Sentenza N - Ordine degli Avvocati di Milano

Transcript

Sentenza N - Ordine degli Avvocati di Milano
Consiglio Superiore della Magistratura
Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata del Distretto di Milano
CRISI DELLA COPPIA E AFFIDAMENTO CONDIVISO
Milano, 30 ottobre 2006
1 - Uno dei più evidenti caratteri distintivi della nuova normativa,
improntata all’attuazione del principio della piena bigenitorialità, è
rappresentato dal fatto che il legislatore sembra aver voluto accentuare
una netta separazione tra l’essere coniugi, o partner, e l’essere genitori,
quasi che i rapporti tra i genitori e i figli debbano divenire cosa ben
diversa, e distinta, rispetto ai rapporti intercorrenti tra gli adulti; il nuovo
articolo 155 c.c. attribuisce infatti, e persino con una certa enfasi, al
soggetto minore una posizione di assoluta centralità, riconoscendogli dei
diritti irrinunciabili – quale quello di mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere cura, educazione e
istruzione da entrambi – che finiscono con il tradursi in corrispondenti
obblighi a carico dei genitori medesimi.
Principale compito del quale giudici ed avvocati dovranno, allora,
farsi carico senza indugio sarà quello di applicare la nuova normativa in
modo da favorire i genitori nell’attuazione degli obblighi che gravano su di
loro per la realizzazione dei diritti che il legislatore ha riconosciuto ai
minori, e una simile finalità non potrà prescindere dal tentativo di evitare
situazioni di potenziale conflitto; ma, nell’effettuare un simile percorso,
non ci si deve dimenticare che il conflitto è tanto più evitabile quanto più
alle parti si forniscano delle certezze, quanto a dire quei “paletti” all’interno
dei quali creare uno spazio di vita e di gestione concreta della genitorialità
dove diritti e doveri riescono a intrecciarsi in termini realmente sintonici.
1
Una simile premessa, che potrebbe apparire scontata, mi sembra
invece opportuna, quantomeno per sfatare l’assunto che l’affidamento
condiviso sia una conquista dei genitori – e, in particolare, dei genitori che
in passato non avevano registrato successo nel rivendicare il ruolo di
affidatari – e porre invece mente al fatto che tutto il nuovo impianto
normativo ruota intorno al minore, ai suoi diritti e al suo interesse, così
che questa notazione deve essere il punto di partenza e la chiave di lettura
essenziale
per
ogni
percorso
interpretativo;
e,
del
resto,
la
già
rappresentata esigenza di contenere il rischio di conflitto impone al giudice
di non vedere l’affido condiviso come rimesso alla saggezza e all’iniziativa
dei genitori, ma di trovare un equilibrato punto di convergenza tra
autonomia nell’esercizio della responsabilità genitoriale e diritto del minore
a fruire di certezze e a non vedersi esposto a una sorta di anarchia nella
gestione quotidiana della sua vita.
2 - (Art. 155 primo comma)
Al diritto minorile non è certo estranea la nozione di “rapporti significativi”
intrattenuti da un minore con i propri congiunti, posto che la disciplina
sulla dichiarazione dello stato di adottabilità ne fa ripetuta menzione: una
simile
“significatività”,
da
intendersi
quindi
come
consuetudine,
interessamento, vicinanza affettiva e capacità di accoglienza e empatia
nella gestione della relazione fa oggi ingresso ufficiale anche nella famiglia
legittima (cfr. Cass. n. 3351 del 28 marzo 1991 e n. 7141 del 5 agosto
1996, ove si afferma che per rapporti significativi si intendono “quei legami
affettivi che siano forti e duraturi, con manifestazioni di interesse ed
assistenza concreta, atti ad esprimere la potenziale disponibilità e capacità
dei parenti stessi di sopperire all’assenza o alle carenze dei genitori”).
Così, il riconoscimento del diritto dei minori di conservare “rapporti
significativi” con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale
potrebbe a prima vista indurre a pensare che con questa formulazione il
2
legislatore abbia inteso riconoscere sul punto una legittimazione attiva a
tali categorie di congiunti, tale da rendere ammissibile un loro intervento:
una prima lettura della nuova disposizione suggerisce di dare una risposta
tendenzialmente negativa perché il 2° co., che anche testualmente si
raccorda in modo stringente con il precedente, indica il compito del giudice
“che pronuncia la separazione” come volto a realizzare questa complessiva
finalità programmatica, sì che – non essendo stata aggiunta alcuna
migliore specificazione – può ritenersi che siano solo i coniugi (o, meglio, i
genitori) abilitati a far valere questo diritto del minore che vede coinvolti i
parenti del rispettivo ramo.
Tuttavia, mi corre obbligo di segnalare che sono già state espresse
opinioni di segno contrario, volte a negare agli ascendenti e agli altri
congiunti la qualità di litisconsorti necessari ma a riconoscere loro un
interesse all’intervento, ex art. 105 c.p.c., nell’ambito dei procedimenti di
separazione, divorzio e affidamento, peraltro sulla linea di quanto già non
di rado reputato ammissibile nelle controversie innanzi al giudice minorile
(cfr. sul punto, Trib. Firenze, 22 aprile 2006, in Famiglia e Diritto, 2006,
291 ss., con nota adesiva di F. TOMMASEO, che ha riconosciuto agli
ascendenti il potere di intervenire nel procedimento di separazione per far
valere il proprio interesse a mantenere significative relazioni affettive con il
nipote, attraverso un intervento adesivo dipendente. Contra, T.M. Bologna,
decreto 15 maggio 2006, che ha invece escluso la sussistenza di un diritto
soggettivo dei nonni autonomo rispetto a quello dei genitori del minore).
L’effetto di una simile suggestione interpretativa sarebbe, fra l’altro,
la moltiplicazione delle parti del processo, con un appesantimento che non
è difficile immaginare: ed è per questo che ritengo preferibile riconoscere a
tale nuova disposizione una valenza più sostanziale che processuale, nel
senso di escludere la possibilità di intervento nel giudizio ma di ampliare il
3
possibile oggetto delle statuizioni che il giudice può assumere e delle
condizioni che le parti, ovviamente, possono concordare.
Alla luce di questa innovazione normativa potrà, allora, essere
possibile – in un percorso decisionale che ruota intorno all’interesse del
minore e alla cura delle sue esigenze affettive ed evolutive – riconoscere un
ruolo anche, per esempio, ai nonni, attribuendo loro delle predeterminate
possibilità di frequentazione; diventerà, invece, impossibile (nel senso di
illegittimo, salva la prova di un obiettivo pregiudizio) il comportamento di
un genitore che impedisca al figlio di intrattenere rapporti con i parenti
dell’altro genitore e a questo principio dovrà il giudice attenersi, se del caso
adottando provvedimenti volti alla migliore realizzazione di un diritto ora
normativamente riconosciuto.
Già oggi parte della dottrina si è posta su questa linea, rilevando
come in questa nuova apertura verso il concetto di famiglia allargata sia al
minore attribuito un diritto il cui correlativo obbligo non può che gravare
sui genitori, tenuti a garantire la realizzazione del predetto interesse
riconosciuto al minore (così, L. BALESTRA, in “Brevi notazioni sulla recente
legge in tema di affidamento condiviso”, ove nel confermare la tesi qui
esposta si segnala altresì come attraverso tale norma ritorni in auge un
concetto di famiglia allargata, che in passato era basato essenzialmente
sull’elemento della coabitazione mentre nell’ottica della nuova legge
s’impernia sull’effettività del legame parentale).
3 – Un ulteriore momento di riflessione ci viene imposto dalla prima
delle non poche improprietà tecniche presenti nel dettato normativo: il
riferimento
testuale
al
“giudice
che
pronuncia
la
separazione”
e
l’inserimento delle nuove disposizioni che seguono il novellato art. 155 c.c.
non
costituiscono
una
limitazione
a
questa
specifica
tipologia
di
procedimenti, dal momento che l’art. 4 co. 2 è chiaro nel prevedere
l’estensione della normativa ai giudizi di c.d. divorzio e ai procedimenti
4
relativi ai figli di genitori non coniugati. Da qui, mancando nella specie una
riserva “di compatibilità” analoga a quella che, in materia processuale
contenuta nella Novella n. 74/1987, tanti fiumi di inchiostro ha fatto
scorrere, può desumersi che non solo il precedente art. 155 ma anche l’art.
6 della legge sul divorzio siano stati abrogati in forza dell’avvenuta loro
sostituzione.
Tuttavia, problema non di poco conto sarà quello di verificare se le
previsioni della disciplina anteriore che non si pongono in posizione di
contrasto con la nuova normativa possano dirsi sopravvissute, e con ciò mi
riferisco essenzialmente a quella dell’art. 6 co. 8 “in caso di temporanea
impossibilità di affidare il minore a uno dei genitori, il tribunale procede
all’affidamento familiare di cui all’art. 2 della l. 4 maggio 1983, n. 184”,
peraltro
non
particolarmente
dissimile
da
quella
contenuta
nell’anteriormente vigente art. 155, co. 6 (“in ogni caso il giudice può per
gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o,
nell’impossibilità, presso un istituto di educazione”).
L’indicata questione di coordinamento sistematico tra vecchia e
nuova disciplina è stata, del resto, affrontata (cfr. M. PALADINI, in
“L’abitazione della casa familiare nell’Affidamento Condiviso”, in Famiglia e
Diritto, 2006, 3, p. 329 ss., dove l’A. riprende le linee della relazione tenuta
al Convegno organizzato dalla A.N.M. a Roma il 29 maggio 2006) con
riguardo al tema dell’assegnazione della casa coniugale e risolta nel senso
che l’avvento della riforma non può intendesi avere abrogato disposizioni
che, quantunque non espressamente reintrodotte nel nuovo testo, risultino
in grado di meglio tutelare l’interesse dei figli, atteso che proprio questa
tutela rappresenta il principio informatore della legge n. 54.
Qualora, invece, si dovessero ritenere abrogate simili disposizioni
perché non riprodotte nel novellato art. 155 si giungerebbe a concludere
che al giudice della separazione e del divorzio non sia consentito far luogo
5
all’affidamento a terzi e, in particolare, all’ente territoriale, strumento
stimato essenziale, e pertanto non di rado utilizzato, al fine di preservare il
minore
da
quella
troppo
accesa
conflittualità
tra
i
genitori
che,
traducendosi in una loro solo limitata adeguatezza, viene ad incidere sulla
loro capacità di fare fronte alle sue più complete esigenze, pur nella
conservazione del collocamento presso l’uno o l’altro: la conseguenza
sarebbe che, pur di fronte a una accertata inidoneità di entrambi (o,
meglio, a una solo parziale idoneità di ciascuno), il giudice ordinario non
avrebbe altra scelta rispetto a quella di trasmettere gli atti al tribunale per
i minorenni, a questo demandando ratione materiae la valutazione circa la
sussistenza dei presupposti per provvedimenti limitativi e/o ablativi della
potestà, così finendo con il non poter portare a compimento il processo di
separazione o di divorzio, nel senso di pervenire ad una sentenza che
pronunci su tutte le domande proposte (sulla stessa linea, G. DOSI, in “Le
nuove norme sull’affidamento e sul mantenimento dei figli e il nuovo
processo di separazione e divorzio”, Relazione tenuta al Convegno della
A.N.M. in Roma, 29 maggio 2006, ove si sottolinea ulteriormente che
l’affidamento a terzi o l’affidamento familiare disposto in sede di
separazione o divorzio non limitano la titolarità della potestà dei genitori, a
differenza di quanto si verifica quando questa soluzione è adottata dal T.M.
con provvedimento elettivamente limitativo o ablativo della stessa).
Molta cautela dovrà dunque essere adottata nell’affrontare questo
tema, atteso che la nuova disciplina vede ancor di più il proprio epicentro
nell’interesse del minore e questo superiore interesse è stato oggetto di
diverse pronunce di legittimità (cfr. ex plurimis, Cass. 8 maggio 2001, n.
6970, in Famiglia e Diritto, 2003, 319 ss., con nota di A. FIGONE) che hanno
riconosciuto al tribunale ordinario la possibilità di giungere ad un
affidamento a terzi ove soluzione necessaria per approntare un’efficace
tutela: non penso, pertanto, che il legislatore della Riforma abbia
6
consapevolmente voluto escludere una simile possibilità e, di fatto, negare
un principio – quello del ricordato superiore interesse del minore – che è
del resto immanente ed elemento fortemente caratterizzante in tutto
l’ordinamento positivo 1 .
Si è, d’altronde, già sottolineato che il nuovo impianto normativo
lascia intendere che la bigenitorialità non costituisce una pur legittima
rivendicazione del genitore bensì la principale espressione di un diritto
soggettivo del minore, da “collocare nell’ambito dei diritti della personalità”
(in questo senso, v. M. SESTA, in “Le nuove norme sull’affidamento
condiviso: profili sostanziali”, in Famiglia e Diritto, p. 377 ss.,4, 2006), così
che il filo conduttore dell’operato dell’interprete dovrà essere individuato
proprio nella necessità di approntare adeguata tutela a siffatto prevalente
diritto.
4 - Perché il legislatore ha scelto il termine affidamento condiviso e
non ha utilizzato, per perseguire l’obiettivo di una forma generalizzata e
1
Si noti che nella citata sentenza la Suprema Corte ha sottolineato che “in materia di affidamento
dei figli minori il giudice della separazione deve attenersi al criterio fondamentale – posto dall’art.
151, comma 1, c.c.- dell’esclusivo interesse morale e materiale della prole e deve avere cura di
adottare soluzioni che siano le più idonee a ridurre al massimo, entro i limiti consentiti da una
situazione comunque traumatizzante, i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad
assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore, in quel contesto di vita che
risulti più adeguato a soddisfare le sue esigenze materiali, morali e psicologiche….Il principio
fondante della tutela dell’interesse del minore comporta, infatti, che la posizione del genitore in
relazione all’affidamento si configura non come un diritto, ma come un munus e il giudice della
separazione non è chiamato ad attribuire all’uno o all’altro dei genitori uno o più diritti o uno o più
poteri, ma ad individuare, nella prospettiva di un programma normativo di tutela dei minori,
interventi e misure idonee a ridurre il rischio di danni per lo sviluppo dei figli coinvolti nella crisi
familiare (Cass. n. 5714/2002)”. Queste essendo le affermazioni di principio cui il giudice di merito
deve informare il proprio intervento, appare difficile, se non persino impossibile, ipotizzare che la
normativa di nuovo conio abbia inteso attuarne un superamento.
7
primaria, quello di affidamento congiunto, già presente nell’ordinamento a
seguito della Novella n. 74/87 ?
La risposta più ragionevole è che abbia voluto introdurre una fattispecie
per taluni aspetti diversa, così da accentuare la piena compartecipazione
dei genitori ai compiti di cura e crescita del figlio (v. ancora SESTA, op. cit.,
il quale sottolinea che condividere significa letteralmente spartire insieme
con altri): nella specie ciascun genitore spartisce con l’altro la cura e i
compiti educativi del figlio e l’affidamento è condiviso in quanto è ripartito
fra i genitori, così da differenziarsi nettamente da quello congiunto, che
vede invece i genitori esercitare il loro ruolo insieme (cioè, ancora per tale
Autore, “a mani unite”).
5 – (Art. 155 secondo comma)
L’attenzione va posta sull’avverbio prioritariamente, che impone, nell’ottica
dei principi del nuovo sistema, al giudice di valutare prima di ogni altra
soluzione quella dell’affidamento ad entrambi i genitori (concetto dunque
volutamente
difforme,
per
quanto
dianzi
detto,
rispetto
a
quello
dell’affidamento congiunto), salvo poi decidere diversamente ove non ne
riscontrasse la concreta possibilità: così, il sistema di indagine ha subito
un’inversione rispetto al passato e si è “ribaltato” per espressa previsione
di legge. Per le parti sarà, dunque, doveroso anche in via autonoma
verificare anzitutto la possibilità di applicazione nei loro rapporti della
regola “primaria e generale”, mentre per il giudice la ricaduta immediata
sarà anche quella di un maggiore obbligo di motivazione, sempre e, credo
di potere affermare, anche quando le parti non abbiano fatto espressa
richiesta di questo regime, quanto a dire anche quando le domande
avanzate in giudizio vadano nella direzione di un affido monogenitoriale
(cfr. Trib. Bologna, 9 maggio 2006, che ha disatteso la richiesta conforme
delle parti di disporre l’affido esclusivo alla madre e ha fatto applicazione di
quello generale condiviso, sul rilievo che “si verte in materia di diritti del
8
minore indisponibili e che non sono emerse situazioni di pregiudizio per il
minore o altre circostanze ostative all’applicazione della disciplina del c.d.
affidamento condiviso”).
La riferita “inversione” dei regimi previsti, suggellata dall’utilizzo
dell’avverbio prioritariamente, comporta che il percorso di indagine sia
quindi ribaltato e coinvolga, certo non ultimi, anche gli ausiliari del giudice
(gli esperti che assumano la veste di CTU) e le figure professionali che, pur
nel retro del processo e senza un ingresso diretto nell’arena del conflitto
giudiziario, hanno oggi trovato riconoscimento nell’ambito della gestione e
della promozione delle risorse genitoriali, e cioè i mediatori familiari: gli uni
e gli altri dovranno, al pari dei giudici, delle parti e dei loro legali, abituarsi
a valutare prima di ogni altra ipotesi la fattibilità di un regime di
affidamento condiviso, solo in caso di verifica negativa passando all’esame
di una possibile, e subordinata, soluzione monogenitoriale.
Mi sembra importante segnalare che, proprio nel rispetto dell’ottica
finalistica delle nuove norme, l’affidamento ad entrambi i genitori non
possa essere escluso solo in presenza di dissapori o contrasti all’interno
della coppia, così restando superato un orientamento in precedenza diffuso
che vedeva nell’esistenza del conflitto tra gli adulti la prova della loro
incapacità di cooperare come genitori e, quindi, dell’impossibilità di
pervenire ad un affidamento “congiunto” della prole: sarà, invece, da oggi
in poi necessario verificare la sussistenza di circostanze e/o caratteristiche
personologiche inerenti l’uno o l’altro genitore destinate a ripercuotersi
negativamente sui figli e tali da divenire per loro pregiudizievoli ove
amplificate dall’applicazione del nuovo regime di affidamento condiviso.
Si vedano sul punto, T.M. Milano, decr. 20 giugno 2006 (si applica
l’affidamento condiviso anche nei casi in cui vi sia mancanza di spirito
collaborativo o siano presenti difficoltà di comunicazione tra i genitori, con
la previsione che in questi casi è del resto opportuno l’esercizio disgiunto
9
della potestà per le questioni di ordinaria amministrazione), Trib. Catania,
ord. 5 giugno 2006 e Trib. Catania, ord. 18 giugno 2006 (che nel disporre
l’affido esclusivo ha, comunque, sottolineato che neppure la notevole
conflittualità è motivo ostativo al regime condiviso), Trib. Ascoli Piceno,
decr. 13 marzo 2006 (che, pur in presenza di un’altissima conflittualità tra
i coniugi, dispone l’affidamento congiunto, con domiciliazione privilegiata
presso il padre), mentre in dottrina ancora M. SESTA e L. BALESTRA, op. cit.
Anche nel caso in cui sia realizzabile l’ipotesi primaria, e generale, il
giudice avrà sempre il potere - dovere di “determinare i tempi e le modalità
della presenza dei figli presso ciascun genitore e di fissare la misura e il
modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura,
all’istruzione
e
all’educazione
dei
figli”,
con
il
che
si
viene
a
ragionevolmente escludere la pertinenza di un’interpretazione secondo la
quale simile intervento decisorio del giudice potrebbe esplicarsi solo
nell’ambito dell’affidamento monogenitoriale.
Infatti, anche nell’ipotesi di un affidamento condiviso sarà sempre
necessario individuare il genitore presso il quale il minore abbia la
localizzazione prevalente della sua vita e sia, quindi, collocato (qui avendo
di conseguenza la sua residenza anagrafica), così come sarà in buona
sostanza imprescindibile fissare i tempi e le modalità attraverso i quali sia
garantita la frequentazione del genitore non collocatario, vuoi per la
realizzazione di quelle necessarie certezze alle quali ho già fatto cenno vuoi
perché di tali tempi di presenza del minore presso l’uno e l’altro genitore
deve tenersi conto ai fini della determinazione dell’assegno periodico di
mantenimento o, in caso di mantenimento c.d. diretto, dell’opportuna
ripartizione dei relativi oneri tra i coobbligati.
Dovrà, infatti, parimenti il giudice determinare la misura e il modo
con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura,
all’istruzione e all’educazione dei figli: questa disposizione sembra, almeno
10
a mio avviso, segnalare come sia stata abbandonata l’originaria, generale e
insuperabile previsione di un mantenimento diretto (e per “capitoli di
spesa”, comportante di fatto una frammentazione della vita dei minori e
una parcellizzazione dei compiti genitoriali già dai primi commentatori
segnalate come inaccettabili) e della fissazione di un assegno meramente
“perequativo” e avere ribadito che – in difetto di diverso accordo delle parti
e di una positiva valutazione circa la sua adeguatezza all’interesse del
minore – quella dell’assegno periodico di mantenimento costituisce ancora
una delle previsioni generali e necessarie; non mi sembra che a una simile
lettura possa essere di serio ostacolo la formulazione del comma quarto
dell’art. 155 (“il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un
assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità…”),
potendo a tale riguardo ritenersi che laddove manchi un accordo preciso e
apprezzabile su diverse modalità di contribuzione il giudice debba
procedere alla determinazione dell’assegno, non potendo diversamente
garantire con sufficiente certezza che le esigenze di vita del minore siano
prontamente e congruamente soddisfatte.
La tesi sin qui riferita sembra avere trovato conferma nei principi
proprio di recente affermati dalla Suprema Corte (Cass., I civ., sent. 18
agosto 2006, n. 18187), alla stregua dei quali “l’affidamento condiviso è
istituto che per le sue finalità riguardanti l’interesse del minore dal punto
di vista del suo sereno sviluppo, del suo equilibrio psico – fisico e del
perpetuarsi
dello
schema
educativo
già
sperimentato
durante
il
matrimonio, non può certo far venire meno l’obbligo patrimoniale di uno
dei genitori di contribuire al mantenimento dei figli mediante la
corresponsione di un assegno a favore del genitore con il quale gli stessi
convivono”.
Naturalmente, anche aderendo a questo recentissimo (e a mio avviso
apprezzabile) orientamento di legittimità, la nuova gestione condivisa
11
dell’affidamento comporterà che sia possibilmente lasciato uno spazio
maggiore al concorso diretto di ciascun genitore alle spese da effettuarsi
nell’interesse del minore, sempre che sussista il ragionevole convincimento
che il relativo obbligo venga correttamente rispettato e gestito dai
coobbligati; resta ferma l’opportunità, qualora risulti che alla prestazione
diretta
uno
dei
genitori
non
ha
adempiuto,
di
procedere
alla
determinazione di un assegno periodico omnicomprensivo, al principale
scopo di rendere l’obbligazione di mantenimento suscettibile di esecuzione
forzata e di consentire l’adozione dei provvedimenti di corresponsione
diretta ex artt. 156 sesto comma cod. civ. e 8 legge divorzile.
7 - Affidamento e esercizio della potestà.
Un’opzione interpretativa da più parti espressa nell’immediato dell’entrata
in vigore della nuova disciplina è stata quella che vedeva come introdotto il
principio – nuovo e indefettibile – secondo il quale l’esercizio della potestà
sarebbe sempre in capo ad ambedue i genitori, indipendentemente cioè da
un affidamento ad entrambi o da quello esclusivo: da qui l’osservazione già
da taluno prospettata in termini di assoluta consequenzialità che, non
essendo previste deroghe, la limitazione o l’esclusione della potestà
genitoriale sarebbero possibili solo per circostanze riconducibili a quelle
previste dagli artt. 330, 333 e 336 c.c., il che comporterebbe del resto
l’insorgere della competenza funzionale del tribunale per i minorenni (cfr.
A.
BUCCI,
il
quale
afferma
che
“accanto
alla
figura
prioritaria
dell’affidamento congiunto alla quale è connaturato l’esercizio congiunto
della potestà, può dirsi che anche nell’affidamento monogenitoriale la
stessa potestà permane in capo ad entrambi i genitori”).
A una iniziale convergenza sul punto si è del resto ben presto
contrapposta una diversa linea, che potrebbe dirsi già oggi maggioritaria
sia in dottrina che in giurisprudenza.
12
Ci si è, infatti, domandato quale potrebbe essere il contenuto di un
affidamento esclusivo – riconosciuto sempre possibile, ancorché come
soluzione subordinata se non del tutto residuale – se l’esercizio della
potestà dovesse rimanere sempre in capo ad entrambi i genitori e tenuto
conto del fatto che anche all’interno del regime primario è possibile che
“limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione il
giudice stabilisca che i genitori esercitino la potestà separatamente”.
Il quesito non è di poco conto, dal momento che, seguendo la prima
impostazione, ci si troverebbe di fronte a due situazioni che, a prescindere
dalle formule utilizzate, verrebbero ad essere nella sostanza coincidenti: la
soluzione prospettata è quella che in caso di affidamento monogenitoriale
(del resto previsto nell’art. 155 bis, cui deve attribuirsi piena autonomia
anche se la disposizione manca di un contenuto specificativo del regime
della potestà in questa formula di affidamento) l’esercizio della potestà
deve intendersi esclusivo in capo al genitore affidatario, fermo restando
che “le decisioni di maggiore interesse sono assunte di comune accordo” e
che in caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice, secondo una
ragionevole integrazione con il terzo comma dell’art. 155 che potrebbe dirsi
avere sostituito il mero potere di vigilanza che al genitore non affidatario
era riconosciuto in base al “vecchio” testo dell’art. 155 c.c. e reso più
cogente l’obbligo di assumere insieme quella rilevante tipologia di
decisioni.
Ciò premesso, si noti che sul punto anche la giurisprudenza ha
registrato nei primi mesi di applicazione una sorta di conversione nel
senso prospettato (cfr. T.M. Trento, decr. 11 aprile 2006, che ha affermato
come anche in caso di affidamento esclusivo la potestà genitoriale è
esercitata da entrambi i genitori e le decisioni di maggiore interesse relative
all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo
tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione e delle aspirazioni dei figli.
13
Contra: Tribunale Catania, ord. 1 giugno 2006, che, andando per vero
ancora oltre, giunge alla conclusione che la locuzione contenuta nell’art.
155, co. 3, modificato è da intendersi riferita solo all’affidamento condiviso,
e non anche a quello esclusivo: da qui l’ulteriore corollario che il giudice,
ogniqualvolta disponga l’affido esclusivo della prole dovrà disporre altresì
l’esercizio esclusivo della potestà in favore del genitore affidatario, fermo
restando il mantenimento da parte del non affidatario della titolarità della
potestà, con tutti gli effetti derivanti dal regime ante riforma, ai sensi
dell’abrogato art. 155, co. 3. c.c.).
Mi pare assolutamente pertinente e opportuna la notazione della
dottrina (M. SESTA, op. cit.)
secondo la quale quando il giudice, in
considerazione dell’interesse del minore, dispone l’affido a un solo genitore,
non può limitarsi ad usare un’espressione lessicale che faccia riferimento
all’esclusività e a disporre in ordine ad una prevalente collocazione presso
un genitore “ma deve necessariamente – oltre che motivare la scelta –
anche pronunciarsi in ordine all’esercizio della potestà, distinguendo
nettamente la posizione del genitore affidatario da quella dell’altro: l’uno,
in linea di massima, sarà titolare dell’esercizio esclusivo della potestà e
dovrà attenersi alle condizioni determinate dal giudice, l’altro avrà titolo
per adottare congiuntamente all’affidatario le decisioni di maggiore
interesse per il figlio e avrà il diritto e il dovere di vigilare sull’istruzione ed
educazione”, restando così sottolineato il fatto che il legislatore della
Riforma
non
ha
modificato
nella
sostanza
la
fisionomia
propria
dell’affidamento esclusivo che rimane, anche per l’intervento del giudice,
caratterizzato dall’esercizio esclusivo della potestà da parte dell’affidatario.
8 – (Art. 155 terzo comma)
La maggiore ricaduta sull’organizzazione degli uffici e sulla difficoltà di
offrire
una
risposta
tempestiva
si
avrà,
con
ogni
probabilità,
in
conseguenza dell’applicazione della disposizione che prevede che “in caso
14
di disaccordo la decisione è rimessa al giudice”, con riguardo cioè alle
decisioni di maggiore interesse per i figli che dovrebbero essere sempre
assunte dai genitori “di comune accordo”.
Va subito notato che, a differenza di quanto disposto dall’art. 316,
co. 3, qui il giudice, in caso di disaccordo, è chiamato ad assumere
direttamente la decisione più confacente all’interesse del minore e non già
ad attribuirne il relativo potere a quello dei genitori che, nel singolo caso,
ritenga più idoneo: la differenza può spiegarsi con il fatto che, una volta
cessata la convivenza tra i genitori, non sussiste più la necessità di
preservare l’autonomia familiare e il compito del giudice può essere
amplificato.
Si tratterà, comunque, di trovare al più presto una prassi condivisa
sull’individuazione di questa categoria di decisioni inerenti all’istruzione,
all’educazione e alla salute (e ci si può prefigurare la scelta del corso
scolastico e dell’istituto da frequentare, la partecipazione o meno al
catechismo, particolari o importanti corsi sportivi da intraprendere, la
scelta dei sanitari ecc.), tenendo sin da ora presente che la voce
“educazione” si presta a comprendere in sé tutto e più di tutto e che in
mancanza di un accordo dei genitori il rischio che concretamente si profila
è quello di una devoluzione al giudice (del merito) di questioni che ben
difficilmente potrebbe essere il medesimo in grado di valutare a fondo e
con reale obiettività, ovvero prescindendo dalle personali inclinazioni e
impostazioni di pensiero.
Una prima esigenza dovrebbe, allora, essere quella di ricercare una
precisa individuazione ed esemplificazione delle decisioni di maggiore
interesse, in senso rigoroso e restrittivo (arrivando quasi a delle categorie
predefinite), pena il rischio di gravare in termini eccessivi i tribunali e di
svuotare di contenuto l’esercizio della potestà, in contrasto con la
15
normativa che tende invece a richiamare i genitori alla piena e paritaria
corresponsabilità.
Per le decisioni di ordinaria amministrazione (ovvero per quelle di
carattere
routinario,
dovendosi
invece
al
riguardo
respingere
l’interpretazione secondo la quale queste sarebbero esclusivamente di
ordine patrimoniale) il giudice ha la possibilità di stabilire che i genitori
esercitino la potestà separatamente: quando avrà in concreto questa
possibilità ? In prima battuta potrebbe dirsi quando ha verificato che si
sono posti, o verosimilmente potrebbero porsi, dei problemi di gestione (es.
uno dei genitori risiede lontano, uno dei due ha scarse possibilità di
frequentazioni assidue, risulta che il minore non riesce a comunicare bene
e con sincerità o naturalezza con uno dei due genitori ecc.), ma credo che
si debba evitare il consolidarsi di una prassi che veda il presupposto di
una simile statuizione nella prova che una irrisolta conflittualità tra i
genitori ha provocato negativi effetti sul piano della adozione di questa
tipologia di decisioni nella vita quotidiana della prole: non si dovrà, in altre
parole, attendere l’esito negativo della sperimentazione del regime primario
e generale per giustificare il passaggio verso questa soluzione subordinata
o, se si preferisce, alternativa.
Anche qui sarà, allora, indispensabile trovare al più presto una linea
comune
sia
nell’individuazione
delle
questioni
di
“ordinaria
amministrazione” sia di principio: potrebbe, ad esempio, essere opportuno
prevedere che, allorquando la frequentazione dell’altro genitore abbia
cadenza alquanto ridotta, questioni di una simile tipologia siano rimesse al
solo genitore che con il minore condivide il quotidiano, perché è in effetti
l’unico in grado di avvertire le sue esigenze più spicciole e di decidere di
conseguenza, con quell’autonomia che non di rado è l’unico strumento per
garantire la prontezza dell’intervento.
16
Già si è profilato, del resto, il pressante suggerimento che il giudice
proceda a demandare sempre e in ogni caso le decisioni di ordinaria
amministrazione al genitore al momento collocatario del minore, proprio
per favorire la speditezza delle relative determinazioni di carattere
quotidiano e non vincolarle a un accordo che può essere talvolta difficile
realizzare con la richiesta sollecitudine: si avrebbe, così, la garanzia che
ciascun genitore sia autorizzato a decidere indipendentemente dal
consenso dell’altro nel momento in cui il figlio è collocato presso di lui.
9 - Il mantenimento.
L’art. 155 co. 4 prevede che “salvo accordi liberamente sottoscritti dalle
parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura
proporzionale al proprio reddito”.
Il dettato normativo pone immediati problemi all’attenzione dell’interprete.
a) – Il criterio della proporzionalità è già previsto dagli artt. 143, 147 e 148
c.c.
ed
è
quindi
principio
fondamentale
e
normalmente
ritenuto
inderogabile, così che ci si deve domandare se esso possa essere invece
oggi derogato attraverso un diverso accordo delle parti sottoscritto
“liberamente”, con riconoscimento di una supremazia dell’autonomia
privata sulle generali disposizioni di legge.
Prima di tutto deve essere precisato che al giudice compete la verifica che il
diverso accordo sia stato raggiunto in piena libertà e coscienza, cioè al di
fuori di pressioni, condizionamenti o valutazioni estranee all’interesse
precipuo del minore; se non fosse consentito effettuare questo controllo
preliminare, e quindi apprezzare se l’accordo si ponga in termini di efficace
tutela dell’interesse del minore, si avrebbe la conseguenza – inaccettabile –
che sul piano economico gli accordi delle parti sfuggono alla verifica
giudiziale e non sarebbe neppure rispettato il disposto dell’art. 155 co. 2
riformulato (“…prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli
accordi intervenuti tra i genitori”).
17
E’ stato al riguardo osservato (M. SESTA, op. cit.) che un accordo
totalmente derogatorio rispetto al criterio di proporzionalità non è
accettabile, in quanto confliggente con il principio generale dell’art. 148
c.c.,
a
sua
volta
costituzionalmente
espressione
garantito:
da
del
qui
principio
la
di
eguaglianza
consequenziale
ipotesi
interpretativa secondo la quale la disposizione in esame dovrebbe essere
letta nel senso che è consentito ai genitori di accordarsi circa le rispettive
modalità di mantenimento, con ciò intendendosi che questo può essere
prestato in forma diretta o indiretta per il tramite di un assegno, ma fermo
il rispetto del criterio di proporzionalità riconosciuto da una norma
generale, e non modificata, che trova riconoscimento negli stessi superiori
principi d’ordine costituzionale .
Resta sempre salvo, a mio avviso, il compito del giudice di valutare a
fondo la regolamentazione privata, chiedere chiarimenti, valorizzare i
compiti di accudimento diretto e le cure domestiche ecc., così che non
potrà il medesimo del tutto passivamente fare propri accordi che non siano
improntati all’attuazione del principio di proporzionalità ma dovrà, per
converso, in via complessiva apprezzare se l’apparente non puntuale
proporzione trovi invece ragion d’essere in una pertinente diversificazione
dei singoli apporti e della loro rispettiva natura.
b) – L’assegno è previsto “ove necessario” e in quel caso deve essere
determinato tenendo conto di cinque parametri, due dei quali nuovi
rispetto all’applicazione giurisprudenziale più consolidata, e cioè quello dei
“tempi di permanenza presso ciascun genitore” e della “valenza dei compiti
domestici e di cura svolti da ciascuno”.
E’ stato a tale riguardo osservato (cfr. M. SESTA, op. cit.) che, stando
alla lettera della legge, con accordi scritti i genitori possono prevedere di
assumere direttamente parte degli oneri di mantenimento, mediante
attribuzione di un bene o il pagamento diretto di beni o prestazioni
18
nell’interesse dei figli, ferma restando la funzione “riequilibratrice”
dell’assegno, anche se questo non può più essere definito perequativo
(come nella precedenti stesure della legge).
Non è mancato chi (cfr. PADALINO) ha invece ritenuto che l’art. 155 co.
6, l’art. 155 quinquies (assegno per figli maggiorenni), l’art. 3 (disposizioni
penali) sembrano attestare una generale eliminazione del mantenimento
diretto e la scelta legislativa finale di prevedere come forma di
contribuzione ordinaria quella indiretta attraverso il versamento di un
assegno, tesi che pare avere del resto trovato conferma nella recentissima,
e già in precedenza ricordata, Cass. 18 agosto 2006, n. 18187.
Una soluzione concretamente prospettabile può essere quella che,
dove gli accordi non siano convincenti o vi sia acceso contrasto tra le parti
(come di norma avviene nei procedimenti contenziosi), il giudice può
sempre stabilire l’assegno, anche se nel contempo può opportunamente
prevedere una concorrente ripartizione tra i genitori delle spese per i figli
con modalità dirette: è prevedibile, ma anche ragionevole, la conclusione
che, in presenza di una consistente conflittualità in ordine alla ripartizione
o alla quantificazione degli obblighi di mantenimento, il giudice finirà con il
ravvisare necessaria la determinazione di un assegno periodico, in questi
termini dando conto del rispetto della volontà legislativa espressa
attraverso l’introduzione dell’inciso “ove necessario”.
Sul punto disponiamo di dati abbastanza significativi nell’ambito del
distretto: il mantenimento con modalità “dirette” non è mai disposto nelle
procedure contenziose, neppure quando è al riguardo avanzata richiesta
da parte del genitore non collocatario; più della metà degli uffici procede,
invece, in tal senso quando a richiederlo siano congiuntamente entrambi i
genitori.
In caso di mantenimento diretto diversi tribunali attribuiscono ai
genitori il compito di provvedere del tutto liberamente alle esigenze dei figli,
19
mentre pare non avere riscontrato alcun successo l’ipotesi (fatta propria
dal legislatore nelle prime stesure della Riforma) che sia il giudice a
ripartire gli oneri secondo “capitoli di spesa”.
Quale corollario di simile evidente diffidenza verso il mantenimento
in
forma
diretta,
la
prevalente
parte
dei
tribunali
ricorre
alla
determinazione di un assegno periodico sempre e in ogni caso, il che
equivale a dire che l’assegno non è meramente perequativo ma destinato
ad assolvere in via del tutto prevalente l’obbligazione di mantenimento,
fatta salva in linea pressoché generale la concorrente previsione di un
accollo percentuale (di massima al 50%) delle spese mediche, scolastiche e,
più in generale, straordinarie.
c) – L’art. 155 co. 4 riferisce la proporzionalità al reddito, mentre il punto
4) dello stesso comma fa riferimento alle “risorse economiche” di ciascun
genitore.
Nonostante tale contraddizione lessicale, secondo una tesi, che ritengo
condivisibile, ciò starebbe a significare che nulla è cambiato rispetto al
passato e che deve aversi riguardo alla previsione di cui all’art. 148 c.c.,
con la conseguenza che dovranno venire in considerazione “le sostanze dei
coniugi nel loro complesso” (in questo senso, cfr. L. BALESTRA, op. cit.).
d) – Tra i cinque criteri da seguire ed applicare per la determinazione
dell’assegno in favore dei figli non è previsto quello dell’assegnazione della
casa coniugale (art. 155 co. 4), mentre l’art. 155 quater (“Dell’assegnazione
della casa il giudice tiene conto nella regolamentazione dei rapporti
economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”) lo
considera elemento da valutare nei rapporti economici tra i coniugi.
La discrasia è a mio avviso solo apparente e non deve essere
enfatizzata dall’interprete, perché l’assegnazione della casa rappresenta un
beneficio anche per il genitore collocatario o affidatario della prole, è
destinata a incidere sulle rispettive situazioni economiche e costituisce
20
un’importante
forma
di
contribuzione
diretta
alle
esigenze
di
mantenimento della prole.
e) – Per il mantenimento dei figli maggiorenni l’art. 155 quinquies prevede
solo la corresponsione di un assegno, così che sembrerebbe doversi
escludere l’ipotesi che alle esigenze del maggiorenne possa provvedersi con
modalità dirette: ci si deve, allora, domandare se possa in ipotesi il giudice
procedere egualmente in tal senso, ripartendo tra i genitori i singoli titoli di
spesa.
Seguendo una prima tesi, ancorata al dato letterale, sembra doversi
dare una risposta negativa, sia perché il dettato non pare consentirlo sia
perché “di norma” l’assegno per il figlio maggiorenne deve essere versato
direttamente al beneficiario medesimo; resta però da verificare, e sul punto
la prassi in via di formazione ci darà presto un qualche segnale, se una
soluzione di questo tipo non crei un contrasto poco accettabile nel
raffronto con le disposizioni in tema di mantenimento della prole minore,
tenuto conto che a livello operativo, e di garanzia dei diritti del soggetto
beneficiario, non si rinvengono ragioni ostative a che ciascuno dei genitori
assolva agli obblighi su di lui pro quota gravanti mediante l’assunzione in
via diretta di talune voci di spesa.
E’ peraltro opportuno precisare che il versamento diretto dovrebbe
essere disposto solo se al momento della pronuncia il figlio abbia già
raggiunto la maggiore età, mentre se il regime era quello previsto per il
figlio minore (con la legittimazione del genitore convivente) dovrà, se del
caso, essere instaurato un procedimento di revisione delle condizioni (ex
artt. 710 c.p.c. e 9 legge div.), in difetto del quale continuerà ad essere
efficace la corresponsione al genitore già in precedenza destinatario del
pagamento (contra, M. FINOCCHIARO, il quale sostiene la sopravvenuta
inefficacia dei provvedimenti emessi in precedenza a favore del genitore
affidatario o convivente, con la conseguenza che l’obbligato, per essere
21
stimato
adempiente,
deve
versare
l’assegno
direttamente
al
figlio
maggiorenne).
A mio avviso, in via di estrema sintesi, il precedente assetto deve
necessariamente conservare piena validità sino a diverso provvedimento,
sia perché i genitori (e anche il figlio) potrebbero non avere alcun interesse
a una diversa regolamentazione, sia perché debbono tendenzialmente
evitarsi situazioni di “vuoto” nel regime, dal momento che eventuali
inadempimenti darebbero luogo, nell’incertezza sulla legittimazione attiva,
a situazioni creditorie di ben difficile superamento sul piano del recupero
coattivo.
Inoltre, la norma di cui all’art. 155 quinquies, seconda parte, c.c.
presuppone sempre un controllo del giudice su chi debba essere il
destinatario del pagamento, con la possibilità che – tenuto conto di tutte le
circostanze del caso – sia conservata la corresponsione a favore del
genitore: anche da qui l’impossibilità di aderire ad una soluzione che veda
la
perdita
automatica
di
efficacia
del
provvedimento
nella
sua
conformazione antecedente al solo raggiungimento della maggiore età da
parte del figlio destinatario del contributo periodico.
10 – (L’art. 155 sexies)
La disposizione riconosce e prevede la possibilità per il presidente di
assumere mezzi di prova anche prima dell’emanazione dei provvedimenti
provvisori relativi (però) solo ai figli, perché è presente il richiamo esplicito
al solo art. 155, e ciò sia su istanza di parte che in via officiosa.
Molto più problematico sarà giungere a una lettura coerente e
uniforme del verbo “dispone” che è utilizzato con riguardo all’audizione del
figlio
ultradodicenne
e
di
età
anche
inferiore
purché
dotato
di
discernimento: il presente indicativo, secco, e la scelta di non utilizzare la
diversa formula “può disporre” sembrano indicare un orientamento volto
alla rigida applicazione delle Convenzioni internazionali (New York 1989 e
22
Strasburgo 1996) e allo strumento dell’audizione personale e diretta come
un passaggio obbligato prima dell’assunzione di qualsiasi provvedimento.
Se così dovesse concludersi (e mi pare che una lettura nel senso
dispone = può disporre, pure da taluni prospettata, non possa essere
condivisa), la ricaduta sui tempi del giudizio e sulle modalità organizzative
degli uffici giudiziari sarebbe imponente; non voglio affatto scendere nel
merito della previsione e del mancato espresso riconoscimento del potere
del giudice di distinguere un caso dall’altro e, così, di scegliere di non
coinvolgere il minore ove non ve ne sia una stringente necessità, ma qui mi
preme anzitutto sottolineare come i nostri uffici non siano affatto pronti ad
accogliere ogni giorno piccoli eserciti di minori, spaesati, intimoriti e
accompagnati da genitori che neppure riescono in quel momento a parlarsi
se non attraverso il canale dei loro difensori.
E, ancora, se così fosse dovrebbe forse pensarsi ad approntare
strutture idonee e ad avvalersi – in via stabile e organicamente
riconosciuta – di personale ausiliario dotato di competenza specifica,
anche solo per evitare che quello che è sempre stato visto come il diritto
del minore di far sentire la propria voce nel processo degli adulti finisca
con il diventare occasione maldestra di sofferenza e destabilizzazione,
prima fra tutte quella che si crea ove dovesse il minore pensare di essere
diventato ex lege arbitro della propria situazione e ago della bilancia anche
della controversia all’interno della coppia genitoriale.
In ogni caso, dal momento che delle audizioni deve comunque
prevedersi un consistente aumento anche qualora dovesse giungersi a
negarne una indiscriminata generalizzazione 2 , la necessità di approntare
2
Si noti che M. SESTA, op. cit., formula opzione verso la non obbligatorietà dell’audizione del
minore, suggerendo una lettura “elastica” dell’art. 155 sexies c.c. che consenta al giudice di
motivatamente omettere tale incombente, ad esempio quando i genitori gliene facciano concorde
richiesta ed egli non abbia motivo di ritenere che tale istanza comprometta l’effettivo interesse del
minore: detto altrimenti, secondo l’A. deve essere consentito al giudice di optare per il mancato
23
un setting adeguato e tutelante non può più essere differita, così che mi
sento di ribadire l’urgente necessità sul piano organizzativo di attuare un
protocollo d’intesa e una collaborazione con i servizi territoriali, in modo da
avere la garanzia di personale ausiliario del giudice pronto ad accogliere il
minore per una sua audizione delegata (e condotta con modalità realmente
tutelanti).
Forte è la preoccupazione nata da una lettura che sembra imporre
questa audizione prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori, sia
perché in quel momento il presidente non può essersi fatto un’idea
completa della situazione del nucleo familiare nei suoi vari aspetti sia
perché è ben intuibile che i tempi di fissazione e di espletamento di queste
udienze finirebbero con il dilatarsi a dismisura, in contrasto con l’esigenza
di celerità e concentrazione che è sempre più da tutti rappresentata.
Potrebbe,
allora,
suggerirsi
una
lettura
che
“stacca”
questa
previsione dalla prima parte dello stesso 1° co. (dove è presente l’inciso
“anche in via provvisoria”, non ripetuto nella seconda parte) e ipotizzarsi
che l’audizione sia sì sempre un passaggio obbligato ma da collocarsi nel
momento processuale più opportuno, lasciandone l’individuazione al
giudice istruttore: questa soluzione avrebbe in sé l’innegabile vantaggio di
garantire il mantenimento dei tempi normali di fissazione dell’udienza
presidenziale e, al tempo stesso, di consentire al G.I. di trovare il momento
e, quindi, le modalità più convenienti per il suo contatto diretto, o mediato,
con il minore.
Va da sé che una simile opzione interpretativa non escluderebbe la
possibilità per il presidente, ove sollecitato e in presenza di un forte
contenzioso
sul
tema
dell’affidamento,
di
procedere
ancor
prima
dell’emanazione dei provvedimenti provvisori a detta audizione, così come
ascolto, effettuando la scelta più ponderata tra l’astratto soddisfacimento dell’interesse del minore
ad essere ascoltato e quello concreto a che gli sia evitato un grave e gratuito pregiudizio.
24
del
resto
nessuna
preclusione
vi
sarebbe
ad
una
rinnovazione
dell’incombente in un momento successivo, ad opera dell’istruttore.
Per quanto mi consta, allo stato l’orientamento assolutamente
prevalente è quello di escludere l’audizione del minore in tutte le procedure
“consensuali” e di riservarne l’espletamento al solo ambito delle vertenze
contenziose, nel momento processuale più opportuno; il Tribunale di
Monza ha già attivato una stretta collaborazione con la ASL di competenza
al fine di poter fruire di operatori specializzati sia per l’audizione delegata
che per quella diretta, stimata del resto opportuna se non persino
necessaria anche con riguardo a minori infradodicenni e di assai tenera
età, specie ove il contenzioso sull’affidamento si presenti particolarmente
acceso.
Più in particolare, i dati sinora acquisiti segnalano che nessun
tribunale del distretto procede sempre all’ascolto del minore, ovvero
quando non vi sia richiesta di almeno un genitore; diversi uffici procedono
all’incombente spesso in presenza di un’espressa richiesta e due (Monza e
Lecco) lo fanno quando sia riscontrata un’elevata conflittualità, mentre il
numero sale allorquando vi siano gravi motivi, in linea esemplificativa
riconducibili a un pregresso intervento del T.M. o dei Servizi.
Le modalità dell’audizione vedono una netta prevalenza di un
contatto diretto giudice/minore alla sola presenza del cancelliere (ove
disponibile), mentre solo pochi tribunali ammettono l’assistenza dei
difensori e, ancora, altrettanto pochi si avvalgono dell’ausilio di un esperto.
Alquanto significativo è il dato inerente al fatto che quando è
disposta una CTU il giudice ritiene, di massima, superflua l’audizione
diretta del minore, all’evidenza stimando sufficiente ai fini del rispetto della
previsione normativa un ascolto indiretto; vale poi la pena di sottolineare
che nessun ufficio del distretto si è sino ad oggi organizzato per una
(generale) videoregistrazione dell’audizione, ma questo è profilo che,
25
compatibilmente
con
l’ormai
noto
problema
delle
risorse
effettive,
meriterebbe di essere affrontato in un prossimo futuro con serietà e
determinazione, investendo non solo il tema della tutela del minore ma
anche quello del pieno rispetto del contraddittorio e, in via di estrema
sintesi, del giusto processo.
dott. Gloria Servetti
Corte d’Appello di Milano
26