LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO / IL CATTOLICESIMO
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LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO / IL CATTOLICESIMO
LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO / IL CATTOLICESIMO Cardinale Javier Lozano Barragán Quei confini da non valicare Il testamento biologico è lecito se evita l’eutanasia e rinuncia all’accanimento terapeutico. Se cambia al cambiare dello stato di salute del paziente e dei progressi della medicina. E se include sempre l’uso delle cure palliative Parlare adeguatamente del testamento biologico suppone il riferimento ad un’antropologia olistica. Secondo la visione che si ha dell’uomo, così risulterà la posizione che si adotta su questo testamento. I punti fondamentali sono: la vita, la sofferenza e la morte. La vita umana è inviolabile, giacché essa possiede il suo valore che corrisponde alla dignità della persona umana. Non si deve confondere la vita con la qualità di vita, questa si aggiunge alla vita, ma non aumenta la sua dignità fondamentale. Per il cristiano la vita è un dono di Dio, del quale noi siamo amministratori, non padroni. La morte è la maturità della vita. E’ il compimento di una tappa molto importante, ma transitoria; è l’inizio della vera vita, è il giorno della nascita all’autentica vita. Da questa tappa della vita dipende la sorte finale di ciascuno, è aperta al merito o al demerito e solo Dio fissa il suo termine. Il dolore ha una sua utilità perché è sintomo di una patologia e serve per la diagnosi e la terapia; tuttavia lo si deve alleviare, sull’esempio del Buon Samaritano. Ma, in ogni caso, la sofferenza sussiste giacché appartiene al corteo della morte. La sofferenza, se unita a quella di Cristo, ci associa a Cristo che ci redime con la sua passione, morte e risurrezione. Associarci così a Cristo nel dolore non ci dà il benessere, ma la felicità. La sofferenza ed il dolore, la morte, chiusi in se stessi sono un assurdo, ma quando, per l’amore divino, trascendono il tempo e lo spazio, Cristo ci assume nella sua sofferenza ed essi acquistano un senso positivo e pieno. In virtù di questo amore, appartengono alla vera qualità della vita. E’ in questo contesto che il testamento biologico deve essere l’espressione della volontà personale di disporre come si desidera essere assistiti negli ultimi momenti dell’esistenza. Il testamento biologico è entrato nella cultura attuale nel contesto della cosiddetta “autonomia del paziente”. Si dice che ponga fine al “paternalismo medico”, giacché non sarebbe più il medico, ma il paziente a determinare la cura che dovrebbe ricevere alla fine della vita, beninteso con il consenso pienamente informato del testante, allontanando così qualsiasi tentativo di eutanasia sociale. Alcuni però pensano che il suddetto testamento sia piuttosto un modo di camuffare, una maniera di abbreviare la vita dei pazienti terminali, un modo di limitare il potere attuale della medicina, che è in grado di allungare quasi indefinitamente e inutilmente la vita dei morenti, con il costo sociale ed economico che questo comporterebbe per un soggetto non più produttivo. Per riflettere con proprietà sul testamento terapeutico, si deve tener conto di alcuni punti nodali che devono essere esposti chiaramente. Il primo è l’eutanasia. L’eutanasia è ogni azione od omissione diretta a sopprimere la vita di un malato terminale con il proposito di eliminare il dolore. Altro punto sarebbe l’accanimento terapeutico. L’accanimento terapeutico consiste nell’ostinazione dell’uso di terapie inutili o sproporzionate che non portano alcun beneficio al paziente, ma servono soltanto a prolungare una dolorosa agonia. L’idratazione e la nutrizione in se stesse non appartengono all’accanimento terapeutico. Molto importanti ed in correlazione con il testamento biologico sono le cure palliative per i malati terminali. Esse consistono in terapie che non guariscono, ma leniscono il loro dolore. Mitigano il dolore. Le cure palliative sono di grande rilevanza, giacché restituiscono all’uomo quel minimo di serenità indispensabile per affrontare il momento più importante della vita, che è la morte. Facilitano una morte degna e cosciente, eliminando quell’eventuale dolore che non permette lo stato psicologico e spirituale adeguato per poter oltrepassare la soglia verso la pienezza della vita. Sul quesito della liceità morale del testamento biologico, come prima risposta si potrebbe affermare che un testamento biologico che sollecitasse l’eutanasia non sarebbe lecito. Tuttavia un testamento biologico che, accettando le cure palliative, rinunciasse all’accanimento terapeutico, sarebbe lecito. Per approfondire il senso di questa risposta mi permetto di aggiungere i seguenti commenti ed alcune precisazioni : Un primo punto si riferisce all’idratazione e nutrizione del paziente terminale. Questi interventi non possono in se stessi costituire un accanimento terapeutico, perché non sono terapie, ma il modo ordinario di soddisfare i bisogni del paziente che non è in grado di aver cura di sé. Un altro punto riguarda il fondamento del testamento biologico, cioè l’autonomia del paziente in opposizione al paternalismo medico. Alcuni affermano che il paziente, per poter procedere prudentemente alla stesura di questo testamento, dovrebbe tener conto dell’informazione fornita dal medico curante; dunque l’autonomia sembra una finzione. Altri pensano che il testamento biologico sia inutile e sostengono che sarebbe molto meglio fare opera di sensibilizzazione presso i medici affinché, con il consenso informato del paziente, evitino l’accanimento terapeutico, ricorrano di più alle cure palliative ed escludano qualsiasi prassi eutanasica. Si parla anche della necessità di flessibilità in questo strumento giuridico. Nel caso in cui venisse accettato il suddetto testamento, questi dovrebbe essere molto flessibile. Cioè, non dovrebbe essere redatto una volta per sempre, tanto più che viene scritto in circostanze diverse dalla sua applicazione: lo stato d’animo del testante, quando gode di buona salute, non è lo stesso di quando si trova con una grave malattia. Un punto importante è quello del fiduciario del testamento. Il fiduciario deve interpretare fedelmente la volontà del testante. La domanda che si pone è: chi dovrebbe essere questo fiduciario? Come si può essere certi che, in un caso concreto, il fiduciario non metta in atto interessi avversi al testante, aprendo la porta all’eutanasia? Ritornando ancora sull’accanimento terapeutico ed il suddetto testamento, bisogna ribadire che, in qualsiasi circostanza, si deve evitare l’accanimento terapeutico. Dobbiamo osservare che un elemento essenziale dell’accanimento è l’inutilità, o sproporzionalità delle terapie. Ma si deve tener presente che, dato il progresso continuo della medicina, alcune terapie che si pensavano inutili e sproporzionate quando è stato redatto il testamento biologico, alla sua applicazione forse non lo saranno più. Inoltre, è molto difficile stabilire la sproporzionalità delle terapie, giacché si devono prendere in considerazione molti elementi, come la proporzione rischio-beneficio, nel contesto economico, familiare, sociale e di politica sanitaria, nel quale si trova il paziente, ecc. Per concludere, prendendo in considerazione quanto detto, possiamo sintetizzare i seguenti punti, affermando che si potrebbe sostenere la liceità del testamento biologico: Se questo si unisse mediante un consenso informato alla decisione del medico curante di evitare sempre l’eutanasia e di rinunciare all’accanimento terapeutico. Così anche il paziente prenderebbe nelle proprie mani gli ultimi momenti dell’esistenza. Se si tenesse conto dell’evoluzione e del progresso della medicina per l’efficacia delle cure e dell’eventuale cambiamento delle circostanze economiche, sociali, familiari e di politica sanitaria riguardo al mutamento della sproporzionalità delle terapie. Se fosse flessibile, in maniera da poter essere modificato con il cambiare dello stato di salute fisica e psicologica del paziente gravemente malato. Se includesse sempre l’utilizzo delle cure palliative disponibili. Se si trovasse un vero fiduciario che intervenisse soltanto nel caso d’incoscienza del malato terminale, con la certezza morale che tale fiduciario interpretasse fedelmente la volontà del testante, evitasse l’accanimento terapeutico e non favorisse mai l’eutanasia. Se, per giudicare il caso di un accanimento terapeutico, ci si rimettesse al giudizio del medico o dei medici curanti e al paziente bene informato, o, in caso d’incoscienza di questi, al consenso della famiglia o dei legittimi rappresentanti del paziente e di un Comitato di Bioetica, se disponibile. LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO / L'ISLAM colloquio con Hassan Hanafi Hassanien La vita deve vincere sempre Rispettare la volontà umana. Ma all’interno di un contesto etico condiviso. E proteggere la vita. Anche quando la medicina vorrebbe mettere la parola fine. Perché la scienza è relativa. E quello che oggi non è possibile, domani forse lo sarà Hassan Hanafi Hassanien è professore di filosofia all’Università del Cairo. Hanafi è a Roma ospite del Senato per una discussione inter-religiosa sul tema della fine della vita. A rappresentare l’Islam in un ragionamento che, in vista della discussione della legge sul testamento biologico, tiene conto dei punti di vista delle diverse fedi. Professor Hanafi, in Italia si discute della possibilità di lasciare le proprie volontà di fine vita. Come si pone l’Islam? ”In Islam la vita è uno degli attributi del divino, Dio è vita, come nel cristianesimo e nel giudaismo. Di conseguenza, qualunque cosa protegga la vita è islamico, qualunque cosa che consenta alla vita di continuare è islamico. La scienza, dopo tutto, è limitante, è relativa. Non ha l’ultima parola. Fino a qualche tempo fa la tubercolosi era incurabile, ora non più. Oggi è incurabile il cancro: ma chi sa cosa sarà tra dieci, venti, cento anni: magari sarà curabile come una qualsiasi infezione”. Come si concilia il libero arbitrio, la volontà umana, con i precetti religiosi? “Con il rispetto dell’individualità umana, ma all’interno di un contesto etico condiviso. Se qualcuno vuole proteggere la sua vita, va bene. Se qualcuno vuole scrivere il proprio testamento, sempre che sappia cosa sta facendo, e non sia privo di conoscenza (perché il testamento deve esprimere una volontà libera), va bene. Ma tutto questo deve collocarsi all’interno di un sistema di valori socialmente condiviso. Nessuno può scrivere”voglio terminare la mia vita con l’eutanasia, perché so soffrendo troppo”. No. Questa è una volontà individuale, soggettiva, che deve sottostare a un sistema oggettivo di valori. Non possiamo porre fine alla nostra vita, perché non ne siamo i proprietari”. Anche in quei casi in cui la medicina ritiene che non ci sia più nulla da fare? ”Sì, anche in caso di morte cerebrale, se il cuore batte ancora, non possiamo porre fine alla vita di un malato. Perché nessuno può sapere cosa accadrà domani. Magari un giorno il sangue tornerà al cervello, e il cervello ricomincerà a funzionare. Pensi a quello che sta accadendo ad Ariel Sharon: si trova in una sorta di condizione di morte cerebrale, ma il suo cuore batte ancora da sei mesi a questa parte. La scienza è sempre aperta ad una maggiore conoscenza del corpo umano. E nella teologia c’è sempre la speranza della pietà di Dio, che è illimitata. Dunque non bisogna giudicare l’uomo che ha un cervello danneggiato come un uomo finito. Chi può davvero saperlo? La morte cerebrale non è la parola fine. Persino il battito cardiaco può non esserlo, perché il cuore può ricominciare a battere anche dopo uno, due, tre minuti. Non dobbiamo mettere la parola fine a qualcosa che può ancora restare aperto. Solo quando si è veramente sicuri che né il cervello né il cuore sono più funzionanti, allora possiamo dichiarare la morte. La vita deve essere naturale, così come la morte. Fabbricare la vita e la morte in laboratorio significa trasformare la scienza in volontà assoluta, al posto di Dio. Dunque si può dire che l’Islam è a favore di qualunque cosa che consenta il perpetuarsi della vita”. Dunque l’Islam non prevede la possibilità di lasciare le ultime volontà e dire “se il mio cervello non funziona più voglio morire”? Che tipo di testamento potrebbe essere? “Un testamento biologico deve restare all’interno dei limiti della vita umana, della libertà dell’uomo. Senza violare l’oggettivo sistema di valori. L’uomo non è solo in questo mondo. Vive come individuo, ma all’interno di un contesto. Dunque, quando è ancora cosciente ed è capace di prendere decisioni libere, può scrivere le sue volontà. Ma non ha il diritto di chiedere la fine della vita, anche se è disperato. Perché la vita è di Dio. Che motivo c’è di essere disperati, visto quello che la scienza è in grado di scoprire ogni giorno? Magari potrà essere curato, magari la sua pena verrà alleviata. Per questo non ha il diritto di porre termine a una vita di cui non è responsabile. Ciascuno è responsabile dell’uso della vita, ma non del suo termine. Se qualcuno scrive le volontà in cui dice di voler porre fine alla propria vita, il dottore non dovrebbe stare a sentire, perché sta prendendo una decisione su qualcosa che non gli appartiene. Per capire il modo in cui l’Islam gestisce queste situazioni, le faccio l’esempio dell’eredità”. In cosa consiste? ”L’islam in questo è molto chiaro. Supponiamo che un padre scontento dei suoi figli scriva un testamento che in cui chiede che i figli siano tagliati fuori dall’eredità. Per l’islam questo non è possibile. Perché un uomo è libero di scrivere le sue volontà, ma non di violare le leggi oggettive che regolano la divisione dell’eredità. Un uomo è libero di usare un terzo dei suoi averi, dandolo alla figlia, alla moglie, ad un ente pubblico, a un lontano parente e così via. Ma non è libero di vietare ai suoi figli di accedere agli altri due terzi dell’eredità. Non è libero di dare ad un figlio più di quanto darà ad un altro figlio. Questa è una questione di giustizia, e la giustizia è un principio universale, non possiamo viverlo come un principio soggettivo. In questo senso l’Islam propone un equilibrio tra la volontà soggettiva e un codice etico oggettivo”. Ma nel suo concetto di vita è compresa anche l’idea di una vita sostenuta artificialmente dalle macchine, dai respiratori, dalla nutrizione artificiale...? “Sì, perché la vita è vita, che sia sostenuta dall’interno o da un supporto esterno con delle macchine. Chi può dirlo: magari si può cominciare con un supporto esterno per aiutare la vita, e magari la vita più in là torna in grado di continuare senza supporto”. Dunque nessuno ha il diritto di chiedere la sospensione della vita, anche se la medicina dice che non avrà mai più la possibilità di respirare in modo autonomo? “Qui è l’errore del giudizio medico, scientifico. Non c’è nulla che si possa chiamare “mai”. La scienza è relativa. Quello che tu pensi sia impossibile oggi può essere possibile domani. E’ un errore contro lo spirito scientifico e lo spirito della medicina stessa dire che un paziente è senza speranza”. LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO / L'EBRAISMO colloquio con Amos Luzzatto Dei diritti e delle responsabilità Quando si tratta di decidere tra l’agonia e la morte il paziente non deve avere un ruolo passivo. Ma avere tutte le informazioni necessarie per una decisione responsabile. Il testamento biologico può sostituire la sua voce quando si trova in stato di incoscienza Ghesisà sta per agonia. E’ la parola ebraica che definisce il processo irreversibile verso la morte. Da qui parte la riflessione di Amos Luzzatto, già presidente dell’Ucei (Unione comunità ebraiche italiane), sul testamento biologico, perché intorno a quella fase della vita, in cui il corpo morente non rispecchia più l’immagine divina e si perdono quelle caratteristiche che danno valore alla relazione con gli altri e con dio, ruotano i grandi quesiti etici. Fino a che punto la scienza può spingersi? E’ giusto prolungare a tutti i costi e con tutti i mezzi il decorso inarrestabile di una malattia? “Non ci sono risposte valide universalmente e indifferentemente per tutti i casi, la decisione non può prescindere dalle sensazioni, dalla volontà e dal desiderio dei singoli individui”, afferma Luzzatto, che da medico è ansioso di introdurre da subito nella conversazione il punto di vista dei soggetti direttamente interessati". Il paziente al centro delle scelte. E’ questo che intende? "Sì, a parte la mia concettuale avversione per il termine “paziente”, che sottolinea il ruolo passivo dell’individuo in cura. Ed è proprio questo l’errore. Quando si tratta di decisioni così importanti come quelle se continuare o meno delle terapie, prolungare la fase di agonia o accelerare la morte, bisogna trasferire la scelta dal sanitario al diretto interessato, a cui vanno date tutte le informazioni necessarie per una decisione responsabile. Perché non esiste mai un’unica scelta, ma sempre un ventaglio di alternative. Il medico deve ascoltare allora cosa dice il paziente, solidarizzare con lui e immedesimarsi nella sua condizione. Il testamento biologico può sostituire la voce del paziente nel caso in cui questi si trovi in stato di incoscienza e quindi sia incapace di comunicare la propria volontà". Come viene affrontata nella tradizione ebraica, in assenza di un’istituzione centralizzata, la discussione sul testamento biologico? "Il dibattito etico che coinvolge le comunità ebraiche affronta gli stessi temi discussi altrove: cosa si intende per morte naturale, è lecito interrompere una cura, o viceversa continuarla nonostante un sicuro esito negativo, qual è la differenza, a mio avviso assai labile, tra interruzione dell’accanimento terapeutico ed eutanasia. Le grandi questioni restano le stesse, ma la discussione è priva di certezze dogmatiche. Nessuno parla ex cathedra e nel caso in cui venisse interpellato un rabbino, questi non darebbe mai una risposta unica. Il caso singolo verrebbe soppesato prestando molta attenzione alle possibili varianti. Al di là di questo dialogo aperto direi però che c’è un comune sentire. Per qualunque ebreo, anche per i meno religiosi, la possibilità di dettare le proprie volontà anticipate è vista non solo come un diritto, ma come un atto di responsabilità nei confronti della propria esistenza. Perché le decisioni cruciali non devono mai essere delegate, altrimenti si rischia di vivere come schiavi". La vita, nel pensiero ebraico, non è quindi un bene da difendere a tutti i costi? "Per un ebreo il valore della vita consiste nel seguire i precetti e dare così un contenuto etico alla propria esistenza. E’ un principio presente anche nelle persone non religiose. Quando le condizioni di salute di una persona impediscono questo approccio, allora ci si domanda se abbia un senso continuare a vivere. Del resto sono contemplate nella tradizione ebraica tre momenti in cui è meglio scegliere la morte: quando si è costretti ad uccidere, quando si è indotti a rapporti sessuali non corretti e in caso di idolatria. Anche il suicidio viene contemplato nell’ebraismo e nel testo biblico non mancano esempi di suicidi che meritano devozione". Di fronte alla sofferenza di un malato spesso i cristiani chiamano in causa il valore salvifico del dolore. Qual è il suo punto di vista a riguardo? "Non mi permetterei mai di giudicare la sofferenza di un altro. Il modo in cui si reagisce di fronte al dolore è frutto di una varietà di esperienze e dipende dalla cultura, dall’educazione, dalle convinzioni religiose e dalla sensibilità di ognuno. C’è sempre un modo personale di vivere la sofferenza che va rispettato. Non potrei mai arrogarmi il diritto di esaltare tutte le sofferenze in vista di una presunta salvezza dell’anima. Nella mia carriera di chirurgo mi sono trovato di fronte a chi preferì il suicidio all’amputazione di una gamba e chi invece con lo stesso danno ha continuato a condurre una vita intensa. Ciò che viene considerato una tortura per uno può non esserlo per un altro. Abbiamo avuto l’esempio di Piergiorgio Welby, ma abbiamo anche l’esempio di Stephen Hawking". C’è un’obiezione frequente al testamento biologico che in sostanza dice: e se si cambiasse idea, ma non si fosse in grado di esprimerlo? "E’ un rischio che esiste. Io stesso ho operato un aspirante suicida che appena uscito dalla sala operatoria mi domandava ansioso se poteva considerarsi fuori pericolo. Non possiamo negare che il problema ci sia. Né vedo come possa essere risolto con la nomina di un fiduciario a cui delegare la decisione. Di nuovo così si aggirerebbe la necessaria responsabilizzazione del diretto interessato. Per cui io penso che nonostante questi limiti il testamento biologico rimanga uno strumento efficace. Come dire, è un pericolo che vale comunque la pena correre". Giovanna Dall'Ongaro LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO / IL BUDDISMO Lama Thamthog Rinpoche La vita scorre in pace: verso la morte Se un paziente buddista ha una malattia che non può curare, non deve essere disturbato da trattamenti meccanici o artificiali. E bisogna rispettare il testamento che potrebbe aver lasciato in passato. In sua assenza, è corretto rispettare le volontà dei suoi parenti Lama Thamthog Rinpoche Io rappresento la religione buddista ed esprimerò alcuni concetti dal punto di vista buddhista. Noi buddhisti consideriamo molto importante che ci siano differenti insegnamenti spirituali o religioni nel mondo, per poter aiutare appropriatamente gli esseri che hanno differenti aspirazioni e capacità. La religione buddista è iniziata con Sakyamuni Buddha. Sakyamuni Buddha era una persona ordinaria, con una mente afflitta, colma di sofferenze, quindi iniziò la ricerca di una via di uscita dalle sofferenze tramite il sentiero spirituale. Egli stesso, praticando il sentiero interiore, raggiunse la completa Illuminazione e alla fine parlò della sua stessa esperienza. Così nacque il buddhismo. Gli insegnamenti di Buddha hanno due punti principali: il primo è la visione dell’interdipendenza della realtà, il secondo è il comportamento pratico non-violento. Ogni fenomeno mutevole è interdipendente e dipende dalle proprie cause e condizioni. I fenomeni mutevoli esistono solo interdipendentemente e non esistono autonomamente o indipendentemente. I fenomeni impermanenti che dipendono dalle loro cause e condizioni, hanno una precisa relazione di causaeffetto. La causa e l’effetto hanno una natura simile. Fra i fenomeni impermanenti troviamo gli esseri senzienti, che hanno vita, e altri fenomeni, di tipo materiale. Tutti gli esseri senzienti, senza nessuna eccezione, vogliono essere felici e non vogliono soffrire, però ognuno sperimenta una propria esperienza e tanti sperimentano le sofferenze. Questo significa che non c’è una singola causa per tutti, ma che ognuno crea una propria causa. Gli esseri senzienti non sperimentano tutti lo stesso tipo di risultato, ognuno fa una propria esperienza di felicità e sofferenza, diversa da quella degli altri. Questo accade perché l’esperienza di ognuno dipende dalle cause e condizioni individuali. Tutte le nostre esperienze sono dei risultati che dipendono da cause, e le cause sono le nostre stesse azioni passate. I risultati positivi o negativi maturano dipendendo dalle azioni positive o negative. Gli esseri senzienti accumulano le azioni, positive o negative, col corpo, con la parola e con la mente, per la propria felicità. Quindi, ognuno è ultimamente responsabile di se stesso. Chiunque, sulla base della propria pratica e azioni positive, ha la possibilità di realizzare l’Illuminazione finale. È una responsabilità personale, ma è realmente possibile. Per quanto riguarda il comportamento pratico non-violento, è importante fare ogni sforzo necessario per assumere un comportamento di natura gentile a livello del corpo, della parola e della mente. Il comportamento pratico non-violento è un’azione del corpo, parola o mente, compiuta con una motivazione di grande compassione, senza discriminare nessun essere senziente. È molto importante analizzare attentamente l’insegnamento di Buddha, per verificare la sua validità, accettandolo solo se lo si ritiene ragionevole e valido: non bisogna accettarlo con una fede cieca. Perciò, non c’è contraddizione fra l’insegnamento buddista, la parola “religione” significa “un metodo che aiuta a realizzare la felicità autentica e la pace interiore”. Tutti gli esseri senzienti sperimentano una propria esperienza di sofferenza, che può essere fisica o mentale. Quella mentale è la più grave. La prima cosa importante è conoscere le varie sofferenze: ognuno deve conoscere le proprie. Le sofferenze sono di differenti livelli. C’è una sofferenza che è molto evidente, ed è chiamata “sofferenza della sofferenza”. Un altro tipo di sofferenza è costituita da quelle esperienze che inizialmente sembrano felicità, mentre in realtà non lo sono e diventano sofferenza in seguito. Entrambe le sofferenze maturano dalla proprie cause. La causa ultima di tutto ciò è l’ignoranza. L’ignoranza è la non-conoscenza della realtà. Tramite l’ignoranza, sorgono l’attaccamento e l’odio. A causa di questi tre aspetti mentali afflitti, gli esseri accumulano azioni negative, che divengono le cause delle loro stesse sofferenze. La vera malattia degli esseri è la loro mente afflitta dalla ignoranza, dall’odio, dall’attaccamento. La mente afflitta causa a sua volta tante sofferenze di malattie fisiche. Certamente è importante migliorare ogni sistema di cura, utile per curare le malattie, ma è ancora più importante che ognuno si impegni per purificare la propria mente afflitta dall’odio, dall’attaccamento e dall’ignoranza, cercando almeno di limitare le proprie afflizioni mentali. Riducendo le afflizioni mentali, la mente naturalmente si calmerà e la calma mentale aiuterà ad evitare anche molte malattie fisiche. Sviluppando le qualità mentali della pazienza, della grande compassione e dell’amorevole gentilezza, si potrà avere la forza mentale, il coraggio, di sopportare le difficoltà, fisiche e le difficoltà fisiche potranno persino diventare le condizioni per un’ulteriore serenità. Questa non è una semplice storia, ma un’esperienza realmente possibile. Al giorno d’oggi, i metodi scientifici di cura delle malattie si sono incredibilmente sviluppati rispetto al passato. Generalmente, dal punto di vista buddista, noi crediamo che sia molto importante curare tutti i pazienti, senza discriminazione, con grande compassione per tutti gli esseri senzienti, inclusi gli animali. La ragione per cui si dovrebbe trattare con grande rispetto non solo gli esseri umani, ma anche gli animali, è perché la nostra sopravvivenza dipende totalmente dalla loro gentilezza e cooperazione. Ora, per quanto riguarda le malattie, ve ne possono essere di due tipi ed entrambi possono avere cause temporanee, ma da un punto di vista ultimo sono causate dalla mente afflitta. Un tipo può essere curato, un altro è impossibile da curare con alcun mezzo. Pertanto, qui, dobbiamo utilizzare tutta la loro conoscenza scientifica e ogni medico deve fare del suo meglio per curare i pazienti, con grande compassione. I pazienti, invece, devono avere il diritto di scegliere liberamente quale tipo di trattamento desiderano. Noi, praticanti buddisti, riteniamo in particolare che se un paziente, praticante buddista, ha una malattia che è assolutamente certo di non poter curare con alcun mezzo, per lui è molto importante lasciar correre liberamente la sua vita, senza essere disturbato da trattamenti meccanici o artificiali. La ragione per cui un paziente, praticante buddista, non deve essere disturbato è perché dovrebbe avere l’opportunità di meditare su pensieri positivi durante il processo della morte, in quanto i pensieri positivi durante la morte causano una futura rinascita positiva e un ulteriore sviluppo spirituale. Noi buddisti riteniamo che sia corretto rispettare il testamento che un paziente potrebbe aver lasciato in passato. Se qualcuno ha lasciato il testamento e si trova in condizioni molto gravi, i dottori non dovrebbero però limitarsi a guardare il testamento, ma dovrebbero analizzare attentamente la situazione e solo nel caso in cui non ci sia alcun modo per curarlo, dovrebbero accettare il testamento. Diversamente, semplicemente applicare il testamento e non cercare di salvare la vita, sarebbe una mancanza di rispetto. Se un paziente si trova in condizioni molto gravi, impossibile da curare, ma non ha fatto testamento in passato, è invece corretto rispettare le volontà dei suoi parenti o di coloro che gli sono vicini.