Scheda da Film discussi insieme 2007
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Scheda da Film discussi insieme 2007
Viaggio alla Mecca regia: Ismael Ferroukhi (Marocco/Franca 2004) sceneggiatura: Ismael Ferroukhi fotografia: Katell Djian musiche: Fowzi Guerdjou montaggio: Tina Baz interpreti: Jacky Nercessian, Ghina Ognianova, Kamel Belghazi, Atik Mohamed, Malika Mesrar El Hadaoul; distribuzione: Istituto Luce durata: 1h 45’ ISMAEL FERROUKHI Kenitra, Marocco - 1962 2004 Viaggio alla Mecca LA STORIA Reda torna a casa all’ora di cena e sua madre lo avverte “Tuo padre ti vuole parlare. Vai da lui, ti porto di là la cena”. Da parte del ragazzo, diciott’anni, un solo cenno di insofferenza: “Che altro vuole?”. E il padre “Oggi sono stato alla polizia per tuo fratello, era ubriaco, lo hanno fermato. Gli hanno tolto la patente. Io non so guidare e non voglio aspettare un altro anno. Così ho deciso; mi porti tu alla Mecca. Sono stato all’ambasciata dell’Arabia Saudita e ho chiesto il visto per te. Hai quattro giorni per prepararti. Domenica partiamo”. Il ragazzo tace. Solo a sua madre osa dire. “È una pazzia. Ho gli esami di maturità e sono già stato bocciato una volta”. La madre, e nessuno della famiglia, si permette una parola diversa. Reda va in camera e comincia a studiare sulla carta i diecimila chilometri che lo aspettano, guidando un’automobile tenuta insieme poche ore prima con il ricorso ad una portiera recuperata da un deposito di rottami. Il giorno stabilito si parte: il padre in abito scuro, Reda con giubbotto sportivo e cellulare in tasca. Lasciano Marsiglia puntando verso l’Italia. La velocità è sostenuta, il desiderio di raggiungere Milano da parte del ragazzo il motivo che lo spinge a correre. ll padre se ne accorge e chiarisce subito. Quello non è un viaggio turistico e non c’è alcun bisogno di andare tanto in fretta. Poi, in piena notte, dopo aver imposto una sosta per qualche ora di sonno, senza che il figlio se ne accorga gli prende il cellulare e glielo butta in un cestino dei rifiuti. Quando, ormai verso Belgrado, il ragazzo se ne accorge, la risposta che ottiene è “Tu eri qui, ma la tua testa da un’altra parte”. A Belgrado ci arrivano faticosamente, percorrendo una strada sterrata, dopo aver lasciato l’autostrada e dopo aver caricato una donna da cui fanno fatica a liberarsi, ma che nonostante tutto il padre accetta, imponendo ancora una volta a Reda la sua volontà. Poi ci sono i Balcani e la neve, una prova durissima per padre e figlio. Superando quel silenzio al quale tutti e due si sono ancorati Reda chiede: “Perché non hai preso l’aereo per andare alla Mecca? Era più semplice”. Gli risponde: “Nel suo lento cammino verso le nuvole l’acqua marina evaporando ridiventa dolce. Perciò il pellegrinaggio è meglio farlo a piedi piuttosto che a cavallo, e a cavallo piuttosto che in macchina, e in macchina piuttosto che in nave, VIAGGIO ALLA MECCA 233 27 e in nave piuttosto che in aereo... Ricordo, io ero ancora piccolo e mio padre partì a dorso di mulo. Io ogni giorno salivo sulla collina e scrutavo l’orizzonte. Volevo essere il primo a vederlo tornare e restavo là sempre. Finche tua nonna non veniva a cercarmi”. In Bulgaria, dopo un risveglio sotto la neve, il padre di Reda finisce in ospedale. Eppure la sua sola preoccupazione appena si sente meglio è quella di chiedere al figlio il libro di preghiere e poi di riprendere il viaggio. Alla frontiera turca nel vano tentativo di spiegarsi con la polizia si fa avanti Mustafa, interprete, ma soprattutto un tipo che approfitta dell’occasione per intrufolarsi e andare in macchina a Istanbul e “derubarli“ dei soldi, prudentemente nascosti dal padre di Reda in un calzino. A quel punto il viaggio si complica anche di più. Reda esasperato nel vedere che il padre si priva dei pochi soldi rimasti per fare un’elemosina a una donna, si ribella, prende la sua borsa e allontanandosi gli dice chiaramente che non intende più proseguire. È allora il padre che gli va incontro. “Arriviamo a Damasco, vendiamo la macchina e tu torni con l’aereo. Io so ormai proseguire da solo”. Non ce ne sarà bisogno. Inspiegabilmente, Reda, dentro un calzino, ritrova un pacchetto di soldi, quel denaro che era stato denunciato alla polizia come mancante. La strada adesso è più facile, sono giunti in Arabia Saudita e il panorama è completamente cambiato: automobili e persone si sovrappongono in una totale identità. Gli uomini vestono il sudario di cotone bianco, le donne il velo e una lunga tunica nera. Reda osserva il padre indossare l’abito che lo accomuna ai fratelli musulmani e prima di vederlo allontanarsi insieme agli altri gli dice: “Ti aspetto qui questa sera”. Ma sarà un’attesa vana. Tutta la notte scruta l’orizzonte, cerca di riconoscerlo tra quella immensa folla che torna. Niente. Verrà allora condotto in un edificio dove gli resta un ultimo, penoso, incarico: riconoscere il suo volto tra chi, coperto da un lenzuolo, non farà più ritorno. In ginocchio si dispera, il suo pianto è come quello di un bambino, un lungo sfogo d’addio. Venderà quella vecchia ormai inutile automobile e tornerà a casa in aereo. Un solo passo indietro prima di varcare la soglia dell’aereoporto. È rivolto ad una piccola donna accovacciata in un angolo che apre la sua mano a chi passa. 234 VIAGGIO ALLA MECCA LA CRITICA Come Ogni cosa è illuminata, anche questo film, pieno di passioni inespresse, è la storia di un viaggio iniziatico tra un vecchio e un giovane. Un marocchino emigrato in Francia che, sentendosi prossimo alla morte, decide di fare il pellegrinaggio alla Mecca (per la prima volta ripreso dal vero) facendosi accompagnare dal figlio più giovane, insensibile ai rituali religiosi. Tra i due c’è un baratro generazional-culturale che poco alla volta gli stimoli affettivi riempiranno, tra sussulti di odio e amore, in un bellissimo viaggio in macchina da Marsiglia all’Arabia passando per paesi, climi, panorami, burocrazie diverse. Ma quello che rendono benissimo Nicolas Cazale e Mohamed Majd, pilotati dal neo regista Ismael Ferroukhi, che ha un bel senso narrativo e la capacità di esprimersi senza parole, è il senso della ricognizione, del tragitto di conoscenza che termina con un granellino di mistero. (MAURIZIO PORRO, Il Corriere della Sera, 5 maggio 2006) Non c’è niente di più intimo dell’abitacolo di un’automobile, nel corso di un lungo viaggio. Però si tratta d’intimità forzata per Reda e suo padre, emigrato in Francia dal Marocco: mentre il giovane proietta sul mondo una visione laica, che lo ha allontanato dalle tradizioni religiose della famiglia, l’uomo anziano desidera realizzare l’aspirazione di ogni buon musulmano: andare in pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. Rappresentanti esemplari di un conflitto generazionale, padre e figlio salgono in auto a Marsiglia, attraversano i Balcani, giungono a Istanbul, quindi proseguono per Damasco e la Mecca, dove sta confluendo un’enorme folla di fedeli. Gli inizi sono difficili: mentre il giovane pensa al sesso e non disdegna l’alcol, l’altro si raccoglie in preghiera vagheggiando solo la meta. Se lo schema dell’itinerario on the road comporta qualche incontro picaresco (una vecchia donna, un tipo poco raccomadabile), anche per movimentare il racconto, a prevalere è l’evoluzione del rapporto tra i due protagonisti; nel tratteggiare la quale il regista e sceneggiatore Ismael Ferroukhi, pur senza lasciarsi andare al buonismo, usa un tocco benevolo e lieve ad onta delle profonde differenze. Che si attenueranno grazie al con- tatto prolungato; così che Reda riesca a trovare qualcosa in cui riconoscersi nel tradizionalismo paterno e il vecchio possa cominciare ad accettare la trasformazione rappresentata dal figlio. Pur peccando di qualche lentezza e discontinuità, Viaggio alla Mecca è un film riuscito, gentile e fatto con amore. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 5 maggio 2006) Partono verso la Mecca, dalla Francia dove vivono, due arabi: un padre anziano, religioso, conservatore della tradizione, e un figlio ragazzo, occidentalizzato, agnostico. Su una vecchia automobile azzurra con uno sportello giallo, attraversano l’Italia settentrionale, Belgrado, Sofia, Istanbul, Damasco, sino all’Arabia Saudita, percorrendo 10.000 chilometri. In Viaggio alla Mecca di Ismael Ferroukhi, di produzione franco-marocchina, ben fatto e interessante, l’arrivo alla Mecca è un colpo di scena: chi non la conosce scopre, nella mèta che ogni musulmano deve raggiungere almeno una volta durante la propria vita, un insieme di monumentali edifici appena sbozzati di color ruggine, una straordinaria folla di pellegrini vestiti di bianco. Il viaggio, come sempre al di là dei paesaggi cangianti e dei soliti guai (truffatori in agguato, maltempo, errori nel prendere la strada, guasto all’auto) insegna a conoscere i viaggiatori. Il padre si sente alla fine della vita, detesta le novità (getta nel cassonetto il cellulare del figlio), esige soste di preghiera per strada o nel deserto, si ammala, è generoso coi mendicanti e con gli autostoppisti, si mescola senza esitare all’immensa folla di pellegrini alla Mecca, è imperioso e intollerante ma ricco d’esperienza e capace di trovare soluzioni nei momenti difficili o di tenere i rapporti con gli altri. Il figlio è esattamente l’opposto, ma si accorge di amare il padre autoritario, di avere rispetto per la sua religiosità. Viaggio alla Mecca ha una struttura prevedibile, banale (salvo la fine, ci si aspetta già tutto ciò che accade). Il grande interesse del film sta nel confronto di due generazioni arabe, negli usi che vorremmo conoscere meglio, nei sentimenti. I due interpreti non sono male, ma se il padre un poco ligneo ha una certa nobiltà, il figlio ragazzo è un personaggio scritto (e di conseguenza recitato) senza vera conoscenza né commozione. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 5 maggio 2006) Il grande viaggio del titolo originale è quello che ogni musulmano nella vita deve compiere. Quello alla Mecca, sede della religiosità araba, tempio della fede, meta verso la quale si rivolgono le preghiere di un vecchio padre arabo, Mustapha, emigrato a Marsiglia anni orsono, e oggi deciso, prima che sia troppo tardi, a ricongiungersi con il suo Dio. Chiede, senza possibilità di rifiuto, al figlio adolescente Réda di accompagnarlo. Insieme, con una macchina riarrangiata alla bell’e meglio, attraversano l’Italia, l’ex Jugoslavia, la Bulgaria, la Turchia e infine approdano in Arabia Saudita. In macchina, e non in aereo, non per un motivo economico, ma filosofico: per riavvicinarsi a Dio, ci vuole tempo, dedizione, preparazione agli imprevisti della strada. Il film di Ismaël Ferroukhi, premio Luigi De Laurentis come opera prima a Venezia nel 2004, ha la struttura semplice e classica del road movie intergenerazionale e due interpreti fuori dal comune, Nicolas Cazale e Mohamed Majd. La schematicità dell’impianto e l’esemplarità del soggetto non compromettono il risultato, impreziosito da un finale misterioso e per una volta non conciliante, supportato da reali panoramiche sulle migliaia di fedeli in preghiera. La sceneggiatura di Ferroukhi esalta attraverso i silenzi le differenze tra i due viaggiatori, lasciando allo spettatore lo spazio e il modo di riflettere. Non è poco. (RAFFAELLA GIANCRISTOFARO, Film Tv, 17 maggio 2006) Questo bellissimo ed intenso primo film di Ismaël Ferroukhi (già sceneggiatore di molti film di Cédric Kahn e conosciuto dai cinephiles internazionali grazie ai riconoscimenti che un suo cortometraggio, “L’exposé”, ha raccolto al Festival du Cinèma de Cannes nel 1993) racconta dell’incomunicabilità generazionale, della dolorosa distanza che può esserci tra un padre ed un figlio, della difficoltà del venirsi incontro. E lo fa utilizzando un genere cinematografico spesso adottato per aiutare gli spettatori ad entrare nell’anima dei personaggi: il road-movie. Non ha bisogno di colpi di scena per svelare l’animo ed i tormenti dei suoi personaggi, ma lascia che le immagini, gli sguardi, i dialoghi accompagnino lo spettatore nel loro universo interiore. E ciò avviene anche e soprattutto grazie alla magistrale interpretazione degli attori – su tutti il giovane e bravissimo Nicolas Cazalé –, che con una recitazioVIAGGIO ALLA MECCA 235 ne calibrata e mai sopra le righe riescono a comunicare più emozioni di quante non ne facciano scaturire attori ed attrici dal pathos gridato. Il grande viaggio del titolo è solo parzialmente fisico, mentre è molto più intimo. Un padre ed un figlio che non parlano né scrivono la stessa lingua (quando può, il padre parla arabo, la sua lingua natale), che vestono abiti diversi, mangiano cose diverse, pregano (forse) un dio diverso partono per un viaggio che, ponendoli di fronte alle loro differenze, li farà conoscere ed amare, anche se per poco, anche se, forse, troppo tardivamente. Il grande viaggio è, soprattutto, quello dell’anima. (VALENTINA PAGLIAI, www.cineclik.it, 2 maggio 2006) I COMMENTI DEL PUBBLICO OTTIMO Cristina Bruni Zauli - Attraverso il film si percepiscono i conflitti generazionali che si svolgono su piani diversi e in questo caso su quello religioso. Il viaggio nelle sue molteplici tappe e situazioni variabili e le sue disavvenuture è un ottimo e collaudato strumento per farci conoscere i personaggi dignitosamente irriducibili nelle loro rispettive posizioni divergenti e le sfumature delle loro essenze. Interessantissimo per una occidentale il finale alla Mecca in tutta la sua autenticità. Realistico anche l’atteggiamento conclusivo del figlio nel suo dolore ma anche nella sua comprensione terminale della figura paterna pur mantenendosi nella sua posizione agnostica. BUONO Maria Dilda - Il volto del protagonisra, riportato sapientemente anche sul manifesto, trasmette un insieme di sensazioni: attesa, stupore, abbandono. La descrizione del viaggio poi dà allo spettatore la misura delle differenze tra padre e figlio: la differenza culturale, l’abbigliamento, i cibi che consumano. Il film è un po’ lento, con qualche ingenuità nel tratteggiare i caratteri, ma in ultima analisi risulta di buona 236 VIAGGIO ALLA MECCA fattura. La panoramica sulla gente, la fotografia della Mecca, dando allo spettatore un forte impatto fa molto riflettere. Giuseppe Gario - “Memento mori”, per l’Occidente, come lo vede il regista Ismael Ferroukhi, grati comunque perché le critiche sono segno di attenzione. Le Grand Voyage per il giovane Reda è la maturità, conquistata con e grazie al padre, non col Bac già fallito una volta; per il papà è la morte, che sale non invitata in auto (grazie, Bergman), indica un luogo che non è di questo mondo e riappare a Sofia nonostante il maldestro tentativo di sfuggirle; per entrambi, maturità è andare alla Mecca, a Dio. Nel grande viaggio della vita e della morte, l’Occidente è una distrazione che occorre fuggire (il cellulare, Milano, Venezia) per seguire le vie apparentemente insignificanti di un mondo lento che lascia il tempo di pensare e imparare ciò che va appreso: la grandezza del creato e del Creatore, la pochezza delle nostre ansie (il calzino smarrito) e anche del nostro amore (scritto sulla sabbia). Ben recitato, ben diretto, didascalico e un po’ troppo costruito. Mariagrazia Gorni - Mi ha davvero colpito questo film. Durante la settimana ho ripensato alla figura del padre, apparentemente solo padre-padrone autoritario ma in realtà paziente di fronte a quel figlio così diverso tanto da vederlo come un dono divino che gli permette di compiere “Il grande viaggio”. Evidentemente è stato molto “aperto” nell’educarlo se il figlio è così “digiuno” di islamismo da non sapere neppure perchè si deve compiere il viaggio alla Mecca. E il figlio, pur con naturali scatti di ribellione e incomprensione, è davvero un buon figlio che, nel lungo avvicinamento alla meta, intuisce, comprende e rispetta la dimensione spirituale del padre: una dimensione che in Francia non aveva potuto capire e che pian piano gli si svela in modo autentico. Troppo tardi? Apparentemente sì ma il futuro di Reda sarà d’ora in poi certamente diverso e lo si intuisce dalla scena finale in cui compie un gesto di compassione verso una mendicante così come aveva visto fare dal padre. Marcello Napolitano - Un lungo viaggio, padre e figlio verso la Mecca, attraverso l’Europa e l’Asia Minore. Strani incontri, la vecchia muta (il travaglio dei Balcani?), un turco-europeo forse imbroglione; una pecora che scappa (novello Isacco?). Molto interessante la parte spettacolare delle manifestazioni religiose alla Mecca, con la ritualità dei gesti, la compartecipazione dei pellegrini, l’imponenza dell’ambiente e dell’organizzazione, l’atmosfera di reciproca simpatia e mutuo sostegno. Il figlio impara ad apprezzare l’esperienza di vita del padre (la saldezza dei suoi principi, la capacità di negoziare, l’umanità dell’elemosina e dell’ospitalità, etc) ed alla fine lo ricorderà con un gesto, appunto l’elemosina. Ma l’argomento più importante, la diversa fede religiosa delle due generazioni, viene solo sfiorato. C’è questo sapore un po’ esotico del viaggio con i picnic, le lunghe notti in auto al freddo, paesaggi intoccati e strade sperdute. C’è anche questa pulsione del padre per il viaggio che lo condurrà alla morte, morte felice perché in pieno accordo con il suo dio. Certo è un film che ci viene da un’altra civiltà, anche se girato in Francia: propone un modello familiare inconsueto. Ho trovato il film troppo lungo ed un po’ noioso; soprattutto buonista perché risolve tutto per il meglio evitando il dramma ed il rimorso. Ho però apprezzato la fotografia, la recitazione, lo sguardo fresco ed originale con cui vengono visti i luoghi e le genti lungo l’itinerario. Caterina Parmigiani - Un padre anziano, autoritario e molto religioso e un figlio superficiale, consumista e agnostico si conoscono davvero solo durante il lungo e faticoso viaggio-pellegrinaggio. Sguardi intensi, gesti misurati e dialoghi brevi alternati a lunghi silenzi, in una trama prevedibile eccetto per il finale, emozionano gli spettatori grazie all’interpretazione equilibrata dei due sensibili attori. Ugo Pedaci - Sembra un periodo molto fecondo per film semplici, realizzati con costi limitati tuttavia di grande rilevanza e con messaggi importanti da trasmettere. Vorrei ricordare Il cane giallo della Mongolia, Whisky, Free zone oltre, naturalmente, l’attuale Viaggio alla Mecca. Si tratta di un filone piacevole per gli spettatori che amano il cinema, distensivo, sempre interessante. Il confronto serrato, anche grazie all’ambiente ristretto, tra queste due generazioni di arabi musulmani non poteva essere più stridente. Il giovane cresciuto in Francia, ateo, abituato alla modernità ed alla vita consumistica di oggi; il padre profondamente credente, osservante, tollerante e forte della saggezza propria dell’età avanzata. Quante cose dovrà scoprire il giovane Reda che alla fine del viaggio si sentirà più maturo, più forte, un poco più saggio. Ben girato, ben recitato, il film ci mostra per la prima volte immagini suggestive della Mecca e della icredibile massa di pellegrini che si muove intorno al luogo sacro (facendoci anche capire il perché delle tante morti che ogni volta si verificano). DISCRETO Luisa Alberini - “Che cosa c’è che ti interessa tanto alla Mecca?” chiede Reda a suo padre. E la prima risposta di quell’uomo è anche un’altra domanda “Me lo chiedi adesso che siamo ormai arrivati?”. Kilometri e kilometri uno vicino all’altro nell’apparente più totale distanza. Per uno il viaggio che segna l’adempimento di un dovere e la realizzazione di un desiderio, per l’altro una faticosa, inutile esperienza e una ancor più irrecuperabile rinuncia. Tra di loro il silenzio e l’attesa di una meta, per ognuno diversa... Ma quel viaggio diventa nei giorni anche il punto di non ritorno. Reda torna solo, dopo aver attraversato, lui vestito sempre come un normale ragazzo europeo, quegli spazi dove tutti gli altri indossano in preghiera il sudario bianco di cotone, senza cuciture, simbolo di umiltà e di eguaglianza. Viene in mente l’osservazione fatta dal ragazzo alla madre prima della partenza “Perché non va in aereo”? E come ormai in strada il padre gli aveva spiegato i motivi di quella scelta. In strada avevano condiviso difficoltà e rinunce, l’incontro con l’ignoto e la sfida con lo sconosciuto. Avevano vissuto insieme la stessa esperienza e ognuno dei due al termine aveva potuto concludere “Ho imparato tanto”. Il viaggio dunque come percorso interiore, che è poi sempre la prima motivazione. Pierfranco Steffenini - Il canovaccio si rifà a modelli ben collaudati, che hanno trovato ampio spazio nel cinema recente: il viaggio come percorso di crescita personale e acquisizione di conoscenza. Non è nuova nemmeno l’idea di VIAGGIO ALLA MECCA 237 far compiere il viaggio a due personaggi diversi tra loro e potenzialmente confliggenti, che frequentandosi hanno modo di conoscersi meglio, di stimarsi e anche di amarsi. La novità di Viaggo alla Mecca sta nel rapporto di parentela esistente tra i protagonisti, un padre autoritario e all’antica contrapposto a un figlio emancipato dalle tradizioni e giustamente desideroso di divertimento. Ma la peculiarità del film consiste nel fatto che i due personaggi sono islamici e la destinazione del viaggio è la Mecca, secondo desiderio del genitore che vuole ottemperare ai precetti della sua religio- 238 VIAGGIO ALLA MECCA ne. Non mancano durante il viaggio, prevedibilmente, incontri curiosi, intoppi, litigi e rappacificazioni tra i protagonisti, fino al raggiungimento della meta e al risvolto finale, abbastanza scontato, con la morte del padre e l’acquisizione di una nuova maturità da parte del figlio, che finisce col seguire l’esempio paterno, come sembra voler attestare l’obolo versato alla mendicante nella scena finale. Il film è ben costruito e assai gradevole. Noto tuttavia qualche eccesso di ingenuo buonismo, misto a uno scoperto intento di compiacere platee occidentali.