197 Irene Baccarini Università di Roma “Tor Vergata Dal

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197 Irene Baccarini Università di Roma “Tor Vergata Dal
TRICEVERSA
Revista do Centro Ítalo-Luso-Brasileiro
de Estudos Linguísticos e Culturais
ISSN 1981 8432
www.assis.unesp.br/cilbelc
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
CILBELC
IL SENTIMENTO CREATURALE NELL’ULTIMO LUZI
Irene Baccarini
Università di Roma “Tor Vergata
RIASSUNTO
L’articolo cerca di approfondire il
significato della Naturalezza del poeta,
che appare assai centrale nella
formulazione della poetica luziana.
Partendo da quanto l’autore affermava
nell’omonimo saggio del 1951, vengono
seguiti gli sviluppi del discorso di Luzi,
arrivando a dimostrare come la
centralità del rapporto con la natura,
che il poeta ha sempre ribadito, si
completi nell’ultima fase della sua
poesia, grazie anche alla lettura di due
pensatori particolari come Teilhard de
Chardin e Aurobindo, con un sentimento
creaturale: il poeta, cioè, trova la
ragione della sua poesia nell’umiltà con
cui, al pari delle altre creature, si sente
partecipe della creazione.
PAROLE-CHIAVE
Natura; creazione; creatura; umiltà;
carità; unità.
ABSTRACT
The article investigates the meaning of
the Naturalness of Poet, that seems to be
a very important notion in Luzi’s poetics.
Moving from what the author said in homonymous essay of 1951, the article is
focused on the centrality of relationship
with nature, which the poet has always
confirmed. During the last period of his
poetic season, the relationship with nature becomes deeper also because of the
influence of two particular philosophers:
Aurobindo and Teilhard de Chardin. We
can speak, about the last Luzi’s poetry,
of a creatural feeling: in other words, the
poet, as well as every creature, feels like
being part of the creation and finds the
reasons of his writing in humility and
charity.
KEYWORDS
Nature; creation; creature; humility;
charity; unity.
Dal naturale al creaturale, così potrebbe intitolarsi un percorso critico
che cerchi di sondare le linee e gli sviluppi della poetica di Mario Luzi secondo
un particolare tema, che è appunto quello del rapporto con la natura. Ci si
soffermerà qui soprattutto sul momento finale, cercando di definire il
sentimento creaturale quale appare nelle ultime raccolte, da Per il battesimo
dei nostri frammenti, del 1985, alle poesie ultime di Lasciami, non
trattenermi, pubblicate postume nel 2009. Come afferma Stefano Verdino
nell’introduzione a L’opera poetica di Mario Luzi, è evidente la novità del
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cammino inaugurato dalla raccolta dell’85, anche se non mancano legami con
le fasi precedenti1. Novità che consiste proprio nella creaturalità che anima
l’ultima poesia di Luzi, nel modo in cui viene esperita e poeticamente resa.
Tuttavia, prima di osservare più da vicino questo aspetto e il valore della
presenza del sentimento creaturale, sono necessarie alcune premesse, che
mettano in luce come il fare poetico di Luzi si presenti sin dagli esordi con un
tratto assai marcato di originalità per quanto concerne il modo di porre il
rapporto io-mondo.
Nelle poche pagine del saggio Naturalezza del poeta del 1951, Luzi
esprimeva, con tono umile ma quanto mai deciso, la necessità di un nuovo
atteggiamento poetico, che fosse prima di tutto un nuovo modo di accostarsi
alla conoscenza del mondo.
[Il poeta] sarà arrivato vicino alla verità quando nella sua opera attori
risultino gli altri, la natura nelle sue circostanze frammentarie come nei
suoi profondi principi, ed egli appaia l’interprete e il testimone. […] La
personalità del poeta in altre parole non esiste allo stato autonomo, ma si
attua, si determina in re, vale a dire nasce, rinasce e si conferma solo
dalla misteriosa concomitanza di forze che dà luogo alla poesia. (LUZI,
1964, p.42)
C’era già in queste parole quanto l’autore avrebbe scritto anni dopo
nella poesia Auctor, in cui il poeta, proprio in quanto testimone, appare come
colui che cerca di saldare “il debito col mondo” (LUZI, 1998, p.711). La
portata innovativa del messaggio di Luzi non stava solo nel riaffermare con
convinzione questo valore del poeta come interprete della natura, ma anche
nel togliere fondamento a qualsiasi tipo di separazione tra l’io e il mondo, tra
il poeta e la natura, così come era stata posta precedentemente. “L’unità 
si legge ancora nel saggio  è evidentemente nella natura e la poesia è fatta
per riscoprirla, per ravvivarne la presenza tra gli uomini continuamente”
(LUZI, 1964, p.48).
1
Cfr. l’introduzione di Stefano Verdino al volume che raccoglie la produzione poetica di Luzi
fino al 1998, in particolare le pagine dedicate al periodo di nostro interesse, in cui il critico
scrive: “Frasi nella luce nascente è il titolo che in occasione del presente volume Luzi ha
scelto per l’ultima parte delle sue opere, segnando quindi un nuovo scarto rispetto al
precedente ciclo. Anche se non mancano i motivi di continuità e di ordinato sviluppo, lo
scarto è evidente per il diverso punto di vista […]” (LUZI, 1998, p.XXXIX).
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Se andiamo a vedere i contorni di questa riflessione e i termini che ne
stanno alla base  verità, natura, unità  possiamo comprendere l’atipicità
di Luzi nel panorama della poesia novecentesca. Davide Rondoni ha parlato, a
proposito del concetto luziano di naturalezza, di “eversione” (RONDONI,
1993),2 rimarcando la radicalità con cui essa aspirava a tirarsi fuori da una
determinata linea poetica e gnoseologica.
Nel 2005 Luzi, poco prima di morire, parlando del suo itinerario poetico,
ha ricordato l’imbarazzo con cui, agli inizi della sua stagione, si confrontava
con la lezione di Montale e Ungaretti, manchevoli a suo giudizio di carità e
umiltà.
Quando cominciai a scrivere negli anni Trenta pativo la mancanza di tale
carità ed il giudizio duro e negativo sul mondo da parte dei poeti più
importanti del tempo, come Montale ed Ungaretti, per rimanere nel
nostro giardino italiano. In entrambi non c’era spazio per l’esperienza e la
vita nel suo farsi, sia che pensiamo al “no” di Montale, sia alla rarefatta
cifra ungarettiana. (LUZI, 2005, p.18)
Questa affermazione non va interpretata come una coscienza acquisita a
posteriori; lo stesso disagio si legge infatti in una lettera che Luzi scrisse a
Carlo Betocchi nel ’33, agli inizi di quello sarebbe diventato uno stretto
sodalizio umano e intellettuale. Nella lettera il giovane Luzi denunciava il
fatto che la maggior parte degli scrittori apparisse troppo preoccupata da
problemi “scenici e di assoluta espressione per conservare nelle loro opere e
forse anche nella loro vita tutta l’integrità di uomini” (LUZI; BETOCCHI, 2008,
p.3). Questa breve considerazione acquista maggior valore se si pensa al suo
destinatario: Betocchi infatti rappresentò sempre per Luzi l’esempio di quella
umiltà che “è la coincidenza di un fervido e innato sentimento creaturale con
una vigorosa e davvero rivoluzionaria intuizione conoscitiva e creativa” (LUZI,
2001, p.64).
2
“In effetti, la poesia di Luzi porta fino ad oggi una delle sfide più radicali alla cultura
poetica occidentale. Quasi a dispetto del tono disposto al discreto, alla apparente dimissione
del suo gesto poetico, la voce di Luzi ha coerentemente espresso un giudizio terribile su
quanto nella cultura poetica sembra aver prevalso fino agli ultimi decenni. […] La naturalezza
della poesia appare oggi una delle più alte poste in palio per chi voglia conferire alla scrittura
artistica ancora un senso nell’attuale babele dei linguaggi e dei messaggi […]” (RONDONI,
1993, p.64-65). Proseguendo nella sua analisi, Rondoni approda alla definizione della
naturalezza come esperienza dell’“essere avuto”, del nascere.
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Nella conversazione del 2005 ricordata sopra, un altro nome accorre a
Luzi in opposizione, per così dire, alla linea Montale-Ungaretti: Giovanni
Pascoli. Al poeta di S. Mauro Luzi aveva dedicato un capitolo nella Storia della
letteratura italiana Cecchi-Sapegno, negli anni Sessanta, in cui sottolineava
“la riduzione del personaggio poetico e la supremazia incontrastata della vita
delle cose e delle creature” (Storia della letteratura italiana, 1968, v.8,
p.739) messa in atto da Pascoli. È interessante notare come a distanza di anni
il poeta torni sull’importanza della visione di Pascoli, poiché questi gli appare
“uno di coloro che avevano avuto con il mondo un’intesa organica profonda”
(LUZI, 2005, p.20). Non sarà fuori luogo citare per intero il passo, dal
momento che presenta spunti molto interessanti, spie che, seppure si
accendono a distanza di anni, illuminano la coerenza di un percorso:
Qui a Lucca venni un giorno, pochi anni fa, per invito di Cesare Garboli, a
parlare di Pascoli che come sapete era una sua riserva quasi personale.
[…] Mi trovai, non so come, a meditare sulla figura di Esiodo. Era un poeta
di grande e fondamentale respiro ed era per me anche un archetipo. Non
solo il poeta georgico che ha inaugurato la religio della terra e del lavoro
dell’uomo, anche un esempio fondamentale dell’attitudine umana più
aperta e consensuale con il mondo, un termine che pone il quesito di
fondo della corrispondenza individuale con l’essenza. Quella rara e
grande famiglia abitata senza riluttanza dall’essere la ritrovavo in
Pascoli. (LUZI, 2005, p.19-20)
La dimensione georgica della poesia era stata già discussa e rivalutata da
Luzi in un capitolo de L’inferno e il limbo, Piccolo catechismo (in particolare
il paragrafo intitolato “Il senso della terra nella poesia”), in cui il poeta
affermava:
È indispensabile alla poesia accogliere e riflettere il senso della terra,
dico quel profondo soffio tellurico che è la persuasione fisica e insieme la
vertigine dell’esistenza e che consente dunque di rappresentare i gesti
dell’uomo nella loro pienezza, e, quando abbiano raggiunto il loro limite,
di echeggiarli lungo il silenzio dell’anonimo e del non-umano. (LUZI, 1964,
p.78)
Sia il riferimento a Pascoli che quello a Betocchi servono come estremi
per chiarire il senso profondo della naturalezza quale atteggiamento umano e
intellettuale: abbiamo da un lato la natura che viene riscoperta nel suo
significato di famiglia, dall’altro la figura del poeta che si dispone ad essa,
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che, sentendosi accolto, la accoglie. Si parla di umiltà, di carità, di
attenzione alle cose: questa è la cifra caratteristica della poesia di Luzi sin
dall’inizio.
Se, come afferma ancora Rondoni, la naturalezza “si configura più che in
una precisa caratteristica teorica e pratica, in un’incessante aspirazione della
poesia in Luzi; più che nel possesso pratico di una dote, in un avviso che nelle
parole si risente” (RONDONI, 1993, p.66), è tuttavia da valutare come essa
giunga a compimento in quella coralità creaturale che trova respiro nelle
ultime raccolte. Nell’ultima fase, infatti, l’umiltà che è sempre stata alla
base della poetica luziana non si traduce solo nell’atteggiamento poetico
dell’io che si sente creatura, ma rientra in una più ampia visione sapienziale e
si appoggia ad un determinato pensiero filosofico. Due in particolare sono i
filosofi la cui lettura rappresenta per Luzi un’occasione di profonda
maturazione: il gesuita francese Teilhard de Chardin e il pensatore indiano
Aurobindo, due figure assai diverse tra loro, che però trovano nel tema
dell’evoluzione il punto di contatto delle loro esperienze speculative.
Nella sua opera principale, Il Fenomeno umano, che apparve postuma
nel 1955, Teilhard de Chardin3 tenta di abbracciare la storia del cosmo e la
storia dell’umanità. Qui egli cerca di dimostrare che tutta l’evoluzione,
attraverso una progressiva complessità, tende verso un punto detto Punto
Omega, il punto di massima coscienza. Definendo l’“Incarnazione redentrice”
una “prodigiosa operazione biologica” (TEILHARD DE CHARDIN, 2008, p.273),
Teilhard de Chardin afferma che
Creare, compiere e purificare il Mondo […] significa per Dio unificarlo
unendolo organicamente a Sé. Ora, come procede per unificarlo?
Immergendosi parzialmente nelle cose, facendosi “elemento” e poi,
grazie al punto di appoggio trovato interiormente nel cuore della Materia,
assumendo la direzione e mettendosi alla testa di ciò che noi, ora,
chiamiamo l’Evoluzione. Principio di universale vitalità, il Cristo, nato
uomo tra gli uomini, si è posto nella condizione, e lo è da sempre, di
sottomettere a Sé, di epurare, di dirigere e di superanimare l’ascesa
3
Gesuita vissuto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, Pierre Teilhard de
Chardin (Orcines, 1° maggio 1881 — New York, 10 aprile 1955) fu un filosofo e un
paleontologo. Scienziato evoluzionista, dovette confrontarsi con le posizioni di Darwin:
proprio questo lo portò a ripensare l’Evoluzione in termini che non escludessero la prospettiva
cristiana.
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generale delle coscienze in seno alla quale si è inserito. Con una perenne
azione di comunione e sublimazione, Egli aggrega a sé l’intero psichismo
della Terra. (TEILHARD DE CHARDIN, 2008, p.273)
Il Punto Omega quindi viene identificato con Cristo e il Fenomeno umano
trova il suo necessario completamento e compimento nel Fenomeno cristiano;
in questo modo, secondo il filosofo, “l’Umanità; lo Spirito della Terra; la
Sintesi degli individui e dei popoli; la Conciliazione paradossale dell’Elemento
e del Tutto, dell’Unità e della Moltitudine […] prendono corpo nel mondo”
(TEILHARD DE CHARDIN, 2008, p.246).
La riflessione di Aurobindo (1872-1950),4 tramite un cammino diverso,
approda a conclusioni molto simili. La sua è al tempo stesso una riflessione
filosofica e uno Yoga: la cosa più importante è che tutto il suo pensiero non
mira
alla
formulazione
di
una
teoria,
ma
si
basa
essenzialmente
sull’esperienza. Così avviene anche nei processi che riguardano l’evoluzione,
in cui c’è un continuo passaggio dall’Essere, l’Uno, al Divenire, il Molteplice,
“aspetti simultanei di un medesimo Fatto eterno” (SATPREM, 1988, p.299).
In principio, è detto, era l’Eterno, l’Infinito, l’Uno. Nel mezzo, è detto, è
il finito, il transeunte, i Molti. Alla fine, è detto, sarà l’Uno, l’Infinito,
l’Eterno. Ma quando fu il principio? In nessun momento del Tempo,
perché il principio è ad ogni istante. […] La creazione fu sempre, per
sempre è e per sempre sarà. (SATPREM, 1988, p.299)
Il passo è assai significativo e aiuta a capire per quali vie Luzi arrivi a
parlare di “creazione incessante” (LUZI, 1998, p.373). Come anche nel passo
di Teilhard de Chardin, il rapporto tra Uno e Molteplice viene osservato da
un’angolatura completamente diversa, non di opposizione ma di mai compiuta
evoluzione. Secondo quanto afferma Lisa Rizzoli, che bene ha messo in luce
l’importanza di Aurobindo nello sviluppo del pensiero filosofico di Luzi,
“l’interesse per Teilhard de Chardin e per Aurobindo si giustifica perché
ambedue i pensatori non oppongono l’uomo alla natura, bensì ne indicano il
profondo legame” (RIZZOLI, 1992, p.136).
4
Aurobindo fu un personaggio di straordinario fascino intellettuale oltre che di vastissima
cultura. Dopo aver ricevuto in Inghilterra un’eccellente formazione, tornò in India dove
partecipò attivamente alle lotte per l’indipendenza dal Governo inglese. Abbandonò poi la
politica e si dedicò allo Yoga, vivendo gli ultimi ventiquattro anni della vita chiuso nella sua
stanza.
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Il punto centrale, a questo stadio della poesia luziana, è ancora quello di
rileggere il rapporto dell’uomo con la natura, ma quell’atteggiamento di
umiltà di cui il poeta parlava all’inizio si completa ora con una più ampia
riflessione filosofica: è per questa via che Luzi può diventare, come auspicava
nel saggio Naturalezza del poeta citando un passo di Novalis, “un vero profeta
della Natura” (LUZI, 1964, p.50), attraverso una poesia che è insieme
contemplazione estatica e riecheggiamento della coralità che si dischiude
dalle cose. Ad un critico fine come Antonio Prete non è sfuggita l’essenza al
tempo stesso francescana e lucreziana dell’ultimo Luzi (PRETE, 1997, p.25); e
a una conclusione simile arriva Carlo Ossola, il quale definisce Luzi un
“Lucrezio cristiano” (OSSOLA, 2005, p.44).5
Possiamo ora passare ad analizzare come si esplichi il sentimento
creaturale, attraverso le figure che ne sono testimoni e i termini che ne
compongono il registro.
È prima di tutto il rapporto io-natura ad essere esplicitamente riletto
nell’ottica di quella visione sapienziale di cui si è detto sopra. Nella poesia
che segue, che fa parte della raccolta Dottrina dell’estremo principiante,
viene messa in dubbio tutta una tradizione filosofica che vedeva nella
conoscenza un processo di “appropriazione” delle cose. In questa volontà di
appropriazione è l’origine dell’“ansia”; invece, non c’è altro modo di
acquisire la sapienza se non riconoscendosene parte.
L’ansia
dell’uomo
non ha confini umani,
appropria al suo tormento
l’aria, il cielo,
le messi,
ignora l’uomo
quanto la sapienza
sa in tutti i brividi,
in tutte le faville
di vita dei viventi,
anche nei suoi medesimi. (LUZI, 2004, p.29)
5
Lucrezio è peraltro un poeta caro a Luzi, come testimoniano le poche ma sentite pagine del
saggio “Leggere Lucrezio equivale”: (LUZI, 1995, p.185-190).
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In un’altra poesia della stessa raccolta, il confronto tra l’io e la natura è
posto in termini ancora più immediati, in quanto il personaggio poetico viene
presentato nel contesto reale e viene fatto parlare in prima persona:
Che vento, che tempesta.
Camminavo in una pioggia
ariosa di fogliame,
di bacche, di rametti infranti,
malli, ghiande –
[…]
era quella bufera,
quello schianto,
il suo travalicare, n’ero
testimone
io, ego, credevo
e ne pativo
ma intanto n’ero parte,
andavo io pure
da me a me, oltre di me
pregavo
pregavo, utinam ultra me.
L’amore mio
ripagato in esistenza
era impaziente,
trepidava in quel frastuono
verso l’indivisa sorte,
foce o fonte. (LUZI, 2004, p.33-34)
Qui il processo dell’uomo che si scopre parte dell’“indivisa sorte” è
ancora più trepidante, dal momento iniziale dell’io, che nella parola “ego”
viene circoscritto ancora di più, al momento in cui il rientrare nella “foce o
fonte” si scioglie in preghiera. Ancora più significativa appare la poesia
seguente, contenuta in Lasciami, non trattenermi, in cui il poeta ribadisce, in
modo ancora più esplicito, il suo non essere testimone, ma parte dell’evento.
Stanno sopra di te
ariosamente
gli alberi erborando,
s’invoglia nel suo azzurro il cielo,
si sente persuasa
di sé, in sé precisa, a niente
remissiva ogni vita
antica ed incipiente,
ogni erba, ombra, volo,
ogni risorgiva.
Scande
la somma equalità del giorno
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il verso del cucù.
Vivi e guardi, teste non sei
ma parte. Oh mondo, mondo. (LUZI, 2009, p.53)
Troviamo poi le molteplici presenze animali, tutte voci di quella
creaturalità condivisa e “indivisa”: proprio a loro sono dedicate diverse poesie
della sezione Dal grande codice, contenuta nella raccolta Per il battesimo dei
nostri frammenti. Ecco, ad esempio, la pernice che “s’interna nella sua genia
/ s’introduce a fondo nella sapienza / nell’anima essenziale delle pernici…”,
che insinua in “chi guarda” il dubbio se anche lei sia parte del “pensiero che
pensa per tutti” (LUZI, 1998, p.639). Ecco le rondini che “sgorgano / l’una
dall’altra / esse, traboccano / fuori dal loro primo caldo gruppo, l’una / dopo
l’altra” ed esprimono “un pensiero / scritto in ogni parte / in ogni parte
operante” (LUZI, 1998, p. 646-647). Ecco la trota, che come il fiume che la
porta “sa e non sa”, anch’essa sapienza (LUZI, 1998, p. 648-650).
L’universo si allarga e prende respiro nelle poesie di Luzi, che via via
assumono sempre più il tono di un cantico, in cui la voce del poeta ora si fa
eco delle creature, ora si fa portavoce dubbiosa ma fedele del messaggio
sapienziale che tutte le chiude in sé. Come nella poesia in Sotto specie umana
dedicata alla rosa:
Mezzogiorno. Giardino.
Occhio fermo,
perspicuo, cristallino,
non visto, onniveggente.
Nuda flagra,
rovente
d’identità
si disfa
di simbolo la rosa,
annulla canto, musica, memoria,
erode immagine
e ogni altra cupidigia
della mente
umana ed animale
su sé, sulla sostanza
su ogni altro asservimento. È.
O rosa ipsa,
o regina di sé.
Senonché discende
La sua tortuosa vena d’aria,
le cala
incontro
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ronzante il coleottero
e la lega
ecco, quel volo
di nuovo alla catena
della universa fraternità. (LUZI, 1999, p.64-65)
L’occhio cristallino potrebbe cadere nella tentazione o nell’inganno di
vedere la rosa nella sua essenzialità, nel suo solo essere, regina di se stessa
appunto, ma subito, non solo la rosa, ma anche chi guarda viene riportato
nella prospettiva della “universa fraternità”. È un comprendere che è prima
di tutto un essere compresi.
In altri casi sono le creature stesse, in ogni stato e stadio
dell’evoluzione, a prendere la parola, come l’osso, che lascia che il suo
interrogativo alla natura si innalzi in preghiera.
E io osso sepolto e dissepolto,
di chi sono,
dell’uomo
o tuo terra, che umile
e ingorda m’hai pulito
e custodito
o dell’unico
umoroso pathosSi scisse
ad opera del male
questo e della pena
e anela
forse alla ricongiunzione piena.
Venga,
oh venga presto irreversibilmente. (LUZI, 1999, p.94)
Una creaturalità ancora più creaturale sembra ispirare le poesie dedicate
agli esseri appena nati, che siano di specie umana o animale: nella poesia
“Dorme, nuovo nato al mondo” il poeta riconosce nel neonato “la vita / e la
creazione / che in lui ex novo / ricomincia” (LUZI, 2004, p.119-121); poco più
avanti anche il “lievissimo, piumato / non pennuto / ancora” sembra già
essere in quel “quieto sapere / posto nelle cose / e nelle creature” (LUZI,
2004, p.125).
Un posto assolutamente centrale occupano anche i vari fenomeni
naturali: Giorgio Cavallini (CAVALLINI, 2002) ha messo in luce come nella
raccolta Sotto specie umana essi popolino la poesia con il loro essere parte ed
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espressione
dell’avvenimento,
o,
come
Luzi
scrive
in
altri
luoghi,
dell’“avvenuto evento” (LUZI, 1998, p.735): ogni fenomeno rivive, nel suo
essere in divenire, il momento mai compiuto della creazione. Questo
“concerto polifonico, corrispondente alla varietà polimorfica dei fenomeni
naturali che si affollano nel mondo” (CAVALLINI, 2002, p.394) viene riprodotto
anche nelle altre raccolte, soprattutto attraverso delle immagini privilegiate,
come la primavera, gli alberi  “tutti gli alberi / tutti indistintamente / in
una oscura / e prepotente / inequabile parità” (LUZI, 1998, p.622)  e
soprattutto il fiume, simbolo per eccellenza del cambiamento. Si legga la
poesia Fiume da fiume, nella raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti,
in cui il poeta contempla il mutamento nel fiume che “si muove verso se
stesso” (LUZI, 1998, p.644). Oppure la poesia che segue, che fa parte della
raccolta Dottrina dell’estremo principiante.
Viene giù dal monte
quell’alito vibrante
e lui fiume si sente
fiorire nei suoi alberi,
filtrare in quelle linfe.
[…]
nel suo fluire augusto
lo tace lui, lo dice
quando frange
in un liquido bisbiglio
il flusso dominante
ma ripete l’ordine quale è,
scendere, andare, correre
alla fine che non c’è,
inseguito da sé
incalzato dal suo nascere. (LUZI, 2004, p.35-36)
Il fiume quindi appare nella naturalezza del suo scorrere il simbolo più
significativo del divenire, colui che riproduce nel suo essere la “sempiterna
danza” (LUZI, 2004, p.157).6
6
La parola danza appare un termine chiave nell’ultima poesia di Luzi, come nota Stefano
Verdino già a partire dal Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: “Questo Viaggio si
pone stilisticamente nella misura della danza, parola-chiave esibita spesso. La danza vuol dire
un sempre più agile movimento dei versi, sia nell’incremento delle rime, che a volte
diventano una sorte di continua cascata, sia nella sempre più chiara sonorità, sia nella
crescente litania dei verbi, multipli predicati dell’essere nel vario rimbalzo semantico delle
parole […]” (LUZI, 1998, p.LI).
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Gli esempi sarebbero veramente molti e anche farne una selezione
appare difficile, dal momento che, come si diceva, ogni poesia, anche nelle
diverse raccolte, si presenta come strofa di un cantico, che a volte si ripete in
infinite variazioni tonali. Tuttavia sembra necessario procedere nell’analisi,
mostrando gli ultimi due aspetti del sentimento creaturale: il primo è la
centralità del tema della maternità, condensato nell’immagine assai
ricorrente del grembo; il secondo è la particolare ricorrenza di alcuni termini,
che dimostra quanto la creaturalità nasca non solo da una atteggiamento di
umiltà, ma anche da un ben definito sostrato filosofico.
Parlando della maternità, i lettori di Luzi riconosceranno come nello
sviluppo di questo tema abbia senz’altro influito il rapporto profondissimo che
il poeta ha sempre avuto con la madre e l’importanza che egli le ha
riconosciuto nella maturazione della sua fede religiosa. In effetti, grande
rilevanza hanno le poesie esplicitamente dedicate alla madre: sia in Per il
battesimo dei nostri frammenti che in Frasi e incisi di un canto salutare
troviamo delle sezioni intitolate Madre e figlio. Proprio la donna appare come
messaggera della carità creaturale, o meglio di una “umbilicale carità” (LUZI,
1998, p.671):
“Amare
questo sì ti parifica al mondo,
ti guarisce con dolore,
ti convoglia nello stellato fiume
e sono
dove tu sei, si battono
creato ed increato,
allora, in un trepidare unico.
Allora in quel punto”. Lo ricordavo. (LUZI, 1998,
p.555)
Ma la maternità è l’espressione stessa della vita: a questo va anche
ricondotta la centralità delle figure femminili, soprattutto Angelica,
protagonista dell’omonima sezione di Frasi e incisi di un canto salutare, che
può esclamare quasi estaticamente:
Sono viva e mi raggiunge la vita,
sono donna
e mi sopravviene,
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nuova, la muliebrità
nell’azzurro grembo. (LUZI, 1998, p.763)
Ancora più esplicativa appare la poesia Maternità, in cui viene descritta,
da un gioco di nubi e monti, la nascita del fiume.
E là, nube e montagna,
le scende giù dal grembo,
le scroscia tra le gambe,
le tonfa ai piedi
il fiume e si prepara
al suo grande viaggio…
[…]
Ne soffre lei maternamente,
però poco, la prole,
lo sente, si fortifica
e per questo la alimenta
montagna e nube
nube e montagna
sempre, continuamente. (LUZI, 1998, p.858-859)
Tutto è compreso amorevolmente nell’“universale grembo” (LUZI, 1998,
p.875), ma al tempo stesso, nella compresenza di ciascuno nel tutto, ogni
cosa viene accolta nell’“imo grembo” (LUZI, 1998, p.881) di un’altra. Come
l’aria e l’acqua “che si cercano e si scontrano / in un promiscuo grembo”
(LUZI, 1998, p.761); o come la valle che sente il fiume espandersi nel suo
grembo (LUZI, 1999, p.107). In questa universale maternità, anche l’uomo
diventa il grembo in cui il divino discende e si incarna:
Non startene nascosto
nella tua onnipresenza. Mostrati,
vorrebbero dirgli, ma non osano.
Il roveto in fiamme lo rivela,
però è anche il suo
impenetrabile nascondiglio.
E poi l’incarnazione – si ripara
dalla sua eternità sotto una gronda
umana, scende
nel più tenero grembo
verso l’uomo, nell’uomo… sì
ma il figlio dell’uomo in cui deflagra
lo manifesta e lo cela…
Così avanzano nella loro storia. (LUZI, 1998, p.740)
Da qui si può capire con quale profondità Luzi abbia fatto sua la lezione
di Teilhard de Chardin: Cristo unifica il mondo immergendosi nelle cose, si
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legge nel passo citato sopra. La poesia di Luzi riportata sintetizza la
grandezza dell’evento nella sua tenerezza  il divino che si ripara sotto la
gronda umana  ma anche nel suo valore drammatico: questo Dio fatto uomo
si manifesta e si cela e l’avanzamento della storia umana sembra procedere
nella difficoltà del riconoscimento.7
È nel mondo, dunque, secondo quanto afferma Teilhard de Chardin, che
si attua la “Conciliazione paradossale dell’Unità e della Moltitudine”, è in
virtù dell’incarnazione che si può attuare il ricongiungimento. Il sentimento
creaturale, quindi, che porta il poeta, o più genericamente l’io, a sentirsi
parte di un tutto, non è soltanto un sentimentalistico atteggiamento di
abbandono nei confronti della natura, madre benigna. Se in Luzi, a differenza
di Leopardi, la natura appare come Madre e non come matrigna, è perché il
primo, anche per la filosofia a cui fa riferimento, riesce a vedere come
nell’evoluzione il processo dall’uno al molteplice non si attui secondo
un’antitesi.8 L’importanza di questo principio speculativo si comprende anche
dai termini che Luzi usa; ricorrono infatti frequentemente parole come equità
e equiparare, parità e parificare, ricongiungimento. Il poeta parla di “una
imperscrutata matematica / protesa all’equità” (LUZI, 1999, p.14), oppure si
riconosce insieme alla sua terra “equiparati a zero / da una celeste algebra”
(LUZI, 1998, p.528); in un momento di grazia, anche il suo giorno “splende /
di lieta parità / tua con il mondo” (LUZI, 2004, p.107). Per grazia dell’amore,
certo, come nella poesia già citata della sezione Madre e figlio, in cui la
7
Anche in un’altra poesia Luzi esprime la drammaticità del riconoscere Cristo “In ogni nostro
simile”, non potendo comprendere come egli possa essersi incarnato in questa razza
“d’umanoidi trasudanti / cupidigia ed assassinio”. E Cristo “sorride / che anche lì / nel
malseme che ora germina, / nella schiatta omicida che ora prolifera / lui è e dobbiamo
avvistarlo” (LUZI, 1998, p.587). Anche qui la tenerezza di Dio sembra continuamente smentita
e non compresa dalla cattiveria umana. Si legga pure la seguente poesia, contenuta nella
raccolta Lasciami, non trattenermi: “In me, / nel cuore mio profondo, / nel punto / imo ed
intestino, / equo da ogni possibile distanza, / ivi, nell’ombelico / del tempo dal principio / fu
in un grido / detto il verbo crucifige, / me ne affliggo e me ne escrucio, / l’onta non si
cancella, brucia, / l’abominio non ha rimedio. // Se non che / meravigliosamamente / trasalì
/ nell’ignoto sole / il grido resurrexit / ed era ancora / in me, nel punto / cruciale del mio
grembo / che avveniva il bene e il male” (LUZI, 2009, p.107). Quest’ultima poesia appare
ancora più significativa perché esprime il senso profondo e salvifico dell’Incarnazione, che
non avviene nell’uomo in generale, ma nel singolo, nel grembo di ognuno.
8
Il confronto tra Leopardi e Luzi sul tema della natura è sicuramente assai più complesso e
meriterebbe un discorso a parte, anche per la centralità che assume il poeta di Recanati nella
riflessione critica di Luzi.
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donna ricorda che solo la carità parifica al mondo, “creato ed increato”. Ci
sono, per il poeta ora profeta e cantore della natura, i momenti estatici in cui
si illumina “quel profondo / inessere delle cose / in sé / ciascuna e tutte
insieme / in una trasparente equalità” (LUZI, 2004,122) e per questo “il molto
non ancora ricongiunto” viene avvertito dal poeta “con desiderio e pena”
(LUZI, 2004, p.96). Come Angelica, egli non può che esclamare “con tutto
ricongiungersi / tutto definitivamente essere” (LUZI, 1998, p.783). La
scoperta della parità dell’uomo alle altre creature è già un parziale
ricongiungimento all’uno: si comprende, in questo senso, anche il valore della
frase di Dionigi Areopagita posta in epigrafe a Frasi e incisi di un canto
salutare: “Poiché da un solo amore ne abbiamo dedotti molti” (LUZI, 1998,
p.709). È l’amore che guida la creazione, è l’amore che ispira la conoscenza.
Ed è a quell’Unico Amore che, attraverso una conoscenza che sia amore del
Molteplice, dobbiamo tornare.
Anche in questo caso, le citazioni delle occorrenze sarebbero molte e
andrebbero analizzate una per una, per osservare tutte le gamme e le
variazioni del tono orante dell’io poetico che trascende se stesso
addentrandosi nelle cose e, al tempo stesso, innalzandole.
La luce del sole è una grazia e l’accecamento con cui fa ritrarre il nostro
sguardo è, se ci pensiamo, un’esortazione a guardarla nelle forme mutevoli
che assume posandosi sulle cose. Tutta la creazione avviene incessantemente
nella mutevolezza del rapporto luce-ombra.9 Il poeta che la osserva, la può
descrivere perché ne è parte, perché non guarda il sole, ma si sente egli
stesso, al pari di tutto, guardato. Questa è la poesia dell’ultimo Luzi:
preghiera corale della creazione.
In questo sentirsi guardati, nel sentirsi creatura, c’è tutta l’umiltà di cui
Luzi ha sempre parlato e a cui ha sempre aspirato: “L’umiltà è forse la
sommità della nostra conoscenza. […] bisogna prendere atto che quando è uno
9
Il discorso sulla luce è importantissimo nell’ultimo Luzi, tanto che Maria Sabrina Titone,
indagando i dantismi luziani, ha parlato di un “Itinerarium mentis ad lucem” (TITONE, 2001,
p.60-68). A proposito della luce nel Paradiso di Dante, Luzi scrive: “Non c’è piena
orizzontalità di rapporti ma c’è nell’unico e pieno e comune oggetto d’amore la piena
coralità. Stato luminoso anche questo, perché frutto della remissione, della libera
obbedienza, della soddisfatta ricerca di unità”. (LUZI, 1994, p.17)
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sguardo caritatevole e lucente a leggere in profondo lo stato delle cose e a
commentarlo, allora si produce un incremento del nostro conoscere” (LUZI,
2005, p.18).
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