Inserto Moneta - Ordine dei Giornalisti
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Inserto Moneta - Ordine dei Giornalisti
Allegato al numero 4 -5 di Ordine Tabloid 2007 1907-2007 ERNESTO TEODORO MONETA Cent’anni fa il giornalista riceveva il Nobel per la Pace Quindicenne, partecipò alle Cinque giornate di Milano. Successivamente, indossata la divisa del garibaldino, fece parte dello Stato maggiore di Giuseppe Sirtori, durante la campagna nel Napoletano. L’orrore che lo aveva assalito nel 1848, assistendo all’agonia di un militare austriaco ferito a morte dagli insorti e l’insipienza di militari e politici durante la campagna garibaldina (e più tardi nel corso della Terza guerra d’indipendenza), lo convinsero dell’inutilità dei conflitti anche se restò un consapevole militarista, favorevole a un esercito di popolo e non professionista come in Svizzera. Divenuto direttore del Secolo un anno dopo la sua uscita, assistito da quel mago del giornalismo che era Carlo Romussi, portò il foglio al primo posto tra i giornali italiani. Per le battaglie pacifiste sostenute attraverso le colonne del foglio milanese, gli fu conferito nel 1907 il Nobel per la pace. La sua lotta a favore degli ideali della convivenza pacifica non fu priva di contraddizioni. Contrario al duello, fu costretto a sfidare prima Cletto Arrighi, il celebre componente la Scapigliatura milanese, e poi il direttore di un giornale concorrente. Egli considerava legittima la guerra difensiva e la lotta per la salvaguardia e la conquista della libertà e dell’indipendenza dei popoli. Nel 1911 e nel 1915, non si oppose all’entrata in guerra dell’Italia contro la Libia e contro la Triplice. Giustificò la prima perché convinto che senza quel conflitto il nostro paese sarebbe stato considerato “una potenza senza valore” e che un’opposizione dura avrebbe potuto fare cadere il governo Giolitti e portare al potere i nazionalisti: scelse dunque il male minore; accettò la seconda perché la considerò un conflitto a scopo difensivo, indispensabile per raggiungere l’unità nazionale. Entrambe le decisioni furono aspramente criticate da molti pacifisti stranieri anche se la stragrande maggioranza dei suoi confratelli delle diverse parti del mondo si trovarono impantanati nelle medesime implacabili contraddizioni. Morì nella più completa cecità nel 1918. L’apostolo della pace che per carità di patria approvò due guerre di Enzo Magrì ORDINE 4-5 2007 to. Ferito gravemente, questi emette i rantoli dell’agonizzante. Come Ernesto Teodoro racconterà più tardi, s’era messo con giocondità infantile a fare la rivoluzione e ad un tratto gli passava vicino lo spavento della morte, un’impressione che non potrà più superare per tutta la vita. Considerava necessaria la guerra per l’indipendenza, ma qualcosa dentro gli tremava e lo turbava. Colpito dai terribili istanti del trapasso dell’uomo, il fanciullo è stretto da numerosi dubbi circa l’utilità della guerra e della lotta armata. Gli si addensano nella mente molte domande che al momento non possono ricevere risposta. Era lecito che un popolo occupasse la terra di un altro con il quale non aveva in comune né la razza, né la lingua, né la storia? E perché l’oppresso popolo doveva essere costretto a ricorrere alla guerra, ad uccidere uomini che individualmente non avevano nessuna colpa? Quegli interrogativi erano i primi semi dell’idea pacifista che in Ernesto Teodoro germoglieranno con il crescere dell’età e durante una giovinezza trascorsa fra i campi di battaglia del Risorgimento, cui darà un suo non secondario contributo. Moneta era il terzo di tredici figli di Carlo Aurelio, un piccolo imprenditore milanese che aveva ereditato dal padre una fabbrica di detersivi ubicata lungo il Naviglio, presso la Pusterla dei Fabbri, là dove oggi si stende l’area tra via San Vincenzo e via Cesare Correnti. vente determinata da circostanze particolari come quelle che coinvolsero Moneta in un momento storico dominato dal nazionalismo e dell’esasperato bellicismo ma anche dall’eccessiva gravezza attribuita al concetto di Patria quando ancora non si era completato il ciclo di formazione degli stati europei e molti popoli combattevano per conquistare l’indipendenza. A nche i giornalisti italiani come i poeti, i chimici, i fisici e i letterati loro connazionali, possono vantare un premio Nobel. È quello che nel 1907, cento anni addietro, Kristiania (Oslo) consegnò a Ernesto Teodoro Moneta. Diversamente da quanto accade per gli altri nobel nostrani però, di questo giornalista garibaldino oggi si ricordano in pochi perché quel riconoscimento è stato negligentemente dimenticato se si fa eccezione per un francobollo commemorativo emesso nel 1983 e per una strada a lui intitolata ad Affori. All’oblio hanno sicuramente contribuito due fattori: il fascismo bellicista che fece rimuovere dai giardini pubblici di Milano il busto dedicato a Moneta (pur sempre rappresentante dell’italietta imbelle e pacifista) dallo scultore Tullio Brianzi nel 1924 e la contraddittorietà della sua linea di condotta, inevitabile conseguenza del clima storico politico dell’epoca. Sognatore della concordia e dell’armonia fra le genti, ma anche militarista, proclamava la necessità che lo stato italiano disponesse d’un esercito di popolo, come quello svizzero. Nemico del duello, sfidò e ferì Cletto Arrighi, l’esponente della Scapigliatura che gli aveva dato del pusillanime mentre più tardi scese ancora una volta sul terreno affrontando il direttore del giornale Lombardia che aveva insinuato sospetti d’affarismo su una missione del Secolo a favore dei colerosi di Napoli. E non è tutto. A completare questo quadro di forte, anche se apparente antinomia, è obbligo ricordare che l’apostolo della pace (come fu soprannominato), nel 1911 si pronunciò a favore dell’intervento militare italiano in Libia, scatenando durissime critiche tra i pacifisti europei che si ripeterono ancora più imbruschite quattro anni più tardi, nel 1915, quando diede il suo benestare all’entrata del paese nel conflitto europeo schierandosi a favore degli interventisti. L’incoerenza, che talvolta costringe gli uomini a venir meno ai principi cui ispirano la loro vita, è so- L’ amore per la patria e l’amore per il prossimo, due sentimenti che sulle barricate d’una rivoluzione parrebbero in scoperto conflitto, si manifestarono contemporaneamente nell’animo di Ernesto Teodoro Moneta in uno dei momenti più tragici e difficili della storia meneghina e dell’Italia. Il 18 marzo 1848 segna la prima delle Cinque giornate durante le quali i milanesi si scontrano con gli oppressori austriaci. Mancano le armi. Carlo Aurelio Moneta, il padre di Ernesto Teodoro, un patriota entusiasta, aveva suggerito ai propri figli nei giorni precedenti gli eventi che in caso di rivolta, in mancanza di fucili e pistole, avrebbero potuto utilizzare pietre e mattoni ammonticchiati in cantina. Il ragazzo insieme con i suoi cinque fratelli maschi, trasferiscono il materiale sotto le dieci finestre di casa, iniziativa che il sciur Carlo Aurelio loda parecchio. La mattina in cui s’inasprisce la lotta contro gli austriaci, i Moneta contribuiscono alla battaglia lanciando dalle finestre della loro abitazione quei residui d’edilizia contro le pattuglie che fronteggiano i patrioti. Il 21 marzo, quarta giornata della lotta, morti e i feriti non si contano più. Un graduato e due militari stranieri, raggiunti da colpi di moschetto nei pressi dell’abitazione dei Moneta sono creduti morti e trascinati in una piazza vicina. Più tardi, durante una pausa degli scontri, Ernesto Teodoro, quindicenne, e un paio dei suoi fratelli, escono di casa, e curiosano qua e là tra le barricate. Nella piazzetta s’imbattono nei tre militari austriaci, bersaglio dei rivoltosi, uno dei quali non è ancora mor- L’ aspirazione alla libertà e all’indipendenza, la peculiare atmosfera del Risorgimento che si respira in regioni come la Lombardia nel 1848, non è un ideale politico letterario che mobilita gli intellettuali e i grandi borghesi, ma un sentimento copiosamente diffuso nelle diverse categorie sociali dove è viva e palpabile l’avversione verso gli occupanti austriaci. Non per niente nel 1849, alla vigilia della scoppio della Prima guerra d’indipendenza, il giovane Ernesto Teodoro, che si distingue per l’accesa propaganda patriottica svolta all’inter- 1 Cent’anni fa il giornalista ERNESTO TEODORO MONETA riceveva il Nobel no del liceo Brera (poi diventato Parini) è costretto a lasciare Milano. Ma non per un’azione d’attivista patriota, bensì per un banale incidente con un ufficiale dell’esercito invasore. Un giorno, uscendo da scuola, inciampò inavvertitamente sulla sciabola del militare con il quale s’era incrociato. Cadendo a terra, il ragazzo imprecò contro l’uomo il quale, entrato nell’istituto, pretese dal preside il nome dello studente per denunciarne il comportamento. Per sottrarsi alle conseguenze che avrebbe sicuramente sortito quella segnalazione, Ernesto Teodoro, su consiglio del padre, fugge a Genova dove, attraverso il Comitato lombardo per l’emigrazione, tenta d’arruolarsi in una qualche compagine mobilitata contro l’Austria. Respinto per la sua giovane età (ha sedici anni), è indirizzato alla scuola militare d’Ivrea che tra l’altro ospita molti ufficiali e volontari i quali non hanno potuto far parte della Divisione Lombarda. Nella cittadina canavese, tra il 23 e il 24 marzo 1849, il giovane assiste alla disastrosa ritirata delle colonne degli sbandati reduci della sconfitta di Novara, quella che costrinse Carlo Alberto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Quando poco più tardi rientra a Milano, il ragazzo è costretto a fare i conti con la difficile situazione che sta attraversando la sua famiglia. Morto il padre, le condizioni economiche della casata sono dissestate e l’agiatezza d’un tempo è solo un ricordo anche per via di una causa che il defunto genitore ha intentato e perso contro l’Ospedale Maggiore. Alle pene sue particolari, si aggiungono le disgrazie della Lombardia ricaduta ancora sotto la dominazione austriaca la quale, nel timore di altri sussulti rivoluzionari, pone in atto energiche azioni repressive. La pace dei liberi e dei forti Molti si meraviglieranno che mentre in molte pagine del libro combattiamo il culto della guerra, in altre si esalta il coraggio dei combattenti per la libertà e per la patria e si indicano i fattori della vittoria; l’autore risponde che la pace al cui trionfo ha dedicato tutte le sue forze, deve essere la pace dei liberi e dei forti. Dal Compendio Moneta in divisa da ufficiale in sella ad Arturo, un baio di razza ungherese, preda di guerra, che lo seguì nelle diverse operazioni della campagna garibaldina del 1860 nel meridione d’Italia. Q uando nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, il Piemonte e il Lombardo lasciano la rada di Quarto, il giovane non è tra i Mille. Il generale Sirtori, impegnato nell’organizzazione della missione, s’è dimenticato d’avvertirlo dell’imminente partenza per il meridione d’Italia. Solo quando il Lombardo è in alto mare e naviga alla volta del Sud, Enrico Moneta, fratello di Ernesto Teodoro, accolto fra i volontari, chiede al comandante della spedizione di conoscere dov’è alloggiato il proprio congiunto. Sirtori, stizzito, si batte la fronte con il palmo della mano, e smoccola in dialetto lombardo che s’era scordato di avvertire il ragazzo. Ernesto Teodoro è uno tenace. Raggiunge la spedizione un mese più tardi, il 10 giugno, con i novecento che al comando di Giacomo Medici del Vascello s’imbarcano sui tre piroscafi Washington, Franklin e Oregon, acquistati con l’aiuto del governo in Francia e posti sotto il comando dell’americano William De Rohan, amico di Garibaldi. Nelle stive, i battelli trasportano ottomila fucili e materiale per ambulanza e. Moneta e gli altri il 17 giugno sbarcano a Castellammare del Golfo da dove raggiungono Palermo, città nella quale Sirtori ha assunto la carica di prodittatore della Sicilia. Dopo essersi appuntati ancora una volta sulla divisa i gradi di sottotenente, il volontario lombardo s’aggrega al contingente del generale comasco dov’è chiamato a fare parte dello Stato maggiore con le funzioni d’ufficiale di collegamento. La vicinanza del fronte, contribuisce a fare insorgere i lui i tristi ricordi di quegli orrori che lo avevano assalito nella quarta delle Cinque giornate di Milano e a frugacchiargli la vocazione pacifista che dorme in qualche piega della sua anima. Precedendo i garibaldini, egli, sbarcato in Calabria diretto a Napoli, s’imbatte nelle truppe borboniche sconfitte a Milazzo che risalgono disordinatamente la regione. Tra di loro fa opera di convincimento affinché depongano le armi e si uniscano a Garibaldi. Alcune settimane più tardi, nel disperato tentativo di riconquistare il capoluogo campano, Francesco II di Borbone fa schierare cinquantamila uomini alla destra del Volturno. Le forze garibaldine sono allineate su un ampio semicerchio che da Santa Maria Capua Vetere, tocca Maddaloni, passando per le pendici del monte Tifata e la zona collinosa di San Leucio e di Caserta Vecchia. Moneta, in sella ad Arturo, un baio di razza ungherese, preda di guerra, galoppa quotidianamente fra Caserta, sede del quartier generale, Maddaloni, dov’è schierato Nino Bixio, Santa Maria Capua Vetere e Sant’Angelo dove staziona Giuseppe Garibaldi. Un giorno degli inizi di ottobre, il presidio di Castelmorrone, tenuto dal maggiore Pilade Bronzetti, dopo avere combattuto strenuamente con i suoi 227 garibaldini per un’intera giornata è costretto a cedere all’impeto dei borbonici. L’ufficiale muore insieme con molti dei suoi uomini. La caduta del presidio avrebbe potuto mettere in pericolo il quartier generale di Caserta. Ernesto Teodoro, cavalcando con tenacia e dedizione, riesce ad allertare i comandanti dei presidi di Caserta, Maddaloni, Santa Maria Capua Vetere e Sant’ Angelo che si mobilitano per arginare la difficile situazione del fronte. Il giorno successivo i garibaldini riescono a neutralizzare prima e a imbottigliare poi l’intera colonna borbonica che s’arrende. Sempre come ufficiale di collegamento, il giovane milanese percorre a cavallo il Napoletano e la Calabria e partecipa anche alla lotta contro il brigantaggio. Quando nel 1864 il suo reparto è smobilitato, egli se ne torna a Missaglia con il suo Arturo al quale concede pascoli verdi e rilassanti cavalcate. Quell’anno, per l’aggravarsi della ferita riportata in combattimento, muore il fratello Giovanni mentre altri tre congiunti, Pompeo, Epifanio ed Enrico emigrano in Argentina. L a precarietà finanziaria dei suoi e l’opprimente presenza degli occupanti non fanno venir meno nel giovanotto l’impegno patriottico tanto che comincia a collaborare con gli unitari della Società nazionale, una compagine organizzata da Daniele Manin e da Trivulzio Pallavicino, favorevole alla creazione d’un fronte comune con i monarchici per una soluzione unitaria del caso italiano. Fra il 1849 e il 1851, Ernesto Teodoro collabora all’Unità Nazionale e al Piccolo Corriere d’Italia, due fogli diretti dal Pallavicino del quale prende poi il posto allorché il patriota non potrà più dirigerli essendo divenuto cieco. Le due pubblicazioni gli consentono di restare in contatto con i piemontesi. Da questi nel 1858 apprende l’apertura della campagna degli arruolamenti nella compagnia dei Cacciatori delle Alpi, la formazione dei volontari emigrati dalle diverse regioni italiane in Piemonte che comprende tre reggimenti sotto il comando di Giuseppe Garibaldi. Il fervore patriottico infiamma anche alcuni dei suoi fratelli; Eugenio, il primogenito, Pompeo, Epifanio, Enrico, Agostino e Giovanni che entrano fra le fila del generale. Ernesto Teodoro raggiunge subito il grado di sottotenente ma non ha alcuna occasione di ricevere il battesimo del fuoco, Giovanni Moneta invece partecipa a una battaglia ed è ferito gravemente a un braccio. Diversamente dalla Prima guerra d’indipendenza, questa Seconda, preparata da Cavour sul piano politico e diplomatico e da Alfonso La Marmora, su quello tecnico militare, parve prendere l’indirizzo giusto. Stretta l’alleanza con la Francia, il Piemonte respinse l’ultimatum austriaco. I piemontesi sconfissero i nemici a Montebello e a Palestro, mentre Napoleone III decise di marciare verso Milano dove entrò insieme con Vittorio Emanuele II. Nonostante l’assunzione del comando delle sue truppe, l’imperatore Francesco Giuseppe fu battuto a Solferino e a San Martino e Garibaldi conseguì una serie d’altri successi al nord. All’amara delusione del trattato di Villafranca, seguì il miracolo delle annessioni dell’Italia centrale che realizzarono il disegno della costituzione dello stato italiano. In quei giorni il giovane milanese torna alla direzione dell’Unità nazionale ma come molti patrioti non smette di porgere l’orecchio al prossimo cupo rimbombo del cannone. E quando si diffonde la voce che Garibaldi sta preparando la spedizione in Sicilia, e che il comasco Giuseppe Sirtori, deputato alla Camera del parlamento subalpino (nominato capo di Stato maggiore), sta studiando un piano d’intervento, egli vibra d’entusiasmo. Sirtori è stato suo comandante nella campagna del 1859. Inoltre, Ernesto Teodoro, che in quel periodo dimora nel 2 di Giuseppe Sirtori. La pasticciata campagna militare (che per la prima volta nella storia vede schierato in armi l’esercito italiano), contrassegnata da gravissimi errori dovuti ad incomprensioni ed invidie tra gli ufficiali superiori, si conclude come si sa con le sconfitta di La Marmora (poi sostituito da Cialdini) e di Persano a Lissa, nonostante la nostra superiorità numerica sia a terra sia in mare. L’abituale presenza tra i vertici militari, ha offerto a Moneta l’occasione per rendersi conto di quanto accade dietro le quinte della guerra: egoismi nelle alte gerarchie, rivalità fra generali, veti che paralizzano i comandi, gelosie, personalismi, insipienza di alcuni comandanti, impreparazione e faciloneria di molti militari che neutralizzano ordini e decisioni. Non gli sfuggono neanche i retroscena delle azioni diplomatiche destinate a restare negli archivi ma che creano sconcerto e disgusto in chi non coltiva indifferenza e cinismo. Tutto quest’insieme di esperienze scuote la sensibilità del generoso sognatore Ernesto Teodoro il quale ne resta sconcertato. Il turbamento lo porta a trarre inevitabili conclusioni. Riscontra come le vite di decine di migliaia di uomini siano messe in gioco da personaggi privi d’idee chiare, senza piani sicuri e senza una sufficiente preparazione né morale né materiale. Si domanda: “Se complotti, trattative e manovre diplomatiche vincolano i capi di stato e impongono direttive agli stessi strateghi, perché allora non abolire la guerra e sviluppare a fondo una seria azione politica?” Si convince risolutamente che il conflitto è un fenomeno storico ormai superato e che non vi sono problemi o argomenti che i diversi popoli e i loro governi non possano affrontare attraverso accordi liberamente negoziati. I risultati della campagna del 1866 sono una lucente verifica del suo ragionamento. L’Italia era scesa in guerra per conquistare il Veneto che aveva ottenuto, nonostante le sconfitte subite, attraverso la mediazione di Napoleone III, al quale l’Austria aveva consegnato la regione perché la passasse a noi. Quell’esito utile al paese aveva fatto dimenticare agli italiani le ferite e le umiliazioni subite. Il giovane Moneta non può darsi pace. Ricorda gli errori commessi dagli strateghi in quell’occasione. Stigmatizza il patriottismo ottimista pieno di fede nella virtù degli italiani e nella fortuna, il famoso stellone d’Italia. Rimarca la nostra approssimazione.“Poiché negli anni precedenti si erano ottenuti grandi risultati con sforzi relativamente piccoli e gli errori degli uomini erano stati volti in fortuna, si era diffuso nel paese un sentimento d’illimitata fiducia negli eventi futuri”. Se ci si fa caso, è lo stesso comportamento che i governanti italiani terranno nella prima e nella seconda guerra mondiale. La Storia non insegna nulla. suo podere, l’Agazzino, a Missaglia, incontra quasi quotidianamente il generale che risiede a Casatenovo, un paese limitrofo, situato nella stessa provincia di Como. Il giovanotto si fa promettere dal condottiero garibaldino che al momento opportuno sarà avvertito e potrà essere della partita. N onostante la delusione subita al momento della smobilitazione, nel 1866 con il sopraggiungere della Terza guerra d’indipendenza Ernesto Teodoro torna ad indossare la divisa. Arruolatosi nella divisione Alpi, rientra nello Stato maggiore E rnesto Teodoro enumera gli altri eventi negativi che avevano marcato l’unità d’Italia: la mancata fusione tra il vecchio esercito piemontese e i migliori elementi del corpo dei garibaldini, l’inesistente educazione patriottica del soldato e specialmente degli ufficiali, la quasi totale assenza di carte topografiche negli alti comandi, l’insufficienza dei servizi d’informazione (per cui le mosse del nemico erano conosciute il giorno successivo), il pessimo servizio logistico così che i fanti restavano senza rancio e senza servizi sanitari, e soprattutto l’adozione di due piani militari, quello del generale La Marmora e quello del generale Cialdini, un colpevole disguido che determinò una dannosa dispersione di forze su un arco di 40 chilometri. Ma l’errore fondamentale che pregiudicò l’andamento di tutta la campagna fu, a parere del Moneta, la convinzione di La Marmora che l’Austria avrebbe offerto una resistenza puramente passiva e che l’Italia non dovesse impegnarsi troppo a fondo, giusto le raccomandazioni dell’imperatore francese. La stessa cosa accadrà nel 1940. Insomma si convince che le guerre non risolvono i problemi né secondo giustizia né secondo finalità storiche. E allora si domanda: ma è possibile che l’umanità dopo migliaia di anni non ha capito queste cose e non sappia trovare un altro modo che non sia lo scontro armato per risolvere i conflitti internazionali? Questa serie di riflessioni, che innaffia il germe del suo pacifismo, lo induce ad abbandonare definitivamente la vita militare, a rivestire gli abiti borghesi e a tornarsene in Lombardia deciso a trovarsi un’occupazione civile. ORDINE 4-5 2007 F orte dell’esperienza che aveva maturato come collaboratore prima e come facente funzioni di direttore poi all’ Unità nazionale e al Piccolo Corriere d’Italia, i due giornali di Giorgio Pallavicino, inizia a scrivere sulla Gazzetta di Milano e successivamente sul Secolo, due testate che fanno parte della scuderia di Edoardo Sonzogno. Il primo foglio, uscito nel 1859, era in pratica la vecchia Gazzetta ufficiale di Milano, giornale protocollare degli austriaci. Abbandonato dagli invasori, il foglio, mutato il logo in Gazzetta di Milano, aveva continuato le sue pubblicazioni puntando sulla collaborazione dello scrittore Girolamo Rovetta. Il Secolo era apparso il 5 maggio del 1866. Nell’arco d’un anno si erano avvicendati sulla poltrona direttoriale i pubblicisti Eugenio Ferro e Carlo Pisani che non erano riusciti a far decollare la testata nonostante questa ospitasse firme come quelle di Eugenio Torelli Viollier (un napoletano che era stato segretario particolare di Alessandro Dumas al tempo in cui lo scrittore francese seguiva la campagna di Giuseppe Garibaldi), Antonio Ghislanzoni, scrittore di romanzi e novelle, e lo stesso Ernesto Teodoro Moneta, il quale, attingendo alla sua passione teatrale, firmava una rubrica di cronaca degli spettacoli. Tra le forti personalità che lavoravano al Secolo c’era anche Felice Cavallotti, scrittore ed uomo politico che per le sue campagne contro il trasformismo e le tendenze autoritarie di Crispi si conquisterà il soprannome di “bardo della democrazia”. Ad organizzare il foglio, e a comandare insomma in “sala macchine”, era impegnato un giovane avvocato dal moderno sentire, Carlo Romussi. Nonostante la presenza di questo mixer professionale il giornale non riusciva però a prendere quota. Nel settembre del 1867, Eduardo Sonzogno cambia ancora una volta direttore e vi insedia il critico teatrale, proprio Ernesto Teodoro Moneta. In pochi mesi il Secolo, che per oltre un anno era andato alla ricerca d’un suo profilo, trova la sua linea editoriale. A partire dalla presa di direzione di Moneta, la testata impersona quanto di patriottico, d’idealista e d’impazientemente innovatore c’è nello spirito della popolazione milanese e di quella italiana. Nel primo fondo del 16 settembre, il neodirettore enuncia i temi per i quali si batterà. In primo luogo la militarizzazione del paese, che diventerà poi il mito della nazione armata; quindi la riforma della pubblica amministrazione. Altri punti fermi dei suoi propositi sono la formazione d’un’educazione nazionale “virile e saggia”, l’impegno per la creazione dell’unità morale del paese, la fucinatura del carattere nazionale, il contributo per la creazione d’una opinione pubblica e il tentativo di rendere ciascuno responsabile del proprio operato. Il piemontesismo rovina di esercito e burocrazia La fiducia di Cavour e dei ministri della guerra del tempo (Seconda guerra d’indipendenza) era naturalmente riposta nell’ufficialità dell’esercito regolare e da buon sergente, divenne ufficiale e coll’andar del tempo capitano; chi sarebbe stato un discreto tenente divenne capitano e poi maggiore; il capitano, il maggiore divennero presto colonnelli e generali. Saliti tali gradi della gerarchia militare, ai quali essi medesimi non avrebbero mai pensato, questa si ricorse di preferenza per riempire i quadri straordinariamente ampliati di tutto l’esercito italiano (dopo il 1861). Così il semianalfabeta, che sarebbe rimasto sognato d’arrivare, videro nella lettera dei regolamenti e nelle manovre di piazza d’armi il non plus ultra dell’arte militare, ignari com’erano, i più fra essi, di scienza e di storia militare, e alle prime difficoltà non prevedute nella fatale giornata del 24 giugno 1866 si trovarono disorientati. Ciò che avvenne nell’esercito si ripeté su più vasta scala nell’amministrazione civile. Non si andarono a cercare gli uomini delle vecchie amministrazioni di Lombardia, della Toscana e del Napoletano. Si fece invece largo posto così ai giovani alunni, come alle vecchie cariatidi della burocrazia piemontese. Dal Compendio te sfidando a duello Cletto Arrighi il cui vero nome era come si sa Carlo Righetti. Tra le molte polemiche che agitavano il mondo culturale milanese c’era anche quella attorno al verismo, o sullo zolismo, come scrivevano alcuni. In un pezzo del giugno 1872, Carlo Romussi si era lanciato con il suo solito impeto contro la nuova corrente letteraria accomunando nella critica Emil Zola, Giovanni Verga e Cesare Tronconi, un letterato milanese nella cui opera si uniscono insieme l’indagine sociale e un erotismo torbido. L’intervento aveva fatto arricciare il naso ad Arrighi, che con il suo romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio aveva introdotto nel campo delle lettere il concetto di bohème che poi si era tradotto nella Scapigliatura. Righetti, autore anche di Canaglia Felice e di Nanà a Milano, aveva cominciato a collaborare con il Secolo dove aveva tenuto una rubrica sui venerdì letterari. Nel 1867, in coincidenza con l’arrivo di Moneta, se n’era andato e aveva fondato un suo giornale, Cronaca Grigia. La questione del Verismo intossica i rapporti tra il giornaletto di Arrighi e il Secolo. Non c’è iniziativa che il giornale di Moneta promuova che non sia criticata o irrisa da Cronaca Grigia. Per il suo taglio popolare, il Secolo è giudicato dal mondo intellettuale milanese un foglio di basso livello e presto è battezzato il “giornale delle serve” al quale non è dunque consentito d’occuparsi di problematiche intellettuali come quelle relative ad una corrente letteraria. La fase culminante dello scontro tra le due testate non avviene sul terreno della narrativa bensì su quello del costume, allorché nel mese di luglio Moneta intraprende una campagna contro il duello. La sfida tra due avversari, uno dei quali ha chiesto all’altro la riparazione con le armi d’un’offesa ricevuta, era un fenomeno molto diffuso in quegli anni. Il duello era stato praticato per secoli dall’aristocrazia. E questa, come scrive Jacopo Gelli, si era vendicata della sconfitta storica subita regalando alla borghesia, nuova arrivata nella Storia, i suoi vecchi ferri.“E mentre il borghese irride i titoli nobiliari, si affanna dietro una miserabile croce di cavaliere e sfida a singolar tenzone e quando può uccide chiunque gli ostacoli la via del piacere, della ricchezza o della vanità”. Scendere sul terreno era una pratica molto diffusa particolarmente in due categorie sociali sempre disponibili ai battibecchi e alle polemiche: i parlamentari e i giornalisti. Il malcostume era stato già eliminato per legge negli Stati Uniti mentre resisteva in Europa. Nel nuovo mondo, se un ufficiale si era battuto in duello era cacciato dall’esercito. ché siano attuati concretamente quegli ideali che lo avevano condotto sui campi di battaglia. L’ affare della règia dei Tabacchi, una privatizzazione per la quale si sospetta la corruzione d’un gruppo di deputati governativi, mentre provoca un clamoroso processo a Firenze nel quale è condannato il Gazzettino Rosa, responsabile delle rivelazioni, dà origine alla prima “ventata rossa” in Italia che in un certo qual modo coinvolge anche Il Secolo, il quale marca ancora di più la sua posizione di oppositore di sinistra. A tre anni dalla sua uscita in edicola, ora il foglio riscuote parecchio successo che si consolida e progredisce a partire dal 1870. Durante un suo soggiorno a Parigi, Edoardo Sonzogno ha occasione d’esaminare i giornali della vicina repubblica i quali contengono poca politica (al contrario di quelli italiani dove abbonda), molta cronaca e tanto varietà: notizie curiose, rubriche di moda e mondanità, giochi enigmistici e un angolo di lettura amena: i romanzi d’appendice. Italianizzata da quel mago del giornalismo che era Carlo Romussi, la formula francese è applicata al Secolo che diviene così il primo giornale italiano edito su base industriale e che ha per unico scopo quello d’essere venduto al pubblico e di presentarsi quale vero giornale d’informazione. La politica non è mai un impegno ideale (ufficialmente il foglio non appartiene a nessun partito) ma un mezzo per smerciarlo. Mentre i cronisti di Romussi rovistano quotidianamente, nel mattinale della questura, il brogliaccio dalla copertina nera (dal quale nascerà la dizione “cronaca nera”), il giornale di Moneta contribuisce con le sue sollecitazioni al Comune a creare a Milano asili notturni per i poveri, cucine economiche, case per i lavoratori e anche un fondo per il S i tratta pressappoco degli stessi obiettivi che si propongono di raggiungere i radicali italiani. Moneta precisa che mentre quelli “vogliono mettere il carro davanti ai buoi noi vogliamo l’opposto”. Il giornale della prima gestione monetiana non ha ancora una sua chiara identità politica. Oscilla tra “Se complotti trattative e manovre diplomatiche vincolano i capi di stato e impongono direttive agli stessi strateghi, perché allora non abolire la guerra e sviluppare a fondo una seria azione politica? ‘ posizioni di destra e di sinistra: mentre osteggia il comitato d’azione di Garibaldi per la presa di Roma, convinto, come la destra, che lo Stato pontificio cadrà da sé nelle mani italiane, poco più tardi se la prende contro il governo Manabrea che impedisce una manifestazione in favore del generale. Era il momento in cui nella penisola s’intrecciavano e si contrastavano da un lato l’anima garibaldina dei democratici, per i quali il Risorgimento era stata più opera dell’eroe dei due mondi che di Cavour, e dall’altro lato l’esigenza della ricostruzione del paese e dell’ordine, il limite moralistico del dovere, la fiducia nel progresso scientifico. Moneta ritiene che il giornalismo abbia da assolvere ad un’alta missione educatrice della quale si sente investito. Il fondo che scrive quasi quotidianamente è contrassegnato dal titolo Rassegna politica. Egli non si limita a delineare la sua obiettiva posizione ma s’impegna nella lotta politica, polemizza, dibatte. In lui vibra sempre la corda del patriottismo, il sentimento di colui che ha lottato per l’indipendenza dell’Italia e si batte perché i frutti di quell’unità nazionale raggiunta con difficoltà, non vengano compromessi “né dalla diffidenza, né dalla miopia di quelli che sono venuti dopo”. Si cruccia per il cinismo che pervade la politica. Scrive che dopo i primi passi sulla via della liberazione “siamo ripiombati in quel medesimo stato di letargo e di mollezza che eccitava un secolo fa l’ira di Vittorio Alfieri”. Scopre che appena affacciatasi “al limitare della via nazionale”, quando tanti problemi suscitati dalla moderna civiltà chiedono la loro soluzione all’energia delle menti e della volontà, “l’Italia si ritrova tutti i vizi della decadenza inoculati nel sangue”. Ammonisce quanti si sentono stimolati dal nuovo Risorgimento a mirare ai grandi principi della politica, ad occuparsi meno delle quisquiglie quotidiane e a tralasciare le piccole lotte che a nulla approdano e ad occuparsi invece “un po’ più delle cause che fanno la grandezza delle nazioni e il bene dell’umanità”. Diversamente dai tantissimi che, sfiduciati dalla nuova realtà nazionale, si erano arresi all’oscitanza, egli s’impegna per- ORDINE 4-5 2007 ’ consolato operaio. Quale momenti d’evasione, il foglio offre ai suoi lettori romanzi di Ponson du Terrail, Gustave Aymard, Xavier de Montepin. Moderato d’indole, Ernesto Teodoro è spesso costretto a frenare le irruenze di Cavallotti e del suo redattore capo Romussi. Ma anche lui, su certi temi, assume posizioni ferme e decise. Quando nel 1870 la Perseveranza fa pressioni sulla giunta comunale di Milano perché si eriga un monumento a Napoleone III, egli si ribella ed i suoi interventi costringono il governo comunale ad annullare la delibera e ad erigere una stele ai martiri delle Cinque giornate. Laico intransigente, si batte sul fronte dell’anticlericalismo. Il suo è un laicismo di stampo illuministico che si è inasprito dopo il 1870 e accende appassionate polemiche alle quali il giornale non manca di prendere parte. Moneta tuttavia non è mai irriverente né indifferente ai problemi religiosi. Considera la religione “un fatto elevato di ogni società”. Non tollera che se ne parli in termini irrispettosi e che si facciano confusioni tra aspetti politici e storici contingenti della Chiesa e l’essenza spirituale della fede. La sua posizione è chiaramente espressa in un editoriale del 21 giugno 1871, intitolato Le due piaghe dei popoli latini: superstizione e materialismo. In quelle righe, ammonisce a non cadere né nel materialismo, secondo il giudizio di Mazzini, “principio dissolvente e micidiale per l’umano incivilimento né nella braccia del clero”. Puntualizza così la sua posizione. “Noi siamo tra coloro che non credono che la democrazia possa esistere senza l’appoggio di forti credenze religiose. Va bene la religione, non vanno bene il clero e il cattolicesimo”. Moneta è per un libero esame della coscienza, di tipo protestante, posizione che enuncia in un altro fondo del mese di giugno. A ncora nel 1872 il pacifismo dell’ex garibaldino è in via di maturazione anche se proprio quell’anno il suo atteggiamento di repulsione verso la violenza deve fare i conti con una grave provocazione ed egli è costretto a contraddirsi platealmen- I l tema della cosiddetta vertenza cavalleresca non poteva dunque non far parte di quel gruppo di usanze deprecate dallo spirito pacifista di Moneta. Un giorno di luglio del 1872, egli fa scrivere un pezzo in cui si condanna la pratica. L’articolo sfrena l’ironia alquanto greve e corriva di Arrighi che il 14 luglio, in un articolo su Cronaca Grigia risponde: “Come diamine il giornale delle serve sia andato oggi a tirar fuori questo argomento (il duello) non ve lo saprei dire. Mi par di vedere tutte le serve e tutte le portinaie che leggono questo interessante foglio sonzoniano esclamare anch’esse per quel poco che avranno capito.”Ah come el ragiona bén, eh? Quest sì che ì dis giò polid i so reson. Povere serve”. La polemica s’incancrenisce quando Moneta spiega le ragioni della sua avversione verso la “barbara” usanza. Arrighi gli replica che a suo parere il motivo vero sta nel fatto che il direttore del Secolo non si vuole battere perché è un pusillanime. A quel punto, l’ex garibaldino, sollecitato anche da Romussi, interviene con un altro fondo del 28 luglio sfidando a duello Righetti. Lo scontro, segreto per ovvie ragioni di sicurezza al fine di evitare il sopraggiungere delle guardie, si conclude con il ferimento dello “scapigliato” che riceve una sciabolata al braccio. Nella definizione di giornale delle serve con la quale il direttore di Cronaca Grigia bolla Il Secolo si nascondono il disprezzo e la contraddizione dell’intellettuale che mentre plaude al Verismo, una corrente letteraria che narra la dolorosa realtà della povera gente, dall’altra si fa beffe d’un giornale che si offre, sia pure per fini imprenditoriali, quale strumento per rendere meno amara la vita a quell’umile moltitudine. Moneta impegna Il Secolo sul fronte dei diritti del proletariato. Mazziniano, anche se il maestro è ignorato dalle nuove generazioni, 3 Cent’anni fa il giornalista ERNESTO TEODORO MONETA riceveva il Nobel Risorgimento? La rivoluzione di pochi La rivoluzione era stata fatta negli Stati che componevano l’Italia prima dell’unificazione da poche migliaia di uomini rimanendo inerte, quasi indifferente, la gran massa del popolo, lasciata dai vecchi governi nella massima ignoranza divenuta perciò politicamente incosciente ed apatica. Pensiero saggio del nuovo governo sarebbe stato quello di dare subito opera a rialzarla dalla sua abiezione, ravvivando in essa il sentimento nazionale che non è mai spento del tutto anche nelle infime plebi, e facendole sentire la patria indipendente e libera non avrebbe dimenticato i suoi doveri verso la classe più bisognosa. Il governo di Torino non ne fece nulla, ben contento di avere nel vasto popolo analfabeta una materia inerte, che non avrebbe mai dato alcun fastidio. Dal Compendio Ernesto Teodoro è attivo sul fronte della questione sociale convinto com’è che il conflitto di classe debba essere risolto attraverso le vie democratiche delle riforme in primo luogo lungo la strada della cooperazione contrapposta alla violenza anarchica e internazionalista, come aveva sostenuto lo stesso Mazzini al congresso di Roma contestando le tesi di Michele Bakunin. ottenere con l’esercizio obbligatorio del tiro a segno e della ginnastica in tutte le scuole. È contrario alla ferma di cinque anni, troppo lunga e onerosa da sopportare per i giovani e le loro famiglie, e assolutamente inutile per ciò che viene insegnato. Propende per la trasformazione dell’esercito italiano in un organismo agile, democratico che costi il meno possibile e che sia in grado, per la preparazione, di rispondere immediatamente all’appello difensivo del paese in caso di bisogno. Questo programma gli attira da un lato le critiche dei militari di professione, ma dall’altro gli procura il plauso di Giuseppe Garibaldi. Q uesta linea politica, che oggi chiameremmo di sinistra moderata, e il forte e intelligente impegno professionale di Carlo Romussi, che con i suoi cronisti tiene sotto controllo la città, rendono al giornale in termini di tiratura e di popolarità: due elementi che da un lato scatenano l’invidia degli altri fogli milanesi e dall’altro inducono la polizia a tracciare un pessimo identikit della testata. Nella relazione sull’ordine pubblico del dicembre 1873, che a quell’epoca le questure erano tenute ad inviare al ministero degli Interni, si legge.“È ormai constatato che la ragguardevole diffusione di cui si vanta uno dei principali organi di opposizione, il Secolo, non ripete la sua origine dal colore democratico, anzi copertamente antidinastico del giornale, ma piuttosto dal modo con cui viene compilata la parte letteraria e aneddotica la quale, per la poca elevatezza dei concetti e per la volgarità dello stile, rende un tal periodico accessibile alla parte meno colta e più numerosa della popolazione”. L a sufficiente arroganza di Arrighi e l’analisi della questura, che vuole essere dispregiativa, rendono merito alla bravura professionale di Moneta e alla sua equipe che hanno saputo inventare un mixer politico-giornalistico vincente. La fortuna del giornale contribuisce a rendere popolare anche il suo direttore. Il segno del favore e quello della gloria di cui gode Moneta dopo appena sei anni di direzione del Secolo, sono testimoniati dalla garbata presa in giro cui lo sottopone il Guerin Meschino, un periodico satirico molto popolare a Milano, che ha il vezzo di storpiare i nomi dei personaggi famosi sottoponendoli ad arguzie più o meno innocue ma che spesso fanno irritare i più suscettibili. Le vittime più note sono Giosue Carducci (Crosuè Quartucci), Matilde Serao (Matilde Cacao) Giuseppe Giacosa (Giulebbe Giacosa), Ferdinando Martini (Ferdinando Bambi) Camillo ed Arrigo Boito (Cammino ed arrivo a Goito) e Teodoro Moneta (T’Adoro Moneta). La benevola deformazione del cognome dà la misura dell’affetto e della simpatia che ispira il personaggio. Estroverso, incline alle burle, egli è amante della conversazione e conta numerose amicizie. Lavorando al Secolo, che ha sede in via Pasquirolo, si reca quasi ogni giorno a pranzare al ristorante l’Orologio in piazza Camposanto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele. Alla sua tavola siedono spesso quali ospiti fissi i pittori Cesare Tallone, Mosè Bianchi, Filippo Carcano, Leonardo Bazzaro e Vespasiano Bignami. I pranzi conviviali sono interrotti per qualche tempo, nel 1874, quando Ernesto Teodoro prende moglie. Superati da poco i quarant’anni, s’innamora di Ersilia Caglio, un’amica delle sorelle. La ragazza, appartenente a una ricca famiglia milanese, trascorreva con i genitori le estati a Missaglia in una villa che distava all’incirca mezzo chilometro, dall’Agazzino, la residenza estiva dei Moneta. Cattolica osservante, la giovane mal sopporta l’anticlericalismo “militante” di Teodoro. Nonostante questo contrasto che, dopo la nascita di due figli, provocherà insieme con altre cause il raffreddamento nei loro rapporti, i due si sposano. Il cattolicesimo intransigente di Ersilia comunque non fa venir meno il laicismo moderato di Ernesto Teodoro il quale non manca d’attaccare periodicamente il clero così come non abbandona l’altro tema a lui caro, il militarismo, condiviso dal suo vecchio comandante in capo Giuseppe Garibaldi, in quel periodo esiliatosi a Caprera. In quell’esordio di anni Settanta dell’Ottocento, il suo tema più caro è la pace armata per il quale mentre chiede allo Stato maggiore economie nei quadri delle Forze armate, sollecita più spese per le fortificazioni e per l’educazione militare. Questa posizione riflette già la sua tendenza verso il pacifismo anche se il concetto non è sufficientemente teorizzato. Egli è inoltre per la guerra difensiva e non offensiva. Forte d’una notevole esperienza acquisita nel primo esercito italiano, propugna la necessità d’una istruzione efficace, pratica, rapida che si può 4 lizione della guerra avrebbe trovato spontanea soluzione quando sarebbero maturate le condizioni storiche che si sarebbero dovuti attendere. Q ueste astrusità giuridiche e filosofiche sul pacifismo, fanno risvegliare agli inizi dell’Ottocento l’indirizzo propriamente religioso che si afferma in America. Al di là delle discussione teoriche e accademiche europee, il pacifismo vanta infatti un tentativo di pratica attuazione negli Stati Uniti d’America, luogo di lotte violente e d’atroci massacri (dopo le guerre napoleoniche dell’Europa) per merito soprattutto di Elley Channing, (teologo protestante che patrocina anche l’abolizione della schiavitù), Noah Worchester, William Ladd, Questi pensatori definiscono, molto pedestremente ma altrettanto efficacemente, la guerra un “terribile fratricidio consumato fra i figli di Dio”; Channing connota poi la lotta armata come il principio di tutti i mali sociali, un pervertimento intellettuale e morale. Un altro efficace propugnatore del pacifismo nordamericano è il fabbro Elihu Burrit, che fra il 1843 e il 1849 si fa promotore dei primi congressi internazionale per la pace. Proprio in quegli anni. su sollecitazione di Noah Worchester, nasce negli Usa la New York Peace, prima società per la pace che avrà filiazioni in parecchi altri stati americani. I ndirizzandogli da Caprera una lettera, il 27 aprile 1874, il generale scrive che “il suo programma mi persuade e vorrei che tutte le frazioni democratiche capissero come noi che bisogna intendere ed abbandonare l’isolazionismo”. Sei mesi più tardi, in occasione delle elezioni politiche, il nizzardo scrive agli elettori di Brivio e di Merate, località dove il giornalista pone la sua candidatura a deputato, esortandoli ad adoperarsi per rovesciare “un sistema governativo che ci vergogna e ci impoverisce. Perciò vi raccomando l’elezione del signor Moneta, direttore del Secolo. Nonostante il sostegno dell’eroe dei due mondi, il cui mito era andato avvizzendosi sempre di più, il giornalista non è eletto. Risultato comprensibilissimo in un’Italia ancora immatura politicamente e con un elettorato alto borghese il quale stenta a capire l’evoluzione culturale d’un uomo il quale dal militarismo operativo si vota all’antibellicismo, un processo sicuramente connesso anche all’estendersi della campagna pacifista che per opera dell’inglese Hodgson Pratt sta toccando diversi paesi dell’Europa compresa l’Italia. Il pacifismo, l’atteggiamento ispirato alla profonda repulsione per ogni soluzione non pacifica nella condotta degli uomini, s’incontra nelle più antiche religioni e filosofie (un esempio si trova tra i profeti ebrei) ma in modo alquanto vago e quale reazione del sentimento contro le pene che cagionano i conflitti o quale corollario del precetto dell’amore verso il prossimo, principio fondamentale negli insegnamenti di Cristo. Pacifisti furono persino alcuni conquistatori antichi e moderni ma quale effetto d’una universale dominazione sotto le loro armi. A partire dal Cinquecento, il dibattito sul tema della pace assunse un indirizzo filosofico-giuridico attraverso pensatori come Niccolò Machiavelli, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Giovanbattista Vico, Baruch Spinoza, e con gli enciclopedisti e gli economisti. Il problema era stato affrontato da punti di vista particolari non nella sua complessità, nei suoi rapporti con l’evoluzione della civiltà. In tempi moderni la questione è approfondita da Jean Jacques Rousseau da Immannuel Kant e da Jeremy Bentham i quali riconoscono che né la generica avversione alla violenza né il temporaneo dominio per quanto esteso, né la stipula d’un accordo tra i vari governi, varrebbero ad eliminare del tutto le cause delle guerre. Le cui ragioni scatenanti possono derivare anche da necessità di vita e da fondamentali esigenze etiche delle nazioni. Si delinea pertanto una concezione, che poi fu detta giuridica, la quale subordina l’ideale della pace a quello della giustizia così nelle costituzioni interne dei singoli stati come nelle relazioni internazionali. A questa concezione si ispira tra l’altro la Declaration du droit des gens proposta dall’abate H. Gregoire nella Convenzione francese. Secondo Kant poi la pace può essere garantita soltanto da una federazione di stati liberi ognuno dei quali abbia una costituzione legittima; e una tale federazione si dovrà fondare non su un atto di arbitrio, ma sulla necessità razionale. Alle teorie sulla pace danno un contributo SaintSimon (che pensa di debellare la guerra attraverso lo sviluppo intellettuale, morale e fisico di tutti gli esseri umani rigenerati dalla scienza, dall’arte, dalla giustizia, dall’amore e con un parlamento europeo del quale avrebbero dovuto far parte gli uomini più eminenti del continente), Joseph de Maistre, il quale proietta le sue idee storico-sociali su uno sfondo mistico, una nuova età religiosa, gl’intellettuali del XIX secolo, seguaci del determinismo storico o del materialismo, che vedono invece nelle teorie sociali economiche e politiche, la soluzione di tutti i problemi. Secondo molti di costoro l’abo- I n Europa il pacifismo stenta a sbarcare e ad attecchire. La ragione la spiega Moneta nel compendio storico in quattro volumi, intitolato Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX che pubblicherà dal 1904 al 1910. Scrive: “Le guerre e gli orrori da esse derivati avevano suscitato desiderio di tranquillità e di pace e anche di odio verso ciò che turbava la quiete; ma questo elemento perturbatore anziché essere identificato nella guerra, era stato ravvisato nello spirito di libertà che la rivoluzione francese aveva diffuso nel mondo. L’opinione pubblica, che traeva conclusione semplicistiche, aveva imputato alla libertà tutti i mali che l’Europa aveva sofferto in 20 anni per colpa di colui e di coloro che la libertà avevano maggiormente conculcata e ferita”. Secondo il direttore del Secolo, i più importanti pensatori a quel punto s’impegnarono nel difendere le idee e le conquiste liberali nei singoli paesi attraverso l’intensa propaganda sociale e politica lasciando che il problema della pace passasse in second’ordine. Nonostante tutto, alcuni eminenti pacifisti avevano tentato di stabilire un ponte tra la corrente pacifista americana, che persisteva nel mettere in primo piano l’aspetto religioso del problema con quella europea impostata su concezioni giuridico-economico-sociale. I n diversi congressi si confrontano il richiamo altamente giuridico-filosofico con quello puramente realistico. Nonostante il periodico contraddittorio, queste due anime del pacifismo mondiale procedono per vie parallele. Gli incontri non portano ad alcuna coesione e con il tempo il movimento disperde le proprie energie frantumandosi, in Europa come in America, in tante piccole consorterie ideologiche tanto che finisce con l’indebolirsi e con il suscitare diffidenze ostacolando quell’unanimità di consensi che era nelle sue finalità di creare. Poi, com’era accaduto negli Usa, anche nel vecchio continente sorgono società per la pace. Quasi contemporaneamente, in Inghilterra, Svizzera e Francia, piccoli cenacoli di intellettuali votati al pacifismo prendono contatto tra di loro. Nella riunione che si tiene a Londra, promossa dall’ex fabbro Elihu Burrit, prende forma l’appello a tutti i paesi civili “perchè introducano nei loro statuti la clausola per la quale avrebbero dovuto impegnarsi in caso di conflitto a rimettersi alla mediazione di una o più potenze amiche”. La questione dell’arbitrato è sviluppata nei congressi che i pacifisti tengono a Bruxelles (1848), Parigi (1849), Francoforte (1850), Londra (1851) ed Edimburgo (1853). Nonostante la celebrazione di questi convegni, ai quali prendono parte personaggi autorevoli come Victor Hugo (presidente del congresso di Parigi), il deputato inglese Richard Cobden (celebre quale autore di una legge sull’abolizione del protezionismo presentata al parlamento inglese) ed altre eminenti personalità, le idee più semplici e più concrete sulla pace non riescono a far presa né sul mondo politico né sulla società civile. Come a irridere alle proposte di questi uomini, si combatte in ORDINE 4-5 2007 tutto il mondo; in Italia e in Germania per l’indipendenza, in Crimea e negli Stati Uniti (anche se tra coloro che impugnano le armi molti sostengono con sincero trasporto il principio della fratellanza fra i popoli). P ure Giuseppe Garibaldi, che passa la vita in mezzo all’incrociare delle sciabole, fra il tuonare dei cannoni e il crepitare dei moschetti, simbolo di ardimento per i suoi contemporanei, ambisce alla pace. Egli partecipa nel 1867 al congresso che i pacifisti aprono a Ginevra, dove si registra la presenza di molti rappresentanti di logge massoniche, esponenti dell’Internazionale socialista (tra i quali Michele Bakunin) intellettuali e uomini politici come il deputato inglese William Randal Cremer, che riceverà il premio Nobel per la pace nel 1903. In un ordine del giorno, l’eroe dei due mondi propone “che il papato venga dichiarato decaduto dalle istituzioni umane e che il pacifismo s’impegni a seguire la religione di dio, la religione della verità e della ragione perchè non si sarebbe potuto por fine alle sciagure del mondo senza rimediare agli abusi del pretismo”. Il congresso di Ginevra, che doveva segnare il risveglio delle attività pacifiste nel vecchio continente, determina invece una spaccatura all’interno del movimento e getta un’ombra su tutto il pacifismo poiché rappresenterà una deviazione della linea di tolleranza che era stata sino ad allora seguita. La fiaccola della tradizione comunque è presa dall’economista francese Federic Passy il quale, con lo scrittore Gustave de Eichthal (figlio d’un banchiere ebreo convertitosi al cattolicesimo) e con l’abate Martin Paschoud, riescono nello stesso anno 1867 a costituire una lega per la pace del cui comitato direttivo farà parte Cesare Cantù cui si affianca l’inglese Hogson Pratt. L’organizzazione muta poi la sua denominazione in Società degli amici della pace e successivamente in Società per la pace e l’arbitrato internazionale. A dimostrazione e della necessità e dell’efficacia d’un’istituzione arbitrale, intervenne il caso dell’Alabama. Alla guerra di secessione americana avevano preso parte oltre all’incrociatore Alabama anche altre navi confederate, varate o allestite in Inghilterra, il cui governo aveva riconosciuto il ruolo di belligeranti ai sudisti. Alla fine del conflitto, Washington aveva preteso da Londra un’indennità di guerra per i danni che l’Alabama e gli altri battelli avevano arrecato al traffico marittimo dei nordisti. La controversia diplomatica stava per innescare un’altra conflagrazione ma l’intervento della nuova società per la pace d’America e di Gran Bretagna, riuscì a rimettere la questione al tribunale arbitrale internazionale che si era insediato a Ginevra. Di questo organismo erano stati chiamati a far parte rappresentanti dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, dell’Italia, della Svizzera e del Brasile. I lavori durarono dal maggio 1871 al settembre 1872. La sentenza stabilì che l’Inghilterra dovesse pagare agli Usa quindici milioni e cinquecento mila dollari in oro. La conclusione fu accolta a Ginevra con salve di cannoni e con le bandiere in- Italiani brava gente All’epoca del Rinascimento, quando tutte le nazioni cercavano d’ingrandirsi colle guerre a spese dei vicini, l’Italia antepone alla gloria delle armi quelle delle scienze, delle lettere e delle arti; e così inizia il consorzio del mondo intellettuale. Fino ai nostri giorni, il popolo italiano non conobbe mai l’odio verso lo straniero; e mentre l’antisemitismo corse le contrade di tre quarti d’Europa, commettendo dovunque brutali eccessi, nel nostro paese non se ne ebbe mai il minimo segno, sebbene gli eccitamenti più d’una volta non siano mancati. Tutto questo dimostra che il popolo nostro, considerato nella sua generalità, è umano e civile più di qualsiasi altro: anche l’uomo rozzo, primitivo è da noi incline più alla simpatia che all’ostilità, alla benevolenza più che all’odio; e prova che in Italia, così nel popolo come nelle classi colte, non si ama la guerra per la guerra. Dal Compendio N el 1878 il direttore del Secolo mostra un operoso attivismo in favore della pace. Quell’anno la sollevazione dell’Erzegovina e della Bosnia contro i turchi e il minacciato intervento dell’Austria e della Russia, fanno temere l’esplosione d’una guerra in Europa. In quell’occasione, Moneta, Romussi, la nobildonna Cristina Lazzati, ed alcuni esponenti del consolato operaio milanese fondano la Lega di fratellanza, libertà e pace. Il nuovo organismo indice due comizi al teatro Dal Verme; uno è presieduto da Gioacchino Piepoli, una personalità lombarda, l’altro da Aurelio Saffi, ex deputato e figura centrale del movimento repubblicano. L’associazione si rivela un fallimento perché non riesce a sconfiggere lo scetticismo apertamente mostrato da molti dei promotori verso le sue stesse finalità. Moneta, non riuscendo a raccogliere attorno a sé un gruppo di convinti sostenitori, si rende conto dell’intempestività della sua iniziativa Le guerre e gli orrori da esse derivati avevano suscitato desiderio di tranquillità e di pace e anche di odio verso ciò che turbava la quiete. ‘ M ORDINE 4-5 2007 T I ’ e la lascia languire indirizzando il suo impegno sul Secolo che a tredici anni dalla fondazione ha raggiunto un successo mai toccato da nessun’altro giornale in Italia. Con i suoi trentacinquemila lettori (diciottomila dei quali abbonati), il foglio assurge a primo giornale cittadino e quindi italiano, togliendo questo primato al Pungolo, anche se è bollato dai concorrenti come il giornale delle portinaie per la sua larga popolarità fra la classe sociale più disagiata ma anche più numerosa. Diventa inoltre l’araldo della stampa democratica perché contribuisce a fondare il Consolato generale delle associazioni operaie consociate. L’aristocrazia milanese era impegnata nel campo assistenziale attraverso l’Associazione generale degli operai. Il Secolo vi contrappone il Consolato generale della società di mutuo soccorso, animato da Romussi. “I figli del lavoro” scrive il giornalista “non devono elemosinare e una società di mutuo soccorso deve, oltre che proteggere gli operai, essere anche la loro rappresentante di fronte ai datori di lavoro e alla Cassa di Risparmio. La linea dunque è questa: non più protettori, ma rappresentanti degli operai e trait union fra capitale e lavoro in modo da superare gli scioperi”. Il Secolo di Moneta diventa dunque la voce del mondo del lavoro. Lo stesso giornale spiega di “non appartenere a una casta, a un governo, a un partito, o a un gruppo di uomini politici ma è al servizio delle grandi masse di cittadini che lavorano, che studiano, che soffrono”. glesi, americane e svizzere esposte ai balconi. Già in questa prima affermazione di pacifismo messo in atto, anche l’Italia aveva avuto un suo non secondario ruolo. Un nostro rappresentante aveva presieduto i lavori del tribunale arbitrale: era il conte Federico Sclopis, un torinese autore d’una importante Storia della legislazione italiana nella quale aveva dato una connotazione scientifica alla dottrina dell’arbitrato. entre muoveva i suoi primi passi nel mondo, il movimento pacifista non era dunque del tutto ignorato nella penisola, che pure era impegnata a conquistare con le armi la sua indipendenza. Nonostante fosse iniziata la Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, a Bruxelles aveva fatto la sua comparsa l’italiano Francesco Bertinotti che aveva trattato il tema del congresso delle nazioni e discusso sul codice del nuovo diritto internazionale. Assente, per ovvi motivi all’assise di Parigi del 1849, a quella del 1851 di Londra, l’Italia aveva inviato la propria adesione attraverso il conte Pier Luigi Pinelli, presidente della Camera dei deputati del Piemonte, mentre, come abbiamo letto, nel 1867 s’era registrata a Ginevra la presenza di Garibaldi. Alla breve crisi del pacifismo europeo, provocata dal congresso di Ginevra, segue un periodo in cui il movimento riprende vigore per merito del francese Federico Passy ma soprattutto dell’inglese Hodgson Pratt, impegnato nel tribunale per l’arbitrato. È in quel momento che Ernesto Teodoro Moneta, dopo aver seguito con appassionato interesse il pacifismo europeo, s’industria di studiarne le tematiche e s’adopera perché questo nobile sentimento si diffonda anche nel nostro paese. “In quel periodo” spiega Moneta in un’intervista che concederà nel 1907 a Renato Simoni, del stazioni ferroviarie e persino sui tram a cavalli. Dopo averlo sbeffeggiato additandolo come il giornale delle serve oppure il quotidiano delle portinaie, constatato l’indiscusso successo, le altre testate tentano ora d’imitarne la formula, ampliando il numero delle notizie di cronaca e quelle dell’evasione, ed insistendo sui romanzi d’appendice. Tuttavia fanno fatica a reggerne il ritmo e l’irraggiungibile successo del Secolo scatena l’invidia di molti confratelli. Moneta è definito ora “un Catone da strapazzo”, ora il “Bersagliere”. Un giorno, all’uscita d’un teatro cittadino, subisce persino l’aggressione d’un redattore della Ragione con il quale aveva avuto una polemica. Alle fortune del giornale di via Pasquirolo non sono certamente estranee le perorazioni pacifiste che il suo direttore tiene sulle sue colonne. Nonostante la fine della Lega, per manifesto disinteresse, Moneta prosegue la sua battaglia anche se il suo è un pacifismo che manifesta molti elementi d’ordine nazionalista. Nell’estate del 1878, s’era tenuta a Berlino una conferenza per un riesame delle clausole del trattato di Santo Stefano con il quale l’impero ottomano aveva fatto ampie concessioni alla Russia negli stati slavi e nei Balcani. La revisione aveva comportato benefici anche a Inghilterra, Austria e Francia, tranne che all’Italia la quale era pur presente con il conte Luigi Corti e con l’ambasciatore Filippo De Lounay. Le elargizioni all’Austria, che ottiene la Bosnia e l’ Erzegovina, e all’Inghilterra (che si accaparra Cipro) e l’implicita autorizzazione alla Francia di prendersi la Tunisia, modificano lo status quo nel sud dell’Europa ed aprono una nuova fase nella storia del continente e nell’azione delle potenze nel Mediterraneo, alla quale l’Italia deve adattare in qualche modo la sua politica estera. Il comportamento del rappresentante italiano, il conte Corti, che è definito dallo stesso delle “mani nette” (e che vuole evitare imprese espansionistiche del nostro paese ma anche uno scontro con l’Austria), isola diplomaticamente lo Stivale e delude profondamente la nostra opinione pubblica. Corriere della Sera “si faceva, specialmente dagli inglesi, grande propaganda per la pace. Io mi trovai a simpatizzare per essa, per due ragioni: la prima fu l’orrore che provai nel 1848, all’epoca delle Cinque giornate di Milano; la seconda era d’altro genere. M’ero accorto che l’Italia non era una nazione combattiva. Avevo visto le guerre d’indipendenza, avevo riflettuto che dal 1796 ad oggi tante occasioni di combattere s’erano presentate e l’Italia non le aveva mai afferrate. Molto spesso parlavamo di ciò con Stefano Turr e concludevamo che l’educazione militare che la Germania ha con tanta energia e costanza diffusa tra i suoi, da noi è ancora un mito. Bisognava dunque diffondere quest’idea della pace presso tutti i popoli anche per amore verso l’Italia. Aggiungo poi che io avevo preso parte alla guerra non perché pensassi che l’Italia avesse bisogno del mio braccio, ma perché avevo sempre incitato gli altri a combattere per la libertà e il mio dovere era quello di far seguire alle parole l’azione”. ra quelli milanesi, il foglio di Moneta è quello tecnicamente più avanzato. Ogni giorno può contare su corrispondenze telegrafiche provenienti da Roma, Parigi, e Napoli. È un giornale fatto all’americana. Romussi fa largo uso d’informatori che invia negli ospedali, negli uffici daziari, nelle l Secolo di Moneta del 5 ottobre 1879 si fa portavoce di questa insoddisfazione. E scrive: “Soli. La parola sarà amara pel nostro amor proprio nazionale ma la verità bisogna dirla: l’Europa non ha stima di noi e i governi non risparmiano occasioni per farcelo sentire”. Il giornale e l’opinione pubblica, imputano alla politica delle “mani nette”, tenuta da Cairoli a Berlino, l’isolamento diplomatico che ne segue; la politica estera della sinistra è definita perplessa, tentennante, equivoca nel tentativo dichiarato da Depretis di guadagnare le simpatie dei popoli mantenendo il consenso dei governi. La linea di Moneta è dunque quella d’un pacifismo venato d’un forte senso d’amore nazionale. Egli aspira a presentare la sua posizione politica come una dignitosa via di mezzo, “fra (scrive) il don Rodrigo e il don Abbondio: conservare rapporti amichevoli con gli altri stati, non patteggiare per nessuna nazione in caso di guerra e combattere per i diritti dei popoli oppressi”. Atteggiamento definito da alcuni utopistico, vicino a quello di Cairoli e nel contempo contrario a qualsiasi moto come il movimento irredentista, che possa turbare l’equilibrio dei rapporti italiani con gli altri paesi. Il pacifismo che ancora nel 1878 è un’idea confusa nella testa dell’ex garibaldino, comincia ad assumere un profilo sempre più netto a partire dal 1880. In quell’anno Hodgoson Pratt crea a Londra una sorta di federazione nazionale delle numerose società pacifiste inglesi. Il pacifismo di Moneta, si è detto, non è assoluto. Si sostanzia nel concetto della pace armata. È la stessa posizione che assume Giuseppe Garibaldi il quale, il 1° novembre 1880, ricevendo a Caprera una delegazione del Secolo guidata dal suo direttore si compiace di quella gradita visita e sottolinea come il grande giornale propugni “l’idea santissima nella quale risiede la grandezza del paese”, la pace armata appunto. U na linea neutralista più che pacifista assumono Moneta e il suo giornale al tempo in cui, nel 1881, la Francia costringe il bey di Tunisi ad accettare il suo protettorato, impadronendosi praticamente del paese e dando scacco all’Italia. Il giornale, amico della vicina repubblica, assicura che la rottura con il paese confratello sarebbe stato “una cosa 5 Cent’anni fa il giornalista ERNESTO TEODORO MONETA riceveva il Nobel deplorevolissima”. In quell’occasione, la posizione del foglio tiene conto non solo dell’aspetto politico ma anche di quello pratico. Ernesto Teodoro tenta di sedare il malcontento suscitato dalla provocazione francese, dichiarando che egli non contribuirà con parole insensate, o gratuitamente provocatrici, “a creare fra Italia e Francia un abisso di odio tanto più che l’Italia non sarebbe stata in grado di affrontare la guerra”. Più che ad un conflitto nel Mediterraneo, del quale c’era la consapevolezza di non poterlo sostenere dal punto di vista militare, in quell’anno l’industria italiana pensava all’Esposizione nazionale prevista a Milano per il 1881, manifestazione che le permetteva di contare e saggiare le proprie forze. Sonzogno, editore del Secolo, era riuscito ad avere il monopolio delle pubblicazioni. Il giornale viaggiava già sulle 65 mila copie e, secondo quanto scrive (19 marzo 1880) Eugenio Torelli Viollier sul Corriere della Sera, “può contare su una pagina delle inserzioni, la quarta, che frutta ben centomila lire all’anno”. Si tratta d’un successo anche di carattere economico, finanziario e industriale al quale non è sicuramente estranea la linea editoriale di sinistra moderata che le assicura l’ex garibaldino. Nel 1883, la relazione sullo “spirito pubblico” della polizia milanese, conferma che il giornale più venduto è proprio il Secolo il quale “anche oggi prosegue nelle sue tendenze repubblicane, fa ogni passo per combattere il partito monarchico costituzionale progressista nonché l’attuale ministero coadiuvato dal giornale La Lombardia. Scrive ancora la polizia:”Il Secolo è il più letto e fa la maggiore breccia sulla bassa popolazione, sul ceto operaio che predomina nella massima parte a scapito delle istituzioni e dell’ordine”. Preoccupato per la larga diffusione raggiunta dal giornale, il procuratore del re Stefano Oliva, rappresentante dell’establishment, quando può lo fa sequestrare tanto che Moneta è costretto a rivolgersi a Felice Cavallotti affinché intervenga presso il ministro Mancini “perché scriva ad Oliva al fine di fare cessare la guerra accanita al giornale”. N on ancora pacifista militante, nel 1884 Ernesto Teodoro è costretto per la seconda volta a scendere sul terreno con la spada in pugno per difendere “l’onore suo e del giornale”. Era accaduto che nel mese di settembre Felice Cavallotti aveva allestito una spedizione umanitaria in favore di Napoli dove imperversava il colera. Il Lombardia, non aveva perso l’occasione di strumentalizzare quell’iniziativa, e per denigrare il concorrente aveva accusato il deputato radicale di trarre profitto economico dai sussidi municipali ricevuti dal comune di Milano con l’aiuto del Secolo che aveva aperto una sottoscrizione. Il bardo della democrazia smentiva recisamente d’aver incassato sussidi; Moneta e Romussi a loro volta avevano sottoscritto sul giornale queste parole contro il Lombardia e gli altri fogli accusatori: “Ieri eravate meschini e invidiosi; oggi, aggiungiamo, siete malvagi e mentitori”. Il 28 settembre danno incarico all’avvocato Giorgio Boneschi e all’inviato del giornale Achille Bizzoni di presentare il cartello di sfida a due colleghi. Il 29 settembre, un corsivo non firmato, ma forse scritto da Romussi, legittima quella decisione: “Sappiamo di far cosa contraria a un principio che abbiamo costantemente propugnato, l’abolizione del duello. Ma siamo costretti da avversari che attingono il coraggio di assalirci ad ogni tratto benché non provocati da noi all’impunità che sperano di avere nel saperci nemici dalla barbara usanza”. Quest’altra deroga alla sua avversità ideologica verso il duello, non fa comunque venir meno l’impegno di Moneta verso la pace che nella seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento ha occasione di manifestare lanciandosi contro la prima avventura coloniale italiana. Nel novembre del 1867, com’è noto, l’armatore Raffaele Rubattino aveva acquistato la baia di Assab, nel mar Rosso, quale scalo per le proprie navi dirette in estremo Oriente. Nel 1882, la società di navigazione aveva ceduto al governo italiano l’intera proprietà. Tre anni più tardi, seguendo l’esempio di Francia, Inghilterra e Germania, anche l’Italia, abbandonata la politica delle “mani nette”, decide di gareggiare per la conquista d’un pezzo d’Africa ed invia nel mar Rosso un contingente di millecinquecento uomini che sotto il comando del colonnello Tancredi Saletta occupa i territori di Massaua e di Assab, i quali, insieme con la baia, sono annessi al regno d’Italia. Nel 1887, poi, a seguito della ritirata 6 Se il popolo non è belligero… Se il popolo italiano non è belligero non vuol dire che debba andare in guerra per farsi battere; vuol dire invece che non facendo esso la guerra se non per propria difesa o per una causa di vera giustizia, deve avere in sé una forza morale molto superiore a quella del nemico; vuol dire che più intensa deve essere la sua preparazione morale e tecnica della guerra. Il popolo italiano, come tanti altri, ha virtù e difetti; buono, avido di giustizia, sensibilissimo ai benefici come alle offese, dà facilmente la vita per la difesa di un uomo in pericolo, per salvare donne o fanciulli da un incendio o dall’inondazione, ma non è disposto a farsi uccidere per una causa che gli è indifferente o che non conosce. Far vibrare la corda dei sentimenti più umani, per accendere nel suo animo la fiamma del patriottismo; rimettere in vigore e dare grande sviluppo alla ginnastica e agli esercizi militari, anche fuori dall’esercito, in ogni comune d’Italia, avrebbe dovuto essere dopo il 1959, il pensiero e l’opera assidua della democrazia e degli uomini di governo. Dal Compendio degli egiziani che detenevano l’intera area (e con il beneplacito degli inglesi), i nostri si spingono nel Tigrai, all’interno dell’Etiopia. L’invasione solleva la reazione degli abissini. Per liberare un nostro presidio assediato dal negus Giovanni, il governatore dell’Eritrea, Carlo Genè invia un distaccamento di 500 uomini comandato dal tenente colonnello Tommaso De Cristoforis che il 27 gennaio 1887 è annientato da alcune bande etiopiche nei pressi d’un villaggio e d’un fiume che hanno lo stesso nome: Dogali. F ino a Dogali il tema dell’anticolonialismo era stato usato dal Secolo come elemento d’una campagna contro Depretis, accusato di utilizzare le iniziative africane per evitare precise scadenze interne. Dopo quella grave sconfitta, il giornale “piange le centinaia di giovani che giacciono spenti nelle infuocate arene dell’Africa” e al suo sdegno fanno eco le manifestazioni di cordoglio in tutto il paese. Il disastro eritreo è l’evento che induce Moneta ad abbracciare ufficialmente e definitivamente la causa della pace. Ancora nel 1887, l’Italia era rimasta l’unico paese europeo in cui non esisteva una rappresentanza ufficiale del movimento pur non mancando un qualche isolato centro nel meridione e un certo numero di amici della pace sparsi per la penisola. Con lo scopo di mobilitare anche lo Stivale a favore della dottrina diretta a dimostrare l’inutilità della guerra, quell’anno Hogdson Pratt si recò a Roma dove fondò la Società per l’arbitrato e la pace dei popoli la cui presidenza fu affidata a Ruggero Bonghi, ex ministro dell’Istruzione pubblica, uomo politico napoletano, collaboratore di Nuova Antologia e fondatore della rivista Cultura. Salito a Milano, prese contatto con il lecchese professor Francesco Viganò, con il deputato mazziniano Angelo Mazzoleni e con Ernesto Teodoro Moneta per costituire anche nel capoluogo lombardo una società per la pace. Ancora frustrato dal precedente insuccesso, il direttore del Secolo sulle prime non ne volle sapere niente. Pratt, irremovibile, gli replicò che non avrebbe lasciato il suolo italiano se non fosse riuscito a creare anche nel capoluogo lombardo un piccolo presidio contro la guerra. Viganò, Mazzoleni e Moneta alla fine capitolarono di fronte a quell’affettuoso ricatto. Nacque un’associazione alla cui presidenza fu indicato il Viganò, mentre la segreteria fu affidata a Mazzoleni. Moneta, quale direttore di un giornale non volle accettare alcun incarico ufficiale, tuttavia promise di non fare mancare il suo appoggio agli altri due. La nuova società nasceva con questi scopi dichiarati: diffondere ed educare sentimenti umanitari per la cessazione della guerra; favorire l’affratellamento dei popoli; propugnare le soluzioni arbitrali nelle vertenze internazionali; promuovere la trasformazione graduale degli eserciti permanenti sostituendo ad essi le nazioni armate. L a nascita della sezione italiana rafforza il fronte pacifista europeo in quella fine di anni Ottanta dell’Ottocento, epoca in cui forti tensioni turbano il continente. L’allargamento del movimento porta con sé un fervore d’iniziative. Nel 1888, riunitisi a Parigi, in casa del presidente della Lega della pace e della libertà Charles Lemonnier, i rappresentanti di cinque società nazionali e tre straniere decidono di convocare un congresso nella capitale francese che è fissato per il 1889 in concomitanza con l’Esposizione mondiale e al quale avrebbero dovuto partecipare deputati di tutte le nazioni. Sempre nel 1888, inizia il lungo periodo di militanza pacifista del Secolo. Moneta, reduce dall’annuale adunanza della Società Internazionale per la pace e l’arbitrato che s’era tenuta in Inghilterra, invia all’Unione lombarda per la pace internazionale e l’arbitrato una lettera dal titolo: Avremo la guerra in primavera? con la quale promette d’impegnarsi in favore del movimento. Egli lamenta il disinteresse della gente per il problema. Spiega che “i cittadini tacciono perché nessuno li ha mai chiamati a pronunziarsi per la guerra o per la pace e perché le abitudini create dalle servitù, quando tutto era lasciato all’arbitrio dei governanti, non si cancellano dall’oggi al domani”. Se la prende con i politici. “Ad ogni tratto ci lamentiamo dell’indifferenza del popolo italiano per la cosa pubblica, dell’abbandono in cui lascia i suoi più fervidi e disinteressati difensori. Ma quando mai dopo le guerre dell’unità nazionale fu a questo popolo da uomini profondamente convinti diretta una parola non partigiana, non fomentatrice di divisioni, mai elevata esprimente il bisogno dei nuovi tempi che l’idea di patria mettesse in armonia con quella umanità?” “Questa parola” spiega il giornalista “è la pace, la pace senza restrizioni mentali, la pace con tutti i suoi benefici, la pace tra i popoli che nessuna legittima causa divide, che tutti gli interessi più sacri consigliano”. I l direttore del Secolo dispiega il suo entusiasmo. “È venuto il tempo di mettere d’accordo le parole con gli atti, la politica degli stati con i bisogni e le aspirazioni dei popoli. Stare in disparte quando si sa che non lungi da noi si trama un assassinio non è solamente una vigliaccheria, è una complicità nel delitto. E quale maggiore viltà nel vedere prepararsi per un non lontano avvenire terribili ecatombi di fratelli nostri, non frapporsi a tempo, non chiamare tutti in aiuto per impedire l’immane attentato?” Si domanda perché si tarda. “Aspettiamo forse per fare appello ai sentimenti di umanità che le ire siano divampate negli animi, gli eserciti già in moto e le spade sguainate?” Chiede all’Unione lombarda, ma anche agli italiani tutti, d’impegnarsi per la pace senza agitazioni (“che lasciano il tempo che trovano”) ma con un lavoro continuo, serio, metodico. “Io non sono che un oscuro milite dell’umano progresso, ma quel poco che posso sono pronto a darlo per la causa da voi presa a difendere e al di sopra della quale non c’è altra nel mondo più giusta, più feconda di benefici per tutti”. Profetizza quello che accadrà venticinque anni più tardi con la seconda guerra mondiale. “Se la fine del nostro secolo, già vicino al tramonto, non vede i principi della pace profondamente radicati nella coscienza dei popoli e solennemente sanzionati da un grande atto internazionale, la corrente dell’umano progresso è arrestata. Dio sa per quanto tempo il mondo dovrà assistere sgomento di una rinverdita barbarie nella quale i cannoni, e le mitragliatrici semineranno le stragi sulle più belle delle contrade d’Europa ed imporranno ovunque la loro legge di ferro in onta al diritto”. Fa professione di ottimismo e confida nell’intelligenza degli uomini. “Speriamo con l’aiuto di Dio e di tutti i buoni a qualunque fede appartengano, che la tristissima ipotesi non si avveri e che il giorno non sia lontano di un po’ di saviezza nei governanti e maggior risolutezza nei popoli”. L’appello di Ernesto Teodoro sembra davvero scuotere la coscienza dei pacifisti italiani. Nell’arco di dodici mesi, si tengono ben diciannove conferenze per la pace in diverse città tra le quali Milano, Padova, Asti e Novara. L’Unione lombarda bandisce un concorso che riscuote un inatteso successo mentre al fine di prepararsi alla conferenza che nel 1899 si terrà a Parigi, l’Associazione romana indice il primo congresso nazionale per la pace che si tiene fra il 12 e il 16 maggio e al quale prendono parte 37 comitati provinciali. I partecipanti, tra i quali molti deputati e senatori, sono quasi tutti uomini di sinistra impegnati a titolo personale. Il movimento per la pace, promosso da Hodgson Pratt, cui s’erano ispirati i comitati italiani più importanti quali Roma e Milano, “intendevano rimanere affatto estranei e al di sopra dei partiti che si contrastano circa i modi di ordinare lo stato”. I rappresentanti della politica ufficiale comunque non mancano al raduno romano che, a dimostrazione della particolare sensibilità del giornalismo italiano verso il tema, si tiene nella sala dell’Associazione della Stampa, presieduto da Ruggero Bonghi. Per l’occasione Moneta, tenendo il discorso d’apertura, è consacrato leader nazionale del movimento ed ha così modo di precisare finalmente il suo pensiero contro la guerra offensiva e a favore di quella difensiva. E gli ammonisce a deporre le armi “prima che questa povera e tormentata Europa diventi una landa incolta e sparsa di rovine e subisca la sorte degli antichi imperi d’oriente”. Rammenta a coloro “che hanno un ideale più alto dei listini di borsa” che qui, da Omero a Virgilio, da Dante a Shakespeare, da Aristotele a Voltaire, dai pitagorici agli enciclopedisti, da Plinio a Volta, da Galileo a Humboldt, i titani del pensiero e gli apostoli più instancabili del vero, rivelarono all’uomo la parte migliore di se stesso e gli insegnarono a domare le forze della natura ed a strapparne i tesori nascosti”. Depreca il militarismo che esalta la guerra giudicandola nel suo complesso più un bene che un male ed il patriottismo meschino e geloso in nome del ORDINE 4-5 2007 quale si vuole che una nazione primeggi sull’altra. Ne spiega le ragioni. “Così gli armamenti di uno stato provocano quelli degli altri e l’eccesso della difesa diventa a sua volta minaccia. L’unico rimedio sarebbe il disarmo chiesto, invocato e implorato nelle città e nelle campagne da chi maneggia la penna e da chi maneggia la zappa ma, o Iddio ha indurito il cuore del moderni faraoni o gli uomini di spada che seggono negli alti consessi non lasciano pervenire alle loro orecchie le supplicazioni dei popoli”. Quindi giunge al punto nodale della sua relazione. Fa osservare che il disarmo dovrà essere quello dei forti, non degli impotenti perché il paese sia premunito dal ritorno di un vento di follia e non si presti indifeso ad una possibile invasione.“Vogliamo che l’esercito cessi di essere minaccia di guerra durante la pace, ma se fossimo un giorno assaliti vorremmo che l’Italia potesse difendersi con maggior numero di uomini e meglio esercitati che non ne possa dare il presente ordinamento militare”. Argomenta sulla ferma militare, sull’ordinamento dell’esercito, sull’educazione morale del soldato, temi tutti affrontati dalle colonne del Secolo da quando è stato chiamato alla direzione del giornale. L’italiano non legge la Storia Gioveranno le amare lezioni del passato a preservare l’Italia da nuovi castighi, a insegnare ai nostri uomini politici che in tutte le imprese ciò che più importa è saper commisurare i mezzi al fine? Comprenderanno che in pace e in guerra a compiere cose grandi, bisogna avere una chiara visione delle deficienze del proprio popolo e delle sue virtù, per sapere come servirsi di queste per vincere e correggere quelle? Sarebbe tempo, ma ahimè, l’italiano non legge la Storia specialmente quella recente del proprio paese, o la legge soltanto nei libri che lusingano il suo amor proprio nazionale. Dal Compendio internazionale. Al congresso di Parigi, davanti a centinaia di delegati di tutto il mondo, definisce ulteriormente il suo divisamento. Come molti italiani dell’epoca, egli non è un propugnatore del pacifismo integrale come quello sostenuto dai quaccheri che escludevano anche la guerra difensiva. La maggioranza dei nostri, compreso Moneta, non intendeva sacrificare all’internazionalismo e alla pace, i diritti della patria. Dalla tribuna parigina il giornalista spiega che “tutti i figli della rivoluzione intendevano essere fedeli alla promessa fatta negli ultimi anni della servitù nazionale e nei giorni della lotta, che l’Italia, divenuta indipendente e libera, sarebbe stata elemento di pace e di buon accordo fra le nazioni europee”. Studiosi delle grandi correnti della storia prevedevano che al periodo della costituzione delle patrie, sarebbe dovuta seguire una fase nella quale le singole nazioni si sarebbero associate per la propria difesa e per la prosperità di tutti. Ne sarebbero così nati un pacifismo ed un internazionalismo tali da superare il concetto di patria ma anche da comprenderlo, senza escludere la difesa della medesima imponendola come supremo dovere “poiché in tal caso la responsabilità della guerra sarebbe ricaduta tutta sull’aggressore”. “L’impegno dunque di tutti” sostiene Moneta “dovrà essere l’abolizione della guerra mediante il contemporaneo disarmo di tutti gli stati e la istituzione di una suprema corte che risolva le controversie internazionali”. Tuttavia, realisticamente convinto che a questo risultato non si sarebbe potuto giungere in tempi brevi, in attesa che si verificheranno tali felici condizioni, ogni paese doveva essere posto in grado di fronteggiare qualunque assalto alla propria indipendenza ed integrità territoriale. P remesso che la sola guerra consentita dalla modernità debba essere quella difensiva, Moneta spiega che questa esige che tutti i cittadini atti a portare le armi scendano in campo a combattere pro aris et focis. “L’ordinamento della forza dovrebbe essere tale da potere inquadrare milioni di soldati. Ma per amore di vieti pregiudizi di un tempo tramontato, si continua a ordinare la forza negli eserciti permanenti come quando le guerre avevano per iscopo la conquista ed erano combattute da piccoli nuclei inferiori a cinquantamila, centomila uomini.” Da vecchio militare appartenente agli alti comandi, e dunque esperto di strategia, chiarisce: “Una volta la vittoria era decisa dall’urto delle masse sui punti decisivi dei campi di battaglia; d’ora innanzi la vittoria dipenderà dalla maggiore quantità di proiettili che un esercito potrà gettare nei punti decisivi delle linee nemiche”. Secondo l’ex garibaldino è dunque necessario che il soldato sappia adoperare bene le armi di cui dispone e che abbia piena fiducia nei suoi comandanti. Egli anticipa di parecchi decenni la teoria che condanna l’uso del militare robot tanto caro ai vecchi generali. “Il tempo del soldato macchina è sorpassato non tanto per ragioni politiche e sociali, quanto per ragioni scientifiche e tecniche e la disciplina non è altro che l’abitudine all’adempimento del proprio dovere che per il militare può giungere fino al sacrificio della vita. Bisogna trasfondere nel suo animo una forza che lo infiammi e che lo innalzi. E questa forza che fa affrontare lietamente la morte non può essere data che da un’altra idea divenuta sangue del nostro sangue, anima dell’anima nostra: le rivendicazioni della libertà o dell’indipendenza, la difesa della civiltà o della fede, la ri- ‘ L e mozioni presentate all’approvazione del congresso spaziarono dalle più oltranziste, le quali chiedevano che l’Italia disarmasse dando l’esempio, a quelle più moderate secondo le quali a scuola dovessero essere impartite lezioni di tiro a segno e di scienza militare, che fosse costituito un partito degli amici della pace e che alcune parti politiche facessero del tema del disarmo la piattaforma elettorale per le future competizioni elettorali. Il congresso espresse dissensi verso molte proposte cosicché fu approvato un ordine del giorno generico in cui si auspicava che i governi trovassero un sistema per ridurre i loro armamenti e operassero per la riforma degli ordinamenti militari. Fu auspicato un maggiore interesse della stampa verso i temi della pace. Tra i pochi elementi condivisi dall’assemblea dei delegati vi fu l’omaggio reso alla donna per la sua influenza sui costumi e sulla pubblica istruzione che si tradusse nell’auspicio affinché sorgessero comitati femminili per la propaganda della pace. Ormai lanciato nell’agone del pacifismo, Ernesto Teodoro estende il suo impegno e dopo la platea casalinga si esibisce anche in quella ORDINE 4-5 2007 E I l congresso universale di Parigi segnò una tappa importante nello sviluppo del movimento proteso verso l’abolizione della guerra. Intanto una novità Dopo le guerre, dall’Unità, al popolo non fu mai detta la parola pace, la pace senza restrizioni mentali, la pace con tutti i suoi benefici, la pace tra i popoli che nessuna legittima causa divide, che tutti gli interessati più sacri consigliano. conquista di un sacro diritto conculcato in noi o nei nostri simili. Ecco le idee che, quando sono maturate nella coscienza di un popolo, imprimono a tutta la nazione un impulso irresistibile. Allora il soldato sa che la sua vita non è perduta perché sente che la dà per la grandezza della patria, per la civiltà”. Per avvicinarsi alla realizzazione della pace definitiva, è necessario, secondo Moneta, che “governo e paese facciano di questo ideale la stella polare della loro condotta, l’idea fissa di ogni giorno; bisogna che tutte le istituzioni vi cospirino, le militari non meno delle civili, le scuole dalle più infime alle più elevate, il Parlamento, il potere esecutivo la diplomazia”. ne propositi di futura più fiera vendetta. Evento che accadrà puntualmente dopo la prima guerra mondiale in preparazione della seconda. ’ lo differenzia dalle precedenti adunanze ed è l’istituzione d’una conferenza interparlamentare (che da allora affiancherà tutti i consessi) nella quale uomini di governo ed esperti di diritto internazionale potranno incontrarsi e dibattere su questioni relative alle nuove concezioni che dovranno regolare i rapporti fra gli stati. L’azione di Moneta per la fratellanza dei popoli non resta confinata nelle elaborazioni dottrinarie ma trova concreta ed immediata attuazione nei fatti. Nell’ottobre 1899 era giunto in Italia, a Monza, per una visita ai sovrani della penisola, l’imperatore di Prussia Guglielmo II, salito al trono l’anno prima. Su sollecitazione del pacifista alsaziano Albert Taschard, Moneta scrive il 22 ottobre un fondo (Dalla vera pace alla vera gloria) con il quale si rivolge all’augusto personaggio. S’immagina che il kaiser, erede d’una gloriosa stirpe di guerrieri e di pensatori, sia triste perché non può mietere gloria e successi guerreschi o essere protagonista d’una grande impresa. “L’unità germanica è compiuta; è compiuta l’unità italiana; manca ancora una pace vera e durevole all’Europa. Ecco la grande impresa che porrebbe sul capo di chi riuscisse a compierla un serto di gloria più splendido di quello che accompagna i nomi dei fondatori degli imperi”. La Triplice alleanza era chiamata anche Lega della pace. “Tuttavia” si chiede il giornalista” che tipo di pace è quella che costa tre miliardi di imposte ogni anno ai poveri popoli, che strappa alle famiglie, ai campi e alle officine braccia utili per farne strumenti di morte, quella che fa dell’Europa due grandi campi armati l’uno contro l’altro che quando si scontreranno riempiranno di stragi le più belle contrade del nostro continente e di orrore tutto il mondo civile?”. Avverte il monarca che una nuova guerra non risolverebbe nulla: il vinto non si rassegnerebbe alla sua sorte, attingerebbe bensì dalla patita umiliazio- rnesto Teodoro enumera poi i diversi focolai di rivolta che ardono in quello scorcio di secolo nelle valli dei Balcani, sulle creste dei Vosci, in Serbia, in Macedonia, nel Montenegro, in Bulgaria, nell’Alsazia Lorena. Dopo aver suggerito la neutralizzazione di alcune province, tema di contrasto tra Prussia e Francia, il giornalista fa presente che dare la pace all’Europa non vuol dire mantenere per alcuni anni una tregua fittizia con le baionette spianate e con la miccia accesa vicina ai cannoni; significa rimuovere gli odi fra le nazioni e mettere in armonia gli interessi particolari dei diversi popoli coordinandoli all’interesse generale della civiltà. Eccita la vanità del grande sovrano. “Se Guglielmo II assumesse tale impresa, darebbe equilibrio stabile all’Europa togliendo se stesso e gli altri grandi potentati dalla tentazione di abusare della propria forza ed affretterebbe quella federazione delle nazioni europee che nel desiderio di tutti i buoni metterebbe fine ai vecchi, funestissimi, antagonismi nazionali”. La Federazione delle nazioni europee cui egli allude sarebbe quella composta ad est dagli stati balcanici, miccia sempre accesa e ad ovest l’altra formata da Olanda, Belgio, Lussemburgo, Alsazia Lorena. Le progettate federazioni avrebbero dovuto, secondo Moneta, costituire “un possibile baluardo per la pace, primo passo verso lo stato unico europeo che i pacifisti e i pensatori del vecchio continente sognavano ormai da tempo”. Scesa in campo in ritardo rispetto a molte società per la pace straniere, quella milanese recupera presto terreno ed in breve tempo, grazie all’ex garibaldino, acquista notorietà e autorevolezza nel mondo attirandosi molte simpatie e contributi in danaro anche dall’estero. Grazie a questi apporti, Ernesto Teodoro lancia nel 1890 un almanacco dal titolo L’Amico della pace: è un mensile dal prezzo di 25 centesimi, contenente un calendario per le notizie meteorologiche, consigli medici, dati statistici, rapporti militari. Con gli anni la pubblicazione cambierà logo. Si intitolerà Giù le armi (1892), Bandiera Bianca (1900), Leggetemi (1902), Pro Pace (1908), testata che resterà inalterata per molti anni a venire. L’Unione lombarda ottiene una conferma del rilevante prestigio conquistato, con la sua elevazione ad ente morale. Nel 1891, dopo la morte del professor Francesco Viganò, la presidenza del comitato direttivo è assegnata all’unanimità ad Ernesto Teodoro. La sua leadership dà nuova vitalità al sodalizio che muta logo in Società internazionale per la pace e sollecita l’attenzione della cittadinanza con conferenze alle quali prendono parte importanti personalità italiane della politica, della cultura e dell’economia. La premura con la quale Moneta porta avanti l’iniziativa, ispira la ventiduenne poetessa Ada Negri che gli dedica una delle sue prime poesie, Le vittime dell’ideale, una composizione di quattordici quartine la cui ultima recita: Bacio che marchia con roventi impronte/ Fede che mai non muore/ Aquila eterna che si slancia al monte/Sovra il tempo, lo spazio e la rovina/Ei resta, vincitore. N el marzo del 1893, in seguito alla disdetta da parte del negus Menelik del trattato di Uccialli, seguita dai preparativi del generale Oreste Barattieri d’una aggressione agli abissini, i pacifisti italiani si mobilitano contro la politica africana del governo attraverso conferenze e passeggiate nel parco milanese e con numerose altre iniziative. Il fervore che il giornalista rivolge ora verso l’organizzazione pacifista, sottrae energia al Secolo. Il giornale vive una fase di ristagno: concluso il periodo contrassegnato dalle molte iniziative giornalistico-municipali, ora risente sia dall’assenza di Sonzogno, che da qualche anno si dedica alle attività musicali e teatrali, sia della carenza di contributi sempre vivificanti del direttore, ognora impegnato nelle coinvolgenti iniziative pacifiste. Alla crisi non sono estranei né la controffensiva che il piano giornalistico ed editoriale gli lancia il Corriere della Sera di Luigi Albertini né la sconfitta elettorale che ha subito Carlo Romussi. Mentre la Società internazionale per pace lavora dunque per orientare gli animi degli italiani verso l’abolizione dei conflitti, si fa più incombente il pericolo della guerra in Eritrea. Tra il 1894 e il 1895, numerosi scontri si susseguono fra le truppe italiane e quelle abissine a Kassala, Coatit, Amba Alagi. 7 Cent’anni fa il giornalista ERNESTO TEODORO MONETA riceveva il Nobel Virgilio, un pacifista Mentre tutte le leggende e i poeti germanici più popolari sono una glorificazione della forza, il più grande poeta latino inneggia al “nuovo ordine” che è pace, concordia, e unione di tutte le leggi in un’unica legge. Dal Compendio Medaglia assegnata a E. T. Moneta dalla Fondazione Nobel (1907). Contro la politica africana del governo tuonano ora sempre più insistentemente i pacifisti italiani il quali non solo non sono ascoltati ma sono accusati di viltà e di disfattismo. M oneta è fortemente contrario alla nostra politica d’espansione oltremare. Anni prima Crispi l’aveva fatta facile quell’impresa tanto che aveva predetto: “Un vasto regno si aprirà alla nostra industria e al nostro commercio senza sacrifici di sangue, con danaro messo al sicuro e a largo frutto. Vaste zone di terra colonizzabili s’offriranno in un avvenire non remoto alla esuberante fecondità italiana”. Ernesto Teodoro, al contrario dell’uomo politico siciliano, riteneva che il compito del nostro paese dovesse essere quello d’aiutare l’Africa. “I nostri educatori ci avevano insegnato che l’Italia doveva sorgere a nuova vita per adempiere al suo debito verso la civiltà, per cooperare con le sue forze alla liberazione degli altri popoli oppressi e non già per andare a pescare le chiavi del Mediterraneo nel mar Rosso”. La contrarietà del giornalista verso l’avventura africana non nasce soltanto dalle sue convinzioni pacifiste o da inquietudini d’ordine morale ma anche dalla consapevolezza della nostra impreparazione. Conoscitore dell’arte militare, appassionato di problemi strategici, egli sapeva che il nostro esercito non era in condizioni d’efficienza per sostenere un impegno e temeva che il paese si gettasse in un’avventura piena di incognite o, quello che era peggio, in un’impresa superiore alle sue forze e alla sua preparazione. Nonostante le notevoli spese sostenute, l’armamento dei nostri militari non era moderno mentre la struttura delle nostre forze armate era priva di quelle riforme che egli sollecitava da oltre vent’anni. A dargliene ulteriore conferma, sono i servizi che l’inviato speciale del Secolo Achille Bizzoni manda al giornale dall’Eritrea nel novembre del 1896, prima di essere cacciato dal generale Barattieri. Il 12 di quel mese il giornalista scrive. “Che siamo venuti a fare qui? Fra questi sassi, su queste vette, fra queste valli che si somigliano tanto che dopo aver cavalcato per giorni e giorni avete l’illusione di trovarvi sempre allo stesso posto?” E in un’altra, allarmata, corrispondenza dell’8 gennaio 1896 (dopo la sconfitta di Amba Alagi dell’8 dicembre 1895) dal titolo Dubbi africani: “Ogni giorno di più si rivela l’imprevidenza di coloro che a forza di errori ci hanno preparato questo letto di rose. Si scarseggia di tutto specialmente di quadrupedi…” domani della sanguinosa sconfitta, nonostante l’eroismo dei soldati e di alcuni comandanti (due generali morirono in battaglia), cadde il governo Crispi. L a disfatta africana mentre deprime il pacifismo italiano, è motivo per i bellicisti per indicare quali rinnegati, traditori e senza patria coloro che si erano pronunciati contro la guerra. Alla loro campagna, definita dagli avversari disfattista, fu attribuito non certo l’insuccesso, bensì il mancato appoggio del fronte interno “indispensabile” dicevano “per il buon esito d’un’impresa militare”. Queste accuse vulnerarono profondamente l’animo di Moneta nei suoi sentimenti di patriota. Per niente intimidita dalle accuse di coloro che avevano fomentato la guerra, l’Unione lombarda promosse un manifesto invitando la cittadinanza milanese ad opporsi alla continuazione del conflitto in colonia. Fu approntata anche una petizione rivolta al parlamento che però a Milano raccolse qualche migliaio di adesioni. In quell’anno 1896 tre ragioni spingono Moneta ad abbandonare la quasi trentennale direzione del Secolo. Intanto il pacifismo, impegno che oltre agli articoli sull’Almanacco aveva necessità d’uno zelo costante. Quindi la particolare situazione che s’era creata al giornale; approfittando delle lunghe assenze del direttore sempre occupato in manifestazioni e iniziative in Italia e all’estero per la causa della pace, Cavallotti e Romussi, discostandosi dal moderatismo originario del foglio, lo avevano impegnato in un radicalismo acceso che metteva a disagio il vecchio patriota il quale non riusciva a tenerli a freno. Infine il convincimento, ormai radicato in Ernesto Teodoro, che quella testata non fosse più la libera tribuna dalla quale egli poteva rivolgersi al paese. L’ ex garibaldino aveva moltiplicato fortemente i suoi impegni per la pace e soprattutto l’attività pubblicistica in favore di essa con la diffusione degli Almanacchi ai quali collaboravano spiccate personalità italiane. Mente fervida, aveva divisato di dare corpo al progetto d’una nuova rivista. Al fine di dedicarsi completamente alla lotta contro la guerra offensiva, nel novembre del 1896 lascia la direzione del Secolo a Carlo Romussi. Il giornale aveva raggiunto un traguardo notevole con la vendita quotidiana di 115 mila copie. Affrancatosi dagli impegni direttoriali, Ernesto Teodoro riversa la sua calda effervescenza a favore del sodalizio. Nel 1898, con la collaborazione dell’industriale milanese Felice Bisleri realizza un opuscolo dal titolo Il Corriere dei due Mondi. Raccoglie attorno a sé molti pensatori che come lui sono impegnati con idee umanitarie. Convince anche Giuseppe Casazza, un pacifista che aveva iniziato la pubblicazione d’una rivista intitolata La Guerra, ovviamente d’orientamento pacifista, ad unirsi a lui, a non sperperare danaro in iniziative dall’esito dubbio, a frenare la sua impazienza e ad attendere fino a quando avrebbero potuto raccogliere almeno centomila lire per pubblicare una rivista autorevole. Il momento giunse alla fine del 1897 e nel gennaio dell’anno successivo, il giorno 8, appare il quindicinale La vita internazionale. P er avere mosso questi ed altri rilievi, l’inviato del Secolo è scacciato dall’Eritrea. La motivazione del vice governatore Mario Lamberti è questa:”Con corrispondenze inviate alla madre patria e pubblicate nel giornale il Secolo, vilipende il governo della colonia menomandone l’autorità ed eccitando all’avversione e al disagio di essa”. Il foglio ribatte che quella misura è stata presa “in odio al libero Secolo che di fatto è solidale con Cavallotti nella questione morale contro Crispi”. Proprio in quei giorni i magistrati romani avevano scoperto che il primo ministro aveva ricevuto denari da Bernardo Tanlongo, il governatore della Banca Romana inquisito per avere distribuito soldi a politici, giornalisti, ministri e persino alla casa reale. L’espulsione del giornalista non intimidisce i pacifisti. La Società internazionale per la pace moltiplica le sue proteste contro la guerra in Africa. Diffonde un manifesto in cui invita la popolazione ad opporsi al conflitto e formula una petizione al parlamento per porre fine all’impresa. A dimostrazione che il pacifismo è ancora un movimento d’elite, il documento raccoglie le firme di poche migliaia di persone. Lo storico Guglielmo Ferrero, allievo di Cesare Lombroso, tiene una serie di conferenze sulla guerra e il militarismo nel passato e nel presente. Moneta dal canto suo mobilita l’associazione anche contro Abdulhamid II, la cui politica crudele provoca nell’impero ottomano continue rivolte alle quali il sultano risponde ordinando massacri di armeni e macedoni che indignano l’Europa. Lo sdegno invelenisce l’Italia tutta, pacifisti e non, allorché il 1° marzo 1896 le nostre truppe comandate da Barattieri sono sconfitte ad Adua, capoluogo del Tigrai, in una battaglia che vede ventimila italiani contro centomila scioani e che registra la perdita di quasi cinquemila dei nostri e di oltre duemila prigionieri. Le pessimistiche previsione dei pacifisti e quelle di coloro che si erano opposti all’impresa africana si verificarono puntualmente e all’in- 8 diritti individuali armonizzandoli con i doveri sociali e conciliare le esigenze dello stato per la difesa nazionale con i diritti dei cittadini ad avere maggiore autonomia; combattere coloro che seminano zizzania tra nazione e nazione, convinti però che lo stato debba essere forte nel respingere le offese e che la difesa nazionale debba essere garantita da una più stretta relazione tra istituzioni civili ed esercito; dimostrare che l’internazionalismo non è la negazione del principio di nazionalità ma una sua legittima integrazione educando anche il popolo, sviluppando le scienze, combattendo gli odi, il pregiudizio e la violenza, facendo attenzione ai principi della giustizia, della solidarietà sociale e internazionale oltre che dedicare studi particolari alle questioni di vita internazionale, alla dottrina dell’arbitrato, della neutralità e delle alleanze. Compiaciuto della circostanza che quest’appello parta da Milano, “dove è ancora viva la tradizione non solo delle forti opere e degli eroismi generosi che ci diedero la patria, ma anche i natali a Manzoni, Romagnosi, Cattaneo, Correnti, il Conciliatore, il Politecnico, il Crepuscolo, che ne avevano decretato il rinnovamento”, egli osserva che non è una sua temerarietà se confida che “questa impresa possa essere l’inizio di una vita nuova, intellettuale e morale che non teme di misurarsi con l’antica”. N el primo numero Moneta illustra il programma della pubblicazione e ne precisa gli intendimenti. Sostiene che la complessità dei rapporti sociali ha rafforzato il sentimento di solidarietà e ha diffuso l’internazionalismo, caratteristiche che accompagnano la società moderna, le quali purtroppo non incidono né sulla politica né sulla cultura. Ora proprio in nome di questi due principi, i governi dovrebbero cessare dal considerare la preparazione della guerra come il loro obiettivo principale mentre i milioni e i miliardi gettati via in armamenti dovrebbero servire a trarre dalla natura e dall’impegno umano inestimabili tesori per eliminare “il malessere economico ed associare popoli e classi in una meravigliosa opera di progresso e di prosperità comune”. “Forti di questa fede, noi innalziamo in mezzo alla stampa periodica una tribuna che speriamo non sarà senza efficacia nei destini della nazione. Vogliamo promuovere e studiare tutte le questioni che maggiormente interessano la vita ed il benessere dei cittadini senza quello spirito di parte che sovente offusca la verità più elementare e compromette anche le cause più giuste”. Moneta sintetizza gli scopi dei pacifisti. Difendere i N ell’anno 1898 cadeva il cinquantenario quarantottesco e il giornalista ne approfitta per stilare un bilancio di quanto era stato realizzato nel paese in rapporto a quanto si era sperato. Il risultato è largamente passivo. Egli si duole della corruzione che investe il governo, del mercanteggiamento parlamentare, dello smarrimento delle idealità del Risorgimento, della mancanza d’una politica chiara. “L’Italia divenuta padrona dei propri destini non seppe approfittare di quella fortuna, lasciando aggravare la situazione economica e lasciando dilagare la corruzione nel campo politico”. Critica implacabilmente la classe politica e rovescia una incontrastabile accusa contro il trasformismo. “Il Parlamento non è più l’augusta aula nella quale vengono a conflitto per la maggiore, comune, utilità le idee dei diversi partiti ma un’arena dove si arrabattano volgari interessi di piccoli gruppi e vanità personali; dove i ministri fanno e disfano, si ricompongono non in base a principi ma in ragioni al numero dei voti che i ministeriali possono recare al gabinetto”. Ernesto Teodoro non manca, nel cinquantenario della Prima guerra d’indipendenza, di rendere un tributo di deferente rispetto alle lotte combattute in nome dell’unità d’Italia. La commemorazione delle guerre da parte di colui che era ormai considerato il paladino del pacifismo nazionale, è criticata da molti spiriti puri della lotta totale ai conflitti armati i quali levano parole di sdegno contro una manifestazione celebrativa del quarantotto promossa dagli studenti dell’ateneo di Padova e patrocinata dai pacifisti, La polemica offre a Moneta l’occasione per affrontare ancora una volta il tema della non inconciliabilità tra l’idea della pace e la gratitudine dovuta a chi cooperò all’unità e all’indipendenza dell’Italia “giacché, la conquista della nazionalità non è che un primo passo, anzi un presupposto indispensabile per la federazione di tutti i popoli”, “Nessuna antinomia esiste tra l’idea che mira ad ottenere una pace stabile fra le nazioni civili e la gratitudine dovuta ai generosi che diedero tutto se stessi per l’indipendenza e la libertà della patria. Poiché non può esistere pace vera se non ha per fondamento la giustizia. La conquista della nazionalità era necessaria e fu incamminamento a quella federazione fra i popoli che è l’alta meta alla quale volgono i loro sforzi le società della pace d’Europa e d’America. Senza il grande movimento che rese possibile la distruzione dei trattati del 1815, che avevano sancito il diritto di conquista e considerati i popoli come servi della gleba, nessuno né in Italia né in Germania né altrove lavorerebbe oggi per la cessazione della guerra in Europa”. Mutati i tempi, sono sorti doveri diversi; il periodo delle rivoluzioni armate si è chiuso nel 1848 ma se n’è aperto un altro. “La scheda elettorale e la tribuna della stampa hanno sostituito il fucile e la barricata. Ma l’amore della patria e della libertà, il culto del bene pubblico, l’abnegazione, lo spirito di sacrificio, il coraggio a tutta prova non sono meno necessari per adempiere oggi ai doveri di quel che furono or mezzo secolo fa per redimere la patria dalle tirannidi paesane e straniere”. ORDINE 4-5 2007 P rendendo poi lo spunto dalla guerra che si combatteva a Cuba tra America e Spagna, egli, amareggiato, spiega come “l’evento getti una luce sinistra sul mondo e mette a nudo verità molto ingrate”. Il conflitto gli dà altresì modo per esprimere alcune considerazioni sull’umanità improntate al più cupo pessimismo.“La più volte millenaria civiltà non è altro se non una vernice che copre un immenso strato di barbarie; il cristianesimo dopo 19 secoli di predicazione non ha modificato l’essenza dell’uomo; nei rapporti tra le nazioni domina lo spirito pagano; l’anarchia condannata negli individui, è la regola di condotta dei governi; la miglior forma di governo non serve a preservare la più libera nazione da errori funesti e l’amore per la giustizia non è divenuto sana educazione”. Ernesto Teodoro profetizza che “quando i popoli saranno padroni in casa loro, nessuno impugnerà più le armi contro l’altro e che non ci saranno più gare fra gli umani che quelle del lavoro, della scienza a vantaggio comune”. Locuzione che avrebbe dovuto avere il valore d’un assioma ma che la Storia, purtroppo, s’è incaricata più e più volte di contraddire. È Dante? Un pacifista Tutta la Letteratura nostra risponde a sentimenti umani e civili. L’opera di Dante è tutt’intera consacrata all’unione delle umane genti, alla pace universale; egli flagella e condanna alle maggiori pene del suo inferno i violenti, i conquistatori, i belligeri e serba maggiore gloria agli uomini che ebbero sete di giustizia e che lasciarono nel mondo opere durevoli di amore e di bene. Dopo Dante, nessuno dei nostri maggiori scrittori separa l’amore della patria dal culto dell’umanità. Dal Compendio attraverso sia La vita internazionale che ora il giornalista denuncia il suo militarismo attivo il quale si distingue dalle posizioni che caratterizzano il socialismo. Egli è seguace del movimento radicale il quale, una volta raggiunta l’unità d’Italia, aveva posto sul terreno politico le prime esigenze delle sinistre democratiche del paese rifuggendo dall’impostazione classista. La rivista gli dà anche l’occasione di riprendere la lotta contro il duello. L’opportunità gli è offerta dalla tragica morte di Felice Cavallotti. Ferruccio Macola, direttore del Gazzettino di Venezia, consideratosi offeso da un’affermazione del “bardo della democrazia”, lo aveva sfidato a duello e nello scontro che i due avevano avuto il 6 marzo a Roma, il capo del giornale veneziano aveva ferito mortalmente l’altro. Moneta e Cavallotti erano molto amici. Una volta, dopo che il secondo aveva pronunciato un’orazione funebre, il primo aveva commentato: “Sei stato veramente grande”. Cavallotti aveva replicato. “Questo è niente. Il più bel discorso lo terrò davanti alla tua bara”. E l’altro: “Ma chi ti dice che dovrò morire prima io?” Nella circostanza del luttuoso evento, Moneta su La vita Internazionale si scaglia veementemente ancora una volta contro l’incivile costume. Scrive che “per ottenerne l’abolizione bisognerà operare su due fronti: quello giuridico e l’altro morale sollecitando le istituzioni a fare applicare il codice Zanardelli e ad operare perché quelle norme vengano messe in atto contro i duellanti e gli istigatori, e cominciando soprattutto a bandire l’usanza dalle forze armate”. A quel tempo l’uso delle armi per la risoluzione d’una controversia era stato già interdetto in Inghilterra e in Germania. La campagna di Ernesto Teodoro contro le contese dialettiche che si risolvevano con il ricorso alle armi bianche o da fuoco, s’interrompe bruscamente, ‘ L’ ORDINE 4-5 2007 ’ attivismo che anima i pacifisti d’Europa, compreso quello degli italiani, non resta senza risultati anche se focolai di guerra s’accendono qua e là per il globo. Proprio in quel funesto anno novantotto, lo zar Nicola II con un manifesto diretto al suo ministro degli esteri Michail Nikolaevic Murav’ev e a tutti i governi rappresentati a Pietroburgo, promuove una conferenza per porre un limite agli armamenti ed assicurare la pace mondiale. Nonostante la freddezza di parecchie nazioni e le difficoltà nella preparazione del convegno, i delegati si riuniscono su invito dell’Olanda all’Aia dal 18 al 20 luglio del 1899. A conclusione dei lavori è formulato un disegno di convenzione per la stesura d’un regolamento teso a pacificare i conflitti internazionali. Moneta è entusiasta dei risultati di quell’assise. “Per la prima volta con la conferenza dell’Aia il sogno dei filosofi, la fantasia dei poeti preoccupò le menti dei legisti e dei soldati e tutti s’inchinarono augurando e cooperandovi”. Le dichiarazioni rese rappresentarono il proemio del codice internazionale che qualche anno più tardi le nazioni adotteranno per armonizzare diritti e doveri degli stati e gli interessi delle genti con la politica dei governi. Il congresso approvò diverse convenzioni tra le quali la definizione pacifica dei conflitti internazionali, quella concernente le leggi e i costumi della guerra di terra; l’adattamento alla guerra marittima dei principi della Convenzione di guerra stipulata nell’agosto del 1864. L a crisi economica, accompagnata dall’aumento del prezzo del pane, ha provocato tumulti in tutta Italia a partire dal 1897. L’anno successivo le rivolte s’intensificano e hanno il loro apice nel capoluogo Lombardo dove, una scintilla partita dagli operai della Pirelli il 7 maggio accende una sanguinosa sommossa. La città, presidiata da ventimila soldati al comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, è posta in stato d’assedio. L’insurrezione, che dura tre giorni, si conclude con un’ottantina di morti, oltre quattrocentocinquanta feriti e l’arresto di più d’un migliaio di persone. Tra questi vi sono il direttore del Secolo Carlo Romussi, quello dell’Italia del Popolo Gustavo Chiesi, il direttore dell’Osservatore Cattolico, don Davide Albertario e il redattore della Plebe, Paolo Valera il quale ci lascerà un’indimenticabile cronaca di quelle tragiche giornate. Temendo d’essere arrestato quale ex direttore del giornale di Sonzogno, ed essendo già noto come repubblicano eversore, Moneta fugge in Svizzera dove prosegue la sua propaganda in favore del pacifismo. Rientra a Milano alla metà del mese d’agosto, e assume la direzione del suo vecchio foglio che riprende le pubblicazioni agli inizi di settembre quando ormai i quattro direttori sono stati condannati a pene varianti dai diciotto mesi ai quattro anni e associati alle carcere di Finalborgo, a Mantova. La sua guida dura meno di dodici mesi. Mario Borsa, che qualche anno prima era stato mandato a Londra quale corrispondente, ricorda che Moneta “diede al giornale un tono più conciliante ma, giornalista dei vecchi tempi, non capì che bisognava modernizzarne l’aspetto, migliorarne la stampa, ampliarne i servizi. Ed i pacifisti non erano in grado di arginare i pericoli delle guerra”. guerra che un falso patriottismo e interessi di casta cercano ogni tratto di suscitare. Noi dal canto nostro, continueremo e a questo volumetto daremo seguito con altri”. Indomito, s’impegna contro i conflitti che nonostante le buone intenzioni espresse dai politici all’Aia scoppiano in diverse parti del mondo. Lotta contro i guerrafondai ed è costretto a vigilare con cura sulla sua salute che diventa sempre più precaria. Nel 1900 è colpito da un gravissimo glaucoma agli occhi tanto da perdere progressivamente la vista. Come oggi, anche allora, i pacifisti erano considerati degli acchiappanuvole. Circondati da una calda benevolenza ma anche da un implacabile scetticismo sulla possibile realizzazione dei loro progetti, quegli uomini erano assistiti dall’affettuosa commiserazione con la quale sono circondati da sempre gli ingenui sognatori, fortemente rispettati per la tenacia con la quale lottano per le battaglie che altri considerano inutili e già perdute. Nonostante tutto, Moneta, nel 1900, gode d’una devota attenzione tanto che della sua malattia dà notizia persino il Corriere della Sera. L’ex garibaldino non s’avvilisce. Benché sia infermo, continua nella sua attività di pubblicista aiutato da un lato dalla segretaria di redazione de La vita internazionale Giannina Levati e dall’altro dall’assistente personale Maria Zappa alla quale detta articoli e corrispondenza. Denuncia senza tregua guerre, aggressioni di popoli, ingiustizie. Nel 1899 si è mobilitato contro il conflitto che in Sudafrica ha visto gl’inglesi contro i boeri. Nel 1900, si scaglia contro l’occupazione della Cina da parte d’un gruppo di potenze mondiali per reprimere la rivolta dei boxer. Tre anni più tardi, organizza a Milano una manifestazione in favore dei popoli armeni e macedoni in cui coinvolge i direttori delle principali testate cittadine: Luigi Albertini (Corriere della Sera), Carlo Romussi (Il Secolo), Giovanni Bistolfi (Lombardia), Claudio Treves (Tempo), don Ernesto Vercesi (Osservatore cattolico), oltre a politici democratici di varia tendenza. In quell’occasione prende la parola Filippo Turati, leader dell’ala riformista del movimento socialista, che tiene un memorabile discorso recando per la prima volta in una manifestazione pacifista la voce del proletariato italiano. Ammette realisticamente che il mondo del lavoro “aveva dei fatti e delle circostanze in discussione ben scarsa conoscenza”.“Fatti e circostanze che per altro lo stesso proletariato subiva in se stesso perché non del tutto diversi - sia pure in misura minore - di quelli armeni e macedoni”. L’uomo politico si chiede, provocatoriamente, se non si debba ammettere che la giustizia turca sia un po’ dappertutto come la miseria stessa. La presenza del mondo operaio in un’assemblea pacifista (è il pensiero del parlamentare) ha un significato pedagogico; è il preludio al giorno in cui “il proletariato, tutti i popoli, liberi dalle loro miserie interne, cominceranno a portare lo sguardo all’esterno e potranno fare la loro politica estera. Essi potranno farla in una sola maniera possibile; che consiste anche nell’elevare l’educazione politica dei popoli tanto in alto affinché ciascuno si senta cittadino nel mondo e senta, anche in tutto ciò che di grande o di criminoso accade sulla terra, la propria complicità o la propria gloria”. Turati riconduceva il suo dire concreto ai grandi motivi del pacifismo di Moneta senza contraddizione quale buon combattente per la libertà italiana e per tutti gli uomini. Borsa ricorda pure che “quello scorcio di secolo non faceva presagire nulla di buono: guerra cinogiapponese, minaccia di guerra scongiurata solo dalla prudenza di lord Salisbury che aveva accettato di arbitrare per la disputa delle frontiere tra Venezuela e Guyana inglese; nuova guerra per la riconquista del Sudan; la gravissima crisi fra Inghilterra e Francia per Fascioda, in Sudan; l’inaugurazione del canale di Kiel e l’istrionismo del kaiser; guerra boera…”. L’ex garibaldino riprende a stampare La vita internazionale e nel primo numero in uscita promuove, insieme con la rivista francese Humanitè Nouvelle, un referendum tra suoi lettori proponendo quattro domande: La guerra tra le nazioni civili è ancora voluta dalla Storia, dal Diritto, dal Progresso? Quali sono gli effetti intellettuali, morali, fisico economici, politici del militarismo? Quali sono le soluzioni che, per l’avvenire della civiltà mondiale, conviene dare ai problemi della guerra e del militarismo? Quali sono i mezzi per giungere più presto che si può a tali soluzioni? Al sondaggio risposero eminenti personalità dell’epoca: il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli, il generale Julius Revel, la baronessa Berta von Suttner, il principe Scipione Borghese, l’economista francese, Ives Guyot, il fisiologo francese Charles Robert Richet, lo scrittore e uomo politico di Francia, Georges Sorel, e lo scrittore russo, Lev Tolstoi. In un articolo intitolato Chartado Delenda est, l’autore di Guerra e pace sviluppa il concetto della difesa assoluta della non violenza. La vita internazionale dissociò la propria responsabilità dalla lettera nella quale fu ravvisata una rivolta contro il servizio militare in nome del comandamento divino “Non uccidere”. In Italia l’articolo di Tolstoi sarà letto solo nel 1905 purgato in alcune parti. Nessuna antinomia esiste tra l’idea che mira a ottenere una pace stabile fra le nazioni civili e la gratitudine dovuta ai generosi che diedero tutto se stessi per l’indipendenza e la libertà della patria. insieme con la pubblicazione del quindicinale a causa della grave repressione con la quale Bava Beccaris reprime i moti di Milano. E. T. Moneta al tempo in cui era direttore de “Il Secolo” in una caricatura pubblicata su “Semper sui rutai”, omaggio per l’anno 1878 del giornale “El tranvaj”. P rendendo spunto dai numerosi argomenti discussi all’Aia, Ernesto Teodoro diede vita alla pubblicazione d’una serie di opuscoli intitolati Patria e Umanità. Scrisse in uno di questi: “Se i fautori della pace e della giustizia sapranno valersene, le deliberazioni dell’Aia diverranno un mezzo potente per impedire ai nolenti di compromettere il proprio e gli altrui paesi e per soffocare sul nascere i pericoli di Q uale corollario della sua intensa attività di soldato prima e di pacifista dopo, Ernesto Teodoro manda alle stampe il primo volume d’un compendio storico dedicato a Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX. È una sintesi degli avvenimenti dell’Ottocento che egli ha cominciato a scrivere a partire dal 1870, quando la sua memoria degli eventi era ancora fresca. L’ex garibaldino ripercorre le vicende vissute in prima persona: l’insurrezione del 1848, nella quale riscontra “uno spirito di umanità che difficilmente si trova nella storia delle altre nazioni”. Tiene separati il patriottismo e il nazionalismo e trova nel primo le ragioni per amare le patrie di tutti gli uomini del mondo. Secondo lui il patriottismo non solo non contraddice il più elevato umanesimo ma è la via più naturale e più diretta per arrivare a comprenderlo e a praticarlo. “È con l’abituarsi a vincere il proprio istintivo egoismo con l’amor di patria e sollevandosi a una concezione supe- 9 Cent’anni fa il giornalista ERNESTO TEODORO MONETA riceveva il Nobel riore a quella della vita individuale e professionale che l’uomo si sente portato dal suo stesso patriottismo a comprendere le patrie altrui, a desiderarle tutte affratellate nell’umanità”. Disapprova coloro che accettano il principio dell’ineluttabilità della guerra.“Poiché le maggiori conquiste del passato si ottennero con le armi e le nazioni ora in possesso della propria indipendenza sono nate o risorte dalla guerra, si crede ancora da gente colta e si insegna dalle cattedre che le guerre ci saranno sempre. Nulla meglio della storia delle guerre e delle insurrezioni dell’ultimo secolo dimostra la fallacia di questa dottrina”. Chiarisce di non essere propugnatore d’un pacifismo assoluto, di una pace per la pace in un dolciastro rifiuto della violenza (“il mio pacifismo non assomiglia in nulla a quello di Tolstoi”) poiché afferma anzitutto l’indiscutibile legittimità della lotta per la difesa e la conquista delle libertà e della indipendenza dei popoli. Egli non concepisce l’antimilitarismo che rende la nazione imbelle e incapace di difendere la propria esistenza. Questo ovviamente non lo conduce verso postulati militaristi bensì a riconoscere l’esigenza di un’efficiente forza militare difensiva e tale da garantire l’indipendenza e la libertà del paese. N el maggio del 1904, mentre esce il secondo dei quattro volumi del compendio, Ernesto Teodoro partecipa al I congresso italiano per la pace (primo del nuovo secolo). Acclamato presidente, legge una relazione dal tema “Partecipazione delle società per la pace alle elezioni politiche ed amministrative”, nella quale riferisce della sua esperienza. Il convegno si apre mentre in estremo Oriente infuria la guerra russo-giapponese in cui è coinvolto Nicola II che alla conferenza dell’Aia aveva biasimato, attraverso il suo delegato, il ricorso agli armamenti. Nell’affrontare quel conflitto, la posizione di Ernesto Teodoro appare alquanto ambigua. Giustifica lo zar, ma non la guerra da parte dei russi e sostiene che responsabile d’un conflitto “non è chi lo intraprende per primo ma chi lo rende necessario”. L’impegno, la dottrina e la generosa dedizione alla causa della convivenza pacifica dei popoli diffondono oltre frontiera il suo prestigio. Nello stesso anno 1904 è invitato al XIII congresso universale di Boston dove è acclamato quale vice presidente; l’anno successivo, prende parte ai lavori del quattordicesimo che si tiene a Lucerna. L a frequentazione dei consessi internazionali, invoglia Moneta ad impegnare nella questione della pace anche la città di Milano con iniziative del massimo livello. Nell’aprile del 1906, si apre il traforo del Sempione, un’opera dall’emblematico significato perché contribuisce ad unire idealmente i popoli europei. Per l’occasione s’inaugura nel capoluogo lombardo l’Esposizione universale, un grande circo, tra l’Arena, e la piazza d’Armi. L’ex direttore del Secolo e i suoi non perdono l’occasione per promuovere la propaganda pacifista nella grande fiera. Allestiscono un padiglione della Pace, un tempio neoclassico con due gruppi marmorei che rappresentano il Lavoro e la Giustizia, opere dello scultore Tullio Brianzi. All’interno vi sono esposti quadri, sculture e autografi d’importanti artisti pacifisti. Moneta, a dimostrazione della sua indiscutibile autorevolezza e della sua influenza sulle istituzioni, ottiene dal ministro dell’Istruzione pubblica Paolo Boselli che venga fissata per il 22 febbraio la festa della pace. A giustificanza del rilievo assunto nel mondo dai pacifisti italiani e da Moneta in particolare, all’interno dell’Esposizione si tenne dal 15 al 22 settembre il XV congresso universale della pace. Il consesso (altra dimostrazione della considerazione in cui erano tenuti Ernesto Teodoro e i suoi colleghi) si svolse alla Villa reale sotto il patrocinio del ministro degli Esteri Tommaso Tittoni e alla presenza del sindaco di Milano Ettore Ponti. Intervennero riconosciute celebrità del movimento pacifista: Federico Passy, il fisiologo Charles Robert Richet, Bertha von Suttner, lo scrittore Aleksej Novichof, Elia Duconnum, segretario della federazione internazionale. L’assise di Milano non insegue inconsistenti e vaghi programmi. Dalla sua tribuna sono indirizzate proteste contro l’oppressione turca in Armenia e si plaude ai migliorati rapporti tra Germania, Francia e Inghilterra, le cui recenti frizioni hanno creato apprensioni in Europa. Vi si propugna la necessità 10 Perché il cristianesimo attecchì in Italia Il cristianesimo fa in breve tempo i suoi maggiori progressi in Italia perché qui l’anima del popolo, che vive più che di tutto di sentimento, rispondeva alla legge d’amore della novella religione. Altrove il cristianesimo suscita una folla di mistici, crea l’inquisizione e accende le guerre di religione, delle quali mai si videro le più feroci. In Italia è più umano e civile; pone fine ben presto alle lotte religiose, riconcilia le famiglie nemiche, suscita i santi Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, Gerolamo Miani, Filippo Neri e ai giorni nostri il padre Ludovico da Casoria e don Bosco che compiono miracoli. Dal Compendio d’un impegno pacifista tra le fila del movimento operaio e l’opportunità di rendere neutrali le vie commerciali dell’Atlantico e degli altri mari, secondo le deliberazioni prese anni prima all’Aia. mentichi che ancora non esisteva in Italia il suffragio universale. “Se il quarto stato vuol prendere nella società il posto che ha oggidì quello che un tempo si chiamava terzo stato e che ora impropriamente si chiama borghesia, la sua ambizione è legittima ma quel posto deve meritarlo dimostrando coi fatti di saper meglio amministrare la cosa pubblica e di avere un cuore che più di quello della borghesia arde di amore per la giustizia e per la libertà”. Ammonisce che “l’Europa e tutto il mondo civile avranno pace vera, sincera e durevole, garantita da convenzioni con tutti gli stati da una corte suprema internazionale di giustizia quando tutti i cittadini comprenderanno il loro dovere di occuparsi direttamente della politica del proprio paese”. L a partecipazione ai convegni internazionali e alle manifestazioni della pace, e l’infermità agli occhi che si fa sempre più grave, non impediscono a Moneta d’impegnarsi in aspri scontri dialettici e in gravose contese. Sempre nell’anno 1906, sul tema dell’antimilitarismo litiga con Luigi Bignami, direttore della Perseveranza il quale scrive che “coloro i quali sono contro la casta militare giustificano la viltà umana”. Prorompe contro un autorevole sostenitore della tesi opposta, il giornalista francese Gustav Hervè, socialista, direttore del giornale La guerre sociale biasimato in Italia anche dai socialisti Gaetano Salvemini e Giovanni Zibordi. Moneta, mentre riconosce l’assurdità e la follia dell’antimilitarismo anarchico e rivoluzionario di Hervè, fa rilevare che per questa ragione “non ne viene l’obbligo d’inchinarsi al militarismo nazionalista, non mai sazio d’imporre nuovi sacrifici ai popoli per fabbricar cannoni e fortezze e per costruire corazzate con l’dea fissa d’una possibile guerra vicina”. Coerentemente alla sua primigenia convinzione, individua nel concetto di nazione armata la soluzione del problema. “Vi è l’antimilitarismo dei rivoluzionari seri o da burla che insieme a tutti i socialisti noi respingiamo; vi è quello che si oppone al militarismo nazionalista e belligero, contrario allo spirito del tempo nostro e degli interessi del paese; è questo antimilitarismo che noi crediamo, come lo credeva Garibaldi, il meglio rispondente alle buone tradizioni del nostro paese e alle necessità finanziarie ed economiche del tempo in cui viviamo. È ad esso ispirandosi che sarà un dì organizzato l’esercito della democrazia.” Hervè, il contraddittore di Moneta, nel 1914, dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia, diverrà un acceso patriota, fonderà il giornale La Victoire con cui appoggerà il ministero Clemenceau e nel 1927, ispirandosi al fascismo, creerà il partito socialista nazionalista. L a molteplice, ininterrotta, operosità cui si dedica l’infaticabile giornalista, non sfugge al pacifismo mondiale. Il suo nome è proposto per il Nobel da alcune importanti riviste europee ed americane. Poi della sua candidatura al premio si fa mallevadore il drammaturgo norvegese Bjornstjerne Bjornson, uno dei cinque membri del premio per la pace, che la propone alla commissione con un indirizzo rivolto al parlamento norvegese. Il 10 dicembre la carriera di Moneta è premiata con la concessione del premio che divide con il giurista francese Louis Renault membro della corte permanente di arbitrato dell’Aia. Nella motivazione si mette in risalto “che mediante la sua potente posizione nella stampa italiana aveva la migliore occasione di lavorare per le sue idee di pacificazione e nessun gran giornale europeo ha cosi come il Secolo adottato un programma di pacificazione”. È approvata altresì la sua concezione del nazione armata. “Moneta lavorava alla disposizione popolare della milizia sul modello della Svizzera in tal modo che riuscirebbe l’esercito ad essere esclusivamente destinato alla difesa della patria”. Nella menzione si riconosce il suo notevole contributo all’informazione. “Inoltre egli teneva informato il suo pubblico sul processo di pace e sull’arbitrato”. Gli è legittimato anche il merito d’avere allentato le tensioni che nel 1888 c’erano state tra Francia e Italia e d’avere stabilito “una buona intelligenza tra i due paesi”. Quello concesso a Moneta era il terzo Nobel che toccava all’Italia. Il primo lo aveva ricevuto il biologo pavese Camillo Goggi per gli studi sulla struttura del sistema nervoso; il secondo era andato a Giosue Carducci per la Letteratura. Quale primo atto dopo l’aggiudicazione dell’alloro, egli devolve ventimila lire alla Società internazionale della Pace che delibera d’istituire un premio Moneta da assegnare ogni anno ai benemeriti della causa. Intervistato da Renato Simoni per il Corriere della Sera, in quell’occasione l’ex garibaldino si mostra ottimista circa l’avvenire del pacifismo italiano. “Se non vedrò io la vittoria definitiva dell’idea, la vedranno sicuramente i nostri discendenti”. D ieci anni dopo l’abbandono del Secolo, Moneta si segnala nel mondo per la sua incessante, ininterrotta e proficua azione a favore della convivenza tra i popoli. Nonostante abbia superato la settantina d’anni è instancabile. Nel mese di febbraio presiede a Milano alla festa mondiale della pace dov’è distribuito in 25 mila copie agli scolari cittadini un numero unico illustrato e da lui personalmente curato. A Monaco di Baviera partecipa ai lavori del XVI congresso universale e in settembre è a Perugia dove presiede il III convegno italiano dal quale sortisce la costituzione della federazioni delle società della pace della penisola, che sarà il modello per la futura federazione mondiale di tutti i movimenti già raggruppati per nazione. In quell’occasione è diramato un appello per la fondazione d’un giornale quotidiano sul pacifismo. L’ex garibaldino non trascura la questione sociale. Dalla tribuna perugina condanna il collettivismo e la lotta di classe, idee che hanno ormai pervaso gran parte del mondo del lavoro, e stigmatizza l’atteggiamento della borghesia italiana la quale, “mentre gli apostoli della dottrina collettivista evagelizzavano le masse, non fece nulla per menomare o distruggere gli effetti di tale propaganda”. Esorta il ceto imprenditoriale ad ispirarsi all’opera del Risorgimento nazionale di cui furono protagonisti intellettuali e borghesi per assolvere ancora al loro compito a vantaggio del paese e della classe lavoratrice. L’ irruzione del famoso pacifista nella questione sociale, solleva parecchie critiche. Moneta non si lascia disarmare e risponde: “Nemici delle guerre fra le nazioni, dovremmo dunque rimanere inerti spettatori indifferenti della guerra fra le classi sociali? Cittadini del mondo che ne vagheggiamo uno nel quale tutti i popoli si sentiranno solidali nelle opere di pace e di civiltà, non dovremmo dunque più curarci dei casi di casa nostra? I doveri che sentiamo vivamente verso l’umanità non possono farci dimenticare quelli verso la patria nostra”. Nemico della lotta di classe, caldeggia la necessità che il proletariato (che egli chiama “quarto stato” come nella rivoluzione francese), assuma un ruolo attivo nel mondo politico e nella società. Non si di- S ul tema della vocazione pacifista della penisola torna ancora il 25 agosto del 1909 giorno in cui tiene un’allocuzione all’Istituto Nobel di Kristiania (Oslo) in Norvegia sul tema: “La pace e il diritto nella tradizione italiana”. Il neo premio Nobel traccia una rapida rassegna storica del pensiero pacifista italiano inserendovi anche le sue esperienze di giovinetto colpito dalle atrocità della guerra. La tribuna di Kristiania è anche un’occasione per rassicurare coloro i quali temevano che con la diffusione del pacifismo si operasse una sorta di globalizzazione delle società (inquietudine che angustia anche le società di quel tempo) ma non può fare a meno dal mettere in allarme il mondo circa i gravi pericoli dei nazionalismi. “Il pacifismo non tende a distruggere le patrie fondendole nel crogiuolo del cosmopolitismo, ma a costituirle, se ancora non lo sono, secondo equità”. Si richiama alla tradizione romana d’una giustizia uguale per tutti i popoli che trovò in Cicerone la sua più netta espressione ed esaltò con Virgilio, Orazio, Plinio, Seneca i benefici della pace. A questi storici nomi aggiunge quello di Giuseppe Garibaldi “guerriero per amore di libertà” che subito dopo la battaglia del Volturno, il 30 settembre 1860, indirizzò alle massime potenze un memorandum scongiurandole di “por fine alle guerre ed agli armamenti unendosi in una confederazione europea”. Profeticamente mette in guardia sui possibili guasti che avrebbe potuto procurare il nazionalismo, “difORDINE 4-5 2007 fidente, orgoglioso, arrogante e provocatore”. Si chiede se dovrà prevalere sempre. Esprime il suo biasimo per la fiacca, tardiva, voce degli stessi pontefici levata per scongiurare le guerre nonché per l’esaltazione che poeti in busca di popolarità fanno dei massacri bellici per l’esaltazione dei valori nazionali sentiti con odio e disprezzo degli altri popoli. “Da qui nasce il dovere dei pacifisti di denunciare la mentalità arretrata di coloro che nella guerra vedono una buona speculazione mostrando al popolo ciò che la guerra è in realtà e quante lacrime, quanto sangue, quante torture costano alle povere popolazioni gli allori delle vittorie”. A Kristiania, Moneta non indulge nell’ottimismo sull’avvenire prossimo dell’Europa. Rimarca come nel vecchio continente, anche se non c’è alcun governo che coltivi disegni di guerra, questi propositi possano nascere improvvisamente. La situazione poi è cosi aggrovigliata, i vecchi rancori sono ancora cosi vivi, che nessuno potrebbe farsi garante del futuro.“Mentre gli uomini di scienza e d’ardimento sono riusciti a vincere la resistenza dei venti e a solcare le via del firmamento, tra gli uomini di stato, dalle larghe visioni che pure non mancano nei vari paesi, non se ne sono trovati finora di quelli che abbiano saputo domare le resistenze che le male passioni e gli interessi antisociali coalizzati oppongono al fatale andare delle nazioni verso la pace, la giustizia e il comune benessere.” Tutto poteva pensare in quel momento il povero Moneta tranne che in prima fila fra i governanti che non sapevano domare “le male passioni e gli interessi antisociali coalizzati”, ci fossero i suoi connazionali, sì, gli italiani; e che costoro, oltre che a rompere la fragile pace che c’era nel mondo all’inizio del secondo decennio del Novecento, finissero con il metterlo in gravissimo imbarazzo, facendogli tradire la fede pacifista ed esponendolo al vituperio dei pacifisti del mondo che ne avevano fino a quel momento esaltato la figura tanto da offrirgli il massimo premio quale benemerito della convivenza fra le genti. Aveva ragione Mario Borsa che connotava il pacifismo di Moneta come “fatto di candore sentimentale uguale a quello della baronessa Von Suttner e del suo romanzo allora celebre, Giù le armi, tanto è vero che quando scoppiò la guerra libica, la patria a cui Moneta teneva più di Volfango Goethe, ebbe il sopravvento sul suo ideale di pace”. Libri e pubblicazioni su Ernesto Teodoro Moneta Arcari Paolo Uomini e idee dell’Italia Moderna, Ernesto Teodoro Moneta Bauer Riccardo Ricordo di Ernesto Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace 1907 Bessi Pirro Ernesto Teodoro Moneta Casazza Enrico Ernesto Teodoro Moneta Combi Maria Ernesto Teodoro Moneta Combi Maria Ernesto Teodoro Moneta Combi Maria Ernesto Teodoro Moneta Meda Filippo Ernesto Teodoro Moneta Pinardi Giuseppe La carriere d’un pacifiste Riva Silvano Il concetto della pace internazionale nel pensiero di Ernesto Teodoro Moneta Roux Onorato Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei E l riconoscimento ottenuto a Kristiania ha moltiplicato le sue forze e, malgrado l’aggravarsi del glaucoma che gli è stato diagnosticato ad un occhio, egli è più attivo che mai. Nel 1910 ha mandato alle stampe il quarto e ultimo volume del suo compendio storico dedicato a Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX (il secondo e il terzo erano usciti rispettivamente nel 1904 e nel 1906). Ancora nel 1910, in vista della preparazione del congresso universale pacifista che nel 1911 si dovrebbe tenere a Roma, egli, accompagnato dal conte De Gubernatis, si reca a Lucerna per trarre ispirazione dalla mostra storica della Pace, perché un’a- i pacifisti italiani che posizione presero? Anche loro come il resto del paese s’erano divisi in proporzioni uguali tra favorevoli e contrari. In quelle giornate d’estate che precedettero lo sbarco dei marinai italiani a Tripoli, Moneta, infermo agli occhi, riunì il comitato dell’Unione lombarda per conoscere l’opinione dei suoi membri. Egli aveva approntato un documento che caldeggiava una soluzione pacifica della vertenza. Dalla riunione uscì invece un ordine del giorno (dal quale il premio Nobel si era astenuto) che raccomandava una penetrazione pacifica del nostro paese nel dominio turco. Non per giustificare Moneta, ma va detto che in quella democrazia incompleta e venata d’autoritarismo che comandava in Italia (non c’era nemmeno il suffragio universale che sarà concesso in quell’occasione come offa ai cittadini per compensarli della guerra) i dissensi, soprattutto quando il paese era impegnato in un conflitto armato, erano pagati a caro prezzo. Già nel 1896, la posizione dei pacifisti era stata bollata come “disfattista” ed era stato loro in parte imputato il disastro di Adua. Ora tra l’altro montava la marea nazionalista e Moneta temeva che una forte opposizione al conflitto avrebbe potuto far scontare ai suoi compagni di fede le conseguenze d’un’altra eventuale sconfitta. Quando all’alba del 2 ottobre 1911, le nostre truppe sbarcano a Tripoli, l’ex garibaldino, tradendo i principi del pacifismo, accetta le ragioni addotte dal governo e considera una fatalità storica non tanto l’occupazione da parte dell’Italia dei territori africani, quanto che “tutta l’Africa venga rimessa in contatto con la civiltà non più romana ma europea”. In compenso fa voti perché la guerra duri poco e faccia poche vittime. L’Europa e tutto il mondo civile avranno pace vera, sincera e durevole, garantita da convenzioni con tutti gli stati da una Corte suprema internazionale di giustizia quando tutti i cittadini comprenderanno il loro dovere di occuparsi direttamente della politica del proprio paese. naloga esposizione si dovrà allestire a Castel Sant’Angelo in occasione del XIX raduno universale. Nello stesso anno 1911, Ernesto Teodoro, nonostante l’età (ha settantaquattro anni) e la forte menomazione agli occhi, si presenta alle elezioni comunali in una lista di moderati appoggiata persino dal Guerin sportivo che incita così i votanti. Dunque, o elettor, sopporta ch’io ti dica/ di votar questa lista, /poiché premio si merita ogni fatica. /Non dar Milano alla Massoneria/ e neanche al socialista,/A Votar va’, ti prego!/Se per te questa lista si completa /per qualcun che non desta simpatia,/ dà al suo nome di frego/ e metti in vece sua quel di Moneta… Poi i programmi dei pacifisti italiani sono sconvolti dell’intervento colonialista del governo. La sconfitta di Adua aveva impegnato l’Italia nella cosiddetta politica delle mani nette, vale a dire nell’abbandono di altre mire di conquista nel territorio del continente nero. Tuttavia, su pressione dell’opinione pubblica, influenzata dal nazionalismo, Giovanni Giolitti è costretto a fare la guerra contro la Turchia. Fatta eccezione per i socialisti mussoliniani, quasi tutti i partiti sono contagiati dallo spirito nazionalista; dai liberali ai cattolici. L’idea dell’espansione coloniale è collegata alla prospettiva di trovare uno sbocco alla nostra emigrazione e alla possibilità di ottenere un miglioramento delle condizione di vita della classe lavoratrice attraverso uno sviluppo della nostra borghesia. Tesi questa sostenuta anche dai sindacalisti rivoluzionari, da una parte dei socialisti, dai radicali e dai repubblicani. Pure una porzione del mondo cattolico, quella che fa capo al trust dei giornali controllato da Giovanni Grosoli, è per la ORDINE 4-5 2007 in Società per la Pace e la Giustizia Internazionale in Almanacco Pro Pace, in La vita Internazionale 1913. in La Martinella di Milano in Quaderni della città di Milano premio Nobel per la pace 1907, Mursia Uomini e tempi L’Universel, Le Havre 1953. 1971 Milano 1968. Milano 1921. Senza data. Quaderni della Brianza, 1995. L verso la patria e quelli verso l’ideale della pace che non mi ha mai abbandonato e che è nelle supreme aspirazioni della mia vita. Ecco la ragione per la quale aderii all’ordine del giorno votato dall’Unione lombarda per la penetrazione pacifica in Tripolitania”. Postilla poi come la contraddizione che gli si vuole imputare non è nella coscienza sua bensì nei fatti che accadono.“La verità è che la nostra è un’epoca intermedia tra la civiltà integrale da noi invocata e la civiltà attuale (che è in gran parte eredità di parecchi secoli di guerra) nella quale la forza tiene ancora un gran posto nel destino delle nazioni. Ebbene, poiché noi siamo in questo stato di transizione, non è da meravigliarsi se l’Italia ha voluto prendere le sue misure sentendosi abbastanza forte, onde non essere presto o tardi vittima della forza altrui. Ora per avvicinarci il più possibile alla civiltà integrale che sogniamo non basta predicare la pace, ma bisogna creare una situazione la quale conduca ad una vera e durevole pace. I precursori del 1848 vedevano questa attuazione nella federazione europea; è questa la prima tappa da conquistare e per giungervi bisogna seguire la via che ha condotto alla formazione delle nazioni, vale a dire creare prima di ogni altra cosa l’unità morale d’Europa e questo dovrebbe essere il compito dei pacifisti più illuminati e dei governi delle nazioni più civili”. I ’ e reazioni dei pacifisti internazionali contro Moneta e i confratelli italiani sono durissime. Quelli s’aspettavano un gesto di intransigenza. Ma dopo la risoluzione degli italiani conniventi con i propugnatori del conflitto, prima si meravigliano, poi s’indignano, quindi danno la stura ad aspre critiche e ad accuse implacabili. Quale conseguenza immediata è annullato il XIX congresso universale della pace che si sarebbe dovuto tenere a Castel Sant’Angelo e che è trasferito a Londra con l’etichetta di 1 congresso universale delle razze. I più violenti contro gl’italiani e il loro leader premio Nobel 1907 sono gli esponenti del Bureau International de la paix che li accusano d’aver tradito i principi del pacifismo. Oltre che con articoli sull’Almanacco, Moneta risponde con un opuscolo intitolato L’ideale della pace e della patria, nel quale compendia il suo pensiero. Ricorda quando, nel 1890, i pacifisti con tutta la democrazia italiana osteggiarono la campagna d’Africa “in omaggio ad una giustizia ideale”. “Per lo stesso principio dopo Adua abbiamo imposto la pace e le dimissioni di Crispi che aveva sognato per la nostra monarchia l’impero d’Etiopia. Quale fu la conseguenza? Che l’Italia fu nuovamente considerata come una potenza militarmente e politicamente senza valore”. Scrive che nella sua decisione a favore della guerra di Libia prevalse il principio di scegliere il male minore.“Impedendo quell’impresa, temetti che potesse essere fatto cadere il governo dando la prevalenza ai nazionalisti con le conseguenze della probabile esplosione di una conflagrazione generale. Ho passato notti insonni per la lotta che si combatteva nella mia coscienza. Lottavano in me i miei doveri Milano 1980. 1934 Firenze 1911. guerra perché vede nell’impresa libica una crociata contro gli infedeli; visione avversata dal Vaticano che nell’avventura individua invece “un atto politico al quale la religione dove restare fuori”. I ‘ in L’Adula (1913) l relativismo con il quale egli maltratta l’ideale della pace, la proclamazione del divario esistente tra aspirazione primaria e ciò che poi accade nella vita, irritano sempre di più i pacifisti francesi, inglesi e tedeschi che non mancano d’attaccarlo periodicamente. Anche in Italia egli subisce forti critiche. Un giorno è affrontato da Paolo Valera, il cronista della Plebe che era finito in galera nel 1898 durante la repressione di Bava Beccaris e che è molto amico di Mussolini a quel tempo socialista e contrario dell’intervento dell’Italia in Tripolitania. Il giornalista, incontrandolo in Galleria, gli intima fermamente d’andare a restituire il premio Nobel che gli era stato concesso quattro anni prima. Rilievi, addebiti, rimproveri angustiano e tormentano Moneta ormai quasi cieco da entrambi gli occhi. Agli amici che lo vanno a trovare confida che più che dalla malattia è tormentato dal timore di vedere travolto il frutto dei lunghi anni dedicati alla propaganda della pace ed invoca una urgente conciliazione degli animi. Sull’Almanacco non si stanca di spiegare e di giustificare il suo atteggiamento nei confronti della guerra di Libia. Il chiarimento è rivolto ai lettori ma il messaggio è diretto soprattutto ai suoi critici europei. In un numero del 1912 scrive che non è giusto fare ricadere sul nostro paese tutta la responsabilità della guerra sulla questione coloniale. La sua tesi è che l’Italia, arrivata ultima fra le nazioni marittime, non aveva fatto che prendere quelle misure necessarie per proteggere la sua sicurezza nell’avvenire e per non restare chiusa nel Mediterraneo. Sospinto nell’impresa dalle altre potenze, il nostro paese doveva assolvere a un duplice dovere: in linea politica stabilire l’equilibrio nel Mediterraneo e sul piano storico-culturale avviare quelle terre agli influssi della vita civile. “Come italiano e come pacifista mi sono convinto che uno e uno solo era il compito del pacifista: non ostacolare in alcun modo l’impresa”. T orna ancora una volta sul divario che separa ideale e realtà. “È bene ripetere come le nostre idee siano state sempre chiare e precise e come da noi sia sempre stato lontano quell’assolutismo teorico che può pregiudicare anziché affrettare il raggiungimento della meta. Noi tendiamo alla formazione di una coscienza internazionale che metta veramente la ragione al di sopra della forza, il diritto al di sopra della violenza, che sappia imporre per la risoluzione delle eventuali controversie fra stato e stato forme pacifiche deferite ad organi speciali, di cui gli stati debbano riconoscere l’autorità”. I suoi avversari trovano pretestuose e devianti quelle giustificazioni e non cessano d’attaccarlo. Il XIX congresso universale di Ginevra, che si tiene mentre gli italiani combattono sulle sabbie libiche, è tutto una dura requisitoria contro la penisola. I delegati accusano: “I pacifisti italiani hanno subito l’ubricatura colonialista”. La misura di quanto incidono sull’animo dell’ex garibaldino quelle ripetute accuse è data dall’insistenza con la quale egli porta a conoscenza dei confratelli i retroscena che 11 Il frontespizio del “Compendio” che Moneta pubblicò nel 1904. Cent’anni fa il giornalista ERNESTO TEODORO MONETA riceveva il Nobel avevano improntato le decisioni dei pacifisti di Milano d’accettare il conflitto e la risoluzione di non prendere parte all’assise nella città del Lemano, da alcuni giudicata quale espediente per sottrarsi al redde rationem. Fa sapere che nella riunione che si era tenuta alla vigilia della guerra i pacifisti, com’era noto, s’erano divisi in due fronti. “Io tentai di conciliare ultimamente queste due tendenze. Non mi fu possibile. E allora mi chiesi: dobbiamo noi recarci innanzi agli stranieri ad offrire questo spettacolo di discordia quando invece sarebbe necessaria un’affermazione energica di compattezza. Così decidemmo l’astensione”. In realtà, con la scusa che il rapporto del relatore avrebbe pregiudicato la serenità del congresso, l’Unione lombarda e le associazioni italiane avevano deciso di non partecipare all’assise. L’Italia però non fu del tutto assente. Vi presero parte a titolo personale alcuni delegati nostri che tentarono di rimbeccare gli oratori critici verso il nostro paese. I reduci del congresso, una volta rientrati in Italia, furono a loro volta rimproverati per avere disatteso le direttive. Effettivamente nel suo rapporto ai congressisti, Charles Albert Gobat, uomo politico svizzero, presidente del Bureau international de la paix, e premio Nobel per la pace del 1902, lanciò dure accuse contro i soldati italiani denunciando atrocità commesse in terra libica. M M oneta dapprincipio si dichiara a favore della pace “ma di una pace che non favorisca la Germania”. Il pacifismo, non disgiunto dall’amore verso il suo paese, gli impone d’aderire all’impegno patriottico. Il 5 febbraio del 1915 scrive su La vita internazionale. “Nel momento attuale la nostra condotta è tracciata dal grande scopo che abbiamo sempre perseguito: la pace non soltanto per il nostro paese, ma per tutti i popoli già travolti dalla guerra o da essa minacciata. Ma si tratta di una pace ben definita. Se questa pace potesse darla una forte lega di neutri o la vittoria di uno dei belligeranti, che essa sia la benvenuta e tutti i popoli la benediranno; ma se invece dovesse essere una pace quale la Germania oggi desidera, pace foriera di nuove guerre quando, cresciute una o due generazioni, saranno rimarginate le piaghe della presente carneficina, meglio sarebbe che questa conflagrazione continuas- 12 entre nei diversi fronti gli uomini si combattono e si uccidono, il pensiero di Moneta è rivolto alla futura pace. Conformandosi agli europeisti classici, prefigura un nuovo assetto del continente. Con questo intento nel 1916 pubblica uno studio di Pietro Bonfantini, esperto di diritto, considerato uno dei più illustri maestri della moderna scuola giuridica italiana. Bonfantini pensa che il primo nucleo dell’Europa debba essere un’unione latina italo-francese, uno stato con 80 milioni di cittadini con capitale Nizza e un ordinamento costituito da due parti ben distinte, una riguardante i popoli, l’altra le basi e gli organi dello stato: piena parificazione dei diritti di cittadinanza con uguale godimento di diritti civili e politici; unità di codice penale e civile; moneta unica; unica barriera doganale; esercito e marina comuni. Alla presidenza sarebbe stato chiamato alternativamente un transalpino e un italiano; il francese sarebbe stato adottato quale lingua per gli affari. Attorno a questo primo nucleo si sarebbe dovuta formare una Federazione europea che più tardi avrebbe aggregato Germania, Austria e resto d’Europa. Bonfantini è convinto che “tra i popoli vincono coloro che a tempo opportuno sanno fondersi in una grande unità; chi si chiude tenacemente in se stesso non subisce soltanto un arresto, muore”. “Se un movimento verso la costituzione di maggiore unità non si svolge ora in Europa, questa vecchia culla della civiltà mondiale avrà in breve finito il suo ciclo e fra due secoli o meno, gli stati nazionali d’Europa sopravviveranno nel mondo come gli stati comunali d’Italia sopravvivevano nel secolo XIV”. se ancora per parecchi altri mesi, o se fosse necessario per qualche altro anno”. L’ex direttore del Secolo ritiene che il conflitto debba finire con una conciliazione basata su tali condizioni di piena soddisfazione dei diritti dei popoli grandi e piccoli che non possa essere più turbata da qualsiasi altro sogno d’imperialismo agognante a grandeggiare sulla rovina e sul martirio del popoli”. M entre nel paese si fa sempre più acceso il dibattito tra coloro che sono a favore della guerra e i contrari, s’accentua la posizione interventista e antigermanica di Ernesto Teodoro. Scrive ancora il 5 aprile, e sempre su La vita internazionale. “Tenerci in disparte mentre si combatte la grande lotta fra i difensori della libertà e della civiltà, contro i due imperi centrali che questi principi hanno calpestato è come servire la loro causa”. Sostiene che l’Italia debba prepararsi ad ogni cimento “per evitare che la pace si concluda lasciando insolute alcune delle più gravi questioni di nazionalità o imponendo modificazioni di territorio che rechino in sé il germe di future rivendicazioni”. In polemica con i neutralisti, i quali ritengono che anche senza la guerra l’Italia avrebbe potuto ottenere soddisfazione alle sue richieste territoriali, ricorda come anche nel 1866 il nostro paese avesse “già assaporato frutti amarissimi con la conseguenza che ai danni e alla vergogna della battaglia perduta si aggiungeva il fatto che l’Austria con il consenso di Bismarck potè conservare il Trentino, il Cadore e tutto l’Isonzo”. D a saggio politico e vecchio combattente per la pace, Moneta attende che si plachi la bufera e che ritorni l’armonia sia in Italia sia tra i suoi colleghi pacifisti internazionali. Nel 1913, a ottant’anni, totalmente cieco, nel mese di agosto si reca al XX congresso universale che si tiene all’Aia. Qui, sempre imbarazzato dal groppo che gli avevano provocato le accuse dei pacifisti internazionali, espone ancora una volta le ragioni che nel 1911 avevano portato gli italiani a non opporsi al conflitto, sollecitando una rappacificazione che di fatto poi avviene. In quell’occasione è inaugurato il Palazzo della Pace, finanziato dal magnate americano Andrew Carnage per la cui costruzione avevano contribuito i pacifisti dei diversi paesi (l’Italia aveva fornito i marmi del vestibolo). L’edificazione del complesso edilizio rendeva più paradossale la posizione dei pacifisti molti dei quali appartenevano a paesi che dal 1900 al 1913 erano stati al centro di conflitti. Tale assurdità era stata colta da un giornale tedesco il quale, mentre chiedeva ai congressisti i motivi che avevano determinato la nascita di quel palazzo, elencava il numero delle guerre che in quell’arco di tempo era stato scatenato nel globo: guerra russo-giapponese, guerra americana, guerra italo-turca, guerra balcanica... E non era ancora finita. A dimostrare, se ce ne fosse stato bisogno, l’estrema fragilità e l’ininfluenza della propaganda pacifista, interviene l’anno successivo il primo conflitto mondiale. La dichiarazione di guerra che l’Austria invia alla Serbia, ritenuta responsabile dell’assassinio degli arciduchi a Serajevo, divide subito gli italiani. La proclamata equidistanza tra la Triplice e l’Intesa, solleva contrapposizioni all’interno delle forze politiche e sociali che si ripartiscono in neutralisti, i quali invocano il rispetto di un articolo del trattato stipulato tra Germania, Austria e Italia, e interventisti che intendono cogliere l’occasione per ultimare la missione risorgimentale con il riscatto delle terre non ancora redente (Trento e Trieste). lanza sentendosi solidali nel mantenimento della libertà che stavano conquistando, lavorai sempre, anche nei momenti più difficile, per l’unione delle nazioni civili d’Europa, primissime la Francia l’Inghilterra, la patria vostra, la mia. Questa fede era in me rinsaldata dai principi di libertà e di umanità che tutti i nostri grandi ci tramandarono: Dante, Mazzini, Alberto Gentili, il precursore di Grozio e Carlo Cattaneo, che negli Stati Uniti d’Europa aveva veduto le maggiori guarentigie della libertà delle singole patrie”. I l pacifista pronuncia parole di guerra che però ritiene indispensabili. “I neutralisti ignorano che vi sono guerre necessarie le quali, combattute e vinte, assicurano alle nazioni vittoriosi millenni di vita indipendente e onorata; ignorano che da una sconfitta subita per una causa giusta, si risorge presto immancabilmente mentre lo starsene chiusi nel proprio egoismo quando popoli generosi ma deboli vengono assassinati da una feroce barbarie e la civiltà è minacciata nelle maggiori conquiste, è prova di tale mancanza di umani sensi da meritare il disprezzo del mondo civile e la certa condanna della storia”. Critica il neutralismo di Woodrow Wilson allineandosi sulle posizioni di Teodoro Roosevelt secondo il quale la neutralità assoluta andava a tutto vantaggio degli aggressori e avrebbe avuto l’effetto di prolungare il conflitto mentre l’intervento degli Usa l’avrebbe potuto abbreviare. Quattro giorni prima della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria ancora su La vita internazionale annota. “Questa guerra, la più crudele e più orribile che il mondo moderno abbia veduto, noi coi pacifisti di tutti i paesi, abbiamo lavorato moltissimi anni per scongiurarla. La sola vera grande colpevole è la Germania che l’aveva concepita e preparata da quarant’anni per realizzare il sogno di dominio sull’Europa e sul mondo. Combattere adunque i due imperi centrali e ridurli all’impotenza di continuare la loro impresa per l’asservimento universale sarà l’opera più umana, più civile, più meritoria nel grande periodo storico che l’Europa e il mondo attraversano”. Q uest’ardente impegno interventista gli procura ancora una volta violenti critiche da parte delle correnti pacifiste più intransigenti e utopistiche e numerosi attacchi anche dai confratelli tedeschi di cui si fa interprete con un articolo uscito il 2 giugno 1915 sul Berliner Tageblatt il deputato bavarese Ludwig Quidde. Questi, membro dell’ufficio della pace di Berna, mentre attribuisce la responsabilità della guerra alla Francia (sposando dunque la tesi del kaiser) respinge sdegnosamente le accuse contro i metodi militari tedeschi e sostiene le asserzioni del proprio governo secondo le quali la Germania affrontava una guerra difensiva. Moneta nega il preteso, scorretto, atteggiamento italiano a proposito della violazione del patto della Triplice ed esegue un exursus critico della recente politica tedesca volta a preparare il conflitto per una imperiale conquista. Quale prova della sua buona fede offre a garanzia la sua storia personale.“Ciò che è vero è che io, nato alla politica nel grande anno rivoluzionario del 1848, quando tutti i popoli insorgendo per la propria libertà ed indipendenza si scambiavano da un capo all’altro dell’Europa calde parole di fratel- C i vorrà una seconda guerra mondiale perché il vecchio continente accolga la lezione del giureconsulto. Quel piccolo nucleo di paesi da lui indicato, Italia e Francia, con l’aggiunta di Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo formeranno la Ceca, primo plesso d’unità europea che oggi raggruppa 27 nazioni. Anche la rivoluzione sovietica dà motivo a Moneta per giustificare la guerra che ha liberato i russi dal giogo zarista ed ha permesso loro di realizzare le aspirazioni dei patrioti risorgimentali. Quella lotta di liberazione, secondo il giornalista, non potrà che favorire gli Stati Uniti d’Europa rinnovando ed allargando lo spirito pacifista. Il suo interventismo non cala d’intensità neppure durante le tragiche giornate di Caporetto certo che “l’atroce dolore potrà essere confortato presto dalla vittoria”. Le notizie della ritirata non agevolano certo lo stato della sua salute. Ormai afflitto dalla totale cecità, vive nella sua villa di Tegnoso, in Brianza, assistito dai due figli (la moglie era morta nel 1899) Luigi ed Emilio, dilettato dai numerosi nipotini e coadiuvato dalla segretaria. Nonostante le precarie condizioni, il 28 dicembre 1917 vuole presiedere la riunione del comitato dell’Unione anche per rendere omaggio ad alcuni componenti dell’organizzazione i cui congiunti o sono morti in guerra o sono prigionieri, dispersi, oppure feriti. Sarà l’ultima uscita. In ogni caso egli non rinunzia ad esprimere il suo pensiero che è raccolto dalla segretaria. Nell’Almanacco della pace del 1918 fa scrivere che un rinnovato esame di coscienza lo induce a ripetere che “l’onore e insieme l’interesse nazionale, lasciavano aperta all’Italia una sola via: quella su cui nel 1915 si era arditamente incamminata”. O ttantacinquenne alla luce degli occhi che gli si è ormai spenta da oltre un quinquennio, sopperisce con una lucidità mentale che lo aiuta non solo a rintuzzare ancora e sempre le accuse degli intransigenti ma a indicare la linea al pacifismo italiano e a collegarlo con le correnti di pensiero più aperte. In un articolo del 5 gennaio 1918, ribadisce la sua posizione d’interventista coerente con il suo programma e sostiene la legge di Ettore Ciccotti che propone un premio ai combattenti e l’assegnazione, a loro e alle cooperative, di molte terre italiane incolte. In un altro intitolato Justitia et pax del 20 gennaio 1918, loda il discorso che il presidente americano Wilson ha tenuto al congresso e con il quale è condannata la diplomazia segreta mentre è lodata l’azione politica aperta, alla luce del sole. “I popoli non dovranno essere più trattati come minorenni incapaci d’intendere le proprie responsabilità”. Sarà l’ultimo compito assolto dal vecchio garibaldino. Colpito dalla polmonite, morirà il 10 febbraio 1918. Sei anni più tardi, nel 1924 il comune di Milano gli dedicò un busto (Ernesto Teodoro Moneta/Garibaldino/Pensatore Pubblicista/Apostolo della Pace/Fra libere genti) che fu eretto ai giardini pubblici vicino a quello di Carlo Porta. Il fascismo, lo rimosse qualche anno più tardi e così, fortuitamente, lo salvò dalla bomba che nel 1943 cadde proprio là dove c’era il monumento. Enzo Magrì ORDINE 4-5 2007