Sentenza N - Ordine degli Avvocati di Milano
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Sentenza N - Ordine degli Avvocati di Milano
Consiglio Superiore della Magistratura Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata del Distretto di Milano CRISI DELLA COPPIA E AFFIDAMENTO CONDIVISO Milano, 30 ottobre 2006 1 - Uno dei più evidenti caratteri distintivi della nuova normativa, improntata all’attuazione del principio della piena bigenitorialità, è rappresentato dal fatto che il legislatore sembra aver voluto accentuare una netta separazione tra l’essere coniugi, o partner, e l’essere genitori, quasi che i rapporti tra i genitori e i figli debbano divenire cosa ben diversa, e distinta, rispetto ai rapporti intercorrenti tra gli adulti; il nuovo articolo 155 c.c. attribuisce infatti, e persino con una certa enfasi, al soggetto minore una posizione di assoluta centralità, riconoscendogli dei diritti irrinunciabili – quale quello di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi – che finiscono con il tradursi in corrispondenti obblighi a carico dei genitori medesimi. Principale compito del quale giudici ed avvocati dovranno, allora, farsi carico senza indugio sarà quello di applicare la nuova normativa in modo da favorire i genitori nell’attuazione degli obblighi che gravano su di loro per la realizzazione dei diritti che il legislatore ha riconosciuto ai minori, e una simile finalità non potrà prescindere dal tentativo di evitare situazioni di potenziale conflitto; ma, nell’effettuare un simile percorso, non ci si deve dimenticare che il conflitto è tanto più evitabile quanto più alle parti si forniscano delle certezze, quanto a dire quei “paletti” all’interno dei quali creare uno spazio di vita e di gestione concreta della genitorialità dove diritti e doveri riescono a intrecciarsi in termini realmente sintonici. 1 Una simile premessa, che potrebbe apparire scontata, mi sembra invece opportuna, quantomeno per sfatare l’assunto che l’affidamento condiviso sia una conquista dei genitori – e, in particolare, dei genitori che in passato non avevano registrato successo nel rivendicare il ruolo di affidatari – e porre invece mente al fatto che tutto il nuovo impianto normativo ruota intorno al minore, ai suoi diritti e al suo interesse, così che questa notazione deve essere il punto di partenza e la chiave di lettura essenziale per ogni percorso interpretativo; e, del resto, la già rappresentata esigenza di contenere il rischio di conflitto impone al giudice di non vedere l’affido condiviso come rimesso alla saggezza e all’iniziativa dei genitori, ma di trovare un equilibrato punto di convergenza tra autonomia nell’esercizio della responsabilità genitoriale e diritto del minore a fruire di certezze e a non vedersi esposto a una sorta di anarchia nella gestione quotidiana della sua vita. 2 - (Art. 155 primo comma) Al diritto minorile non è certo estranea la nozione di “rapporti significativi” intrattenuti da un minore con i propri congiunti, posto che la disciplina sulla dichiarazione dello stato di adottabilità ne fa ripetuta menzione: una simile “significatività”, da intendersi quindi come consuetudine, interessamento, vicinanza affettiva e capacità di accoglienza e empatia nella gestione della relazione fa oggi ingresso ufficiale anche nella famiglia legittima (cfr. Cass. n. 3351 del 28 marzo 1991 e n. 7141 del 5 agosto 1996, ove si afferma che per rapporti significativi si intendono “quei legami affettivi che siano forti e duraturi, con manifestazioni di interesse ed assistenza concreta, atti ad esprimere la potenziale disponibilità e capacità dei parenti stessi di sopperire all’assenza o alle carenze dei genitori”). Così, il riconoscimento del diritto dei minori di conservare “rapporti significativi” con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale potrebbe a prima vista indurre a pensare che con questa formulazione il 2 legislatore abbia inteso riconoscere sul punto una legittimazione attiva a tali categorie di congiunti, tale da rendere ammissibile un loro intervento: una prima lettura della nuova disposizione suggerisce di dare una risposta tendenzialmente negativa perché il 2° co., che anche testualmente si raccorda in modo stringente con il precedente, indica il compito del giudice “che pronuncia la separazione” come volto a realizzare questa complessiva finalità programmatica, sì che – non essendo stata aggiunta alcuna migliore specificazione – può ritenersi che siano solo i coniugi (o, meglio, i genitori) abilitati a far valere questo diritto del minore che vede coinvolti i parenti del rispettivo ramo. Tuttavia, mi corre obbligo di segnalare che sono già state espresse opinioni di segno contrario, volte a negare agli ascendenti e agli altri congiunti la qualità di litisconsorti necessari ma a riconoscere loro un interesse all’intervento, ex art. 105 c.p.c., nell’ambito dei procedimenti di separazione, divorzio e affidamento, peraltro sulla linea di quanto già non di rado reputato ammissibile nelle controversie innanzi al giudice minorile (cfr. sul punto, Trib. Firenze, 22 aprile 2006, in Famiglia e Diritto, 2006, 291 ss., con nota adesiva di F. TOMMASEO, che ha riconosciuto agli ascendenti il potere di intervenire nel procedimento di separazione per far valere il proprio interesse a mantenere significative relazioni affettive con il nipote, attraverso un intervento adesivo dipendente. Contra, T.M. Bologna, decreto 15 maggio 2006, che ha invece escluso la sussistenza di un diritto soggettivo dei nonni autonomo rispetto a quello dei genitori del minore). L’effetto di una simile suggestione interpretativa sarebbe, fra l’altro, la moltiplicazione delle parti del processo, con un appesantimento che non è difficile immaginare: ed è per questo che ritengo preferibile riconoscere a tale nuova disposizione una valenza più sostanziale che processuale, nel senso di escludere la possibilità di intervento nel giudizio ma di ampliare il 3 possibile oggetto delle statuizioni che il giudice può assumere e delle condizioni che le parti, ovviamente, possono concordare. Alla luce di questa innovazione normativa potrà, allora, essere possibile – in un percorso decisionale che ruota intorno all’interesse del minore e alla cura delle sue esigenze affettive ed evolutive – riconoscere un ruolo anche, per esempio, ai nonni, attribuendo loro delle predeterminate possibilità di frequentazione; diventerà, invece, impossibile (nel senso di illegittimo, salva la prova di un obiettivo pregiudizio) il comportamento di un genitore che impedisca al figlio di intrattenere rapporti con i parenti dell’altro genitore e a questo principio dovrà il giudice attenersi, se del caso adottando provvedimenti volti alla migliore realizzazione di un diritto ora normativamente riconosciuto. Già oggi parte della dottrina si è posta su questa linea, rilevando come in questa nuova apertura verso il concetto di famiglia allargata sia al minore attribuito un diritto il cui correlativo obbligo non può che gravare sui genitori, tenuti a garantire la realizzazione del predetto interesse riconosciuto al minore (così, L. BALESTRA, in “Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso”, ove nel confermare la tesi qui esposta si segnala altresì come attraverso tale norma ritorni in auge un concetto di famiglia allargata, che in passato era basato essenzialmente sull’elemento della coabitazione mentre nell’ottica della nuova legge s’impernia sull’effettività del legame parentale). 3 – Un ulteriore momento di riflessione ci viene imposto dalla prima delle non poche improprietà tecniche presenti nel dettato normativo: il riferimento testuale al “giudice che pronuncia la separazione” e l’inserimento delle nuove disposizioni che seguono il novellato art. 155 c.c. non costituiscono una limitazione a questa specifica tipologia di procedimenti, dal momento che l’art. 4 co. 2 è chiaro nel prevedere l’estensione della normativa ai giudizi di c.d. divorzio e ai procedimenti 4 relativi ai figli di genitori non coniugati. Da qui, mancando nella specie una riserva “di compatibilità” analoga a quella che, in materia processuale contenuta nella Novella n. 74/1987, tanti fiumi di inchiostro ha fatto scorrere, può desumersi che non solo il precedente art. 155 ma anche l’art. 6 della legge sul divorzio siano stati abrogati in forza dell’avvenuta loro sostituzione. Tuttavia, problema non di poco conto sarà quello di verificare se le previsioni della disciplina anteriore che non si pongono in posizione di contrasto con la nuova normativa possano dirsi sopravvissute, e con ciò mi riferisco essenzialmente a quella dell’art. 6 co. 8 “in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore a uno dei genitori, il tribunale procede all’affidamento familiare di cui all’art. 2 della l. 4 maggio 1983, n. 184”, peraltro non particolarmente dissimile da quella contenuta nell’anteriormente vigente art. 155, co. 6 (“in ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità, presso un istituto di educazione”). L’indicata questione di coordinamento sistematico tra vecchia e nuova disciplina è stata, del resto, affrontata (cfr. M. PALADINI, in “L’abitazione della casa familiare nell’Affidamento Condiviso”, in Famiglia e Diritto, 2006, 3, p. 329 ss., dove l’A. riprende le linee della relazione tenuta al Convegno organizzato dalla A.N.M. a Roma il 29 maggio 2006) con riguardo al tema dell’assegnazione della casa coniugale e risolta nel senso che l’avvento della riforma non può intendesi avere abrogato disposizioni che, quantunque non espressamente reintrodotte nel nuovo testo, risultino in grado di meglio tutelare l’interesse dei figli, atteso che proprio questa tutela rappresenta il principio informatore della legge n. 54. Qualora, invece, si dovessero ritenere abrogate simili disposizioni perché non riprodotte nel novellato art. 155 si giungerebbe a concludere che al giudice della separazione e del divorzio non sia consentito far luogo 5 all’affidamento a terzi e, in particolare, all’ente territoriale, strumento stimato essenziale, e pertanto non di rado utilizzato, al fine di preservare il minore da quella troppo accesa conflittualità tra i genitori che, traducendosi in una loro solo limitata adeguatezza, viene ad incidere sulla loro capacità di fare fronte alle sue più complete esigenze, pur nella conservazione del collocamento presso l’uno o l’altro: la conseguenza sarebbe che, pur di fronte a una accertata inidoneità di entrambi (o, meglio, a una solo parziale idoneità di ciascuno), il giudice ordinario non avrebbe altra scelta rispetto a quella di trasmettere gli atti al tribunale per i minorenni, a questo demandando ratione materiae la valutazione circa la sussistenza dei presupposti per provvedimenti limitativi e/o ablativi della potestà, così finendo con il non poter portare a compimento il processo di separazione o di divorzio, nel senso di pervenire ad una sentenza che pronunci su tutte le domande proposte (sulla stessa linea, G. DOSI, in “Le nuove norme sull’affidamento e sul mantenimento dei figli e il nuovo processo di separazione e divorzio”, Relazione tenuta al Convegno della A.N.M. in Roma, 29 maggio 2006, ove si sottolinea ulteriormente che l’affidamento a terzi o l’affidamento familiare disposto in sede di separazione o divorzio non limitano la titolarità della potestà dei genitori, a differenza di quanto si verifica quando questa soluzione è adottata dal T.M. con provvedimento elettivamente limitativo o ablativo della stessa). Molta cautela dovrà dunque essere adottata nell’affrontare questo tema, atteso che la nuova disciplina vede ancor di più il proprio epicentro nell’interesse del minore e questo superiore interesse è stato oggetto di diverse pronunce di legittimità (cfr. ex plurimis, Cass. 8 maggio 2001, n. 6970, in Famiglia e Diritto, 2003, 319 ss., con nota di A. FIGONE) che hanno riconosciuto al tribunale ordinario la possibilità di giungere ad un affidamento a terzi ove soluzione necessaria per approntare un’efficace tutela: non penso, pertanto, che il legislatore della Riforma abbia 6 consapevolmente voluto escludere una simile possibilità e, di fatto, negare un principio – quello del ricordato superiore interesse del minore – che è del resto immanente ed elemento fortemente caratterizzante in tutto l’ordinamento positivo 1 . Si è, d’altronde, già sottolineato che il nuovo impianto normativo lascia intendere che la bigenitorialità non costituisce una pur legittima rivendicazione del genitore bensì la principale espressione di un diritto soggettivo del minore, da “collocare nell’ambito dei diritti della personalità” (in questo senso, v. M. SESTA, in “Le nuove norme sull’affidamento condiviso: profili sostanziali”, in Famiglia e Diritto, p. 377 ss.,4, 2006), così che il filo conduttore dell’operato dell’interprete dovrà essere individuato proprio nella necessità di approntare adeguata tutela a siffatto prevalente diritto. 4 - Perché il legislatore ha scelto il termine affidamento condiviso e non ha utilizzato, per perseguire l’obiettivo di una forma generalizzata e 1 Si noti che nella citata sentenza la Suprema Corte ha sottolineato che “in materia di affidamento dei figli minori il giudice della separazione deve attenersi al criterio fondamentale – posto dall’art. 151, comma 1, c.c.- dell’esclusivo interesse morale e materiale della prole e deve avere cura di adottare soluzioni che siano le più idonee a ridurre al massimo, entro i limiti consentiti da una situazione comunque traumatizzante, i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore, in quel contesto di vita che risulti più adeguato a soddisfare le sue esigenze materiali, morali e psicologiche….Il principio fondante della tutela dell’interesse del minore comporta, infatti, che la posizione del genitore in relazione all’affidamento si configura non come un diritto, ma come un munus e il giudice della separazione non è chiamato ad attribuire all’uno o all’altro dei genitori uno o più diritti o uno o più poteri, ma ad individuare, nella prospettiva di un programma normativo di tutela dei minori, interventi e misure idonee a ridurre il rischio di danni per lo sviluppo dei figli coinvolti nella crisi familiare (Cass. n. 5714/2002)”. Queste essendo le affermazioni di principio cui il giudice di merito deve informare il proprio intervento, appare difficile, se non persino impossibile, ipotizzare che la normativa di nuovo conio abbia inteso attuarne un superamento. 7 primaria, quello di affidamento congiunto, già presente nell’ordinamento a seguito della Novella n. 74/87 ? La risposta più ragionevole è che abbia voluto introdurre una fattispecie per taluni aspetti diversa, così da accentuare la piena compartecipazione dei genitori ai compiti di cura e crescita del figlio (v. ancora SESTA, op. cit., il quale sottolinea che condividere significa letteralmente spartire insieme con altri): nella specie ciascun genitore spartisce con l’altro la cura e i compiti educativi del figlio e l’affidamento è condiviso in quanto è ripartito fra i genitori, così da differenziarsi nettamente da quello congiunto, che vede invece i genitori esercitare il loro ruolo insieme (cioè, ancora per tale Autore, “a mani unite”). 5 – (Art. 155 secondo comma) L’attenzione va posta sull’avverbio prioritariamente, che impone, nell’ottica dei principi del nuovo sistema, al giudice di valutare prima di ogni altra soluzione quella dell’affidamento ad entrambi i genitori (concetto dunque volutamente difforme, per quanto dianzi detto, rispetto a quello dell’affidamento congiunto), salvo poi decidere diversamente ove non ne riscontrasse la concreta possibilità: così, il sistema di indagine ha subito un’inversione rispetto al passato e si è “ribaltato” per espressa previsione di legge. Per le parti sarà, dunque, doveroso anche in via autonoma verificare anzitutto la possibilità di applicazione nei loro rapporti della regola “primaria e generale”, mentre per il giudice la ricaduta immediata sarà anche quella di un maggiore obbligo di motivazione, sempre e, credo di potere affermare, anche quando le parti non abbiano fatto espressa richiesta di questo regime, quanto a dire anche quando le domande avanzate in giudizio vadano nella direzione di un affido monogenitoriale (cfr. Trib. Bologna, 9 maggio 2006, che ha disatteso la richiesta conforme delle parti di disporre l’affido esclusivo alla madre e ha fatto applicazione di quello generale condiviso, sul rilievo che “si verte in materia di diritti del 8 minore indisponibili e che non sono emerse situazioni di pregiudizio per il minore o altre circostanze ostative all’applicazione della disciplina del c.d. affidamento condiviso”). La riferita “inversione” dei regimi previsti, suggellata dall’utilizzo dell’avverbio prioritariamente, comporta che il percorso di indagine sia quindi ribaltato e coinvolga, certo non ultimi, anche gli ausiliari del giudice (gli esperti che assumano la veste di CTU) e le figure professionali che, pur nel retro del processo e senza un ingresso diretto nell’arena del conflitto giudiziario, hanno oggi trovato riconoscimento nell’ambito della gestione e della promozione delle risorse genitoriali, e cioè i mediatori familiari: gli uni e gli altri dovranno, al pari dei giudici, delle parti e dei loro legali, abituarsi a valutare prima di ogni altra ipotesi la fattibilità di un regime di affidamento condiviso, solo in caso di verifica negativa passando all’esame di una possibile, e subordinata, soluzione monogenitoriale. Mi sembra importante segnalare che, proprio nel rispetto dell’ottica finalistica delle nuove norme, l’affidamento ad entrambi i genitori non possa essere escluso solo in presenza di dissapori o contrasti all’interno della coppia, così restando superato un orientamento in precedenza diffuso che vedeva nell’esistenza del conflitto tra gli adulti la prova della loro incapacità di cooperare come genitori e, quindi, dell’impossibilità di pervenire ad un affidamento “congiunto” della prole: sarà, invece, da oggi in poi necessario verificare la sussistenza di circostanze e/o caratteristiche personologiche inerenti l’uno o l’altro genitore destinate a ripercuotersi negativamente sui figli e tali da divenire per loro pregiudizievoli ove amplificate dall’applicazione del nuovo regime di affidamento condiviso. Si vedano sul punto, T.M. Milano, decr. 20 giugno 2006 (si applica l’affidamento condiviso anche nei casi in cui vi sia mancanza di spirito collaborativo o siano presenti difficoltà di comunicazione tra i genitori, con la previsione che in questi casi è del resto opportuno l’esercizio disgiunto 9 della potestà per le questioni di ordinaria amministrazione), Trib. Catania, ord. 5 giugno 2006 e Trib. Catania, ord. 18 giugno 2006 (che nel disporre l’affido esclusivo ha, comunque, sottolineato che neppure la notevole conflittualità è motivo ostativo al regime condiviso), Trib. Ascoli Piceno, decr. 13 marzo 2006 (che, pur in presenza di un’altissima conflittualità tra i coniugi, dispone l’affidamento congiunto, con domiciliazione privilegiata presso il padre), mentre in dottrina ancora M. SESTA e L. BALESTRA, op. cit. Anche nel caso in cui sia realizzabile l’ipotesi primaria, e generale, il giudice avrà sempre il potere - dovere di “determinare i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore e di fissare la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”, con il che si viene a ragionevolmente escludere la pertinenza di un’interpretazione secondo la quale simile intervento decisorio del giudice potrebbe esplicarsi solo nell’ambito dell’affidamento monogenitoriale. Infatti, anche nell’ipotesi di un affidamento condiviso sarà sempre necessario individuare il genitore presso il quale il minore abbia la localizzazione prevalente della sua vita e sia, quindi, collocato (qui avendo di conseguenza la sua residenza anagrafica), così come sarà in buona sostanza imprescindibile fissare i tempi e le modalità attraverso i quali sia garantita la frequentazione del genitore non collocatario, vuoi per la realizzazione di quelle necessarie certezze alle quali ho già fatto cenno vuoi perché di tali tempi di presenza del minore presso l’uno e l’altro genitore deve tenersi conto ai fini della determinazione dell’assegno periodico di mantenimento o, in caso di mantenimento c.d. diretto, dell’opportuna ripartizione dei relativi oneri tra i coobbligati. Dovrà, infatti, parimenti il giudice determinare la misura e il modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli: questa disposizione sembra, almeno 10 a mio avviso, segnalare come sia stata abbandonata l’originaria, generale e insuperabile previsione di un mantenimento diretto (e per “capitoli di spesa”, comportante di fatto una frammentazione della vita dei minori e una parcellizzazione dei compiti genitoriali già dai primi commentatori segnalate come inaccettabili) e della fissazione di un assegno meramente “perequativo” e avere ribadito che – in difetto di diverso accordo delle parti e di una positiva valutazione circa la sua adeguatezza all’interesse del minore – quella dell’assegno periodico di mantenimento costituisce ancora una delle previsioni generali e necessarie; non mi sembra che a una simile lettura possa essere di serio ostacolo la formulazione del comma quarto dell’art. 155 (“il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità…”), potendo a tale riguardo ritenersi che laddove manchi un accordo preciso e apprezzabile su diverse modalità di contribuzione il giudice debba procedere alla determinazione dell’assegno, non potendo diversamente garantire con sufficiente certezza che le esigenze di vita del minore siano prontamente e congruamente soddisfatte. La tesi sin qui riferita sembra avere trovato conferma nei principi proprio di recente affermati dalla Suprema Corte (Cass., I civ., sent. 18 agosto 2006, n. 18187), alla stregua dei quali “l’affidamento condiviso è istituto che per le sue finalità riguardanti l’interesse del minore dal punto di vista del suo sereno sviluppo, del suo equilibrio psico – fisico e del perpetuarsi dello schema educativo già sperimentato durante il matrimonio, non può certo far venire meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire al mantenimento dei figli mediante la corresponsione di un assegno a favore del genitore con il quale gli stessi convivono”. Naturalmente, anche aderendo a questo recentissimo (e a mio avviso apprezzabile) orientamento di legittimità, la nuova gestione condivisa 11 dell’affidamento comporterà che sia possibilmente lasciato uno spazio maggiore al concorso diretto di ciascun genitore alle spese da effettuarsi nell’interesse del minore, sempre che sussista il ragionevole convincimento che il relativo obbligo venga correttamente rispettato e gestito dai coobbligati; resta ferma l’opportunità, qualora risulti che alla prestazione diretta uno dei genitori non ha adempiuto, di procedere alla determinazione di un assegno periodico omnicomprensivo, al principale scopo di rendere l’obbligazione di mantenimento suscettibile di esecuzione forzata e di consentire l’adozione dei provvedimenti di corresponsione diretta ex artt. 156 sesto comma cod. civ. e 8 legge divorzile. 7 - Affidamento e esercizio della potestà. Un’opzione interpretativa da più parti espressa nell’immediato dell’entrata in vigore della nuova disciplina è stata quella che vedeva come introdotto il principio – nuovo e indefettibile – secondo il quale l’esercizio della potestà sarebbe sempre in capo ad ambedue i genitori, indipendentemente cioè da un affidamento ad entrambi o da quello esclusivo: da qui l’osservazione già da taluno prospettata in termini di assoluta consequenzialità che, non essendo previste deroghe, la limitazione o l’esclusione della potestà genitoriale sarebbero possibili solo per circostanze riconducibili a quelle previste dagli artt. 330, 333 e 336 c.c., il che comporterebbe del resto l’insorgere della competenza funzionale del tribunale per i minorenni (cfr. A. BUCCI, il quale afferma che “accanto alla figura prioritaria dell’affidamento congiunto alla quale è connaturato l’esercizio congiunto della potestà, può dirsi che anche nell’affidamento monogenitoriale la stessa potestà permane in capo ad entrambi i genitori”). A una iniziale convergenza sul punto si è del resto ben presto contrapposta una diversa linea, che potrebbe dirsi già oggi maggioritaria sia in dottrina che in giurisprudenza. 12 Ci si è, infatti, domandato quale potrebbe essere il contenuto di un affidamento esclusivo – riconosciuto sempre possibile, ancorché come soluzione subordinata se non del tutto residuale – se l’esercizio della potestà dovesse rimanere sempre in capo ad entrambi i genitori e tenuto conto del fatto che anche all’interno del regime primario è possibile che “limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione il giudice stabilisca che i genitori esercitino la potestà separatamente”. Il quesito non è di poco conto, dal momento che, seguendo la prima impostazione, ci si troverebbe di fronte a due situazioni che, a prescindere dalle formule utilizzate, verrebbero ad essere nella sostanza coincidenti: la soluzione prospettata è quella che in caso di affidamento monogenitoriale (del resto previsto nell’art. 155 bis, cui deve attribuirsi piena autonomia anche se la disposizione manca di un contenuto specificativo del regime della potestà in questa formula di affidamento) l’esercizio della potestà deve intendersi esclusivo in capo al genitore affidatario, fermo restando che “le decisioni di maggiore interesse sono assunte di comune accordo” e che in caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice, secondo una ragionevole integrazione con il terzo comma dell’art. 155 che potrebbe dirsi avere sostituito il mero potere di vigilanza che al genitore non affidatario era riconosciuto in base al “vecchio” testo dell’art. 155 c.c. e reso più cogente l’obbligo di assumere insieme quella rilevante tipologia di decisioni. Ciò premesso, si noti che sul punto anche la giurisprudenza ha registrato nei primi mesi di applicazione una sorta di conversione nel senso prospettato (cfr. T.M. Trento, decr. 11 aprile 2006, che ha affermato come anche in caso di affidamento esclusivo la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori e le decisioni di maggiore interesse relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione e delle aspirazioni dei figli. 13 Contra: Tribunale Catania, ord. 1 giugno 2006, che, andando per vero ancora oltre, giunge alla conclusione che la locuzione contenuta nell’art. 155, co. 3, modificato è da intendersi riferita solo all’affidamento condiviso, e non anche a quello esclusivo: da qui l’ulteriore corollario che il giudice, ogniqualvolta disponga l’affido esclusivo della prole dovrà disporre altresì l’esercizio esclusivo della potestà in favore del genitore affidatario, fermo restando il mantenimento da parte del non affidatario della titolarità della potestà, con tutti gli effetti derivanti dal regime ante riforma, ai sensi dell’abrogato art. 155, co. 3. c.c.). Mi pare assolutamente pertinente e opportuna la notazione della dottrina (M. SESTA, op. cit.) secondo la quale quando il giudice, in considerazione dell’interesse del minore, dispone l’affido a un solo genitore, non può limitarsi ad usare un’espressione lessicale che faccia riferimento all’esclusività e a disporre in ordine ad una prevalente collocazione presso un genitore “ma deve necessariamente – oltre che motivare la scelta – anche pronunciarsi in ordine all’esercizio della potestà, distinguendo nettamente la posizione del genitore affidatario da quella dell’altro: l’uno, in linea di massima, sarà titolare dell’esercizio esclusivo della potestà e dovrà attenersi alle condizioni determinate dal giudice, l’altro avrà titolo per adottare congiuntamente all’affidatario le decisioni di maggiore interesse per il figlio e avrà il diritto e il dovere di vigilare sull’istruzione ed educazione”, restando così sottolineato il fatto che il legislatore della Riforma non ha modificato nella sostanza la fisionomia propria dell’affidamento esclusivo che rimane, anche per l’intervento del giudice, caratterizzato dall’esercizio esclusivo della potestà da parte dell’affidatario. 8 – (Art. 155 terzo comma) La maggiore ricaduta sull’organizzazione degli uffici e sulla difficoltà di offrire una risposta tempestiva si avrà, con ogni probabilità, in conseguenza dell’applicazione della disposizione che prevede che “in caso 14 di disaccordo la decisione è rimessa al giudice”, con riguardo cioè alle decisioni di maggiore interesse per i figli che dovrebbero essere sempre assunte dai genitori “di comune accordo”. Va subito notato che, a differenza di quanto disposto dall’art. 316, co. 3, qui il giudice, in caso di disaccordo, è chiamato ad assumere direttamente la decisione più confacente all’interesse del minore e non già ad attribuirne il relativo potere a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritenga più idoneo: la differenza può spiegarsi con il fatto che, una volta cessata la convivenza tra i genitori, non sussiste più la necessità di preservare l’autonomia familiare e il compito del giudice può essere amplificato. Si tratterà, comunque, di trovare al più presto una prassi condivisa sull’individuazione di questa categoria di decisioni inerenti all’istruzione, all’educazione e alla salute (e ci si può prefigurare la scelta del corso scolastico e dell’istituto da frequentare, la partecipazione o meno al catechismo, particolari o importanti corsi sportivi da intraprendere, la scelta dei sanitari ecc.), tenendo sin da ora presente che la voce “educazione” si presta a comprendere in sé tutto e più di tutto e che in mancanza di un accordo dei genitori il rischio che concretamente si profila è quello di una devoluzione al giudice (del merito) di questioni che ben difficilmente potrebbe essere il medesimo in grado di valutare a fondo e con reale obiettività, ovvero prescindendo dalle personali inclinazioni e impostazioni di pensiero. Una prima esigenza dovrebbe, allora, essere quella di ricercare una precisa individuazione ed esemplificazione delle decisioni di maggiore interesse, in senso rigoroso e restrittivo (arrivando quasi a delle categorie predefinite), pena il rischio di gravare in termini eccessivi i tribunali e di svuotare di contenuto l’esercizio della potestà, in contrasto con la 15 normativa che tende invece a richiamare i genitori alla piena e paritaria corresponsabilità. Per le decisioni di ordinaria amministrazione (ovvero per quelle di carattere routinario, dovendosi invece al riguardo respingere l’interpretazione secondo la quale queste sarebbero esclusivamente di ordine patrimoniale) il giudice ha la possibilità di stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente: quando avrà in concreto questa possibilità ? In prima battuta potrebbe dirsi quando ha verificato che si sono posti, o verosimilmente potrebbero porsi, dei problemi di gestione (es. uno dei genitori risiede lontano, uno dei due ha scarse possibilità di frequentazioni assidue, risulta che il minore non riesce a comunicare bene e con sincerità o naturalezza con uno dei due genitori ecc.), ma credo che si debba evitare il consolidarsi di una prassi che veda il presupposto di una simile statuizione nella prova che una irrisolta conflittualità tra i genitori ha provocato negativi effetti sul piano della adozione di questa tipologia di decisioni nella vita quotidiana della prole: non si dovrà, in altre parole, attendere l’esito negativo della sperimentazione del regime primario e generale per giustificare il passaggio verso questa soluzione subordinata o, se si preferisce, alternativa. Anche qui sarà, allora, indispensabile trovare al più presto una linea comune sia nell’individuazione delle questioni di “ordinaria amministrazione” sia di principio: potrebbe, ad esempio, essere opportuno prevedere che, allorquando la frequentazione dell’altro genitore abbia cadenza alquanto ridotta, questioni di una simile tipologia siano rimesse al solo genitore che con il minore condivide il quotidiano, perché è in effetti l’unico in grado di avvertire le sue esigenze più spicciole e di decidere di conseguenza, con quell’autonomia che non di rado è l’unico strumento per garantire la prontezza dell’intervento. 16 Già si è profilato, del resto, il pressante suggerimento che il giudice proceda a demandare sempre e in ogni caso le decisioni di ordinaria amministrazione al genitore al momento collocatario del minore, proprio per favorire la speditezza delle relative determinazioni di carattere quotidiano e non vincolarle a un accordo che può essere talvolta difficile realizzare con la richiesta sollecitudine: si avrebbe, così, la garanzia che ciascun genitore sia autorizzato a decidere indipendentemente dal consenso dell’altro nel momento in cui il figlio è collocato presso di lui. 9 - Il mantenimento. L’art. 155 co. 4 prevede che “salvo accordi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”. Il dettato normativo pone immediati problemi all’attenzione dell’interprete. a) – Il criterio della proporzionalità è già previsto dagli artt. 143, 147 e 148 c.c. ed è quindi principio fondamentale e normalmente ritenuto inderogabile, così che ci si deve domandare se esso possa essere invece oggi derogato attraverso un diverso accordo delle parti sottoscritto “liberamente”, con riconoscimento di una supremazia dell’autonomia privata sulle generali disposizioni di legge. Prima di tutto deve essere precisato che al giudice compete la verifica che il diverso accordo sia stato raggiunto in piena libertà e coscienza, cioè al di fuori di pressioni, condizionamenti o valutazioni estranee all’interesse precipuo del minore; se non fosse consentito effettuare questo controllo preliminare, e quindi apprezzare se l’accordo si ponga in termini di efficace tutela dell’interesse del minore, si avrebbe la conseguenza – inaccettabile – che sul piano economico gli accordi delle parti sfuggono alla verifica giudiziale e non sarebbe neppure rispettato il disposto dell’art. 155 co. 2 riformulato (“…prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”). 17 E’ stato al riguardo osservato (M. SESTA, op. cit.) che un accordo totalmente derogatorio rispetto al criterio di proporzionalità non è accettabile, in quanto confliggente con il principio generale dell’art. 148 c.c., a sua volta costituzionalmente espressione garantito: da del qui principio la di eguaglianza consequenziale ipotesi interpretativa secondo la quale la disposizione in esame dovrebbe essere letta nel senso che è consentito ai genitori di accordarsi circa le rispettive modalità di mantenimento, con ciò intendendosi che questo può essere prestato in forma diretta o indiretta per il tramite di un assegno, ma fermo il rispetto del criterio di proporzionalità riconosciuto da una norma generale, e non modificata, che trova riconoscimento negli stessi superiori principi d’ordine costituzionale . Resta sempre salvo, a mio avviso, il compito del giudice di valutare a fondo la regolamentazione privata, chiedere chiarimenti, valorizzare i compiti di accudimento diretto e le cure domestiche ecc., così che non potrà il medesimo del tutto passivamente fare propri accordi che non siano improntati all’attuazione del principio di proporzionalità ma dovrà, per converso, in via complessiva apprezzare se l’apparente non puntuale proporzione trovi invece ragion d’essere in una pertinente diversificazione dei singoli apporti e della loro rispettiva natura. b) – L’assegno è previsto “ove necessario” e in quel caso deve essere determinato tenendo conto di cinque parametri, due dei quali nuovi rispetto all’applicazione giurisprudenziale più consolidata, e cioè quello dei “tempi di permanenza presso ciascun genitore” e della “valenza dei compiti domestici e di cura svolti da ciascuno”. E’ stato a tale riguardo osservato (cfr. M. SESTA, op. cit.) che, stando alla lettera della legge, con accordi scritti i genitori possono prevedere di assumere direttamente parte degli oneri di mantenimento, mediante attribuzione di un bene o il pagamento diretto di beni o prestazioni 18 nell’interesse dei figli, ferma restando la funzione “riequilibratrice” dell’assegno, anche se questo non può più essere definito perequativo (come nella precedenti stesure della legge). Non è mancato chi (cfr. PADALINO) ha invece ritenuto che l’art. 155 co. 6, l’art. 155 quinquies (assegno per figli maggiorenni), l’art. 3 (disposizioni penali) sembrano attestare una generale eliminazione del mantenimento diretto e la scelta legislativa finale di prevedere come forma di contribuzione ordinaria quella indiretta attraverso il versamento di un assegno, tesi che pare avere del resto trovato conferma nella recentissima, e già in precedenza ricordata, Cass. 18 agosto 2006, n. 18187. Una soluzione concretamente prospettabile può essere quella che, dove gli accordi non siano convincenti o vi sia acceso contrasto tra le parti (come di norma avviene nei procedimenti contenziosi), il giudice può sempre stabilire l’assegno, anche se nel contempo può opportunamente prevedere una concorrente ripartizione tra i genitori delle spese per i figli con modalità dirette: è prevedibile, ma anche ragionevole, la conclusione che, in presenza di una consistente conflittualità in ordine alla ripartizione o alla quantificazione degli obblighi di mantenimento, il giudice finirà con il ravvisare necessaria la determinazione di un assegno periodico, in questi termini dando conto del rispetto della volontà legislativa espressa attraverso l’introduzione dell’inciso “ove necessario”. Sul punto disponiamo di dati abbastanza significativi nell’ambito del distretto: il mantenimento con modalità “dirette” non è mai disposto nelle procedure contenziose, neppure quando è al riguardo avanzata richiesta da parte del genitore non collocatario; più della metà degli uffici procede, invece, in tal senso quando a richiederlo siano congiuntamente entrambi i genitori. In caso di mantenimento diretto diversi tribunali attribuiscono ai genitori il compito di provvedere del tutto liberamente alle esigenze dei figli, 19 mentre pare non avere riscontrato alcun successo l’ipotesi (fatta propria dal legislatore nelle prime stesure della Riforma) che sia il giudice a ripartire gli oneri secondo “capitoli di spesa”. Quale corollario di simile evidente diffidenza verso il mantenimento in forma diretta, la prevalente parte dei tribunali ricorre alla determinazione di un assegno periodico sempre e in ogni caso, il che equivale a dire che l’assegno non è meramente perequativo ma destinato ad assolvere in via del tutto prevalente l’obbligazione di mantenimento, fatta salva in linea pressoché generale la concorrente previsione di un accollo percentuale (di massima al 50%) delle spese mediche, scolastiche e, più in generale, straordinarie. c) – L’art. 155 co. 4 riferisce la proporzionalità al reddito, mentre il punto 4) dello stesso comma fa riferimento alle “risorse economiche” di ciascun genitore. Nonostante tale contraddizione lessicale, secondo una tesi, che ritengo condivisibile, ciò starebbe a significare che nulla è cambiato rispetto al passato e che deve aversi riguardo alla previsione di cui all’art. 148 c.c., con la conseguenza che dovranno venire in considerazione “le sostanze dei coniugi nel loro complesso” (in questo senso, cfr. L. BALESTRA, op. cit.). d) – Tra i cinque criteri da seguire ed applicare per la determinazione dell’assegno in favore dei figli non è previsto quello dell’assegnazione della casa coniugale (art. 155 co. 4), mentre l’art. 155 quater (“Dell’assegnazione della casa il giudice tiene conto nella regolamentazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”) lo considera elemento da valutare nei rapporti economici tra i coniugi. La discrasia è a mio avviso solo apparente e non deve essere enfatizzata dall’interprete, perché l’assegnazione della casa rappresenta un beneficio anche per il genitore collocatario o affidatario della prole, è destinata a incidere sulle rispettive situazioni economiche e costituisce 20 un’importante forma di contribuzione diretta alle esigenze di mantenimento della prole. e) – Per il mantenimento dei figli maggiorenni l’art. 155 quinquies prevede solo la corresponsione di un assegno, così che sembrerebbe doversi escludere l’ipotesi che alle esigenze del maggiorenne possa provvedersi con modalità dirette: ci si deve, allora, domandare se possa in ipotesi il giudice procedere egualmente in tal senso, ripartendo tra i genitori i singoli titoli di spesa. Seguendo una prima tesi, ancorata al dato letterale, sembra doversi dare una risposta negativa, sia perché il dettato non pare consentirlo sia perché “di norma” l’assegno per il figlio maggiorenne deve essere versato direttamente al beneficiario medesimo; resta però da verificare, e sul punto la prassi in via di formazione ci darà presto un qualche segnale, se una soluzione di questo tipo non crei un contrasto poco accettabile nel raffronto con le disposizioni in tema di mantenimento della prole minore, tenuto conto che a livello operativo, e di garanzia dei diritti del soggetto beneficiario, non si rinvengono ragioni ostative a che ciascuno dei genitori assolva agli obblighi su di lui pro quota gravanti mediante l’assunzione in via diretta di talune voci di spesa. E’ peraltro opportuno precisare che il versamento diretto dovrebbe essere disposto solo se al momento della pronuncia il figlio abbia già raggiunto la maggiore età, mentre se il regime era quello previsto per il figlio minore (con la legittimazione del genitore convivente) dovrà, se del caso, essere instaurato un procedimento di revisione delle condizioni (ex artt. 710 c.p.c. e 9 legge div.), in difetto del quale continuerà ad essere efficace la corresponsione al genitore già in precedenza destinatario del pagamento (contra, M. FINOCCHIARO, il quale sostiene la sopravvenuta inefficacia dei provvedimenti emessi in precedenza a favore del genitore affidatario o convivente, con la conseguenza che l’obbligato, per essere 21 stimato adempiente, deve versare l’assegno direttamente al figlio maggiorenne). A mio avviso, in via di estrema sintesi, il precedente assetto deve necessariamente conservare piena validità sino a diverso provvedimento, sia perché i genitori (e anche il figlio) potrebbero non avere alcun interesse a una diversa regolamentazione, sia perché debbono tendenzialmente evitarsi situazioni di “vuoto” nel regime, dal momento che eventuali inadempimenti darebbero luogo, nell’incertezza sulla legittimazione attiva, a situazioni creditorie di ben difficile superamento sul piano del recupero coattivo. Inoltre, la norma di cui all’art. 155 quinquies, seconda parte, c.c. presuppone sempre un controllo del giudice su chi debba essere il destinatario del pagamento, con la possibilità che – tenuto conto di tutte le circostanze del caso – sia conservata la corresponsione a favore del genitore: anche da qui l’impossibilità di aderire ad una soluzione che veda la perdita automatica di efficacia del provvedimento nella sua conformazione antecedente al solo raggiungimento della maggiore età da parte del figlio destinatario del contributo periodico. 10 – (L’art. 155 sexies) La disposizione riconosce e prevede la possibilità per il presidente di assumere mezzi di prova anche prima dell’emanazione dei provvedimenti provvisori relativi (però) solo ai figli, perché è presente il richiamo esplicito al solo art. 155, e ciò sia su istanza di parte che in via officiosa. Molto più problematico sarà giungere a una lettura coerente e uniforme del verbo “dispone” che è utilizzato con riguardo all’audizione del figlio ultradodicenne e di età anche inferiore purché dotato di discernimento: il presente indicativo, secco, e la scelta di non utilizzare la diversa formula “può disporre” sembrano indicare un orientamento volto alla rigida applicazione delle Convenzioni internazionali (New York 1989 e 22 Strasburgo 1996) e allo strumento dell’audizione personale e diretta come un passaggio obbligato prima dell’assunzione di qualsiasi provvedimento. Se così dovesse concludersi (e mi pare che una lettura nel senso dispone = può disporre, pure da taluni prospettata, non possa essere condivisa), la ricaduta sui tempi del giudizio e sulle modalità organizzative degli uffici giudiziari sarebbe imponente; non voglio affatto scendere nel merito della previsione e del mancato espresso riconoscimento del potere del giudice di distinguere un caso dall’altro e, così, di scegliere di non coinvolgere il minore ove non ve ne sia una stringente necessità, ma qui mi preme anzitutto sottolineare come i nostri uffici non siano affatto pronti ad accogliere ogni giorno piccoli eserciti di minori, spaesati, intimoriti e accompagnati da genitori che neppure riescono in quel momento a parlarsi se non attraverso il canale dei loro difensori. E, ancora, se così fosse dovrebbe forse pensarsi ad approntare strutture idonee e ad avvalersi – in via stabile e organicamente riconosciuta – di personale ausiliario dotato di competenza specifica, anche solo per evitare che quello che è sempre stato visto come il diritto del minore di far sentire la propria voce nel processo degli adulti finisca con il diventare occasione maldestra di sofferenza e destabilizzazione, prima fra tutte quella che si crea ove dovesse il minore pensare di essere diventato ex lege arbitro della propria situazione e ago della bilancia anche della controversia all’interno della coppia genitoriale. In ogni caso, dal momento che delle audizioni deve comunque prevedersi un consistente aumento anche qualora dovesse giungersi a negarne una indiscriminata generalizzazione 2 , la necessità di approntare 2 Si noti che M. SESTA, op. cit., formula opzione verso la non obbligatorietà dell’audizione del minore, suggerendo una lettura “elastica” dell’art. 155 sexies c.c. che consenta al giudice di motivatamente omettere tale incombente, ad esempio quando i genitori gliene facciano concorde richiesta ed egli non abbia motivo di ritenere che tale istanza comprometta l’effettivo interesse del minore: detto altrimenti, secondo l’A. deve essere consentito al giudice di optare per il mancato 23 un setting adeguato e tutelante non può più essere differita, così che mi sento di ribadire l’urgente necessità sul piano organizzativo di attuare un protocollo d’intesa e una collaborazione con i servizi territoriali, in modo da avere la garanzia di personale ausiliario del giudice pronto ad accogliere il minore per una sua audizione delegata (e condotta con modalità realmente tutelanti). Forte è la preoccupazione nata da una lettura che sembra imporre questa audizione prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori, sia perché in quel momento il presidente non può essersi fatto un’idea completa della situazione del nucleo familiare nei suoi vari aspetti sia perché è ben intuibile che i tempi di fissazione e di espletamento di queste udienze finirebbero con il dilatarsi a dismisura, in contrasto con l’esigenza di celerità e concentrazione che è sempre più da tutti rappresentata. Potrebbe, allora, suggerirsi una lettura che “stacca” questa previsione dalla prima parte dello stesso 1° co. (dove è presente l’inciso “anche in via provvisoria”, non ripetuto nella seconda parte) e ipotizzarsi che l’audizione sia sì sempre un passaggio obbligato ma da collocarsi nel momento processuale più opportuno, lasciandone l’individuazione al giudice istruttore: questa soluzione avrebbe in sé l’innegabile vantaggio di garantire il mantenimento dei tempi normali di fissazione dell’udienza presidenziale e, al tempo stesso, di consentire al G.I. di trovare il momento e, quindi, le modalità più convenienti per il suo contatto diretto, o mediato, con il minore. Va da sé che una simile opzione interpretativa non escluderebbe la possibilità per il presidente, ove sollecitato e in presenza di un forte contenzioso sul tema dell’affidamento, di procedere ancor prima dell’emanazione dei provvedimenti provvisori a detta audizione, così come ascolto, effettuando la scelta più ponderata tra l’astratto soddisfacimento dell’interesse del minore ad essere ascoltato e quello concreto a che gli sia evitato un grave e gratuito pregiudizio. 24 del resto nessuna preclusione vi sarebbe ad una rinnovazione dell’incombente in un momento successivo, ad opera dell’istruttore. Per quanto mi consta, allo stato l’orientamento assolutamente prevalente è quello di escludere l’audizione del minore in tutte le procedure “consensuali” e di riservarne l’espletamento al solo ambito delle vertenze contenziose, nel momento processuale più opportuno; il Tribunale di Monza ha già attivato una stretta collaborazione con la ASL di competenza al fine di poter fruire di operatori specializzati sia per l’audizione delegata che per quella diretta, stimata del resto opportuna se non persino necessaria anche con riguardo a minori infradodicenni e di assai tenera età, specie ove il contenzioso sull’affidamento si presenti particolarmente acceso. Più in particolare, i dati sinora acquisiti segnalano che nessun tribunale del distretto procede sempre all’ascolto del minore, ovvero quando non vi sia richiesta di almeno un genitore; diversi uffici procedono all’incombente spesso in presenza di un’espressa richiesta e due (Monza e Lecco) lo fanno quando sia riscontrata un’elevata conflittualità, mentre il numero sale allorquando vi siano gravi motivi, in linea esemplificativa riconducibili a un pregresso intervento del T.M. o dei Servizi. Le modalità dell’audizione vedono una netta prevalenza di un contatto diretto giudice/minore alla sola presenza del cancelliere (ove disponibile), mentre solo pochi tribunali ammettono l’assistenza dei difensori e, ancora, altrettanto pochi si avvalgono dell’ausilio di un esperto. Alquanto significativo è il dato inerente al fatto che quando è disposta una CTU il giudice ritiene, di massima, superflua l’audizione diretta del minore, all’evidenza stimando sufficiente ai fini del rispetto della previsione normativa un ascolto indiretto; vale poi la pena di sottolineare che nessun ufficio del distretto si è sino ad oggi organizzato per una (generale) videoregistrazione dell’audizione, ma questo è profilo che, 25 compatibilmente con l’ormai noto problema delle risorse effettive, meriterebbe di essere affrontato in un prossimo futuro con serietà e determinazione, investendo non solo il tema della tutela del minore ma anche quello del pieno rispetto del contraddittorio e, in via di estrema sintesi, del giusto processo. dott. Gloria Servetti Corte d’Appello di Milano 26