fragole e champagne

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fragole e champagne
LIBRO
IN ASSAGGIO
FRAGOLE E
CHAMPAGNE
DI SARAH-KATE LYNCH
Fragole e champagne
DI SARAH-KATE LYNCH
Clementine
Il terzo mercoledì di primavera, all’ora del tè, Clementine seppe che era in
arrivo una gelata.
Erano i suoi capelli lunghi, ricci, di un rosso spento e tagliati malissimo a
dirglielo. Quando gli dei del tempo risucchiavano il calore dall’aria per
prepararla a precipitare sotto lo zero, la sua chioma era sempre la prima a
saperlo.
Si stava portando alla bocca una spessa fetta di pain au levain,
abbondantemente condita con mostarda di pere e Brie, quando udì il primo
crepitio vicinissimo all’orecchio sinistro. Era il rumore di un singolo riccio che
si increspava ancora di più, nell’aria fredda e secca. Uno scricchiolio forte, per
giunta: lei, dallo spavento, aveva fatto un salto. Per un soffio, non aveva
rovesciato il calice di Peine, che stava appunto per gustarsi.
Nei secondi che seguirono, mentre tentava di fermare il flùte barcollante
perché non andasse sprecata nemmeno una goccia, i riccioli ispidi
cominciarono a crepitare e a scattare, uno dopo l’altro, finché la testa non si
ridusse a un ammasso disordinato di capelli, più corti di almeno cinque
centimetri.
Non era molto diverso dal prendersi la scossa, nonché una brutale rivelazione
che quella giornata — iniziata con un paio di mutande con l’elastico rotto e un
croissant stantio — stava per andare a catafascio e probabilmente si sarebbe
ripercossa su tutto l’anno successivo. I capelli, a cui già non prestava molta
attenzione, in quel momento divennero il minore dei suoi problemi. Una brutta
gelata a Saint-Vincent-sur-Marne il terzo mercoledì di primavera sarebbe
stata una tragedia per la Maison Peine. E di tragedie in quella casa ce
n’erano già state a sufficienza.
«Papà!» chiamò Clementine, i follicoli che pizzicavano sul cuoio capelluto,
mentre si leccava via il formaggio da un dito. «Papà!»
Suo padre, probabilmente una delle tragedie di cui sopra, se la sarebbe presa
con lei per quella cattiva notizia; d’altra parte non nutriva grandi speranze che
le rispondesse. Con un pesante sospiro, si alzò. Negli ultimi tempi, sembrava
essere peggiorato. Era sempre stato un vecchio prepotente, sboccato e
stizzoso; un tempo, però, lavorava tutta la giornata prima di scendere da Le
Bois, il bar tabaccheria del paese, mentre adesso spariva sempre prima, e
Clementine doveva sobbarcarsi il grosso del lavoro dell’azienda, nonché
badare ai loro preziosi vini.
«Papà!» chiamò ancora, questa volta sulle scale chiazzate di luce del vasto
chàteau Peine. «Papà!» A quanto pareva, Olivier non era in casa. Accadeva
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spesso da un po’ di tempo. Avrebbe dovuto combattere il gelo senza di lui.
Paura e mostarda vennero su insieme in un singulto, mentre si trascinava
fuori. Questo era uno dei tanti momenti critici che un’azienda vitivinicola si
trovava ad affrontare. La linfa saliva nei fusti, dopo il letargo invernale, i morti
stavano per balzar fuori dalle tombe. L’ultima cosa di cui i Peine avevano
bisogno era che il sangue vitale del futuro gelasse nelle vene delle viti. Come
dimenticare la terribile gelata primaverile di due anni prima? Aveva distrutto
un terzo del raccolto. Niente vino d’annata, neppure una goccia. Il meglio che
erano riusciti a fare era stato produrre il tradizionale brut, e questo solo grazie
alla padronanza di Olivier della famosa arte dell’assemblage.
«La-a-a-a!» trillò Clementine con voce dolce e musicale, a quel pensiero,
mentre attraversava il cortile in tutta fretta. «La-a-a!» Cochon, il suo cavallo in
miniatura, s’impennò felice, sentendola. I piccoli zoccoli non ferrati caddero
sui ciottoli con uno scalpiccio smorzato. Adorava vederla andare in panico.
Ma Clementine scosse il capo e si morsicò il labbro. Adesso non c’era tempo
per certe cose, doveva fare tutto ciò che era in suo potere per proteggere le
viti. Prima di tutto doveva trovare i due gemelli ventenni, gli unici braccianti
rimasti a lavorare per loro, talmente inutili da meritarsi a malapena il misero
stipendio. Per come la vedeva lei, avevano un unico cervello in due, per
giunta piccolo, ma avevano forza in abbondanza. Ed era esattamente questo
che le serviva. Dovevano muoversi in fretta, per piazzare le chaufferettes in
mezzo alle viti, per scongiurare la gelata.
«Alzate quelle chiappe grasse, razza di pigroni buoni a nulla!» esclamò. JeanClaude e Jean-Luc, due corpulenti stupidotti con i capelli biondi e la faccia
rubizza, erano nell’orto dietro la cantina. Fumavano sigarette e bevevano da
una bottiglia senza etichetta. «E’ in arrivo una gelata. Dobbiamo tirar fuori tutti
gli scaldini. »
Mentre parlava, i riccioli si ritirarono ancora di più, come lumache che
rientravano a razzo nel guscio. Gli altri vignerons non avevano neppure fiutato
quello che stava per accadere, e probabilmente stavano programmando una
serata confortevole davanti alla Tv, o una partita a carte con gli amici. Ma,
oltre ad averne una prova in testa, Clementine ne sentiva il sapore sulla
lingua: l’aroma pungente della catastrofe imminente. Le bruciava le guance e
le ostruiva i pori, agitando la profonda riserva di irritazione che covava
costantemente sotto la superficie.
«Andiamo, non vi pago per oziare e ammalarvi di enfisema!» rimproverò i due
braccianti che non si disturbarono a scusarsi. «Vi pago per lavorare!»
Jean-Claude, o era Jean-Luc, non riusciva mai a distinguerli, guardò il fratello,
e poi lei, con aria sprezzante. «No che non lo fa.» Chiunque fosse, lo disse
strascicando le parole, tirando un’altra rozza boccata di sigaretta. «Lei non ci
paga affatto. Sono due settimane oggi, e il suo vecchio deve ancora scucire lo
stipendio. Quindi, a meno che abbia i nostri soldi, se la sbrighi pure da sola
con i suoi fetenti scaldini.»
Clementine cercò di nascondere il suo sgomento. Sapeva che i soldi
scarseggiavano. René, della stazione di servizio, si era lagnato del conto in
sospeso; e le avevano tagliato il telefono un’altra volta. Avevano già avuto
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problemi, in passato. A chi non era capitato? Ma come potevano essere
messi tanto male da non riuscire nemmeno a pagare il misero salario di quei
due incompetenti, che si muovevano pesantemente per la tenuta? Se le cose
stavano davvero così, era nella merde fino al collo, e non aveva nemmeno un
salvagente, nessuno a cui chiedere aiuto. Olivier non aveva veri amici, e da
tempo aveva tagliato i ponti con il fronte dei vicini.
Lanciò un’occhiata al di là delle viti, verso lo chateau Geoffroy, la maison
accanto alla loro. La vecchia ferita al cuore tornò a farsi sentire, quando
pensò a Benoit Geoffroy, che ormai aveva perso da metà della sua esistenza.
No, non ci sarebbero stati buoni samaritani. Avevano soltanto un modo per
convincere qualcuno a fare qualcosa: pagarlo. Guardò i gemelli inebetiti, e
considerò l’ipotesi di supplicarli di restare e di aiutarla gratis, ma non era
capace. Invece, batté un piede a terra e imprecò, riuscendo soltanto a farli
ridere.
«Be’, senza gemme niente uva, e senza uva niente champagne, e senza
champagne non ci sarà più lavoro, per voi. Ci avevate pensato?»
Jean-Claude e Jean-Luc si alzarono e, insieme, picchiettarono i mozziconi
contro il muro della cantina. Cochon batté gli zoccoli, e diede un colpetto
rabbioso con la coda. Se fosse stato più grande di un comune cane da
fattoria, forse il suo gesto avrebbe avuto un impatto maggiore. Invece, riuscì
soltanto a far ridere ancora di più quei due sempliciotti.
«E che differenza fa?» chiese uno dei due, ansimante, quando riuscì a
smettere di sghignazzare. «L’anno prossimo, a quest’ora, probabilmente tutta
la baracca sarà di proprietà di Moèt, di Veuve Clicquot o del Vecchio Joliet.
Perché non si rilassa?
Aggiornata il venerdì 23 maggio 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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