’universo religioso cattolico? Insomma, che cosa ci è successo dal momento che non riusciamo più a produrre “credenti” giovani, ma giovani “estranei” alla fede? Inoltre i dati in luce pongono un’altra ragione di urgenza: ci troviamo di fronte a giovani estranei alla fede cattolica ma tuttavia in ricerca del sacro. Cioè prendono le distanze da noi, ma non accetterebbero mai di essere definiti “atei” perché semplicemente “non cattolici”. Insomma questi dati ci restituiscono l’idea diffusa che la Chiesa non è ritenuta dai nostri giovani un luogo competente per la ricerca del senso. 2. Che cosa ci è capitato? Ma che cosa ci è allora capitato? Cosa potrebbe rendere conto di una tale situazione di impasse? Perché dopo tanti anni di catechismo e di irc i giovani sono estranei alla fede? Perché questi stessi giovani che non si definiscono né atei né agnostici – se non in misura molto limitata – ma che si sentono piuttosto in ricerca disertano i luoghi ecclesiali, non li ritengono cioè competenti in riferimento alla loro ricerca di senso e di alimento per il loro spirito?Con molta fatica e grande dolore dobbiamo riconoscere che alcuni dinamismi della cinghia di trasmissione della fede ormai si sono come inceppati. Insomma, non riusciamo più a dire “Dio”; come comunità fatichiamo ad annunciare/trasmettere il Vangelo e a suscitare fede nelle nuove generazioni. Questo chiama in causa tutta la comunità e in particolare gli adulti. Vediamo.Dicevo di dinamismi che si sono inceppati: quali dinamismi? Vorrei evocarli, senza alcun intento nostalgico, ma semplicemente fenomenologico, grazie a un testo di un padre gesuita che racconta come egli sia entrato in contatto con Dio – la sua prima cattedra di teologia. «A casa mia la religione non aveva nessun carattere solenne: ci limitavamo a recitare quotidianamente le preghiere della sera tutti insieme. Però c’era un particolare che ricordo bene e me lo terrò a mente finché vivrò: le orazioni erano intonate da mia sorella e, poiché per noi bambini erano troppo lunghe, capitava spesso che la nostra “diaconessa” accelerasse il ritmo e si ingarbugliasse saltando le parole, finché mio padre interveniva intimandole di ricominciare da capo. 4 Imparai allora che con Dio bisogna parlare adagio, con serietà e delicatezza. Mi rimase vivamente scolpita nella memoria anche la posizione che mio padre prendeva in quei momenti di preghiera. Egli tornava stanco dal lavoro dei campi e dopo cena si inginocchiava per terra, appoggiava i gomiti su una sedia e la testa fra le mani, senza guardarci, senza fare un movimento, né dare il minimo segno di impazienza. E io pensavo: mio padre, che è così forte, che governa la casa, che guida i buoi, che non si piega davanti al sindaco, ai ricchi e ai malvagi... mio padre davanti a Dio diventa come un bambino. Come cambia aspetto quando si mette a parlare con lui! Dev’essere molto grande Dio, se mio padre gli si inginocchia davanti! Ma dev’essere anche molto buono, se gli si può parlare senza cambiarsi di vestito. Al contrario, non vidi mai mia madre inginocchiata. Era troppo stanca la sera, per farlo. Si sedeva in mezzo a noi, tenendo in braccio il più piccolo... Recitava anche lei le orazioni dal principio alla fine e non smetteva un attimo di guardarci, uno dopo l’altro, soffermando più a lungo lo sguardo sui piccoli. Non fiatava nemmeno se i più piccoli la molestavano, nemmeno se infuriava la tempesta sulla casa o il gatto combinava qualche malanno. E io pensavo: dev’essere molto semplice Dio, se gli si può parlare tenendo un bambino in braccio e vestendo il grembiule. E dev’essere anche una persona molto importante se mia madre quando gli parla non fa caso né al gatto, né al temporale! Le mani di mio padre e le labbra di mia madre mi hanno insegnato cose importanti su Dio!». Ecco il punto, allora: il luogo ove ogni cucciolo d’uomo può efficacemente imparare la presenza benevola di Dio, la Sua compagnia promovente – cioè il fatto che Dio abbia qualcosa ha che fare con la felicità, con la custodia e la promozione dell’umano – non è prima di tutto la Chiesa o la lezione del catechismo, quanto piuttosto gli occhi della madre e quelli del padre. Così pure gli occhi di tutti quegli adulti che per lui si renderanno nel corso dei giorni adulti significativi: dal dottore di famiglia al dentista, dal docente all’allenatore, dal maestro di musica a quello di danza o di equitazione. Solamente se quegli occhi riflettono qualcosa di quella luce, di quella vita, di quell’amore che Dio è, accade la possibilità che Dio venga 5 “detto”, indicato, insegnato ai più piccoli. Non basteranno le parole di un curato di città né quelle di uno di campagna, non saranno sufficienti le accurate e colorate istruzioni della più brava delle catechiste a restituire la forza originaria che gli occhi (le mani e le labbra) materni e paterni – gli occhi degli adulti – hanno nel dire Dio, ovvero nel comunicare la verità per la quale noi crediamo al Vangelo per vivere più umanamente. Non possiamo più rinviare oltre l’amara ammissione per la quale oggi di adulti credenti ne sono rimasti pochi in giro. Che di famiglie cristiane ne siano rimaste poche in giro. Non possiamo più farci illusioni, se non desideriamo continuare a “produrre” persone estranee alla fede. Come infatti non confessare che gli occhi degli adulti – in particolare quelli della generazione postbellica 1946 – siano diventati occhi freddi, cinici, a volte spenti, molto falsi, tanto autoreferenziali, addirittura privi calore, anche privi d’amore? Ma osiamo dire di più: sono diventati, quelli degli adulti, occhi atei. Ed è da questi occhi adulti atei - occhi che non hanno più riverbero della grandezza, della semplicità e dell’amore che Dio è - che si guarda il mondo, il destino di ciascuno e infine l’intreccio dei destini dei singoli da cui scaturisce una grammatica della vita e dell’umano. E sono esattamente questi occhi che i nostri cuccioli hanno così tanto affannosamente cercato e fissato per apprendere appunto come si sta al mondo. Gli occhi degli adulti sono la prima ed essenziale mappa del mondo e la prima lezione di teologia: il primo annuncio. Ed ecco il punto: da quarant’anni gli occhi degli adulti – di tanti, forse troppi adulti – non dicono più Dio. Hanno offerto risposte e istruzioni per la vita, dalle quali Dio è stato esiliato. Parlo in modo particolare di coloro che sono nati dopo il secondo conflitto mondiale. Essi che per primi, da una parte, hanno beneficiato e sono stati pure travolti dall’invasione del benessere, della tecnologia e della medicina (si pensi all’allungamento medio della vita di ben trent’anni e all’impossibilità oggi di morire in santa pace) e, dall’altra parte, sono stati pure coloro che hanno provocato e poi subito la rivoluzione culturale del Sessantotto (insieme alla scomparsa di tanti tabù sono evaporati pure l’idea del limite, della legge, degli stati di vita, del pudore). Ebbene proprio questi occhi di adulti postbellici hanno “taciuto” Dio. 6 Certo – non lo nego in questi quarant’anni (e qui la difficoltà di una diagnosi condivisa nella Chiesa) – sono stati ancora largamente richiesti i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti; certo, si sono portati in misura ampia i bambini alla Chiesa ma non si è portata la Chiesa ai bambini; certo, si è pure lottato perché i propri figli frequentassero l’ora della religione ma si è ridotta la discussione intorno alla religione solo alla frequenza o meno di quell’ora. Hanno invitato e inviato i loro figli alla preghiera e alla Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa, e i piccoli non hanno colto i loro genitori nel gesto della preghiera o nella lettura del vangelo.È così che è nata la generazione incredula: la generazione dei nostri ventenni e dei nostri trentenni, una generazione che non si pone contro Dio né contro la Chiesa, ma una generazione che sta imparando a vivere senza Dio e senza Chiesa, una generazione che sta vivendo perfino la propria ricerca di spiritualità senza la grammatica cristiana del mondo. Insomma: la frequentazione della Chiesa, il catechismo, l’assunzione dei sacramenti e l’insegnamento della religione, privati della testimonianza degli occhi dei genitori circa la convenienza elementare della fede, non ha ottenuto la consegna di una grammatica cristiana del mondo capace di interloquire con l’umano alle prese con la propria identità e addirittura con la propria tensione religiosa. Se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita. I genitori hanno fatto passare l’idea che Dio è un problema dei preti, dei vescovi, della Chiesa. Colpisce molto una recente osservazione di Papa Benedetto XVI ai giovani: egli ha raccomandato loro di «essere più profondamente radicati nella fede dei [loro] genitori» (pref. a Youcat). (cfr. “Chi ti ha parlato per la prima volta di Dio?” “La nonna”). A tutto ciò si aggiungano altri due dati: il primo che la nostra Chiesa fatica a riconoscere questa prima generazione incredula (impera ancora la figura immaginaria del “credente non praticante”) e continua nella ordinaria amministrazione delle cose, il secondo l’emergere di un nuovo ateismo che non solo dichiara Dio come inessenziale per la realizzazione umana, ma addirittura quale principale ostacolo per essa. 7 Da qui un triangolo davvero terribile: i giovani a casa hanno imparato una vita e un mondo vita senza paradiso, nella cultura diffusa (soprattutto a Liceo e all’Università) ricevono l’idea che Dio è contro la vita e contro la felicità umana, e quando infine vengono in Chiesa, poiché per noi loro sono già del tutto credenti (non praticanti), li riempiamo di istruzioni morali, di precetti e di verità da sapere, che però essi non sanno come raccordare con la loro esistenza, se non sul registro dei sensi di colpa. E quindi se ne vanno. 3. Verso dove puntare? Oggi siamo al punto in cui la questione dell’annuncio del Vangelo ai giovani non si può risolvere semplicemente nella questione di quale pastorale giovanile mettere in atto. La vera urgenza è: quale pastorale promuovere a livello locale per giovani con un alto tasso di estraneità alla fede? Il punto di orientamento è quello di provare a sfondare l’immaginario collettivo circa la questione Dio: per gli adulti e i giovani di oggi, Dio è essenzialmente una questione della Chiesa. Si deve invece far splendere quel legame custodito mirabilmente nel vangelo di Gesù tra Dio ed esercizio autentico della libertà, tra Dio e felice destinazione dell’umano, tra Dio e vita buona. Per fare questo bisogna provare a dis-integrare quei meccanismi pastorali che avallano, oltre le loro intenzioni, esattamente questo immaginario dell’inutilità umana di Dio e quindi provare a reintegrarli. Provo ad enunciare questi meccanismi pastorali da “dis-integrare” per una nuova pastorale che voglia fare i conti con giovani estranei alla fede: a) rapporto tra catechesi e sacramenti. Oggi catechesi e sacramenti sono troppo legati tra loro e non si riesce più a connetterli con la vita, con la dimensione della crescita nella libertà e nella fede. Il modello attuale è dominato dal fatto che tutti i bambini e tutti i ragazzi che hanno una certa età debbono “ricevere” quel sacramento e quindi seguire un percorso di catechesi. Ma oggi ciascuno di noi sa che si può essere nati nello stesso anno ma non avere la stessa età/maturità. Noi diamo l’idea di un cristianesimo monolotico, 8 uguale per tutti e per tutte le fasce d’età, mentre tutti nella società scommettono sui processi di individualizzazione/personalizzazione. Lo scenario che abbiamo davanti ci fa dire che, per esempio, non tutte le persone che hanno 13 anni stanno vivendo allo stesso modo. È finito il determinismo dell’età: quanta differenza tra un’infanzia con i genitori e una con genitori separati, quanta differenza tra il vivere in una famiglia cristiana e in una famiglia non più cristiana (se non per nome). Ci sarà da ripensare molto bene il discorso sulla questione dell’età della cresima, con giovani che hanno una prospettiva d’età molto lunga (cfr Lineamenta per il Sinodo sulla nuova evangelizzazione). A noi serve però già oggi far emergere l’idea che la catechesi serva per la vita e non per i sacramenti, di modo che si possa poi far emergere pure che i sacramenti servano per la vita e non sono come medaglie di guerra. Per far questo dobbiamo cambiare atteggiamento rispetto all’orizzonte che guida la nostra catechesi. L’orizzonte nel quale noi oggi ci muoviamo presuppone più o meno questo: ci sono persone che, in famiglia o in qualche altro modo, si sono affezionate a Gesù al suo messaggio o che sono molto incuriosite di Gesù e ora vogliono sentirne parlare, conoscerlo meglio. Questo è il presupposto fondamentale della nostra catechesi: che chi venga abbia già un sentimento, un affetto sincero, un interesse verso Gesù di Nazareth, verso Dio, verso la Chiesa. Questo presupposto orienta pure il nostro modo di fare catechesi: si danno per presupposto tante cose, un atteggiamento, un orientamento. Purtroppo questo ormai vale solo per pochi dei nostri ragazzi. Per i giovani la cosa è ancora più complicata. Per dire la distanza riporto la risposta di una studentessa di Roma alla domanda “cosa pensi di Gesù?”: “Gesù? Un tipo sfortunato. Il Capricorno è proprio un brutto segno. Ci tengo a sottolineare che Gesù è nato a Dicembre”. 9 rapporto tra liturgia e preghiera. La monocultura dell’eucarestia non ci rende attenti al fatto che non tutti sono capaci di pregare e di quella partecipazione attiva, richiamata dal Concilio. Non possiamo dare più scontato che uno che venga in Chiesa conosca l’arte della preghiera né possiamo più presupporre che ciascuno conosca le 9 regole dei riti, le soglie che contraddistinguono la sua entrata e messa in scena, i ritmi che ne sostengono la forza, la logica che ne anima l’esecuzione. Insomma il problema è l’effettiva o meno presenza di un’efficace mistagogia al ritmo e allo stile del dispiegamento del dispositivo liturgico che viene celebrato. Celebranti si diventa, non si nasce. Oggi, tuttavia, vi è bisogno come il pane della preghiera e per questo risulta urgente costituire luoghi ove si insegna a pregare. 9 rapporto tra amministrazione della parrocchia e accompagnamento delle persone. La scelta della parrocchia è una scelta vincente, ma, dato il calo dei preti, quanto spazio rimane a un prete per essere “prete” e non semplicemente un manager? Dato poi il generale regime di scarsa adultità oggi vigente, mi pare che la nostra comunità dovrebbe favorire il profilo elementare del prete: il suo essere appunto “prete”, ovvero alla lettera vecchio, anziano, esperto, mistagogo, maieuta, sapiente, profeta, uomo di ascolto e di Parola, che perciò può offrire parole di verità. Insomma, un vero adulto, un adulto autorevole, un adulto che sappia anche resistere, sbloccare e incanalare le passioni e l’energia dei giovani finché ciascuno di loro colga il proprio insostituibile posto nel concerto del mondo. Ma come unire questa esigenza (preti disponibili per l’ascolto) e le esigenze della parrocchia, che sono rimaste tali e quali, quando i preti erano più del doppio in Italia? Più concretamente ritengo allora urgente reintegrare diversamente gli elementi prima citati. Faccio alcune proposte: 9 ripensare la distribuzione delle energie pastorali (preti e suore) in modo da favorire una loro presenza effettiva nelle scuole, nelle Università e accanto alle giovani coppie. 9 ripensare la ferialità della vita di una parrocchia (forse diminuendo di numero le parrocchie, ove si dà il caso), mettendo più lectio divina nel corso della settimana: qui c’è il nostro tesoro. È nella sacra scrittura che ci viene incontro Gesù e la sua proposta di umanità compiuta, la quale davvero è capace di contagiare anche gli estranei. Cosa fanno i primi discepoli? Raccontano, raccontano, raccontano. 10 Da questo punto di vita bisognerebbe forse non parlare più solo di catechesi. Ci vogliono spazi veri di primo annuncio: luoghi ove si insegna a credere e: tu vieni qui e noi proviamo a farti innamorare di Gesù o far crescere in te una qualche curiosità maggiore di lui. Perché siamo convinti che Gesù è un grande aiuto per la tua esistenza. Siamo convinti che ciò che Gesù ha portato nel mondo sia la password fondamentale per ogni esistenza umana. E da parte nostra dovrebbe pensare il tutto come i corsi di lingua straniera: dove non si decide l’assegnazione per età, ma per punto di partenza. Si deve poi pure trovare lo spazio per corsi di iniziazione alla preghiera, al canto e allo spirito della liturgia. Si dovrebbe ancora prestare ascolto a come sta cambiando il mondo degli adulti: insomma fare una vera e propria lectio umana. Bisogna infatti ri-abilitare gli adulti nella loro originale e non surrogabile testimonianza del fatto che Dio è per l’uomo e non per la Chiesa. Dobbiamo puntare ad avere adulti felici e convinti di credere. Per tutto ciò non penso di affermare nulla di eretico dicendo che qualche messa d’orario feriale potrebbe essere spostata alla mattina, lasciando il pomeriggio-sera per queste attività, che non vanno aggiunte, ma devono “brillare” quale testimonianza della nostra presa di coscienza dell’estraneità che oggi vige nei confronti della nostra proposta di fede. 9 ripensare la domenica come tempo di festa e di sosta. Per questo forse meno messe alla domenica, in particolare a livello di forania o decanato, ma meglio preparate, con l’opportunità di avere preti liberi per ascoltare e accompagnare i giovani estranei nel loro cammino di conoscenza e scoperta della fede. Al riguardo, faccio mia un’osservazione del card. Kasper: «Guardando le cose su un lasso di tempo più lungo, bisognerà prendere le distanze da una forma di presenza della Chiesa “a pioggia”, che lascia più o meno tutto immutato ma porta anche a numeri sempre più ridotti, e passare invece a un’unione delle forze nelle Chiese che si trovano al centro. Così nei giorni domenicali e festivi vi si potrebbe sperimentare una vita ecclesiale piena invece di una vita sempre più ridotta e rarefatta». Solo così è possibile vivere la liturgia quale luogo dove elaborare “una (contro)cultura della festa”: una festa che nasce da 11 una duplice consapevolezza: prima “questo mondo non è il paradiso”. Questo ci permette di prende distanza da noi stessi, di non prenderci troppo sul serio (non è mica la fine del mondo!), di rinnovare la nostra volontà, i nostri propositi di bene. Di non cedere né credere all’onnipotenza del male e del reale. Di imparare la sottile ironia di Dio Seconda: che festa non è tempo libero/vuoto (free time), ma appunto tempo del riposo, di attesa, di rinvio, dello stare insieme, della generosità, tempo di gioia. 9 Rinnovare da ultimo lo spirito del Concilio Vaticano II, come coraggio di andare incontro, di mettersi in cammino, in ricerca, di lasciarci afferrare da una sana inquietudine. Non bisogna per nulla abituarsi all’assenza dei giovani. Dobbiamo rinnovare la nostra passione evangelizzatrice alla scuola dei primi discepoli, alcuni dei quali molto giovani quando decisero di seguire la chiamata di Gesù. Essi ebbero il coraggio di “tradurre” in greco le parole stesse di Gesù, le parole di Dio, e quindi di “perdere” qualcosa (l’originale aramaico del parlato di Gesù), pur di guadagnare alla fede molti uomini e molte donne. Don Armando Matteo, Assistente Nazionale Fuci 12