Inserto Moneta - Ordine dei Giornalisti

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Inserto Moneta - Ordine dei Giornalisti
Allegato al numero 4 -5 di Ordine Tabloid 2007
1907-2007 ERNESTO TEODORO MONETA
Cent’anni fa il giornalista riceveva il Nobel per la Pace
Quindicenne, partecipò alle Cinque giornate di Milano.
Successivamente, indossata la divisa del garibaldino, fece parte dello Stato maggiore di Giuseppe Sirtori, durante la
campagna nel Napoletano.
L’orrore che lo aveva assalito nel 1848, assistendo all’agonia di un militare austriaco ferito a morte dagli insorti
e l’insipienza di militari e politici durante la campagna garibaldina (e più tardi nel corso della Terza guerra d’indipendenza), lo convinsero dell’inutilità dei conflitti anche se restò un
consapevole militarista, favorevole a un esercito di popolo e
non professionista come in Svizzera.
Divenuto direttore del Secolo un anno dopo la sua uscita, assistito da quel mago del giornalismo che era Carlo
Romussi, portò il foglio al primo posto tra i giornali italiani.
Per le battaglie pacifiste sostenute attraverso le colonne
del foglio milanese, gli fu conferito nel 1907 il Nobel per
la pace. La sua lotta a favore degli ideali della convivenza pacifica non fu priva di contraddizioni.
Contrario al duello, fu costretto a sfidare prima Cletto
Arrighi, il celebre componente la Scapigliatura milanese, e poi il direttore di un giornale concorrente. Egli considerava legittima la guerra difensiva e la lotta per la salvaguardia
e la conquista della libertà e dell’indipendenza dei popoli.
Nel 1911 e nel 1915, non si oppose all’entrata in guerra
dell’Italia contro la Libia e contro la Triplice. Giustificò
la prima perché convinto che senza quel conflitto il nostro paese sarebbe stato considerato “una potenza senza valore” e che
un’opposizione dura avrebbe potuto fare cadere il governo
Giolitti e portare al potere i nazionalisti: scelse dunque il male minore; accettò la seconda perché la considerò un conflitto
a scopo difensivo, indispensabile per raggiungere l’unità nazionale.
Entrambe le decisioni furono aspramente criticate da
molti pacifisti stranieri anche se la stragrande maggioranza dei suoi confratelli delle diverse parti del mondo si trovarono impantanati nelle medesime implacabili contraddizioni.
Morì nella più completa cecità nel 1918.
L’apostolo della pace
che per carità di patria
approvò due guerre
di Enzo Magrì
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to. Ferito gravemente, questi emette i rantoli dell’agonizzante. Come Ernesto Teodoro racconterà più
tardi, s’era messo con giocondità infantile a fare la
rivoluzione e ad un tratto gli passava vicino lo spavento della morte, un’impressione che non potrà più
superare per tutta la vita. Considerava necessaria la
guerra per l’indipendenza, ma qualcosa dentro gli
tremava e lo turbava. Colpito dai terribili istanti del
trapasso dell’uomo, il fanciullo è stretto da numerosi dubbi circa l’utilità della guerra e della lotta armata. Gli si addensano nella mente molte domande
che al momento non possono ricevere risposta. Era
lecito che un popolo occupasse la terra di un altro
con il quale non aveva in comune né la razza, né la
lingua, né la storia? E perché l’oppresso popolo doveva essere costretto a ricorrere alla guerra, ad uccidere uomini che individualmente non avevano
nessuna colpa? Quegli interrogativi erano i primi semi dell’idea pacifista che in Ernesto Teodoro germoglieranno con il crescere dell’età e durante una
giovinezza trascorsa fra i campi di battaglia del
Risorgimento, cui darà un suo non secondario contributo.
Moneta era il terzo di tredici figli di Carlo Aurelio,
un piccolo imprenditore milanese che aveva ereditato dal padre una fabbrica di detersivi ubicata lungo il Naviglio, presso la Pusterla dei Fabbri, là dove oggi si stende l’area tra via San Vincenzo e via
Cesare Correnti.
vente determinata da circostanze particolari come
quelle che coinvolsero Moneta in un momento storico dominato dal nazionalismo e dell’esasperato
bellicismo ma anche dall’eccessiva gravezza attribuita al concetto di Patria quando ancora non si era
completato il ciclo di formazione degli stati europei
e molti popoli combattevano per conquistare l’indipendenza.
A
nche i giornalisti italiani come i poeti, i chimici, i
fisici e i letterati loro connazionali, possono vantare un premio Nobel. È quello che nel 1907, cento anni addietro, Kristiania (Oslo) consegnò a
Ernesto Teodoro Moneta. Diversamente da quanto
accade per gli altri nobel nostrani però, di questo
giornalista garibaldino oggi si ricordano in pochi
perché quel riconoscimento è stato negligentemente dimenticato se si fa eccezione per un francobollo
commemorativo emesso nel 1983 e per una strada a
lui intitolata ad Affori. All’oblio hanno sicuramente
contribuito due fattori: il fascismo bellicista che fece rimuovere dai giardini pubblici di Milano il busto dedicato a Moneta (pur sempre rappresentante
dell’italietta imbelle e pacifista) dallo scultore
Tullio Brianzi nel 1924 e la contraddittorietà della
sua linea di condotta, inevitabile conseguenza del
clima storico politico dell’epoca. Sognatore della
concordia e dell’armonia fra le genti, ma anche militarista, proclamava la necessità che lo stato italiano disponesse d’un esercito di popolo, come quello
svizzero. Nemico del duello, sfidò e ferì Cletto
Arrighi, l’esponente della Scapigliatura che gli aveva dato del pusillanime mentre più tardi scese ancora una volta sul terreno affrontando il direttore del
giornale Lombardia che aveva insinuato sospetti
d’affarismo su una missione del Secolo a favore dei
colerosi di Napoli. E non è tutto. A completare questo quadro di forte, anche se apparente antinomia, è
obbligo ricordare che l’apostolo della pace (come fu
soprannominato), nel 1911 si pronunciò a favore
dell’intervento militare italiano in Libia, scatenando
durissime critiche tra i pacifisti europei che si ripeterono ancora più imbruschite quattro anni più tardi, nel 1915, quando diede il suo benestare all’entrata del paese nel conflitto europeo schierandosi a
favore degli interventisti.
L’incoerenza, che talvolta costringe gli uomini a venir meno ai principi cui ispirano la loro vita, è so-
L’
amore per la patria e l’amore per il prossimo,
due sentimenti che sulle barricate d’una rivoluzione parrebbero in scoperto conflitto, si manifestarono contemporaneamente nell’animo di
Ernesto Teodoro Moneta in uno dei momenti più
tragici e difficili della storia meneghina e
dell’Italia.
Il 18 marzo 1848 segna la prima delle Cinque giornate durante le quali i milanesi si scontrano con gli
oppressori austriaci. Mancano le armi. Carlo
Aurelio Moneta, il padre di Ernesto Teodoro, un patriota entusiasta, aveva suggerito ai propri figli nei
giorni precedenti gli eventi che in caso di rivolta, in
mancanza di fucili e pistole, avrebbero potuto utilizzare pietre e mattoni ammonticchiati in cantina.
Il ragazzo insieme con i suoi cinque fratelli maschi,
trasferiscono il materiale sotto le dieci finestre di casa, iniziativa che il sciur Carlo Aurelio loda parecchio. La mattina in cui s’inasprisce la lotta contro
gli austriaci, i Moneta contribuiscono alla battaglia
lanciando dalle finestre della loro abitazione quei
residui d’edilizia contro le pattuglie che fronteggiano i patrioti. Il 21 marzo, quarta giornata della lotta, morti e i feriti non si contano più. Un graduato e
due militari stranieri, raggiunti da colpi di moschetto nei pressi dell’abitazione dei Moneta sono creduti morti e trascinati in una piazza vicina. Più tardi,
durante una pausa degli scontri, Ernesto Teodoro,
quindicenne, e un paio dei suoi fratelli, escono di
casa, e curiosano qua e là tra le barricate. Nella
piazzetta s’imbattono nei tre militari austriaci, bersaglio dei rivoltosi, uno dei quali non è ancora mor-
L’
aspirazione alla libertà e all’indipendenza, la peculiare atmosfera del Risorgimento che si respira in regioni come la Lombardia nel 1848, non è
un ideale politico letterario che mobilita gli intellettuali e i grandi borghesi, ma un sentimento
copiosamente diffuso nelle diverse categorie sociali dove è viva e palpabile l’avversione verso gli
occupanti austriaci. Non per niente nel 1849, alla
vigilia della scoppio della Prima guerra d’indipendenza, il giovane Ernesto Teodoro, che si distingue
per l’accesa propaganda patriottica svolta all’inter-
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Cent’anni fa
il giornalista
ERNESTO
TEODORO
MONETA
riceveva il Nobel
no del liceo Brera (poi diventato Parini) è costretto
a lasciare Milano. Ma non per un’azione d’attivista
patriota, bensì per un banale incidente con un ufficiale dell’esercito invasore. Un giorno, uscendo da
scuola, inciampò inavvertitamente sulla sciabola del
militare con il quale s’era incrociato. Cadendo a terra, il ragazzo imprecò contro l’uomo il quale, entrato nell’istituto, pretese dal preside il nome dello studente per denunciarne il comportamento.
Per sottrarsi alle conseguenze che avrebbe sicuramente sortito quella segnalazione, Ernesto Teodoro,
su consiglio del padre, fugge a Genova dove, attraverso il Comitato lombardo per l’emigrazione, tenta d’arruolarsi in una qualche compagine mobilitata contro l’Austria. Respinto per la sua giovane età
(ha sedici anni), è indirizzato alla scuola militare
d’Ivrea che tra l’altro ospita molti ufficiali e volontari i quali non hanno potuto far parte della
Divisione Lombarda. Nella cittadina canavese, tra il
23 e il 24 marzo 1849, il giovane assiste alla disastrosa ritirata delle colonne degli sbandati reduci
della sconfitta di Novara, quella che costrinse Carlo
Alberto ad abdicare in favore del figlio Vittorio
Emanuele II.
Quando poco più tardi rientra a Milano, il ragazzo
è costretto a fare i conti con la difficile situazione
che sta attraversando la sua famiglia. Morto il padre, le condizioni economiche della casata sono dissestate e l’agiatezza d’un tempo è solo un ricordo
anche per via di una causa che il defunto genitore
ha intentato e perso contro l’Ospedale Maggiore.
Alle pene sue particolari, si aggiungono le disgrazie
della Lombardia ricaduta ancora sotto la dominazione austriaca la quale, nel timore di altri sussulti
rivoluzionari, pone in atto energiche azioni repressive.
La pace dei liberi
e dei forti
Molti si meraviglieranno che mentre in molte
pagine del libro combattiamo il culto della guerra,
in altre si esalta il coraggio dei combattenti per la
libertà e per la patria e si indicano i fattori della
vittoria; l’autore risponde che la pace al cui
trionfo ha dedicato tutte le sue forze, deve essere
la pace dei liberi e dei forti.
Dal Compendio
Moneta in divisa da ufficiale in sella ad Arturo, un baio di razza
ungherese, preda di guerra, che lo seguì nelle diverse operazioni
della campagna garibaldina del 1860 nel meridione d’Italia.
Q
uando nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, il
Piemonte e il Lombardo lasciano la rada di
Quarto, il giovane non è tra i Mille. Il generale
Sirtori, impegnato nell’organizzazione della missione, s’è dimenticato d’avvertirlo dell’imminente partenza per il meridione d’Italia. Solo quando il Lombardo è in alto mare e naviga alla volta del
Sud, Enrico Moneta, fratello di Ernesto Teodoro,
accolto fra i volontari, chiede al comandante della
spedizione di conoscere dov’è alloggiato il proprio
congiunto. Sirtori, stizzito, si batte la fronte con il
palmo della mano, e smoccola in dialetto lombardo
che s’era scordato di avvertire il ragazzo.
Ernesto Teodoro è uno tenace. Raggiunge la spedizione un mese più tardi, il 10 giugno, con i novecento che al comando di Giacomo Medici del
Vascello s’imbarcano sui tre piroscafi Washington,
Franklin e Oregon, acquistati con l’aiuto del governo in Francia e posti sotto il comando dell’americano William De Rohan, amico di Garibaldi. Nelle
stive, i battelli trasportano ottomila fucili e materiale per ambulanza e. Moneta e gli altri il 17 giugno
sbarcano a Castellammare del Golfo da dove raggiungono Palermo, città nella quale Sirtori ha assunto la carica di prodittatore della Sicilia.
Dopo essersi appuntati ancora una volta sulla divisa i gradi di sottotenente, il volontario lombardo
s’aggrega al contingente del generale comasco
dov’è chiamato a fare parte dello Stato maggiore
con le funzioni d’ufficiale di collegamento. La vicinanza del fronte, contribuisce a fare insorgere i lui i
tristi ricordi di quegli orrori che lo avevano assalito
nella quarta delle Cinque giornate di Milano e a frugacchiargli la vocazione pacifista che dorme in
qualche piega della sua anima. Precedendo i garibaldini, egli, sbarcato in Calabria diretto a Napoli,
s’imbatte nelle truppe borboniche sconfitte a
Milazzo che risalgono disordinatamente la regione.
Tra di loro fa opera di convincimento affinché depongano le armi e si uniscano a Garibaldi. Alcune
settimane più tardi, nel disperato tentativo di riconquistare il capoluogo campano, Francesco II di
Borbone fa schierare cinquantamila uomini alla destra del Volturno. Le forze garibaldine sono allineate su un ampio semicerchio che da Santa Maria
Capua Vetere, tocca Maddaloni, passando per le
pendici del monte Tifata e la zona collinosa di San
Leucio e di Caserta Vecchia. Moneta, in sella ad
Arturo, un baio di razza ungherese, preda di guerra,
galoppa quotidianamente fra Caserta, sede del quartier generale, Maddaloni, dov’è schierato Nino
Bixio, Santa Maria Capua Vetere e Sant’Angelo dove staziona Giuseppe Garibaldi. Un giorno degli
inizi di ottobre, il presidio di Castelmorrone, tenuto
dal maggiore Pilade Bronzetti, dopo avere combattuto strenuamente con i suoi 227 garibaldini per
un’intera giornata è costretto a cedere all’impeto dei
borbonici. L’ufficiale muore insieme con molti dei
suoi uomini.
La caduta del presidio avrebbe potuto mettere in pericolo il quartier generale di Caserta. Ernesto
Teodoro, cavalcando con tenacia e dedizione, riesce
ad allertare i comandanti dei presidi di Caserta,
Maddaloni, Santa Maria Capua Vetere e Sant’
Angelo che si mobilitano per arginare la difficile situazione del fronte. Il giorno successivo i garibaldini riescono a neutralizzare prima e a imbottigliare
poi l’intera colonna borbonica che s’arrende.
Sempre come ufficiale di collegamento, il giovane
milanese percorre a cavallo il Napoletano e la
Calabria e partecipa anche alla lotta contro il brigantaggio.
Quando nel 1864 il suo reparto è smobilitato, egli se
ne torna a Missaglia con il suo Arturo al quale concede pascoli verdi e rilassanti cavalcate. Quell’anno,
per l’aggravarsi della ferita riportata in combattimento, muore il fratello Giovanni mentre altri tre
congiunti, Pompeo, Epifanio ed Enrico emigrano in
Argentina.
L
a precarietà finanziaria dei suoi e l’opprimente presenza degli occupanti non fanno venir meno nel
giovanotto l’impegno patriottico tanto che comincia a collaborare con gli unitari della Società
nazionale, una compagine organizzata da
Daniele Manin e da Trivulzio Pallavicino, favorevole alla creazione d’un fronte comune con i
monarchici per una soluzione unitaria del caso
italiano. Fra il 1849 e il 1851, Ernesto Teodoro collabora all’Unità Nazionale e al Piccolo Corriere
d’Italia, due fogli diretti dal Pallavicino del quale
prende poi il posto allorché il patriota non potrà più
dirigerli essendo divenuto cieco. Le due pubblicazioni gli consentono di restare in contatto con i piemontesi. Da questi nel 1858 apprende l’apertura
della campagna degli arruolamenti nella compagnia
dei Cacciatori delle Alpi, la formazione dei volontari emigrati dalle diverse regioni italiane in
Piemonte che comprende tre reggimenti sotto il comando di Giuseppe Garibaldi. Il fervore patriottico
infiamma anche alcuni dei suoi fratelli; Eugenio, il
primogenito, Pompeo, Epifanio, Enrico, Agostino e
Giovanni che entrano fra le fila del generale.
Ernesto Teodoro raggiunge subito il grado di sottotenente ma non ha alcuna occasione di ricevere il
battesimo del fuoco, Giovanni Moneta invece partecipa a una battaglia ed è ferito gravemente a un
braccio.
Diversamente dalla Prima guerra d’indipendenza,
questa Seconda, preparata da Cavour sul piano politico e diplomatico e da Alfonso La Marmora, su
quello tecnico militare, parve prendere l’indirizzo
giusto. Stretta l’alleanza con la Francia, il Piemonte
respinse l’ultimatum austriaco. I piemontesi sconfissero i nemici a Montebello e a Palestro, mentre
Napoleone III decise di marciare verso Milano dove entrò insieme con Vittorio Emanuele II.
Nonostante l’assunzione del comando delle sue
truppe, l’imperatore Francesco Giuseppe fu battuto
a Solferino e a San Martino e Garibaldi conseguì
una serie d’altri successi al nord. All’amara delusione del trattato di Villafranca, seguì il miracolo
delle annessioni dell’Italia centrale che realizzarono
il disegno della costituzione dello stato italiano.
In quei giorni il giovane milanese torna alla direzione dell’Unità nazionale ma come molti patrioti
non smette di porgere l’orecchio al prossimo cupo
rimbombo del cannone. E quando si diffonde la voce che Garibaldi sta preparando la spedizione in
Sicilia, e che il comasco Giuseppe Sirtori, deputato
alla Camera del parlamento subalpino (nominato
capo di Stato maggiore), sta studiando un piano
d’intervento, egli vibra d’entusiasmo. Sirtori è stato
suo comandante nella campagna del 1859. Inoltre,
Ernesto Teodoro, che in quel periodo dimora nel
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di Giuseppe Sirtori. La pasticciata campagna militare (che per la prima volta nella storia vede schierato in armi l’esercito italiano), contrassegnata da
gravissimi errori dovuti ad incomprensioni ed invidie tra gli ufficiali superiori, si conclude come si sa
con le sconfitta di La Marmora (poi sostituito da
Cialdini) e di Persano a Lissa, nonostante la nostra
superiorità numerica sia a terra sia in mare.
L’abituale presenza tra i vertici militari, ha offerto a
Moneta l’occasione per rendersi conto di quanto accade dietro le quinte della guerra: egoismi nelle alte gerarchie, rivalità fra generali, veti che paralizzano i comandi, gelosie, personalismi, insipienza di
alcuni comandanti, impreparazione e faciloneria di
molti militari che neutralizzano ordini e decisioni.
Non gli sfuggono neanche i retroscena delle azioni
diplomatiche destinate a restare negli archivi ma
che creano sconcerto e disgusto in chi non coltiva
indifferenza e cinismo. Tutto quest’insieme di esperienze scuote la sensibilità del generoso sognatore
Ernesto Teodoro il quale ne resta sconcertato.
Il turbamento lo porta a trarre inevitabili conclusioni. Riscontra come le vite di decine di migliaia di
uomini siano messe in gioco da personaggi privi
d’idee chiare, senza piani sicuri e senza una sufficiente preparazione né morale né materiale. Si domanda: “Se complotti, trattative e manovre diplomatiche vincolano i capi di stato e impongono direttive agli stessi strateghi, perché allora non abolire la guerra e sviluppare a fondo una seria azione
politica?” Si convince risolutamente che il conflitto
è un fenomeno storico ormai superato e che non vi
sono problemi o argomenti che i diversi popoli e i
loro governi non possano affrontare attraverso accordi liberamente negoziati.
I risultati della campagna del 1866 sono una lucente verifica del suo ragionamento. L’Italia era scesa
in guerra per conquistare il Veneto che aveva ottenuto, nonostante le sconfitte subite, attraverso la
mediazione di Napoleone III, al quale l’Austria aveva consegnato la regione perché la passasse a noi.
Quell’esito utile al paese aveva fatto dimenticare
agli italiani le ferite e le umiliazioni subite.
Il giovane Moneta non può darsi pace. Ricorda gli
errori commessi dagli strateghi in quell’occasione.
Stigmatizza il patriottismo ottimista pieno di fede
nella virtù degli italiani e nella fortuna, il famoso
stellone d’Italia. Rimarca la nostra approssimazione.“Poiché negli anni precedenti si erano ottenuti
grandi risultati con sforzi relativamente piccoli e gli
errori degli uomini erano stati volti in fortuna, si era
diffuso nel paese un sentimento d’illimitata fiducia
negli eventi futuri”.
Se ci si fa caso, è lo stesso comportamento che i governanti italiani terranno nella prima e nella seconda guerra mondiale. La Storia non insegna nulla.
suo podere, l’Agazzino, a Missaglia, incontra quasi
quotidianamente il generale che risiede a Casatenovo, un paese limitrofo, situato nella stessa provincia di Como. Il giovanotto si fa promettere dal
condottiero garibaldino che al momento opportuno
sarà avvertito e potrà essere della partita.
N
onostante la delusione subita al momento della
smobilitazione, nel 1866 con il sopraggiungere
della Terza guerra d’indipendenza Ernesto
Teodoro torna ad indossare la divisa. Arruolatosi
nella divisione Alpi, rientra nello Stato maggiore
E
rnesto Teodoro enumera gli altri eventi negativi che
avevano marcato l’unità d’Italia: la mancata fusione tra il vecchio esercito piemontese e i migliori elementi del corpo dei garibaldini, l’inesistente educazione patriottica del soldato e specialmente degli ufficiali, la quasi totale assenza di
carte topografiche negli alti comandi, l’insufficienza dei servizi d’informazione (per cui le mosse del
nemico erano conosciute il giorno successivo), il
pessimo servizio logistico così che i fanti restavano
senza rancio e senza servizi sanitari, e soprattutto
l’adozione di due piani militari, quello del generale
La Marmora e quello del generale Cialdini, un colpevole disguido che determinò una dannosa dispersione di forze su un arco di 40 chilometri.
Ma l’errore fondamentale che pregiudicò l’andamento di tutta la campagna fu, a parere del Moneta,
la convinzione di La Marmora che l’Austria avrebbe offerto una resistenza puramente passiva e che
l’Italia non dovesse impegnarsi troppo a fondo, giusto le raccomandazioni dell’imperatore francese. La
stessa cosa accadrà nel 1940.
Insomma si convince che le guerre non risolvono i
problemi né secondo giustizia né secondo finalità
storiche. E allora si domanda: ma è possibile che
l’umanità dopo migliaia di anni non ha capito queste cose e non sappia trovare un altro modo che non
sia lo scontro armato per risolvere i conflitti internazionali?
Questa serie di riflessioni, che innaffia il germe del
suo pacifismo, lo induce ad abbandonare definitivamente la vita militare, a rivestire gli abiti borghesi e
a tornarsene in Lombardia deciso a trovarsi un’occupazione civile.
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F
orte dell’esperienza che aveva maturato come collaboratore prima e come facente funzioni di direttore poi all’ Unità nazionale e al Piccolo
Corriere d’Italia, i due giornali di Giorgio
Pallavicino, inizia a scrivere sulla Gazzetta di
Milano e successivamente sul Secolo, due testate
che fanno parte della scuderia di Edoardo
Sonzogno. Il primo foglio, uscito nel 1859, era in
pratica la vecchia Gazzetta ufficiale di Milano, giornale protocollare degli austriaci. Abbandonato dagli
invasori, il foglio, mutato il logo in Gazzetta di
Milano, aveva continuato le sue pubblicazioni puntando sulla collaborazione dello scrittore Girolamo
Rovetta. Il Secolo era apparso il 5 maggio del 1866.
Nell’arco d’un anno si erano avvicendati sulla poltrona direttoriale i pubblicisti Eugenio Ferro e Carlo
Pisani che non erano riusciti a far decollare la testata nonostante questa ospitasse firme come quelle di
Eugenio Torelli Viollier (un napoletano che era stato segretario particolare di Alessandro Dumas al
tempo in cui lo scrittore francese seguiva la campagna di Giuseppe Garibaldi), Antonio Ghislanzoni,
scrittore di romanzi e novelle, e lo stesso Ernesto
Teodoro Moneta, il quale, attingendo alla sua passione teatrale, firmava una rubrica di cronaca degli
spettacoli. Tra le forti personalità che lavoravano al
Secolo c’era anche Felice Cavallotti, scrittore ed
uomo politico che per le sue campagne contro il trasformismo e le tendenze autoritarie di Crispi si conquisterà il soprannome di “bardo della democrazia”.
Ad organizzare il foglio, e a comandare insomma in
“sala macchine”, era impegnato un giovane avvocato dal moderno sentire, Carlo Romussi. Nonostante
la presenza di questo mixer professionale il giornale non riusciva però a prendere quota.
Nel settembre del 1867, Eduardo Sonzogno cambia
ancora una volta direttore e vi insedia il critico teatrale, proprio Ernesto Teodoro Moneta. In pochi
mesi il Secolo, che per oltre un anno era andato alla ricerca d’un suo profilo, trova la sua linea editoriale. A partire dalla presa di direzione di Moneta,
la testata impersona quanto di patriottico, d’idealista e d’impazientemente innovatore c’è nello spirito della popolazione milanese e di quella italiana.
Nel primo fondo del 16 settembre, il neodirettore
enuncia i temi per i quali si batterà. In primo luogo
la militarizzazione del paese, che diventerà poi il
mito della nazione armata; quindi la riforma della
pubblica amministrazione. Altri punti fermi dei suoi
propositi sono la formazione d’un’educazione nazionale “virile e saggia”, l’impegno per la creazione dell’unità morale del paese, la fucinatura del carattere nazionale, il contributo per la creazione d’una opinione pubblica e il tentativo di rendere ciascuno responsabile del proprio operato.
Il piemontesismo rovina
di esercito e burocrazia
La fiducia di Cavour e dei ministri della guerra del tempo (Seconda guerra d’indipendenza) era
naturalmente riposta nell’ufficialità dell’esercito regolare e da buon sergente, divenne ufficiale e coll’andar
del tempo capitano; chi sarebbe stato un discreto tenente divenne capitano e poi maggiore; il capitano, il
maggiore divennero presto colonnelli e generali.
Saliti tali gradi della gerarchia militare, ai quali essi medesimi non avrebbero mai pensato, questa si ricorse
di preferenza per riempire i quadri straordinariamente ampliati di tutto l’esercito italiano (dopo il 1861).
Così il semianalfabeta, che sarebbe rimasto sognato d’arrivare, videro nella lettera dei regolamenti e nelle
manovre di piazza d’armi il non plus ultra dell’arte militare, ignari com’erano, i più fra essi, di scienza e di
storia militare, e alle prime difficoltà non prevedute nella fatale giornata del 24 giugno 1866 si trovarono
disorientati. Ciò che avvenne nell’esercito si ripeté su più vasta scala nell’amministrazione civile. Non si
andarono a cercare gli uomini delle vecchie amministrazioni di Lombardia, della Toscana e del Napoletano.
Si fece invece largo posto così ai giovani alunni, come alle vecchie cariatidi della burocrazia piemontese.
Dal Compendio
te sfidando a duello Cletto Arrighi il cui vero nome era come si sa Carlo Righetti.
Tra le molte polemiche che agitavano il mondo culturale milanese c’era anche quella attorno al verismo, o sullo zolismo, come scrivevano alcuni. In un
pezzo del giugno 1872, Carlo Romussi si era lanciato con il suo solito impeto contro la nuova corrente letteraria accomunando nella critica Emil
Zola, Giovanni Verga e Cesare Tronconi, un letterato milanese nella cui opera si uniscono insieme l’indagine sociale e un erotismo torbido. L’intervento
aveva fatto arricciare il naso ad Arrighi, che con il
suo romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio aveva
introdotto nel campo delle lettere il concetto di
bohème che poi si era tradotto nella Scapigliatura.
Righetti, autore anche di Canaglia Felice e di Nanà
a Milano, aveva cominciato a collaborare con il
Secolo dove aveva tenuto una rubrica sui venerdì
letterari. Nel 1867, in coincidenza con l’arrivo di
Moneta, se n’era andato e aveva fondato un suo
giornale, Cronaca Grigia.
La questione del Verismo intossica i rapporti tra il
giornaletto di Arrighi e il Secolo. Non c’è iniziativa
che il giornale di Moneta promuova che non sia criticata o irrisa da Cronaca Grigia. Per il suo taglio
popolare, il Secolo è giudicato dal mondo intellettuale milanese un foglio di basso livello e presto è
battezzato il “giornale delle serve” al quale non è
dunque consentito d’occuparsi di problematiche intellettuali come quelle relative ad una corrente letteraria. La fase culminante dello scontro tra le due
testate non avviene sul terreno della narrativa bensì
su quello del costume, allorché nel mese di luglio
Moneta intraprende una campagna contro il duello.
La sfida tra due avversari, uno dei quali ha chiesto
all’altro la riparazione con le armi d’un’offesa ricevuta, era un fenomeno molto diffuso in quegli anni.
Il duello era stato praticato per secoli dall’aristocrazia. E questa, come scrive Jacopo Gelli, si era vendicata della sconfitta storica subita regalando alla
borghesia, nuova arrivata nella Storia, i suoi vecchi
ferri.“E mentre il borghese irride i titoli nobiliari, si
affanna dietro una miserabile croce di cavaliere e
sfida a singolar tenzone e quando può uccide chiunque gli ostacoli la via del piacere, della ricchezza o
della vanità”. Scendere sul terreno era una pratica
molto diffusa particolarmente in due categorie sociali sempre disponibili ai battibecchi e alle polemiche: i parlamentari e i giornalisti. Il malcostume era
stato già eliminato per legge negli Stati Uniti mentre resisteva in Europa. Nel nuovo mondo, se un ufficiale si era battuto in duello era cacciato dall’esercito.
ché siano attuati concretamente quegli ideali che lo
avevano condotto sui campi di battaglia.
L’
affare della règia dei Tabacchi, una privatizzazione per la quale si sospetta la corruzione d’un
gruppo di deputati governativi, mentre provoca
un clamoroso processo a Firenze nel quale è condannato il Gazzettino Rosa, responsabile delle rivelazioni, dà origine alla prima “ventata rossa”
in Italia che in un certo qual modo coinvolge anche Il Secolo, il quale marca ancora di più la sua
posizione di oppositore di sinistra.
A tre anni dalla sua uscita in edicola, ora il foglio
riscuote parecchio successo che si consolida e progredisce a partire dal 1870. Durante un suo soggiorno a Parigi, Edoardo Sonzogno ha occasione
d’esaminare i giornali della vicina repubblica i quali contengono poca politica (al contrario di quelli
italiani dove abbonda), molta cronaca e tanto varietà: notizie curiose, rubriche di moda e mondanità,
giochi enigmistici e un angolo di lettura amena: i romanzi d’appendice.
Italianizzata da quel mago del giornalismo che era
Carlo Romussi, la formula francese è applicata al
Secolo che diviene così il primo giornale italiano
edito su base industriale e che ha per unico scopo
quello d’essere venduto al pubblico e di presentarsi
quale vero giornale d’informazione. La politica non
è mai un impegno ideale (ufficialmente il foglio non
appartiene a nessun partito) ma un mezzo per smerciarlo.
Mentre i cronisti di Romussi rovistano quotidianamente, nel mattinale della questura, il brogliaccio
dalla copertina nera (dal quale nascerà la dizione
“cronaca nera”), il giornale di Moneta contribuisce
con le sue sollecitazioni al Comune a creare a
Milano asili notturni per i poveri, cucine economiche, case per i lavoratori e anche un fondo per il
S
i tratta pressappoco degli stessi obiettivi che si propongono di raggiungere i radicali italiani.
Moneta precisa che mentre quelli “vogliono
mettere il carro davanti ai buoi noi vogliamo
l’opposto”.
Il giornale della prima gestione monetiana non ha
ancora una sua chiara identità politica. Oscilla tra
“Se complotti trattative e manovre diplomatiche
vincolano i capi di stato e impongono direttive
agli stessi strateghi, perché allora non abolire la guerra
e sviluppare a fondo una seria azione politica?
‘
posizioni di destra e di sinistra: mentre osteggia il
comitato d’azione di Garibaldi per la presa di Roma,
convinto, come la destra, che lo Stato pontificio cadrà da sé nelle mani italiane, poco più tardi se la
prende contro il governo Manabrea che impedisce
una manifestazione in favore del generale. Era il
momento in cui nella penisola s’intrecciavano e si
contrastavano da un lato l’anima garibaldina dei democratici, per i quali il Risorgimento era stata più
opera dell’eroe dei due mondi che di Cavour, e dall’altro lato l’esigenza della ricostruzione del paese e
dell’ordine, il limite moralistico del dovere, la fiducia nel progresso scientifico. Moneta ritiene che il
giornalismo abbia da assolvere ad un’alta missione
educatrice della quale si sente investito. Il fondo che
scrive quasi quotidianamente è contrassegnato dal
titolo Rassegna politica. Egli non si limita a delineare la sua obiettiva posizione ma s’impegna nella
lotta politica, polemizza, dibatte. In lui vibra sempre
la corda del patriottismo, il sentimento di colui che
ha lottato per l’indipendenza dell’Italia e si batte
perché i frutti di quell’unità nazionale raggiunta con
difficoltà, non vengano compromessi “né dalla diffidenza, né dalla miopia di quelli che sono venuti
dopo”. Si cruccia per il cinismo che pervade la politica. Scrive che dopo i primi passi sulla via della
liberazione “siamo ripiombati in quel medesimo
stato di letargo e di mollezza che eccitava un secolo fa l’ira di Vittorio Alfieri”. Scopre che appena affacciatasi “al limitare della via nazionale”, quando
tanti problemi suscitati dalla moderna civiltà chiedono la loro soluzione all’energia delle menti e della volontà, “l’Italia si ritrova tutti i vizi della decadenza inoculati nel sangue”. Ammonisce quanti si
sentono stimolati dal nuovo Risorgimento a mirare
ai grandi principi della politica, ad occuparsi meno
delle quisquiglie quotidiane e a tralasciare le piccole lotte che a nulla approdano e ad occuparsi invece
“un po’ più delle cause che fanno la grandezza delle nazioni e il bene dell’umanità”. Diversamente dai
tantissimi che, sfiduciati dalla nuova realtà nazionale, si erano arresi all’oscitanza, egli s’impegna per-
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’
consolato operaio. Quale momenti d’evasione, il foglio offre ai suoi lettori romanzi di Ponson du
Terrail, Gustave Aymard, Xavier de Montepin.
Moderato d’indole, Ernesto Teodoro è spesso costretto a frenare le irruenze di Cavallotti e del suo
redattore capo Romussi. Ma anche lui, su certi temi,
assume posizioni ferme e decise. Quando nel 1870
la Perseveranza fa pressioni sulla giunta comunale
di Milano perché si eriga un monumento a
Napoleone III, egli si ribella ed i suoi interventi costringono il governo comunale ad annullare la delibera e ad erigere una stele ai martiri delle Cinque
giornate. Laico intransigente, si batte sul fronte dell’anticlericalismo. Il suo è un laicismo di stampo illuministico che si è inasprito dopo il 1870 e accende appassionate polemiche alle quali il giornale non
manca di prendere parte. Moneta tuttavia non è mai
irriverente né indifferente ai problemi religiosi.
Considera la religione “un fatto elevato di ogni società”. Non tollera che se ne parli in termini irrispettosi e che si facciano confusioni tra aspetti politici e storici contingenti della Chiesa e l’essenza
spirituale della fede. La sua posizione è chiaramente espressa in un editoriale del 21 giugno 1871, intitolato Le due piaghe dei popoli latini: superstizione e materialismo. In quelle righe, ammonisce a
non cadere né nel materialismo, secondo il giudizio
di Mazzini, “principio dissolvente e micidiale per
l’umano incivilimento né nella braccia del clero”.
Puntualizza così la sua posizione. “Noi siamo tra
coloro che non credono che la democrazia possa
esistere senza l’appoggio di forti credenze religiose.
Va bene la religione, non vanno bene il clero e il cattolicesimo”. Moneta è per un libero esame della coscienza, di tipo protestante, posizione che enuncia
in un altro fondo del mese di giugno.
A
ncora nel 1872 il pacifismo dell’ex garibaldino è in
via di maturazione anche se proprio quell’anno
il suo atteggiamento di repulsione verso la violenza deve fare i conti con una grave provocazione ed egli è costretto a contraddirsi platealmen-
I
l tema della cosiddetta vertenza cavalleresca non poteva dunque non far parte di quel gruppo di
usanze deprecate dallo spirito pacifista di
Moneta. Un giorno di luglio del 1872, egli fa scrivere un pezzo in cui si condanna la pratica.
L’articolo sfrena l’ironia alquanto greve e corriva di
Arrighi che il 14 luglio, in un articolo su Cronaca
Grigia risponde: “Come diamine il giornale delle
serve sia andato oggi a tirar fuori questo argomento
(il duello) non ve lo saprei dire. Mi par di vedere
tutte le serve e tutte le portinaie che leggono questo
interessante foglio sonzoniano esclamare anch’esse
per quel poco che avranno capito.”Ah come el ragiona bén, eh? Quest sì che ì dis giò polid i so reson. Povere serve”.
La polemica s’incancrenisce quando Moneta spiega
le ragioni della sua avversione verso la “barbara”
usanza. Arrighi gli replica che a suo parere il motivo vero sta nel fatto che il direttore del Secolo non
si vuole battere perché è un pusillanime. A quel
punto, l’ex garibaldino, sollecitato anche da
Romussi, interviene con un altro fondo del 28 luglio
sfidando a duello Righetti. Lo scontro, segreto per
ovvie ragioni di sicurezza al fine di evitare il sopraggiungere delle guardie, si conclude con il ferimento dello “scapigliato” che riceve una sciabolata
al braccio.
Nella definizione di giornale delle serve con la quale il direttore di Cronaca Grigia bolla Il Secolo si
nascondono il disprezzo e la contraddizione dell’intellettuale che mentre plaude al Verismo, una corrente letteraria che narra la dolorosa realtà della povera gente, dall’altra si fa beffe d’un giornale che si
offre, sia pure per fini imprenditoriali, quale strumento per rendere meno amara la vita a quell’umile moltitudine. Moneta impegna Il Secolo sul fronte dei diritti del proletariato. Mazziniano, anche se
il maestro è ignorato dalle nuove generazioni,
3
Cent’anni fa
il giornalista
ERNESTO
TEODORO
MONETA
riceveva il Nobel
Risorgimento?
La rivoluzione di pochi
La rivoluzione era stata fatta negli Stati che componevano l’Italia prima dell’unificazione da poche migliaia
di uomini rimanendo inerte, quasi indifferente, la gran massa del popolo, lasciata dai vecchi governi nella
massima ignoranza divenuta perciò politicamente incosciente ed apatica.
Pensiero saggio del nuovo governo sarebbe stato quello di dare subito opera a rialzarla dalla sua abiezione,
ravvivando in essa il sentimento nazionale che non è mai spento del tutto anche nelle infime plebi, e
facendole sentire la patria indipendente e libera non avrebbe dimenticato i suoi doveri verso la classe più
bisognosa. Il governo di Torino non ne fece nulla, ben contento di avere nel vasto popolo analfabeta una
materia inerte, che non avrebbe mai dato alcun fastidio.
Dal Compendio
Ernesto Teodoro è attivo sul fronte della questione
sociale convinto com’è che il conflitto di classe debba essere risolto attraverso le vie democratiche delle riforme in primo luogo lungo la strada della cooperazione contrapposta alla violenza anarchica e internazionalista, come aveva sostenuto lo stesso
Mazzini al congresso di Roma contestando le tesi di
Michele Bakunin.
ottenere con l’esercizio obbligatorio del tiro a segno e della ginnastica in tutte le scuole. È contrario alla ferma di cinque anni, troppo lunga e onerosa da sopportare per i giovani e le loro famiglie,
e assolutamente inutile per ciò che viene insegnato. Propende per la trasformazione dell’esercito italiano in un organismo agile, democratico che costi
il meno possibile e che sia in grado, per la preparazione, di rispondere immediatamente all’appello
difensivo del paese in caso di bisogno. Questo programma gli attira da un lato le critiche dei militari
di professione, ma dall’altro gli procura il plauso di
Giuseppe Garibaldi.
Q
uesta linea politica, che oggi chiameremmo di sinistra moderata, e il forte e intelligente impegno
professionale di Carlo Romussi, che con i suoi
cronisti tiene sotto controllo la città, rendono al
giornale in termini di tiratura e di popolarità:
due elementi che da un lato scatenano l’invidia
degli altri fogli milanesi e dall’altro inducono la
polizia a tracciare un pessimo identikit della testata.
Nella relazione sull’ordine pubblico del dicembre
1873, che a quell’epoca le questure erano tenute ad
inviare al ministero degli Interni, si legge.“È ormai
constatato che la ragguardevole diffusione di cui si
vanta uno dei principali organi di opposizione, il
Secolo, non ripete la sua origine dal colore democratico, anzi copertamente antidinastico del giornale, ma piuttosto dal modo con cui viene compilata
la parte letteraria e aneddotica la quale, per la poca
elevatezza dei concetti e per la volgarità dello stile,
rende un tal periodico accessibile alla parte meno
colta e più numerosa della popolazione”.
L
a sufficiente arroganza di Arrighi e l’analisi della
questura, che vuole essere dispregiativa, rendono
merito alla bravura professionale di Moneta e alla sua equipe che hanno saputo inventare un
mixer politico-giornalistico vincente. La fortuna
del giornale contribuisce a rendere popolare anche il suo direttore. Il segno del favore e quello
della gloria di cui gode Moneta dopo appena sei anni di direzione del Secolo, sono testimoniati dalla
garbata presa in giro cui lo sottopone il Guerin
Meschino, un periodico satirico molto popolare a
Milano, che ha il vezzo di storpiare i nomi dei personaggi famosi sottoponendoli ad arguzie più o meno innocue ma che spesso fanno irritare i più suscettibili. Le vittime più note sono Giosue Carducci
(Crosuè Quartucci), Matilde Serao (Matilde Cacao)
Giuseppe Giacosa (Giulebbe Giacosa), Ferdinando
Martini (Ferdinando Bambi) Camillo ed Arrigo
Boito (Cammino ed arrivo a Goito) e Teodoro
Moneta (T’Adoro Moneta). La benevola deformazione del cognome dà la misura dell’affetto e della
simpatia che ispira il personaggio. Estroverso, incline alle burle, egli è amante della conversazione e
conta numerose amicizie. Lavorando al Secolo, che
ha sede in via Pasquirolo, si reca quasi ogni giorno
a pranzare al ristorante l’Orologio in piazza
Camposanto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele.
Alla sua tavola siedono spesso quali ospiti fissi i pittori Cesare Tallone, Mosè Bianchi, Filippo Carcano,
Leonardo Bazzaro e Vespasiano Bignami.
I pranzi conviviali sono interrotti per qualche tempo, nel 1874, quando Ernesto Teodoro prende moglie. Superati da poco i quarant’anni, s’innamora di
Ersilia Caglio, un’amica delle sorelle. La ragazza,
appartenente a una ricca famiglia milanese, trascorreva con i genitori le estati a Missaglia in una villa
che distava all’incirca mezzo chilometro,
dall’Agazzino, la residenza estiva dei Moneta.
Cattolica osservante, la giovane mal sopporta l’anticlericalismo “militante” di Teodoro. Nonostante
questo contrasto che, dopo la nascita di due figli,
provocherà insieme con altre cause il raffreddamento nei loro rapporti, i due si sposano.
Il cattolicesimo intransigente di Ersilia comunque
non fa venir meno il laicismo moderato di Ernesto
Teodoro il quale non manca d’attaccare periodicamente il clero così come non abbandona l’altro tema a lui caro, il militarismo, condiviso dal suo vecchio comandante in capo Giuseppe Garibaldi, in
quel periodo esiliatosi a Caprera.
In quell’esordio di anni Settanta dell’Ottocento, il
suo tema più caro è la pace armata per il quale mentre chiede allo Stato maggiore economie nei quadri
delle Forze armate, sollecita più spese per le fortificazioni e per l’educazione militare. Questa posizione riflette già la sua tendenza verso il pacifismo
anche se il concetto non è sufficientemente teorizzato. Egli è inoltre per la guerra difensiva e non offensiva. Forte d’una notevole esperienza acquisita
nel primo esercito italiano, propugna la necessità
d’una istruzione efficace, pratica, rapida che si può
4
lizione della guerra avrebbe trovato spontanea soluzione quando sarebbero maturate le condizioni
storiche che si sarebbero dovuti attendere.
Q
ueste astrusità giuridiche e filosofiche sul pacifismo, fanno risvegliare agli inizi dell’Ottocento
l’indirizzo propriamente religioso che si afferma
in America. Al di là delle discussione teoriche e
accademiche europee, il pacifismo vanta infatti un
tentativo di pratica attuazione negli Stati Uniti
d’America, luogo di lotte violente e d’atroci massacri (dopo le guerre napoleoniche dell’Europa) per
merito soprattutto di Elley Channing, (teologo protestante che patrocina anche l’abolizione della
schiavitù), Noah Worchester, William Ladd, Questi
pensatori definiscono, molto pedestremente ma altrettanto efficacemente, la guerra un “terribile fratricidio consumato fra i figli di Dio”; Channing
connota poi la lotta armata come il principio di tutti i mali sociali, un pervertimento intellettuale e
morale.
Un altro efficace propugnatore del pacifismo nordamericano è il fabbro Elihu Burrit, che fra il 1843
e il 1849 si fa promotore dei primi congressi internazionale per la pace. Proprio in quegli anni. su
sollecitazione di Noah Worchester, nasce negli Usa
la New York Peace, prima società per la pace che
avrà filiazioni in parecchi altri stati americani.
I
ndirizzandogli da Caprera una lettera, il 27 aprile
1874, il generale scrive che “il suo programma
mi persuade e vorrei che tutte le frazioni democratiche capissero come noi che bisogna intendere ed abbandonare l’isolazionismo”. Sei mesi
più tardi, in occasione delle elezioni politiche, il
nizzardo scrive agli elettori di Brivio e di Merate,
località dove il giornalista pone la sua candidatura
a deputato, esortandoli ad adoperarsi per rovesciare “un sistema governativo che ci vergogna e ci impoverisce. Perciò vi raccomando l’elezione del signor Moneta, direttore del Secolo.
Nonostante il sostegno dell’eroe dei due mondi, il
cui mito era andato avvizzendosi sempre di più, il
giornalista non è eletto. Risultato comprensibilissimo in un’Italia ancora immatura politicamente e
con un elettorato alto borghese il quale stenta a capire l’evoluzione culturale d’un uomo il quale dal
militarismo operativo si vota all’antibellicismo, un
processo sicuramente connesso anche all’estendersi della campagna pacifista che per opera dell’inglese Hodgson Pratt sta toccando diversi paesi
dell’Europa compresa l’Italia.
Il pacifismo, l’atteggiamento ispirato alla profonda
repulsione per ogni soluzione non pacifica nella
condotta degli uomini, s’incontra nelle più antiche
religioni e filosofie (un esempio si trova tra i profeti ebrei) ma in modo alquanto vago e quale reazione del sentimento contro le pene che cagionano
i conflitti o quale corollario del precetto dell’amore verso il prossimo, principio fondamentale negli
insegnamenti di Cristo.
Pacifisti furono persino alcuni conquistatori antichi
e moderni ma quale effetto d’una universale dominazione sotto le loro armi.
A partire dal Cinquecento, il dibattito sul tema della pace assunse un indirizzo filosofico-giuridico attraverso pensatori come Niccolò Machiavelli, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Erasmo da
Rotterdam, Giovanbattista Vico, Baruch Spinoza, e
con gli enciclopedisti e gli economisti. Il problema
era stato affrontato da punti di vista particolari non
nella sua complessità, nei suoi rapporti con l’evoluzione della civiltà.
In tempi moderni la questione è approfondita da
Jean Jacques Rousseau da Immannuel Kant e da
Jeremy Bentham i quali riconoscono che né la generica avversione alla violenza né il temporaneo
dominio per quanto esteso, né la stipula d’un accordo tra i vari governi, varrebbero ad eliminare del
tutto le cause delle guerre. Le cui ragioni scatenanti possono derivare anche da necessità di vita e da
fondamentali esigenze etiche delle nazioni. Si delinea pertanto una concezione, che poi fu detta giuridica, la quale subordina l’ideale della pace a quello della giustizia così nelle costituzioni interne dei
singoli stati come nelle relazioni internazionali. A
questa concezione si ispira tra l’altro la Declaration
du droit des gens proposta dall’abate H. Gregoire
nella Convenzione francese.
Secondo Kant poi la pace può essere garantita soltanto da una federazione di stati liberi ognuno dei
quali abbia una costituzione legittima; e una tale federazione si dovrà fondare non su un atto di arbitrio, ma sulla necessità razionale.
Alle teorie sulla pace danno un contributo SaintSimon (che pensa di debellare la guerra attraverso
lo sviluppo intellettuale, morale e fisico di tutti gli
esseri umani rigenerati dalla scienza, dall’arte, dalla giustizia, dall’amore e con un parlamento europeo del quale avrebbero dovuto far parte gli uomini più eminenti del continente), Joseph de Maistre,
il quale proietta le sue idee storico-sociali su uno
sfondo mistico, una nuova età religiosa, gl’intellettuali del XIX secolo, seguaci del determinismo storico o del materialismo, che vedono invece nelle
teorie sociali economiche e politiche, la soluzione
di tutti i problemi. Secondo molti di costoro l’abo-
I
n Europa il pacifismo stenta a sbarcare e ad attecchire. La ragione la spiega Moneta nel compendio storico in quattro volumi, intitolato Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX che
pubblicherà dal 1904 al 1910. Scrive: “Le guerre
e gli orrori da esse derivati avevano suscitato desiderio di tranquillità e di pace e anche di odio verso
ciò che turbava la quiete; ma questo elemento perturbatore anziché essere identificato nella guerra,
era stato ravvisato nello spirito di libertà che la rivoluzione francese aveva diffuso nel mondo.
L’opinione pubblica, che traeva conclusione semplicistiche, aveva imputato alla libertà tutti i mali
che l’Europa aveva sofferto in 20 anni per colpa di
colui e di coloro che la libertà avevano maggiormente conculcata e ferita”.
Secondo il direttore del Secolo, i più importanti
pensatori a quel punto s’impegnarono nel difendere le idee e le conquiste liberali nei singoli paesi attraverso l’intensa propaganda sociale e politica lasciando che il problema della pace passasse in second’ordine. Nonostante tutto, alcuni eminenti pacifisti avevano tentato di stabilire un ponte tra la
corrente pacifista americana, che persisteva nel
mettere in primo piano l’aspetto religioso del problema con quella europea impostata su concezioni
giuridico-economico-sociale.
I
n diversi congressi si confrontano il richiamo altamente giuridico-filosofico con quello puramente
realistico. Nonostante il periodico contraddittorio, queste due anime del pacifismo mondiale
procedono per vie parallele. Gli incontri non portano ad alcuna coesione e con il tempo il movimento disperde le proprie energie frantumandosi,
in Europa come in America, in tante piccole consorterie ideologiche tanto che finisce con l’indebolirsi e con il suscitare diffidenze ostacolando quell’unanimità di consensi che era nelle sue finalità di
creare. Poi, com’era accaduto negli Usa, anche nel
vecchio continente sorgono società per la pace.
Quasi contemporaneamente, in Inghilterra,
Svizzera e Francia, piccoli cenacoli di intellettuali
votati al pacifismo prendono contatto tra di loro.
Nella riunione che si tiene a Londra, promossa dall’ex fabbro Elihu Burrit, prende forma l’appello a
tutti i paesi civili “perchè introducano nei loro statuti la clausola per la quale avrebbero dovuto impegnarsi in caso di conflitto a rimettersi alla mediazione di una o più potenze amiche”. La questione dell’arbitrato è sviluppata nei congressi che i pacifisti tengono a Bruxelles (1848), Parigi (1849),
Francoforte (1850), Londra (1851) ed Edimburgo
(1853). Nonostante la celebrazione di questi convegni, ai quali prendono parte personaggi autorevoli come Victor Hugo (presidente del congresso di
Parigi), il deputato inglese Richard Cobden (celebre quale autore di una legge sull’abolizione del
protezionismo presentata al parlamento inglese) ed
altre eminenti personalità, le idee più semplici e più
concrete sulla pace non riescono a far presa né sul
mondo politico né sulla società civile. Come a irridere alle proposte di questi uomini, si combatte in
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tutto il mondo; in Italia e in Germania per l’indipendenza, in Crimea e negli Stati Uniti (anche se
tra coloro che impugnano le armi molti sostengono
con sincero trasporto il principio della fratellanza
fra i popoli).
P
ure Giuseppe Garibaldi, che passa la vita in mezzo
all’incrociare delle sciabole, fra il tuonare dei
cannoni e il crepitare dei moschetti, simbolo di
ardimento per i suoi contemporanei, ambisce alla pace. Egli partecipa nel 1867 al congresso che i
pacifisti aprono a Ginevra, dove si registra la presenza di molti rappresentanti di logge massoniche,
esponenti dell’Internazionale socialista (tra i quali
Michele Bakunin) intellettuali e uomini politici come il deputato inglese William Randal Cremer, che
riceverà il premio Nobel per la pace nel 1903. In un
ordine del giorno, l’eroe dei due mondi propone
“che il papato venga dichiarato decaduto dalle istituzioni umane e che il pacifismo s’impegni a seguire la religione di dio, la religione della verità e
della ragione perchè non si sarebbe potuto por fine
alle sciagure del mondo senza rimediare agli abusi
del pretismo”. Il congresso di Ginevra, che doveva
segnare il risveglio delle attività pacifiste nel vecchio continente, determina invece una spaccatura
all’interno del movimento e getta un’ombra su tutto il pacifismo poiché rappresenterà una deviazione della linea di tolleranza che era stata sino ad allora seguita.
La fiaccola della tradizione comunque è presa dall’economista francese Federic Passy il quale, con lo
scrittore Gustave de Eichthal (figlio d’un banchiere ebreo convertitosi al cattolicesimo) e con l’abate Martin Paschoud, riescono nello stesso anno
1867 a costituire una lega per la pace del cui comitato direttivo farà parte Cesare Cantù cui si affianca l’inglese Hogson Pratt. L’organizzazione
muta poi la sua denominazione in Società degli
amici della pace e successivamente in Società per
la pace e l’arbitrato internazionale.
A dimostrazione e della necessità e dell’efficacia
d’un’istituzione arbitrale, intervenne il caso
dell’Alabama. Alla guerra di secessione americana
avevano preso parte oltre all’incrociatore Alabama
anche altre navi confederate, varate o allestite in
Inghilterra, il cui governo aveva riconosciuto il
ruolo di belligeranti ai sudisti. Alla fine del conflitto, Washington aveva preteso da Londra un’indennità di guerra per i danni che l’Alabama e gli
altri battelli avevano arrecato al traffico marittimo
dei nordisti.
La controversia diplomatica stava per innescare
un’altra conflagrazione ma l’intervento della nuova
società per la pace d’America e di Gran Bretagna,
riuscì a rimettere la questione al tribunale arbitrale
internazionale che si era insediato a Ginevra. Di
questo organismo erano stati chiamati a far parte
rappresentanti dell’Inghilterra, degli Stati Uniti,
dell’Italia, della Svizzera e del Brasile.
I lavori durarono dal maggio 1871 al settembre
1872. La sentenza stabilì che l’Inghilterra dovesse
pagare agli Usa quindici milioni e cinquecento mila dollari in oro. La conclusione fu accolta a
Ginevra con salve di cannoni e con le bandiere in-
Italiani brava gente
All’epoca del Rinascimento, quando tutte le nazioni cercavano d’ingrandirsi colle guerre a spese dei vicini,
l’Italia antepone alla gloria delle armi quelle delle scienze, delle lettere e delle arti; e così inizia il
consorzio del mondo intellettuale.
Fino ai nostri giorni, il popolo italiano non conobbe mai l’odio verso lo straniero; e mentre l’antisemitismo
corse le contrade di tre quarti d’Europa, commettendo dovunque brutali eccessi, nel nostro paese non se ne
ebbe mai il minimo segno, sebbene gli eccitamenti più d’una volta non siano mancati.
Tutto questo dimostra che il popolo nostro, considerato nella sua generalità, è umano e civile più di
qualsiasi altro: anche l’uomo rozzo, primitivo è da noi incline più alla simpatia che all’ostilità, alla
benevolenza più che all’odio; e prova che in Italia, così nel popolo come nelle classi colte, non si ama la
guerra per la guerra.
Dal Compendio
N
el 1878 il direttore del Secolo mostra un operoso
attivismo in favore della pace. Quell’anno la sollevazione dell’Erzegovina e della Bosnia contro i
turchi e il minacciato intervento dell’Austria e della Russia, fanno temere l’esplosione d’una guerra
in Europa. In quell’occasione, Moneta, Romussi, la
nobildonna Cristina Lazzati, ed alcuni esponenti
del consolato operaio milanese fondano la Lega di
fratellanza, libertà e pace.
Il nuovo organismo indice due comizi al teatro Dal
Verme; uno è presieduto da Gioacchino Piepoli,
una personalità lombarda, l’altro da Aurelio Saffi,
ex deputato e figura centrale del movimento repubblicano. L’associazione si rivela un fallimento perché non riesce a sconfiggere lo scetticismo apertamente mostrato da molti dei promotori verso le sue
stesse finalità. Moneta, non riuscendo a raccogliere attorno a sé un gruppo di convinti sostenitori, si
rende conto dell’intempestività della sua iniziativa
Le guerre e gli orrori da esse derivati avevano
suscitato desiderio di tranquillità e di pace
e anche di odio verso ciò che turbava la quiete.
‘
M
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T
I
’
e la lascia languire indirizzando il suo impegno sul
Secolo che a tredici anni dalla fondazione ha raggiunto un successo mai toccato da nessun’altro
giornale in Italia.
Con i suoi trentacinquemila lettori (diciottomila dei
quali abbonati), il foglio assurge a primo giornale
cittadino e quindi italiano, togliendo questo primato al Pungolo, anche se è bollato dai concorrenti
come il giornale delle portinaie per la sua larga popolarità fra la classe sociale più disagiata ma anche
più numerosa. Diventa inoltre l’araldo della stampa democratica perché contribuisce a fondare il
Consolato generale delle associazioni operaie consociate. L’aristocrazia milanese era impegnata nel
campo assistenziale attraverso l’Associazione generale degli operai. Il Secolo vi contrappone il
Consolato generale della società di mutuo soccorso, animato da Romussi. “I figli del lavoro” scrive
il giornalista “non devono elemosinare e una società di mutuo soccorso deve, oltre che proteggere
gli operai, essere anche la loro rappresentante di
fronte ai datori di lavoro e alla Cassa di Risparmio.
La linea dunque è questa: non più protettori, ma
rappresentanti degli operai e trait union fra capitale e lavoro in modo da superare gli scioperi”.
Il Secolo di Moneta diventa dunque la voce del
mondo del lavoro. Lo stesso giornale spiega di “non
appartenere a una casta, a un governo, a un partito,
o a un gruppo di uomini politici ma è al servizio
delle grandi masse di cittadini che lavorano, che
studiano, che soffrono”.
glesi, americane e svizzere esposte ai balconi.
Già in questa prima affermazione di pacifismo messo in atto, anche l’Italia aveva avuto un suo non secondario ruolo. Un nostro rappresentante aveva
presieduto i lavori del tribunale arbitrale: era il conte Federico Sclopis, un torinese autore d’una importante Storia della legislazione italiana nella
quale aveva dato una connotazione scientifica alla
dottrina dell’arbitrato.
entre muoveva i suoi primi passi nel mondo, il
movimento pacifista non era dunque del tutto
ignorato nella penisola, che pure era impegnata
a conquistare con le armi la sua indipendenza.
Nonostante fosse iniziata la Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, a Bruxelles aveva fatto la sua
comparsa l’italiano Francesco Bertinotti che aveva
trattato il tema del congresso delle nazioni e discusso sul codice del nuovo diritto internazionale.
Assente, per ovvi motivi all’assise di Parigi del
1849, a quella del 1851 di Londra, l’Italia aveva inviato la propria adesione attraverso il conte Pier
Luigi Pinelli, presidente della Camera dei deputati
del Piemonte, mentre, come abbiamo letto, nel
1867 s’era registrata a Ginevra la presenza di
Garibaldi.
Alla breve crisi del pacifismo europeo, provocata
dal congresso di Ginevra, segue un periodo in cui
il movimento riprende vigore per merito del francese Federico Passy ma soprattutto dell’inglese
Hodgson Pratt, impegnato nel tribunale per l’arbitrato. È in quel momento che Ernesto Teodoro
Moneta, dopo aver seguito con appassionato interesse il pacifismo europeo, s’industria di studiarne
le tematiche e s’adopera perché questo nobile sentimento si diffonda anche nel nostro paese.
“In quel periodo” spiega Moneta in un’intervista
che concederà nel 1907 a Renato Simoni, del
stazioni ferroviarie e persino sui tram a cavalli.
Dopo averlo sbeffeggiato additandolo come il giornale delle serve oppure il quotidiano delle portinaie, constatato l’indiscusso successo, le altre testate tentano ora d’imitarne la formula, ampliando
il numero delle notizie di cronaca e quelle dell’evasione, ed insistendo sui romanzi d’appendice.
Tuttavia fanno fatica a reggerne il ritmo e l’irraggiungibile successo del Secolo scatena l’invidia di
molti confratelli. Moneta è definito ora “un Catone
da strapazzo”, ora il “Bersagliere”. Un giorno, all’uscita d’un teatro cittadino, subisce persino l’aggressione d’un redattore della Ragione con il quale
aveva avuto una polemica.
Alle fortune del giornale di via Pasquirolo non sono certamente estranee le perorazioni pacifiste che
il suo direttore tiene sulle sue colonne. Nonostante
la fine della Lega, per manifesto disinteresse,
Moneta prosegue la sua battaglia anche se il suo è
un pacifismo che manifesta molti elementi d’ordine nazionalista.
Nell’estate del 1878, s’era tenuta a Berlino una
conferenza per un riesame delle clausole del trattato di Santo Stefano con il quale l’impero ottomano
aveva fatto ampie concessioni alla Russia negli stati slavi e nei Balcani. La revisione aveva comportato benefici anche a Inghilterra, Austria e Francia,
tranne che all’Italia la quale era pur presente con il
conte Luigi Corti e con l’ambasciatore Filippo De
Lounay. Le elargizioni all’Austria, che ottiene la
Bosnia e l’ Erzegovina, e all’Inghilterra (che si accaparra Cipro) e l’implicita autorizzazione alla
Francia di prendersi la Tunisia, modificano lo status quo nel sud dell’Europa ed aprono una nuova
fase nella storia del continente e nell’azione delle
potenze nel Mediterraneo, alla quale l’Italia deve
adattare in qualche modo la sua politica estera.
Il comportamento del rappresentante italiano, il
conte Corti, che è definito dallo stesso delle “mani
nette” (e che vuole evitare imprese espansionistiche del nostro paese ma anche uno scontro con
l’Austria), isola diplomaticamente lo Stivale e delude profondamente la nostra opinione pubblica.
Corriere della Sera “si faceva, specialmente dagli
inglesi, grande propaganda per la pace. Io mi trovai a simpatizzare per essa, per due ragioni: la prima fu l’orrore che provai nel 1848, all’epoca delle
Cinque giornate di Milano; la seconda era d’altro
genere. M’ero accorto che l’Italia non era una nazione combattiva. Avevo visto le guerre d’indipendenza, avevo riflettuto che dal 1796 ad oggi tante
occasioni di combattere s’erano presentate e l’Italia
non le aveva mai afferrate. Molto spesso parlavamo
di ciò con Stefano Turr e concludevamo che l’educazione militare che la Germania ha con tanta energia e costanza diffusa tra i suoi, da noi è ancora un
mito. Bisognava dunque diffondere quest’idea della pace presso tutti i popoli anche per amore verso
l’Italia. Aggiungo poi che io avevo preso parte alla
guerra non perché pensassi che l’Italia avesse bisogno del mio braccio, ma perché avevo sempre incitato gli altri a combattere per la libertà e il mio dovere era quello di far seguire alle parole l’azione”.
ra quelli milanesi, il foglio di Moneta è quello tecnicamente più avanzato. Ogni giorno può contare su corrispondenze telegrafiche provenienti da
Roma, Parigi, e Napoli. È un giornale fatto all’americana. Romussi fa largo uso d’informatori
che invia negli ospedali, negli uffici daziari, nelle
l Secolo di Moneta del 5 ottobre 1879 si fa portavoce
di questa insoddisfazione. E scrive: “Soli. La parola sarà amara pel nostro amor proprio nazionale ma la verità bisogna dirla: l’Europa non ha
stima di noi e i governi non risparmiano occasioni per farcelo sentire”.
Il giornale e l’opinione pubblica, imputano alla politica delle “mani nette”, tenuta da Cairoli a
Berlino, l’isolamento diplomatico che ne segue; la
politica estera della sinistra è definita perplessa,
tentennante, equivoca nel tentativo dichiarato da
Depretis di guadagnare le simpatie dei popoli mantenendo il consenso dei governi.
La linea di Moneta è dunque quella d’un pacifismo
venato d’un forte senso d’amore nazionale. Egli
aspira a presentare la sua posizione politica come
una dignitosa via di mezzo, “fra (scrive) il don
Rodrigo e il don Abbondio: conservare rapporti
amichevoli con gli altri stati, non patteggiare per
nessuna nazione in caso di guerra e combattere per
i diritti dei popoli oppressi”. Atteggiamento definito da alcuni utopistico, vicino a quello di Cairoli e
nel contempo contrario a qualsiasi moto come il
movimento irredentista, che possa turbare l’equilibrio dei rapporti italiani con gli altri paesi.
Il pacifismo che ancora nel 1878 è un’idea confusa nella testa dell’ex garibaldino, comincia ad assumere un profilo sempre più netto a partire dal
1880. In quell’anno Hodgoson Pratt crea a Londra
una sorta di federazione nazionale delle numerose
società pacifiste inglesi. Il pacifismo di Moneta, si
è detto, non è assoluto. Si sostanzia nel concetto
della pace armata. È la stessa posizione che assume Giuseppe Garibaldi il quale, il 1° novembre
1880, ricevendo a Caprera una delegazione del
Secolo guidata dal suo direttore si compiace di
quella gradita visita e sottolinea come il grande
giornale propugni “l’idea santissima nella quale risiede la grandezza del paese”, la pace armata appunto.
U
na linea neutralista più che pacifista assumono
Moneta e il suo giornale al tempo in cui, nel 1881,
la Francia costringe il bey di Tunisi ad accettare
il suo protettorato, impadronendosi praticamente del paese e dando scacco all’Italia. Il giornale,
amico della vicina repubblica, assicura che la rottura con il paese confratello sarebbe stato “una cosa
5
Cent’anni fa
il giornalista
ERNESTO
TEODORO
MONETA
riceveva il Nobel
deplorevolissima”. In quell’occasione, la posizione
del foglio tiene conto non solo dell’aspetto politico
ma anche di quello pratico. Ernesto Teodoro tenta di
sedare il malcontento suscitato dalla provocazione
francese, dichiarando che egli non contribuirà con
parole insensate, o gratuitamente provocatrici, “a
creare fra Italia e Francia un abisso di odio tanto più
che l’Italia non sarebbe stata in grado di affrontare
la guerra”.
Più che ad un conflitto nel Mediterraneo, del quale
c’era la consapevolezza di non poterlo sostenere dal
punto di vista militare, in quell’anno l’industria italiana pensava all’Esposizione nazionale prevista a
Milano per il 1881, manifestazione che le permetteva di contare e saggiare le proprie forze. Sonzogno,
editore del Secolo, era riuscito ad avere il monopolio delle pubblicazioni. Il giornale viaggiava già sulle 65 mila copie e, secondo quanto scrive (19 marzo 1880) Eugenio Torelli Viollier sul Corriere della
Sera, “può contare su una pagina delle inserzioni, la
quarta, che frutta ben centomila lire all’anno”.
Si tratta d’un successo anche di carattere economico, finanziario e industriale al quale non è sicuramente estranea la linea editoriale di sinistra moderata che le assicura l’ex garibaldino. Nel 1883, la relazione sullo “spirito pubblico” della polizia milanese, conferma che il giornale più venduto è proprio
il Secolo il quale “anche oggi prosegue nelle sue
tendenze repubblicane, fa ogni passo per combattere il partito monarchico costituzionale progressista
nonché l’attuale ministero coadiuvato dal giornale
La Lombardia. Scrive ancora la polizia:”Il Secolo è
il più letto e fa la maggiore breccia sulla bassa popolazione, sul ceto operaio che predomina nella
massima parte a scapito delle istituzioni e dell’ordine”. Preoccupato per la larga diffusione raggiunta
dal giornale, il procuratore del re Stefano Oliva, rappresentante dell’establishment, quando può lo fa sequestrare tanto che Moneta è costretto a rivolgersi a
Felice Cavallotti affinché intervenga presso il ministro Mancini “perché scriva ad Oliva al fine di fare
cessare la guerra accanita al giornale”.
N
on ancora pacifista militante, nel 1884 Ernesto
Teodoro è costretto per la seconda volta a scendere sul terreno con la spada in pugno per difendere “l’onore suo e del giornale”. Era accaduto che nel mese di settembre Felice Cavallotti aveva allestito una spedizione umanitaria in favore di
Napoli dove imperversava il colera. Il Lombardia,
non aveva perso l’occasione di strumentalizzare
quell’iniziativa, e per denigrare il concorrente aveva
accusato il deputato radicale di trarre profitto economico dai sussidi municipali ricevuti dal comune
di Milano con l’aiuto del Secolo che aveva aperto
una sottoscrizione. Il bardo della democrazia smentiva recisamente d’aver incassato sussidi; Moneta e
Romussi a loro volta avevano sottoscritto sul giornale queste parole contro il Lombardia e gli altri fogli accusatori: “Ieri eravate meschini e invidiosi; oggi, aggiungiamo, siete malvagi e mentitori”.
Il 28 settembre danno incarico all’avvocato Giorgio
Boneschi e all’inviato del giornale Achille Bizzoni
di presentare il cartello di sfida a due colleghi. Il 29
settembre, un corsivo non firmato, ma forse scritto
da Romussi, legittima quella decisione: “Sappiamo
di far cosa contraria a un principio che abbiamo costantemente propugnato, l’abolizione del duello. Ma
siamo costretti da avversari che attingono il coraggio di assalirci ad ogni tratto benché non provocati
da noi all’impunità che sperano di avere nel saperci
nemici dalla barbara usanza”.
Quest’altra deroga alla sua avversità ideologica verso il duello, non fa comunque venir meno l’impegno di Moneta verso la pace che nella seconda metà
degli anni Ottanta dell’Ottocento ha occasione di
manifestare lanciandosi contro la prima avventura
coloniale italiana.
Nel novembre del 1867, com’è noto, l’armatore
Raffaele Rubattino aveva acquistato la baia di
Assab, nel mar Rosso, quale scalo per le proprie navi dirette in estremo Oriente. Nel 1882, la società di
navigazione aveva ceduto al governo italiano l’intera proprietà. Tre anni più tardi, seguendo l’esempio
di Francia, Inghilterra e Germania, anche l’Italia,
abbandonata la politica delle “mani nette”, decide di
gareggiare per la conquista d’un pezzo d’Africa ed
invia nel mar Rosso un contingente di millecinquecento uomini che sotto il comando del colonnello
Tancredi Saletta occupa i territori di Massaua e di
Assab, i quali, insieme con la baia, sono annessi al
regno d’Italia. Nel 1887, poi, a seguito della ritirata
6
Se il popolo
non è belligero…
Se il popolo italiano non è belligero non vuol dire che debba andare in guerra per farsi battere; vuol dire
invece che non facendo esso la guerra se non per propria difesa o per una causa di vera giustizia, deve
avere in sé una forza morale molto superiore a quella del nemico; vuol dire che più intensa deve essere la
sua preparazione morale e tecnica della guerra.
Il popolo italiano, come tanti altri, ha virtù e difetti; buono, avido di giustizia, sensibilissimo ai benefici
come alle offese, dà facilmente la vita per la difesa di un uomo in pericolo, per salvare donne o fanciulli da
un incendio o dall’inondazione, ma non è disposto a farsi uccidere per una causa che gli è indifferente o che
non conosce. Far vibrare la corda dei sentimenti più umani, per accendere nel suo animo la fiamma del
patriottismo; rimettere in vigore e dare grande sviluppo alla ginnastica e agli esercizi militari, anche fuori
dall’esercito, in ogni comune d’Italia, avrebbe dovuto essere dopo il 1959, il pensiero e l’opera assidua
della democrazia e degli uomini di governo.
Dal Compendio
degli egiziani che detenevano l’intera area (e con il
beneplacito degli inglesi), i nostri si spingono nel
Tigrai, all’interno dell’Etiopia. L’invasione solleva
la reazione degli abissini. Per liberare un nostro presidio assediato dal negus Giovanni, il governatore
dell’Eritrea, Carlo Genè invia un distaccamento di
500 uomini comandato dal tenente colonnello
Tommaso De Cristoforis che il 27 gennaio 1887 è
annientato da alcune bande etiopiche nei pressi d’un
villaggio e d’un fiume che hanno lo stesso nome:
Dogali.
F
ino a Dogali il tema dell’anticolonialismo era stato
usato dal Secolo come elemento d’una campagna
contro Depretis, accusato di utilizzare le iniziative africane per evitare precise scadenze interne.
Dopo quella grave sconfitta, il giornale “piange le
centinaia di giovani che giacciono spenti nelle infuocate arene dell’Africa” e al suo sdegno fanno eco
le manifestazioni di cordoglio in tutto il paese. Il disastro eritreo è l’evento che induce Moneta ad abbracciare ufficialmente e definitivamente la causa
della pace. Ancora nel 1887, l’Italia era rimasta l’unico paese europeo in cui non esisteva una rappresentanza ufficiale del movimento pur non mancando un qualche isolato centro nel meridione e un certo numero di amici della pace sparsi per la penisola. Con lo scopo di mobilitare anche lo Stivale a favore della dottrina diretta a dimostrare l’inutilità
della guerra, quell’anno Hogdson Pratt si recò a
Roma dove fondò la Società per l’arbitrato e la pace dei popoli la cui presidenza fu affidata a Ruggero
Bonghi, ex ministro dell’Istruzione pubblica, uomo
politico napoletano, collaboratore di Nuova
Antologia e fondatore della rivista Cultura.
Salito a Milano, prese contatto con il lecchese professor Francesco Viganò, con il deputato mazziniano Angelo Mazzoleni e con Ernesto Teodoro
Moneta per costituire anche nel capoluogo lombardo una società per la pace. Ancora frustrato dal precedente insuccesso, il direttore del Secolo sulle prime non ne volle sapere niente. Pratt, irremovibile,
gli replicò che non avrebbe lasciato il suolo italiano
se non fosse riuscito a creare anche nel capoluogo
lombardo un piccolo presidio contro la guerra.
Viganò, Mazzoleni e Moneta alla fine capitolarono
di fronte a quell’affettuoso ricatto. Nacque un’associazione alla cui presidenza fu indicato il Viganò,
mentre la segreteria fu affidata a Mazzoleni.
Moneta, quale direttore di un giornale non volle accettare alcun incarico ufficiale, tuttavia promise di
non fare mancare il suo appoggio agli altri due. La
nuova società nasceva con questi scopi dichiarati:
diffondere ed educare sentimenti umanitari per la
cessazione della guerra; favorire l’affratellamento
dei popoli; propugnare le soluzioni arbitrali nelle
vertenze internazionali; promuovere la trasformazione graduale degli eserciti permanenti sostituendo
ad essi le nazioni armate.
L
a nascita della sezione italiana rafforza il fronte pacifista europeo in quella fine di anni Ottanta
dell’Ottocento, epoca in cui forti tensioni turbano il continente. L’allargamento del movimento
porta con sé un fervore d’iniziative. Nel 1888, riunitisi a Parigi, in casa del presidente della Lega della pace e della libertà Charles Lemonnier, i rappresentanti di cinque società nazionali e tre straniere
decidono di convocare un congresso nella capitale
francese che è fissato per il 1889 in concomitanza
con l’Esposizione mondiale e al quale avrebbero
dovuto partecipare deputati di tutte le nazioni.
Sempre nel 1888, inizia il lungo periodo di militanza pacifista del Secolo. Moneta, reduce dall’annuale adunanza della Società Internazionale per la pace
e l’arbitrato che s’era tenuta in Inghilterra, invia
all’Unione lombarda per la pace internazionale e
l’arbitrato una lettera dal titolo: Avremo la guerra in
primavera? con la quale promette d’impegnarsi in
favore del movimento. Egli lamenta il disinteresse
della gente per il problema. Spiega che “i cittadini
tacciono perché nessuno li ha mai chiamati a pronunziarsi per la guerra o per la pace e perché le abitudini create dalle servitù, quando tutto era lasciato
all’arbitrio dei governanti, non si cancellano dall’oggi al domani”. Se la prende con i politici. “Ad
ogni tratto ci lamentiamo dell’indifferenza del popolo italiano per la cosa pubblica, dell’abbandono
in cui lascia i suoi più fervidi e disinteressati difensori. Ma quando mai dopo le guerre dell’unità nazionale fu a questo popolo da uomini profondamente convinti diretta una parola non partigiana,
non fomentatrice di divisioni, mai elevata esprimente il bisogno dei nuovi tempi che l’idea di patria mettesse in armonia con quella umanità?”
“Questa parola” spiega il giornalista “è la pace, la
pace senza restrizioni mentali, la pace con tutti i
suoi benefici, la pace tra i popoli che nessuna legittima causa divide, che tutti gli interessi più sacri
consigliano”.
I
l direttore del Secolo dispiega il suo entusiasmo. “È
venuto il tempo di mettere d’accordo le parole
con gli atti, la politica degli stati con i bisogni e
le aspirazioni dei popoli. Stare in disparte quando
si sa che non lungi da noi si trama un assassinio non
è solamente una vigliaccheria, è una complicità nel
delitto. E quale maggiore viltà nel vedere prepararsi per un non lontano avvenire terribili ecatombi di
fratelli nostri, non frapporsi a tempo, non chiamare
tutti in aiuto per impedire l’immane attentato?”
Si domanda perché si tarda. “Aspettiamo forse per
fare appello ai sentimenti di umanità che le ire siano divampate negli animi, gli eserciti già in moto e
le spade sguainate?” Chiede all’Unione lombarda,
ma anche agli italiani tutti, d’impegnarsi per la pace senza agitazioni (“che lasciano il tempo che trovano”) ma con un lavoro continuo, serio, metodico.
“Io non sono che un oscuro milite dell’umano progresso, ma quel poco che posso sono pronto a darlo per la causa da voi presa a difendere e al di sopra
della quale non c’è altra nel mondo più giusta, più
feconda di benefici per tutti”. Profetizza quello che
accadrà venticinque anni più tardi con la seconda
guerra mondiale. “Se la fine del nostro secolo, già
vicino al tramonto, non vede i principi della pace
profondamente radicati nella coscienza dei popoli e
solennemente sanzionati da un grande atto internazionale, la corrente dell’umano progresso è arrestata. Dio sa per quanto tempo il mondo dovrà assistere sgomento di una rinverdita barbarie nella quale i
cannoni, e le mitragliatrici semineranno le stragi
sulle più belle delle contrade d’Europa ed imporranno ovunque la loro legge di ferro in onta al diritto”. Fa professione di ottimismo e confida nell’intelligenza degli uomini. “Speriamo con l’aiuto di
Dio e di tutti i buoni a qualunque fede appartengano, che la tristissima ipotesi non si avveri e che il
giorno non sia lontano di un po’ di saviezza nei governanti e maggior risolutezza nei popoli”.
L’appello di Ernesto Teodoro sembra davvero scuotere la coscienza dei pacifisti italiani. Nell’arco di
dodici mesi, si tengono ben diciannove conferenze
per la pace in diverse città tra le quali Milano,
Padova, Asti e Novara. L’Unione lombarda bandisce un concorso che riscuote un inatteso successo
mentre al fine di prepararsi alla conferenza che nel
1899 si terrà a Parigi, l’Associazione romana indice
il primo congresso nazionale per la pace che si tiene fra il 12 e il 16 maggio e al quale prendono parte 37 comitati provinciali.
I partecipanti, tra i quali molti deputati e senatori,
sono quasi tutti uomini di sinistra impegnati a titolo personale. Il movimento per la pace, promosso da
Hodgson Pratt, cui s’erano ispirati i comitati italiani più importanti quali Roma e Milano, “intendevano rimanere affatto estranei e al di sopra dei partiti
che si contrastano circa i modi di ordinare lo stato”.
I rappresentanti della politica ufficiale comunque
non mancano al raduno romano che, a dimostrazione della particolare sensibilità del giornalismo italiano verso il tema, si tiene nella sala
dell’Associazione della Stampa, presieduto da
Ruggero Bonghi. Per l’occasione Moneta, tenendo
il discorso d’apertura, è consacrato leader nazionale del movimento ed ha così modo di precisare finalmente il suo pensiero contro la guerra offensiva
e a favore di quella difensiva.
E
gli ammonisce a deporre le armi “prima che questa povera e tormentata Europa diventi una landa incolta e sparsa di rovine e subisca la sorte degli antichi imperi d’oriente”. Rammenta a coloro
“che hanno un ideale più alto dei listini di borsa”
che qui, da Omero a Virgilio, da Dante a
Shakespeare, da Aristotele a Voltaire, dai pitagorici
agli enciclopedisti, da Plinio a Volta, da Galileo a
Humboldt, i titani del pensiero e gli apostoli più instancabili del vero, rivelarono all’uomo la parte migliore di se stesso e gli insegnarono a domare le
forze della natura ed a strapparne i tesori nascosti”.
Depreca il militarismo che esalta la guerra giudicandola nel suo complesso più un bene che un male ed il patriottismo meschino e geloso in nome del
ORDINE
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2007
quale si vuole che una nazione primeggi sull’altra.
Ne spiega le ragioni. “Così gli armamenti di uno
stato provocano quelli degli altri e l’eccesso della
difesa diventa a sua volta minaccia. L’unico rimedio sarebbe il disarmo chiesto, invocato e implorato nelle città e nelle campagne da chi maneggia la
penna e da chi maneggia la zappa ma, o Iddio ha
indurito il cuore del moderni faraoni o gli uomini
di spada che seggono negli alti consessi non lasciano pervenire alle loro orecchie le supplicazioni
dei popoli”. Quindi giunge al punto nodale della
sua relazione. Fa osservare che il disarmo dovrà essere quello dei forti, non degli impotenti perché il
paese sia premunito dal ritorno di un vento di follia e non si presti indifeso ad una possibile invasione.“Vogliamo che l’esercito cessi di essere minaccia di guerra durante la pace, ma se fossimo un
giorno assaliti vorremmo che l’Italia potesse difendersi con maggior numero di uomini e meglio esercitati che non ne possa dare il presente ordinamento militare”. Argomenta sulla ferma militare, sull’ordinamento dell’esercito, sull’educazione morale del soldato, temi tutti affrontati dalle colonne del
Secolo da quando è stato chiamato alla direzione
del giornale.
L’italiano non legge
la Storia
Gioveranno le amare lezioni del passato a preservare l’Italia da nuovi castighi, a insegnare ai nostri uomini
politici che in tutte le imprese ciò che più importa è saper commisurare i mezzi al fine? Comprenderanno
che in pace e in guerra a compiere cose grandi, bisogna avere una chiara visione delle deficienze del
proprio popolo e delle sue virtù, per sapere come servirsi di queste per vincere e correggere quelle? Sarebbe
tempo, ma ahimè, l’italiano non legge la Storia specialmente quella recente del proprio paese, o la legge
soltanto nei libri che lusingano il suo amor proprio nazionale.
Dal Compendio
internazionale. Al congresso di Parigi, davanti a
centinaia di delegati di tutto il mondo, definisce ulteriormente il suo divisamento. Come molti italiani dell’epoca, egli non è un propugnatore del pacifismo integrale come quello sostenuto dai quaccheri che escludevano anche la guerra difensiva. La
maggioranza dei nostri, compreso Moneta, non intendeva sacrificare all’internazionalismo e alla pace, i diritti della patria. Dalla tribuna parigina il
giornalista spiega che “tutti i figli della rivoluzione
intendevano essere fedeli alla promessa fatta negli
ultimi anni della servitù nazionale e nei giorni della lotta, che l’Italia, divenuta indipendente e libera,
sarebbe stata elemento di pace e di buon accordo
fra le nazioni europee”. Studiosi delle grandi correnti della storia prevedevano che al periodo della
costituzione delle patrie, sarebbe dovuta seguire
una fase nella quale le singole nazioni si sarebbero
associate per la propria difesa e per la prosperità di
tutti. Ne sarebbero così nati un pacifismo ed un internazionalismo tali da superare il concetto di patria ma anche da comprenderlo, senza escludere la
difesa della medesima imponendola come supremo
dovere “poiché in tal caso la responsabilità della
guerra sarebbe ricaduta tutta sull’aggressore”.
“L’impegno dunque di tutti” sostiene Moneta “dovrà essere l’abolizione della guerra mediante il contemporaneo disarmo di tutti gli stati e la istituzione
di una suprema corte che risolva le controversie internazionali”. Tuttavia, realisticamente convinto
che a questo risultato non si sarebbe potuto giungere in tempi brevi, in attesa che si verificheranno
tali felici condizioni, ogni paese doveva essere posto in grado di fronteggiare qualunque assalto alla
propria indipendenza ed integrità territoriale.
P
remesso che la sola guerra consentita dalla modernità debba essere quella difensiva, Moneta spiega che questa esige che tutti i cittadini atti a portare le armi scendano in campo a combattere
pro aris et focis. “L’ordinamento della forza dovrebbe essere tale da potere inquadrare milioni di
soldati. Ma per amore di vieti pregiudizi di un tempo tramontato, si continua a ordinare la forza negli
eserciti permanenti come quando le guerre avevano
per iscopo la conquista ed erano combattute da piccoli nuclei inferiori a cinquantamila, centomila uomini.”
Da vecchio militare appartenente agli alti comandi,
e dunque esperto di strategia, chiarisce: “Una volta
la vittoria era decisa dall’urto delle masse sui punti decisivi dei campi di battaglia; d’ora innanzi la
vittoria dipenderà dalla maggiore quantità di proiettili che un esercito potrà gettare nei punti decisivi
delle linee nemiche”. Secondo l’ex garibaldino è
dunque necessario che il soldato sappia adoperare
bene le armi di cui dispone e che abbia piena fiducia nei suoi comandanti.
Egli anticipa di parecchi decenni la teoria che condanna l’uso del militare robot tanto caro ai vecchi
generali. “Il tempo del soldato macchina è sorpassato non tanto per ragioni politiche e sociali, quanto per ragioni scientifiche e tecniche e la disciplina
non è altro che l’abitudine all’adempimento del
proprio dovere che per il militare può giungere fino al sacrificio della vita. Bisogna trasfondere nel
suo animo una forza che lo infiammi e che lo innalzi. E questa forza che fa affrontare lietamente la
morte non può essere data che da un’altra idea divenuta sangue del nostro sangue, anima dell’anima
nostra: le rivendicazioni della libertà o dell’indipendenza, la difesa della civiltà o della fede, la ri-
‘
L
e mozioni presentate all’approvazione del congresso spaziarono dalle più oltranziste, le quali chiedevano che l’Italia disarmasse dando l’esempio,
a quelle più moderate secondo le quali a scuola
dovessero essere impartite lezioni di tiro a segno
e di scienza militare, che fosse costituito un partito degli amici della pace e che alcune parti politiche facessero del tema del disarmo la piattaforma elettorale per le future competizioni
elettorali.
Il congresso espresse dissensi verso molte proposte
cosicché fu approvato un ordine del giorno generico in cui si auspicava che i governi trovassero un
sistema per ridurre i loro armamenti e operassero
per la riforma degli ordinamenti militari. Fu auspicato un maggiore interesse della stampa verso i temi della pace. Tra i pochi elementi condivisi dall’assemblea dei delegati vi fu l’omaggio reso alla
donna per la sua influenza sui costumi e sulla pubblica istruzione che si tradusse nell’auspicio affinché sorgessero comitati femminili per la propaganda della pace. Ormai lanciato nell’agone del pacifismo, Ernesto Teodoro estende il suo impegno e
dopo la platea casalinga si esibisce anche in quella
ORDINE
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E
I
l congresso universale di Parigi segnò una tappa importante nello sviluppo del movimento proteso
verso l’abolizione della guerra. Intanto una novità
Dopo le guerre, dall’Unità, al popolo non fu mai
detta la parola pace, la pace senza restrizioni
mentali, la pace con tutti i suoi benefici, la pace
tra i popoli che nessuna legittima causa divide,
che tutti gli interessati più sacri consigliano.
conquista di un sacro diritto conculcato in noi o nei
nostri simili. Ecco le idee che, quando sono maturate nella coscienza di un popolo, imprimono a tutta la nazione un impulso irresistibile. Allora il soldato sa che la sua vita non è perduta perché sente
che la dà per la grandezza della patria, per la civiltà”.
Per avvicinarsi alla realizzazione della pace definitiva, è necessario, secondo Moneta, che “governo e
paese facciano di questo ideale la stella polare della loro condotta, l’idea fissa di ogni giorno; bisogna
che tutte le istituzioni vi cospirino, le militari non
meno delle civili, le scuole dalle più infime alle più
elevate, il Parlamento, il potere esecutivo la diplomazia”.
ne propositi di futura più fiera vendetta. Evento che
accadrà puntualmente dopo la prima guerra mondiale in preparazione della seconda.
’
lo differenzia dalle precedenti adunanze ed è l’istituzione d’una conferenza interparlamentare (che da
allora affiancherà tutti i consessi) nella quale uomini di governo ed esperti di diritto internazionale
potranno incontrarsi e dibattere su questioni relative alle nuove concezioni che dovranno regolare i
rapporti fra gli stati.
L’azione di Moneta per la fratellanza dei popoli
non resta confinata nelle elaborazioni dottrinarie
ma trova concreta ed immediata attuazione nei fatti. Nell’ottobre 1899 era giunto in Italia, a Monza,
per una visita ai sovrani della penisola, l’imperatore di Prussia Guglielmo II, salito al trono l’anno
prima. Su sollecitazione del pacifista alsaziano
Albert Taschard, Moneta scrive il 22 ottobre un
fondo (Dalla vera pace alla vera gloria) con il quale si rivolge all’augusto personaggio. S’immagina
che il kaiser, erede d’una gloriosa stirpe di guerrieri e di pensatori, sia triste perché non può mietere
gloria e successi guerreschi o essere protagonista
d’una grande impresa. “L’unità germanica è compiuta; è compiuta l’unità italiana; manca ancora
una pace vera e durevole all’Europa. Ecco la grande impresa che porrebbe sul capo di chi riuscisse a
compierla un serto di gloria più splendido di quello che accompagna i nomi dei fondatori degli imperi”.
La Triplice alleanza era chiamata anche Lega della
pace. “Tuttavia” si chiede il giornalista” che tipo di
pace è quella che costa tre miliardi di imposte ogni
anno ai poveri popoli, che strappa alle famiglie, ai
campi e alle officine braccia utili per farne strumenti di morte, quella che fa dell’Europa due grandi campi armati l’uno contro l’altro che quando si
scontreranno riempiranno di stragi le più belle contrade del nostro continente e di orrore tutto il mondo civile?”.
Avverte il monarca che una nuova guerra non risolverebbe nulla: il vinto non si rassegnerebbe alla
sua sorte, attingerebbe bensì dalla patita umiliazio-
rnesto Teodoro enumera poi i diversi focolai di rivolta che ardono in quello scorcio di secolo nelle valli dei Balcani, sulle creste dei Vosci, in
Serbia, in Macedonia, nel Montenegro, in
Bulgaria, nell’Alsazia Lorena. Dopo aver suggerito la neutralizzazione di alcune province, tema di
contrasto tra Prussia e Francia, il giornalista fa presente che dare la pace all’Europa non vuol dire
mantenere per alcuni anni una tregua fittizia con le
baionette spianate e con la miccia accesa vicina ai
cannoni; significa rimuovere gli odi fra le nazioni e
mettere in armonia gli interessi particolari dei diversi popoli coordinandoli all’interesse generale
della civiltà. Eccita la vanità del grande sovrano.
“Se Guglielmo II assumesse tale impresa, darebbe
equilibrio stabile all’Europa togliendo se stesso e
gli altri grandi potentati dalla tentazione di abusare
della propria forza ed affretterebbe quella federazione delle nazioni europee che nel desiderio di tutti i buoni metterebbe fine ai vecchi, funestissimi,
antagonismi nazionali”.
La Federazione delle nazioni europee cui egli allude sarebbe quella composta ad est dagli stati balcanici, miccia sempre accesa e ad ovest l’altra formata da Olanda, Belgio, Lussemburgo, Alsazia
Lorena. Le progettate federazioni avrebbero dovuto, secondo Moneta, costituire “un possibile baluardo per la pace, primo passo verso lo stato unico europeo che i pacifisti e i pensatori del vecchio
continente sognavano ormai da tempo”.
Scesa in campo in ritardo rispetto a molte società
per la pace straniere, quella milanese recupera presto terreno ed in breve tempo, grazie all’ex garibaldino, acquista notorietà e autorevolezza nel mondo
attirandosi molte simpatie e contributi in danaro
anche dall’estero. Grazie a questi apporti, Ernesto
Teodoro lancia nel 1890 un almanacco dal titolo
L’Amico della pace: è un mensile dal prezzo di 25
centesimi, contenente un calendario per le notizie
meteorologiche, consigli medici, dati statistici, rapporti militari. Con gli anni la pubblicazione cambierà logo. Si intitolerà Giù le armi (1892),
Bandiera Bianca (1900), Leggetemi (1902), Pro
Pace (1908), testata che resterà inalterata per molti anni a venire.
L’Unione lombarda ottiene una conferma del rilevante prestigio conquistato, con la sua elevazione
ad ente morale. Nel 1891, dopo la morte del professor Francesco Viganò, la presidenza del comitato direttivo è assegnata all’unanimità ad Ernesto
Teodoro. La sua leadership dà nuova vitalità al sodalizio che muta logo in Società internazionale per
la pace e sollecita l’attenzione della cittadinanza
con conferenze alle quali prendono parte importanti personalità italiane della politica, della cultura e
dell’economia. La premura con la quale Moneta
porta avanti l’iniziativa, ispira la ventiduenne poetessa Ada Negri che gli dedica una delle sue prime
poesie, Le vittime dell’ideale, una composizione di
quattordici quartine la cui ultima recita: Bacio che
marchia con roventi impronte/ Fede che mai non
muore/ Aquila eterna che si slancia al monte/Sovra
il tempo, lo spazio e la rovina/Ei resta, vincitore.
N
el marzo del 1893, in seguito alla disdetta da parte del negus Menelik del trattato di Uccialli, seguita dai preparativi del generale Oreste
Barattieri d’una aggressione agli abissini, i pacifisti italiani si mobilitano contro la politica
africana del governo attraverso conferenze e
passeggiate nel parco milanese e con numerose
altre iniziative. Il fervore che il giornalista rivolge
ora verso l’organizzazione pacifista, sottrae energia
al Secolo. Il giornale vive una fase di ristagno: concluso il periodo contrassegnato dalle molte iniziative giornalistico-municipali, ora risente sia dall’assenza di Sonzogno, che da qualche anno si dedica
alle attività musicali e teatrali, sia della carenza di
contributi sempre vivificanti del direttore, ognora
impegnato nelle coinvolgenti iniziative pacifiste.
Alla crisi non sono estranei né la controffensiva che
il piano giornalistico ed editoriale gli lancia il
Corriere della Sera di Luigi Albertini né la sconfitta elettorale che ha subito Carlo Romussi.
Mentre la Società internazionale per pace lavora
dunque per orientare gli animi degli italiani verso
l’abolizione dei conflitti, si fa più incombente il pericolo della guerra in Eritrea. Tra il 1894 e il 1895,
numerosi scontri si susseguono fra le truppe italiane e quelle abissine a Kassala, Coatit, Amba Alagi.
7
Cent’anni fa
il giornalista
ERNESTO
TEODORO
MONETA
riceveva il Nobel
Virgilio,
un pacifista
Mentre tutte le leggende e i poeti germanici più
popolari sono una glorificazione della forza, il più
grande poeta latino inneggia al “nuovo ordine”
che è pace, concordia, e unione di tutte le leggi in
un’unica legge.
Dal Compendio
Medaglia assegnata a E. T. Moneta
dalla Fondazione Nobel (1907).
Contro la politica africana del governo tuonano ora
sempre più insistentemente i pacifisti italiani il quali non solo non sono ascoltati ma sono accusati di
viltà e di disfattismo.
M
oneta è fortemente contrario alla nostra politica
d’espansione oltremare. Anni prima Crispi l’aveva fatta facile quell’impresa tanto che aveva
predetto: “Un vasto regno si aprirà alla nostra
industria e al nostro commercio senza sacrifici di
sangue, con danaro messo al sicuro e a largo frutto. Vaste zone di terra colonizzabili s’offriranno in
un avvenire non remoto alla esuberante fecondità
italiana”. Ernesto Teodoro, al contrario dell’uomo
politico siciliano, riteneva che il compito del nostro
paese dovesse essere quello d’aiutare l’Africa. “I
nostri educatori ci avevano insegnato che l’Italia
doveva sorgere a nuova vita per adempiere al suo
debito verso la civiltà, per cooperare con le sue forze alla liberazione degli altri popoli oppressi e non
già per andare a pescare le chiavi del Mediterraneo
nel mar Rosso”. La contrarietà del giornalista verso
l’avventura africana non nasce soltanto dalle sue
convinzioni pacifiste o da inquietudini d’ordine morale ma anche dalla consapevolezza della nostra impreparazione. Conoscitore dell’arte militare, appassionato di problemi strategici, egli sapeva che il nostro esercito non era in condizioni d’efficienza per
sostenere un impegno e temeva che il paese si gettasse in un’avventura piena di incognite o, quello
che era peggio, in un’impresa superiore alle sue forze e alla sua preparazione. Nonostante le notevoli
spese sostenute, l’armamento dei nostri militari non
era moderno mentre la struttura delle nostre forze
armate era priva di quelle riforme che egli sollecitava da oltre vent’anni.
A dargliene ulteriore conferma, sono i servizi che
l’inviato speciale del Secolo Achille Bizzoni manda
al giornale dall’Eritrea nel novembre del 1896, prima di essere cacciato dal generale Barattieri. Il 12
di quel mese il giornalista scrive. “Che siamo venuti a fare qui? Fra questi sassi, su queste vette, fra
queste valli che si somigliano tanto che dopo aver
cavalcato per giorni e giorni avete l’illusione di trovarvi sempre allo stesso posto?” E in un’altra, allarmata, corrispondenza dell’8 gennaio 1896 (dopo la
sconfitta di Amba Alagi dell’8 dicembre 1895) dal
titolo Dubbi africani: “Ogni giorno di più si rivela
l’imprevidenza di coloro che a forza di errori ci hanno preparato questo letto di rose. Si scarseggia di
tutto specialmente di quadrupedi…”
domani della sanguinosa sconfitta, nonostante l’eroismo dei soldati e di alcuni comandanti (due generali morirono in battaglia), cadde il governo
Crispi.
L
a disfatta africana mentre deprime il pacifismo italiano, è motivo per i bellicisti per indicare quali
rinnegati, traditori e senza patria coloro che si
erano pronunciati contro la guerra. Alla loro
campagna, definita dagli avversari disfattista, fu attribuito non certo l’insuccesso, bensì il mancato appoggio del fronte interno “indispensabile” dicevano
“per il buon esito d’un’impresa militare”. Queste
accuse vulnerarono profondamente l’animo di
Moneta nei suoi sentimenti di patriota. Per niente
intimidita dalle accuse di coloro che avevano fomentato la guerra, l’Unione lombarda promosse un
manifesto invitando la cittadinanza milanese ad opporsi alla continuazione del conflitto in colonia. Fu
approntata anche una petizione rivolta al parlamento che però a Milano raccolse qualche migliaio di
adesioni.
In quell’anno 1896 tre ragioni spingono Moneta ad
abbandonare la quasi trentennale direzione del
Secolo. Intanto il pacifismo, impegno che oltre agli
articoli sull’Almanacco aveva necessità d’uno zelo
costante. Quindi la particolare situazione che s’era
creata al giornale; approfittando delle lunghe assenze del direttore sempre occupato in manifestazioni
e iniziative in Italia e all’estero per la causa della pace, Cavallotti e Romussi, discostandosi dal moderatismo originario del foglio, lo avevano impegnato in
un radicalismo acceso che metteva a disagio il vecchio patriota il quale non riusciva a tenerli a freno.
Infine il convincimento, ormai radicato in Ernesto
Teodoro, che quella testata non fosse più la libera
tribuna dalla quale egli poteva rivolgersi al paese.
L’
ex garibaldino aveva moltiplicato fortemente i
suoi impegni per la pace e soprattutto l’attività
pubblicistica in favore di essa con la diffusione
degli Almanacchi ai quali collaboravano spiccate
personalità italiane. Mente fervida, aveva divisato di dare corpo al progetto d’una nuova rivista.
Al fine di dedicarsi completamente alla lotta contro
la guerra offensiva, nel novembre del 1896 lascia la
direzione del Secolo a Carlo Romussi. Il giornale
aveva raggiunto un traguardo notevole con la vendita quotidiana di 115 mila copie.
Affrancatosi dagli impegni direttoriali, Ernesto
Teodoro riversa la sua calda effervescenza a favore
del sodalizio. Nel 1898, con la collaborazione dell’industriale milanese Felice Bisleri realizza un opuscolo dal titolo Il Corriere dei due Mondi. Raccoglie
attorno a sé molti pensatori che come lui sono impegnati con idee umanitarie. Convince anche
Giuseppe Casazza, un pacifista che aveva iniziato la
pubblicazione d’una rivista intitolata La Guerra,
ovviamente d’orientamento pacifista, ad unirsi a lui,
a non sperperare danaro in iniziative dall’esito dubbio, a frenare la sua impazienza e ad attendere fino
a quando avrebbero potuto raccogliere almeno centomila lire per pubblicare una rivista autorevole. Il
momento giunse alla fine del 1897 e nel gennaio
dell’anno successivo, il giorno 8, appare il quindicinale La vita internazionale.
P
er avere mosso questi ed altri rilievi, l’inviato del
Secolo è scacciato dall’Eritrea. La motivazione
del vice governatore Mario Lamberti è questa:”Con corrispondenze inviate alla madre patria e pubblicate nel giornale il Secolo, vilipende
il governo della colonia menomandone l’autorità
ed eccitando all’avversione e al disagio di essa”.
Il foglio ribatte che quella misura è stata presa “in
odio al libero Secolo che di fatto è solidale con
Cavallotti nella questione morale contro Crispi”.
Proprio in quei giorni i magistrati romani avevano
scoperto che il primo ministro aveva ricevuto denari da Bernardo Tanlongo, il governatore della Banca
Romana inquisito per avere distribuito soldi a politici, giornalisti, ministri e persino alla casa reale.
L’espulsione del giornalista non intimidisce i pacifisti. La Società internazionale per la pace moltiplica le sue proteste contro la guerra in Africa.
Diffonde un manifesto in cui invita la popolazione
ad opporsi al conflitto e formula una petizione al
parlamento per porre fine all’impresa. A dimostrazione che il pacifismo è ancora un movimento d’elite, il documento raccoglie le firme di poche migliaia di persone. Lo storico Guglielmo Ferrero, allievo di Cesare Lombroso, tiene una serie di conferenze sulla guerra e il militarismo nel passato e nel
presente. Moneta dal canto suo mobilita l’associazione anche contro Abdulhamid II, la cui politica
crudele provoca nell’impero ottomano continue rivolte alle quali il sultano risponde ordinando massacri di armeni e macedoni che indignano l’Europa.
Lo sdegno invelenisce l’Italia tutta, pacifisti e non,
allorché il 1° marzo 1896 le nostre truppe comandate da Barattieri sono sconfitte ad Adua, capoluogo del Tigrai, in una battaglia che vede ventimila
italiani contro centomila scioani e che registra la
perdita di quasi cinquemila dei nostri e di oltre duemila prigionieri. Le pessimistiche previsione dei pacifisti e quelle di coloro che si erano opposti all’impresa africana si verificarono puntualmente e all’in-
8
diritti individuali armonizzandoli con i doveri sociali e conciliare le esigenze dello stato per la difesa nazionale con i diritti dei cittadini ad avere maggiore autonomia; combattere coloro che seminano
zizzania tra nazione e nazione, convinti però che lo
stato debba essere forte nel respingere le offese e
che la difesa nazionale debba essere garantita da
una più stretta relazione tra istituzioni civili ed esercito; dimostrare che l’internazionalismo non è la negazione del principio di nazionalità ma una sua legittima integrazione educando anche il popolo, sviluppando le scienze, combattendo gli odi, il pregiudizio e la violenza, facendo attenzione ai principi
della giustizia, della solidarietà sociale e internazionale oltre che dedicare studi particolari alle questioni di vita internazionale, alla dottrina dell’arbitrato,
della neutralità e delle alleanze.
Compiaciuto della circostanza che quest’appello
parta da Milano, “dove è ancora viva la tradizione
non solo delle forti opere e degli eroismi generosi
che ci diedero la patria, ma anche i natali a Manzoni,
Romagnosi, Cattaneo, Correnti, il Conciliatore, il
Politecnico, il Crepuscolo, che ne avevano decretato il rinnovamento”, egli osserva che non è una sua
temerarietà se confida che “questa impresa possa
essere l’inizio di una vita nuova, intellettuale e morale che non teme di misurarsi con l’antica”.
N
el primo numero Moneta illustra il programma
della pubblicazione e ne precisa gli intendimenti. Sostiene che la complessità dei rapporti sociali ha rafforzato il sentimento di solidarietà e ha
diffuso l’internazionalismo, caratteristiche che
accompagnano la società moderna, le quali purtroppo non incidono né sulla politica né sulla cultura. Ora proprio in nome di questi due principi, i
governi dovrebbero cessare dal considerare la preparazione della guerra come il loro obiettivo principale mentre i milioni e i miliardi gettati via in armamenti dovrebbero servire a trarre dalla natura e
dall’impegno umano inestimabili tesori per eliminare “il malessere economico ed associare popoli e
classi in una meravigliosa opera di progresso e di
prosperità comune”.
“Forti di questa fede, noi innalziamo in mezzo alla
stampa periodica una tribuna che speriamo non sarà
senza efficacia nei destini della nazione. Vogliamo
promuovere e studiare tutte le questioni che maggiormente interessano la vita ed il benessere dei cittadini senza quello spirito di parte che sovente offusca la verità più elementare e compromette anche le
cause più giuste”.
Moneta sintetizza gli scopi dei pacifisti. Difendere i
N
ell’anno 1898 cadeva il cinquantenario quarantottesco e il giornalista ne approfitta per stilare un
bilancio di quanto era stato realizzato nel paese
in rapporto a quanto si era sperato. Il risultato è
largamente passivo. Egli si duole della corruzione
che investe il governo, del mercanteggiamento parlamentare, dello smarrimento delle idealità del
Risorgimento, della mancanza d’una politica chiara.
“L’Italia divenuta padrona dei propri destini non
seppe approfittare di quella fortuna, lasciando aggravare la situazione economica e lasciando dilagare la corruzione nel campo politico”.
Critica implacabilmente la classe politica e rovescia
una incontrastabile accusa contro il trasformismo.
“Il Parlamento non è più l’augusta aula nella quale
vengono a conflitto per la maggiore, comune, utilità
le idee dei diversi partiti ma un’arena dove si arrabattano volgari interessi di piccoli gruppi e vanità
personali; dove i ministri fanno e disfano, si ricompongono non in base a principi ma in ragioni al numero dei voti che i ministeriali possono recare al gabinetto”. Ernesto Teodoro non manca, nel cinquantenario della Prima guerra d’indipendenza, di rendere un tributo di deferente rispetto alle lotte combattute in nome dell’unità d’Italia. La commemorazione delle guerre da parte di colui che era ormai
considerato il paladino del pacifismo nazionale, è
criticata da molti spiriti puri della lotta totale ai conflitti armati i quali levano parole di sdegno contro
una manifestazione celebrativa del quarantotto promossa dagli studenti dell’ateneo di Padova e patrocinata dai pacifisti,
La polemica offre a Moneta l’occasione per affrontare ancora una volta il tema della non inconciliabilità tra l’idea della pace e la gratitudine dovuta a chi
cooperò all’unità e all’indipendenza dell’Italia
“giacché, la conquista della nazionalità non è che un
primo passo, anzi un presupposto indispensabile per
la federazione di tutti i popoli”,
“Nessuna antinomia esiste tra l’idea che mira ad ottenere una pace stabile fra le nazioni civili e la gratitudine dovuta ai generosi che diedero tutto se stessi per l’indipendenza e la libertà della patria. Poiché
non può esistere pace vera se non ha per fondamento la giustizia. La conquista della nazionalità
era necessaria e fu incamminamento a quella federazione fra i popoli che è l’alta meta alla quale volgono i loro sforzi le società della pace d’Europa e
d’America. Senza il grande movimento che rese
possibile la distruzione dei trattati del 1815, che
avevano sancito il diritto di conquista e considerati
i popoli come servi della gleba, nessuno né in Italia
né in Germania né altrove lavorerebbe oggi per la
cessazione della guerra in Europa”.
Mutati i tempi, sono sorti doveri diversi; il periodo
delle rivoluzioni armate si è chiuso nel 1848 ma se
n’è aperto un altro. “La scheda elettorale e la tribuna della stampa hanno sostituito il fucile e la barricata. Ma l’amore della patria e della libertà, il culto
del bene pubblico, l’abnegazione, lo spirito di sacrificio, il coraggio a tutta prova non sono meno necessari per adempiere oggi ai doveri di quel che furono or mezzo secolo fa per redimere la patria dalle tirannidi paesane e straniere”.
ORDINE
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2007
P
rendendo poi lo spunto dalla guerra che si combatteva a Cuba tra America e Spagna, egli, amareggiato, spiega come “l’evento getti una luce sinistra sul mondo e mette a nudo verità molto ingrate”. Il conflitto gli dà altresì modo per esprimere alcune considerazioni sull’umanità improntate al
più cupo pessimismo.“La più volte millenaria civiltà non è altro se non una vernice che copre un immenso strato di barbarie; il cristianesimo dopo 19
secoli di predicazione non ha modificato l’essenza
dell’uomo; nei rapporti tra le nazioni domina lo spirito pagano; l’anarchia condannata negli individui, è
la regola di condotta dei governi; la miglior forma
di governo non serve a preservare la più libera nazione da errori funesti e l’amore per la giustizia non
è divenuto sana educazione”. Ernesto Teodoro profetizza che “quando i popoli saranno padroni in casa loro, nessuno impugnerà più le armi contro l’altro e che non ci saranno più gare fra gli umani che
quelle del lavoro, della scienza a vantaggio comune”. Locuzione che avrebbe dovuto avere il valore
d’un assioma ma che la Storia, purtroppo, s’è incaricata più e più volte di contraddire.
È
Dante?
Un pacifista
Tutta la Letteratura nostra risponde a sentimenti
umani e civili. L’opera di Dante è tutt’intera
consacrata all’unione delle umane genti, alla pace
universale; egli flagella e condanna alle maggiori
pene del suo inferno i violenti, i conquistatori, i
belligeri e serba maggiore gloria agli uomini che
ebbero sete di giustizia e che lasciarono nel
mondo opere durevoli di amore e di bene.
Dopo Dante, nessuno dei nostri maggiori
scrittori separa l’amore della patria
dal culto dell’umanità.
Dal Compendio
attraverso sia La vita internazionale che ora il
giornalista denuncia il suo militarismo attivo il
quale si distingue dalle posizioni che caratterizzano il socialismo. Egli è seguace del movimento
radicale il quale, una volta raggiunta l’unità
d’Italia, aveva posto sul terreno politico le prime
esigenze delle sinistre democratiche del paese rifuggendo dall’impostazione classista. La rivista
gli dà anche l’occasione di riprendere la lotta contro il duello. L’opportunità gli è offerta dalla tragica
morte di Felice Cavallotti. Ferruccio Macola, direttore del Gazzettino di Venezia, consideratosi offeso
da un’affermazione del “bardo della democrazia”,
lo aveva sfidato a duello e nello scontro che i due
avevano avuto il 6 marzo a Roma, il capo del giornale veneziano aveva ferito mortalmente l’altro.
Moneta e Cavallotti erano molto amici. Una volta,
dopo che il secondo aveva pronunciato un’orazione
funebre, il primo aveva commentato: “Sei stato veramente grande”. Cavallotti aveva replicato.
“Questo è niente. Il più bel discorso lo terrò davanti alla tua bara”. E l’altro: “Ma chi ti dice che dovrò
morire prima io?”
Nella circostanza del luttuoso evento, Moneta su La
vita Internazionale si scaglia veementemente ancora una volta contro l’incivile costume. Scrive che
“per ottenerne l’abolizione bisognerà operare su due
fronti: quello giuridico e l’altro morale sollecitando
le istituzioni a fare applicare il codice Zanardelli e
ad operare perché quelle norme vengano messe in
atto contro i duellanti e gli istigatori, e cominciando
soprattutto a bandire l’usanza dalle forze armate”. A
quel tempo l’uso delle armi per la risoluzione d’una controversia era stato già interdetto in Inghilterra
e in Germania.
La campagna di Ernesto Teodoro contro le contese
dialettiche che si risolvevano con il ricorso alle armi bianche o da fuoco, s’interrompe bruscamente,
‘
L’
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’
attivismo che anima i pacifisti d’Europa, compreso quello degli italiani, non resta senza risultati anche se focolai di guerra s’accendono qua
e là per il globo.
Proprio in quel funesto anno novantotto, lo zar
Nicola II con un manifesto diretto al suo ministro
degli esteri Michail Nikolaevic Murav’ev e a tutti i
governi rappresentati a Pietroburgo, promuove una
conferenza per porre un limite agli armamenti ed
assicurare la pace mondiale. Nonostante la freddezza di parecchie nazioni e le difficoltà nella preparazione del convegno, i delegati si riuniscono su invito dell’Olanda all’Aia dal 18 al 20 luglio del 1899.
A conclusione dei lavori è formulato un disegno di
convenzione per la stesura d’un regolamento teso a
pacificare i conflitti internazionali. Moneta è entusiasta dei risultati di quell’assise. “Per la prima
volta con la conferenza dell’Aia il sogno dei filosofi, la fantasia dei poeti preoccupò le menti dei legisti e dei soldati e tutti s’inchinarono augurando e
cooperandovi”.
Le dichiarazioni rese rappresentarono il proemio del
codice internazionale che qualche anno più tardi le
nazioni adotteranno per armonizzare diritti e doveri
degli stati e gli interessi delle genti con la politica
dei governi. Il congresso approvò diverse convenzioni tra le quali la definizione pacifica dei conflitti
internazionali, quella concernente le leggi e i costumi della guerra di terra; l’adattamento alla guerra
marittima dei principi della Convenzione di guerra
stipulata nell’agosto del 1864.
L
a crisi economica, accompagnata dall’aumento del
prezzo del pane, ha provocato tumulti in tutta
Italia a partire dal 1897. L’anno successivo le rivolte s’intensificano e hanno il loro apice nel capoluogo Lombardo dove, una scintilla partita
dagli operai della Pirelli il 7 maggio accende una
sanguinosa sommossa. La città, presidiata da ventimila soldati al comando del generale Fiorenzo
Bava Beccaris, è posta in stato d’assedio.
L’insurrezione, che dura tre giorni, si conclude con
un’ottantina di morti, oltre quattrocentocinquanta
feriti e l’arresto di più d’un migliaio di persone. Tra
questi vi sono il direttore del Secolo Carlo Romussi,
quello dell’Italia del Popolo Gustavo Chiesi, il direttore dell’Osservatore Cattolico, don Davide
Albertario e il redattore della Plebe, Paolo Valera il
quale ci lascerà un’indimenticabile cronaca di quelle tragiche giornate. Temendo d’essere arrestato
quale ex direttore del giornale di Sonzogno, ed essendo già noto come repubblicano eversore, Moneta
fugge in Svizzera dove prosegue la sua propaganda
in favore del pacifismo.
Rientra a Milano alla metà del mese d’agosto, e assume la direzione del suo vecchio foglio che riprende le pubblicazioni agli inizi di settembre quando ormai i quattro direttori sono stati condannati a
pene varianti dai diciotto mesi ai quattro anni e associati alle carcere di Finalborgo, a Mantova. La sua
guida dura meno di dodici mesi. Mario Borsa, che
qualche anno prima era stato mandato a Londra
quale corrispondente, ricorda che Moneta “diede al
giornale un tono più conciliante ma, giornalista dei
vecchi tempi, non capì che bisognava modernizzarne l’aspetto, migliorarne la stampa, ampliarne i servizi. Ed i pacifisti non erano in grado di arginare i
pericoli delle guerra”.
guerra che un falso patriottismo e interessi di casta
cercano ogni tratto di suscitare. Noi dal canto nostro, continueremo e a questo volumetto daremo seguito con altri”.
Indomito, s’impegna contro i conflitti che nonostante le buone intenzioni espresse dai politici
all’Aia scoppiano in diverse parti del mondo. Lotta
contro i guerrafondai ed è costretto a vigilare con
cura sulla sua salute che diventa sempre più precaria. Nel 1900 è colpito da un gravissimo glaucoma agli occhi tanto da perdere progressivamente la
vista.
Come oggi, anche allora, i pacifisti erano considerati degli acchiappanuvole. Circondati da una calda
benevolenza ma anche da un implacabile scetticismo sulla possibile realizzazione dei loro progetti,
quegli uomini erano assistiti dall’affettuosa commiserazione con la quale sono circondati da sempre gli
ingenui sognatori, fortemente rispettati per la tenacia con la quale lottano per le battaglie che altri considerano inutili e già perdute.
Nonostante tutto, Moneta, nel 1900, gode d’una devota attenzione tanto che della sua malattia dà notizia persino il Corriere della Sera. L’ex garibaldino
non s’avvilisce. Benché sia infermo, continua nella
sua attività di pubblicista aiutato da un lato dalla segretaria di redazione de La vita internazionale
Giannina Levati e dall’altro dall’assistente personale Maria Zappa alla quale detta articoli e corrispondenza. Denuncia senza tregua guerre, aggressioni di popoli, ingiustizie. Nel 1899 si è mobilitato
contro il conflitto che in Sudafrica ha visto gl’inglesi contro i boeri. Nel 1900, si scaglia contro l’occupazione della Cina da parte d’un gruppo di potenze mondiali per reprimere la rivolta dei boxer.
Tre anni più tardi, organizza a Milano una manifestazione in favore dei popoli armeni e macedoni in
cui coinvolge i direttori delle principali testate cittadine: Luigi Albertini (Corriere della Sera), Carlo
Romussi (Il Secolo), Giovanni Bistolfi (Lombardia),
Claudio Treves (Tempo), don Ernesto Vercesi
(Osservatore cattolico), oltre a politici democratici
di varia tendenza.
In quell’occasione prende la parola Filippo Turati,
leader dell’ala riformista del movimento socialista,
che tiene un memorabile discorso recando per la
prima volta in una manifestazione pacifista la voce
del proletariato italiano. Ammette realisticamente
che il mondo del lavoro “aveva dei fatti e delle circostanze in discussione ben scarsa conoscenza”.“Fatti e circostanze che per altro lo stesso
proletariato subiva in se stesso perché non del tutto
diversi - sia pure in misura minore - di quelli armeni e macedoni”. L’uomo politico si chiede, provocatoriamente, se non si debba ammettere che la giustizia turca sia un po’ dappertutto come la miseria
stessa. La presenza del mondo operaio in un’assemblea pacifista (è il pensiero del parlamentare) ha
un significato pedagogico; è il preludio al giorno in
cui “il proletariato, tutti i popoli, liberi dalle loro miserie interne, cominceranno a portare lo sguardo all’esterno e potranno fare la loro politica estera.
Essi potranno farla in una sola maniera possibile;
che consiste anche nell’elevare l’educazione politica dei popoli tanto in alto affinché ciascuno si senta cittadino nel mondo e senta, anche in tutto ciò che
di grande o di criminoso accade sulla terra, la propria complicità o la propria gloria”.
Turati riconduceva il suo dire concreto ai grandi
motivi del pacifismo di Moneta senza contraddizione quale buon combattente per la libertà italiana e
per tutti gli uomini.
Borsa ricorda pure che “quello scorcio di secolo
non faceva presagire nulla di buono: guerra cinogiapponese, minaccia di guerra scongiurata solo
dalla prudenza di lord Salisbury che aveva accettato di arbitrare per la disputa delle frontiere tra
Venezuela e Guyana inglese; nuova guerra per la riconquista del Sudan; la gravissima crisi fra
Inghilterra e Francia per Fascioda, in Sudan; l’inaugurazione del canale di Kiel e l’istrionismo del kaiser; guerra boera…”.
L’ex garibaldino riprende a stampare La vita internazionale e nel primo numero in uscita promuove,
insieme con la rivista francese Humanitè Nouvelle,
un referendum tra suoi lettori proponendo quattro
domande: La guerra tra le nazioni civili è ancora voluta dalla Storia, dal Diritto, dal Progresso? Quali
sono gli effetti intellettuali, morali, fisico economici, politici del militarismo? Quali sono le soluzioni
che, per l’avvenire della civiltà mondiale, conviene
dare ai problemi della guerra e del militarismo?
Quali sono i mezzi per giungere più presto che si
può a tali soluzioni?
Al sondaggio risposero eminenti personalità dell’epoca: il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli,
il generale Julius Revel, la baronessa Berta von
Suttner, il principe Scipione Borghese, l’economista
francese, Ives Guyot, il fisiologo francese Charles
Robert Richet, lo scrittore e uomo politico di
Francia, Georges Sorel, e lo scrittore russo, Lev
Tolstoi. In un articolo intitolato Chartado Delenda
est, l’autore di Guerra e pace sviluppa il concetto
della difesa assoluta della non violenza. La vita internazionale dissociò la propria responsabilità dalla
lettera nella quale fu ravvisata una rivolta contro il
servizio militare in nome del comandamento divino
“Non uccidere”. In Italia l’articolo di Tolstoi sarà
letto solo nel 1905 purgato in alcune parti.
Nessuna antinomia esiste tra l’idea che mira
a ottenere una pace stabile fra le nazioni civili
e la gratitudine dovuta ai generosi
che diedero tutto se stessi per l’indipendenza
e la libertà della patria.
insieme con la pubblicazione del quindicinale a causa della grave repressione con la quale Bava
Beccaris reprime i moti di Milano.
E. T. Moneta
al tempo in cui
era direttore
de “Il Secolo”
in una caricatura
pubblicata
su “Semper sui
rutai”, omaggio
per l’anno 1878
del giornale
“El tranvaj”.
P
rendendo spunto dai numerosi argomenti discussi
all’Aia, Ernesto Teodoro diede vita alla pubblicazione d’una serie di opuscoli intitolati Patria e
Umanità. Scrisse in uno di questi: “Se i fautori della pace e della giustizia sapranno valersene, le deliberazioni dell’Aia diverranno un mezzo potente per
impedire ai nolenti di compromettere il proprio e gli
altrui paesi e per soffocare sul nascere i pericoli di
Q
uale corollario della sua intensa attività di soldato
prima e di pacifista dopo, Ernesto Teodoro manda alle stampe il primo volume d’un compendio
storico dedicato a Le guerre, le insurrezioni e la
pace nel secolo XIX. È una sintesi degli avvenimenti dell’Ottocento che egli ha cominciato a scrivere a partire dal 1870, quando la sua memoria degli eventi era ancora fresca. L’ex garibaldino ripercorre le vicende vissute in prima persona: l’insurrezione del 1848, nella quale riscontra “uno spirito di
umanità che difficilmente si trova nella storia delle
altre nazioni”. Tiene separati il patriottismo e il nazionalismo e trova nel primo le ragioni per amare le
patrie di tutti gli uomini del mondo. Secondo lui il
patriottismo non solo non contraddice il più elevato
umanesimo ma è la via più naturale e più diretta per
arrivare a comprenderlo e a praticarlo. “È con l’abituarsi a vincere il proprio istintivo egoismo con l’amor di patria e sollevandosi a una concezione supe-
9
Cent’anni fa
il giornalista
ERNESTO
TEODORO
MONETA
riceveva il Nobel
riore a quella della vita individuale e professionale
che l’uomo si sente portato dal suo stesso patriottismo a comprendere le patrie altrui, a desiderarle tutte affratellate nell’umanità”.
Disapprova coloro che accettano il principio dell’ineluttabilità della guerra.“Poiché le maggiori conquiste del passato si ottennero con le armi e le nazioni ora in possesso della propria indipendenza sono nate o risorte dalla guerra, si crede ancora da
gente colta e si insegna dalle cattedre che le guerre
ci saranno sempre. Nulla meglio della storia delle
guerre e delle insurrezioni dell’ultimo secolo dimostra la fallacia di questa dottrina”. Chiarisce di non
essere propugnatore d’un pacifismo assoluto, di una
pace per la pace in un dolciastro rifiuto della violenza (“il mio pacifismo non assomiglia in nulla a
quello di Tolstoi”) poiché afferma anzitutto l’indiscutibile legittimità della lotta per la difesa e la conquista delle libertà e della indipendenza dei popoli.
Egli non concepisce l’antimilitarismo che rende la
nazione imbelle e incapace di difendere la propria
esistenza. Questo ovviamente non lo conduce verso
postulati militaristi bensì a riconoscere l’esigenza di
un’efficiente forza militare difensiva e tale da garantire l’indipendenza e la libertà del paese.
N
el maggio del 1904, mentre esce il secondo dei quattro volumi del compendio, Ernesto Teodoro partecipa al I congresso italiano per la pace (primo
del nuovo secolo). Acclamato presidente, legge una
relazione dal tema “Partecipazione delle società per
la pace alle elezioni politiche ed amministrative”,
nella quale riferisce della sua esperienza. Il convegno si apre mentre in estremo Oriente infuria la
guerra russo-giapponese in cui è coinvolto Nicola II
che alla conferenza dell’Aia aveva biasimato, attraverso il suo delegato, il ricorso agli armamenti.
Nell’affrontare quel conflitto, la posizione di
Ernesto Teodoro appare alquanto ambigua.
Giustifica lo zar, ma non la guerra da parte dei russi e sostiene che responsabile d’un conflitto “non è
chi lo intraprende per primo ma chi lo rende necessario”.
L’impegno, la dottrina e la generosa dedizione alla
causa della convivenza pacifica dei popoli diffondono oltre frontiera il suo prestigio. Nello stesso anno 1904 è invitato al XIII congresso universale di
Boston dove è acclamato quale vice presidente;
l’anno successivo, prende parte ai lavori del quattordicesimo che si tiene a Lucerna.
L
a frequentazione dei consessi internazionali, invoglia Moneta ad impegnare nella questione della
pace anche la città di Milano con iniziative del
massimo livello. Nell’aprile del 1906, si apre il
traforo del Sempione, un’opera dall’emblematico
significato perché contribuisce ad unire idealmente
i popoli europei. Per l’occasione s’inaugura nel capoluogo lombardo l’Esposizione universale, un
grande circo, tra l’Arena, e la piazza d’Armi. L’ex
direttore del Secolo e i suoi non perdono l’occasione per promuovere la propaganda pacifista nella
grande fiera. Allestiscono un padiglione della Pace,
un tempio neoclassico con due gruppi marmorei che
rappresentano il Lavoro e la Giustizia, opere dello
scultore Tullio Brianzi. All’interno vi sono esposti
quadri, sculture e autografi d’importanti artisti pacifisti. Moneta, a dimostrazione della sua indiscutibile autorevolezza e della sua influenza sulle istituzioni, ottiene dal ministro dell’Istruzione pubblica
Paolo Boselli che venga fissata per il 22 febbraio la
festa della pace.
A giustificanza del rilievo assunto nel mondo dai
pacifisti italiani e da Moneta in particolare, all’interno dell’Esposizione si tenne dal 15 al 22 settembre il XV congresso universale della pace. Il consesso (altra dimostrazione della considerazione in
cui erano tenuti Ernesto Teodoro e i suoi colleghi)
si svolse alla Villa reale sotto il patrocinio del ministro degli Esteri Tommaso Tittoni e alla presenza del
sindaco di Milano Ettore Ponti. Intervennero riconosciute celebrità del movimento pacifista: Federico
Passy, il fisiologo Charles Robert Richet, Bertha
von Suttner, lo scrittore Aleksej Novichof, Elia
Duconnum, segretario della federazione internazionale.
L’assise di Milano non insegue inconsistenti e vaghi
programmi. Dalla sua tribuna sono indirizzate proteste contro l’oppressione turca in Armenia e si
plaude ai migliorati rapporti tra Germania, Francia
e Inghilterra, le cui recenti frizioni hanno creato apprensioni in Europa. Vi si propugna la necessità
10
Perché il cristianesimo
attecchì in Italia
Il cristianesimo fa in breve tempo i suoi maggiori progressi in Italia perché qui l’anima del popolo, che vive
più che di tutto di sentimento, rispondeva alla legge d’amore della novella religione. Altrove il cristianesimo
suscita una folla di mistici, crea l’inquisizione e accende le guerre di religione, delle quali mai si videro le
più feroci. In Italia è più umano e civile; pone fine ben presto alle lotte religiose, riconcilia le famiglie
nemiche, suscita i santi Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, Gerolamo Miani, Filippo Neri e ai giorni
nostri il padre Ludovico da Casoria e don Bosco che compiono miracoli.
Dal Compendio
d’un impegno pacifista tra le fila del movimento
operaio e l’opportunità di rendere neutrali le vie
commerciali dell’Atlantico e degli altri mari, secondo le deliberazioni prese anni prima all’Aia.
mentichi che ancora non esisteva in Italia il suffragio universale. “Se il quarto stato vuol prendere nella società il posto che ha oggidì quello che un tempo si chiamava terzo stato e che ora impropriamente si chiama borghesia, la sua ambizione è legittima
ma quel posto deve meritarlo dimostrando coi fatti
di saper meglio amministrare la cosa pubblica e di
avere un cuore che più di quello della borghesia arde di amore per la giustizia e per la libertà”.
Ammonisce che “l’Europa e tutto il mondo civile
avranno pace vera, sincera e durevole, garantita da
convenzioni con tutti gli stati da una corte suprema
internazionale di giustizia quando tutti i cittadini
comprenderanno il loro dovere di occuparsi direttamente della politica del proprio paese”.
L
a partecipazione ai convegni internazionali e alle
manifestazioni della pace, e l’infermità agli occhi
che si fa sempre più grave, non impediscono a
Moneta d’impegnarsi in aspri scontri dialettici e
in gravose contese. Sempre nell’anno 1906, sul tema dell’antimilitarismo litiga con Luigi Bignami,
direttore della Perseveranza il quale scrive che “coloro i quali sono contro la casta militare giustificano la viltà umana”. Prorompe contro un autorevole
sostenitore della tesi opposta, il giornalista francese
Gustav Hervè, socialista, direttore del giornale La
guerre sociale biasimato in Italia anche dai socialisti Gaetano Salvemini e Giovanni Zibordi. Moneta,
mentre riconosce l’assurdità e la follia dell’antimilitarismo anarchico e rivoluzionario di Hervè, fa rilevare che per questa ragione “non ne viene l’obbligo d’inchinarsi al militarismo nazionalista, non mai
sazio d’imporre nuovi sacrifici ai popoli per fabbricar cannoni e fortezze e per costruire corazzate con
l’dea fissa d’una possibile guerra vicina”.
Coerentemente alla sua primigenia convinzione, individua nel concetto di nazione armata la soluzione
del problema. “Vi è l’antimilitarismo dei rivoluzionari seri o da burla che insieme a tutti i socialisti noi
respingiamo; vi è quello che si oppone al militarismo nazionalista e belligero, contrario allo spirito
del tempo nostro e degli interessi del paese; è questo antimilitarismo che noi crediamo, come lo credeva Garibaldi, il meglio rispondente alle buone tradizioni del nostro paese e alle necessità finanziarie
ed economiche del tempo in cui viviamo. È ad esso
ispirandosi che sarà un dì organizzato l’esercito della democrazia.”
Hervè, il contraddittore di Moneta, nel 1914, dopo
la dichiarazione di guerra della Germania alla
Francia, diverrà un acceso patriota, fonderà il giornale La Victoire con cui appoggerà il ministero
Clemenceau e nel 1927, ispirandosi al fascismo,
creerà il partito socialista nazionalista.
L
a molteplice, ininterrotta, operosità cui si dedica
l’infaticabile giornalista, non sfugge al pacifismo
mondiale. Il suo nome è proposto per il Nobel da
alcune importanti riviste europee ed americane.
Poi della sua candidatura al premio si fa mallevadore il drammaturgo norvegese Bjornstjerne
Bjornson, uno dei cinque membri del premio per
la pace, che la propone alla commissione con un
indirizzo rivolto al parlamento norvegese. Il 10
dicembre la carriera di Moneta è premiata con la
concessione del premio che divide con il giurista
francese Louis Renault membro della corte permanente di arbitrato dell’Aia. Nella motivazione si
mette in risalto “che mediante la sua potente posizione nella stampa italiana aveva la migliore occasione di lavorare per le sue idee di pacificazione e
nessun gran giornale europeo ha cosi come il Secolo
adottato un programma di pacificazione”.
È approvata altresì la sua concezione del nazione armata. “Moneta lavorava alla disposizione popolare
della milizia sul modello della Svizzera in tal modo
che riuscirebbe l’esercito ad essere esclusivamente
destinato alla difesa della patria”.
Nella menzione si riconosce il suo notevole contributo all’informazione. “Inoltre egli teneva informato il suo pubblico sul processo di pace e sull’arbitrato”. Gli è legittimato anche il merito d’avere allentato le tensioni che nel 1888 c’erano state tra
Francia e Italia e d’avere stabilito “una buona intelligenza tra i due paesi”.
Quello concesso a Moneta era il terzo Nobel che
toccava all’Italia.
Il primo lo aveva ricevuto il biologo pavese Camillo
Goggi per gli studi sulla struttura del sistema nervoso; il secondo era andato a Giosue Carducci per
la Letteratura. Quale primo atto dopo l’aggiudicazione dell’alloro, egli devolve ventimila lire alla
Società internazionale della Pace che delibera d’istituire un premio Moneta da assegnare ogni anno
ai benemeriti della causa. Intervistato da Renato
Simoni per il Corriere della Sera, in quell’occasione l’ex garibaldino si mostra ottimista circa l’avvenire del pacifismo italiano. “Se non vedrò io la vittoria definitiva dell’idea, la vedranno sicuramente i
nostri discendenti”.
D
ieci anni dopo l’abbandono del Secolo, Moneta si
segnala nel mondo per la sua incessante, ininterrotta e proficua azione a favore della convivenza
tra i popoli. Nonostante abbia superato la settantina d’anni è instancabile. Nel mese di febbraio presiede a Milano alla festa mondiale della pace dov’è
distribuito in 25 mila copie agli scolari cittadini un
numero unico illustrato e da lui personalmente curato. A Monaco di Baviera partecipa ai lavori del
XVI congresso universale e in settembre è a Perugia
dove presiede il III convegno italiano dal quale sortisce la costituzione della federazioni delle società
della pace della penisola, che sarà il modello per la
futura federazione mondiale di tutti i movimenti già
raggruppati per nazione. In quell’occasione è diramato un appello per la fondazione d’un giornale
quotidiano sul pacifismo.
L’ex garibaldino non trascura la questione sociale.
Dalla tribuna perugina condanna il collettivismo e la
lotta di classe, idee che hanno ormai pervaso gran
parte del mondo del lavoro, e stigmatizza l’atteggiamento della borghesia italiana la quale, “mentre
gli apostoli della dottrina collettivista evagelizzavano le masse, non fece nulla per menomare o distruggere gli effetti di tale propaganda”. Esorta il ceto imprenditoriale ad ispirarsi all’opera del
Risorgimento nazionale di cui furono protagonisti
intellettuali e borghesi per assolvere ancora al loro
compito a vantaggio del paese e della classe lavoratrice.
L’
irruzione del famoso pacifista nella questione sociale, solleva parecchie critiche. Moneta non si
lascia disarmare e risponde: “Nemici delle guerre fra le nazioni, dovremmo dunque rimanere
inerti spettatori indifferenti della guerra fra le
classi sociali? Cittadini del mondo che ne vagheggiamo uno nel quale tutti i popoli si sentiranno solidali nelle opere di pace e di civiltà, non dovremmo dunque più curarci dei casi di casa nostra? I doveri che sentiamo vivamente verso l’umanità non
possono farci dimenticare quelli verso la patria nostra”.
Nemico della lotta di classe, caldeggia la necessità
che il proletariato (che egli chiama “quarto stato”
come nella rivoluzione francese), assuma un ruolo
attivo nel mondo politico e nella società. Non si di-
S
ul tema della vocazione pacifista della penisola torna ancora il 25 agosto del 1909 giorno in cui tiene un’allocuzione all’Istituto Nobel di Kristiania
(Oslo) in Norvegia sul tema: “La pace e il diritto nella tradizione italiana”.
Il neo premio Nobel traccia una rapida rassegna storica del pensiero pacifista italiano inserendovi anche
le sue esperienze di giovinetto colpito dalle atrocità
della guerra. La tribuna di Kristiania è anche un’occasione per rassicurare coloro i quali temevano che
con la diffusione del pacifismo si operasse una sorta di globalizzazione delle società (inquietudine che
angustia anche le società di quel tempo) ma non può
fare a meno dal mettere in allarme il mondo circa i
gravi pericoli dei nazionalismi.
“Il pacifismo non tende a distruggere le patrie fondendole nel crogiuolo del cosmopolitismo, ma a costituirle, se ancora non lo sono, secondo equità”. Si
richiama alla tradizione romana d’una giustizia
uguale per tutti i popoli che trovò in Cicerone la sua
più netta espressione ed esaltò con Virgilio, Orazio,
Plinio, Seneca i benefici della pace. A questi storici
nomi aggiunge quello di Giuseppe Garibaldi “guerriero per amore di libertà” che subito dopo la battaglia del Volturno, il 30 settembre 1860, indirizzò alle massime potenze un memorandum scongiurandole di “por fine alle guerre ed agli armamenti unendosi in una confederazione europea”.
Profeticamente mette in guardia sui possibili guasti
che avrebbe potuto procurare il nazionalismo, “difORDINE
4-5
2007
fidente, orgoglioso, arrogante e provocatore”. Si
chiede se dovrà prevalere sempre.
Esprime il suo biasimo per la fiacca, tardiva, voce
degli stessi pontefici levata per scongiurare le guerre nonché per l’esaltazione che poeti in busca di popolarità fanno dei massacri bellici per l’esaltazione
dei valori nazionali sentiti con odio e disprezzo degli altri popoli.
“Da qui nasce il dovere dei pacifisti di denunciare
la mentalità arretrata di coloro che nella guerra vedono una buona speculazione mostrando al popolo
ciò che la guerra è in realtà e quante lacrime, quanto sangue, quante torture costano alle povere popolazioni gli allori delle vittorie”.
A
Kristiania, Moneta non indulge nell’ottimismo
sull’avvenire prossimo dell’Europa. Rimarca come nel vecchio continente, anche se non c’è alcun
governo che coltivi disegni di guerra, questi propositi possano nascere improvvisamente. La situazione poi è cosi aggrovigliata, i vecchi rancori
sono ancora cosi vivi, che nessuno potrebbe farsi
garante del futuro.“Mentre gli uomini di scienza e
d’ardimento sono riusciti a vincere la resistenza dei
venti e a solcare le via del firmamento, tra gli uomini di stato, dalle larghe visioni che pure non mancano nei vari paesi, non se ne sono trovati finora di
quelli che abbiano saputo domare le resistenze che
le male passioni e gli interessi antisociali coalizzati
oppongono al fatale andare delle nazioni verso la
pace, la giustizia e il comune benessere.”
Tutto poteva pensare in quel momento il povero
Moneta tranne che in prima fila fra i governanti che
non sapevano domare “le male passioni e gli interessi antisociali coalizzati”, ci fossero i suoi connazionali, sì, gli italiani; e che costoro, oltre che a
rompere la fragile pace che c’era nel mondo all’inizio del secondo decennio del Novecento, finissero
con il metterlo in gravissimo imbarazzo, facendogli
tradire la fede pacifista ed esponendolo al vituperio
dei pacifisti del mondo che ne avevano fino a quel
momento esaltato la figura tanto da offrirgli il massimo premio quale benemerito della convivenza fra
le genti.
Aveva ragione Mario Borsa che connotava il pacifismo di Moneta come “fatto di candore sentimentale uguale a quello della baronessa Von Suttner e del
suo romanzo allora celebre, Giù le armi, tanto è vero che quando scoppiò la guerra libica, la patria a
cui Moneta teneva più di Volfango Goethe, ebbe il
sopravvento sul suo ideale di pace”.
Libri e pubblicazioni su Ernesto Teodoro Moneta
Arcari Paolo
Uomini e idee dell’Italia Moderna,
Ernesto Teodoro Moneta
Bauer Riccardo Ricordo di Ernesto Teodoro Moneta,
premio Nobel per la pace 1907
Bessi Pirro
Ernesto Teodoro Moneta
Casazza Enrico Ernesto Teodoro Moneta
Combi Maria
Ernesto Teodoro Moneta
Combi Maria
Ernesto Teodoro Moneta
Combi Maria
Ernesto Teodoro Moneta
Meda Filippo
Ernesto Teodoro Moneta
Pinardi Giuseppe La carriere d’un pacifiste
Riva Silvano
Il concetto della pace internazionale
nel pensiero di Ernesto Teodoro Moneta
Roux Onorato
Infanzia e giovinezza
di illustri italiani contemporanei
E
l riconoscimento ottenuto a Kristiania ha moltiplicato le sue forze e, malgrado l’aggravarsi del glaucoma che gli è stato diagnosticato ad un occhio,
egli è più attivo che mai. Nel 1910 ha mandato alle stampe il quarto e ultimo volume del suo compendio storico dedicato a Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX (il secondo e il terzo erano usciti rispettivamente nel 1904 e nel
1906).
Ancora nel 1910, in vista della preparazione del
congresso universale pacifista che nel 1911 si dovrebbe tenere a Roma, egli, accompagnato dal conte De Gubernatis, si reca a Lucerna per trarre ispirazione dalla mostra storica della Pace, perché un’a-
i pacifisti italiani che posizione presero? Anche
loro come il resto del paese s’erano divisi in proporzioni uguali tra favorevoli e contrari. In quelle giornate d’estate che precedettero lo sbarco dei
marinai italiani a Tripoli, Moneta, infermo agli occhi, riunì il comitato dell’Unione lombarda per conoscere l’opinione dei suoi membri. Egli aveva approntato un documento che caldeggiava una soluzione pacifica della vertenza. Dalla riunione uscì invece un ordine del giorno (dal quale il premio Nobel
si era astenuto) che raccomandava una penetrazione
pacifica del nostro paese nel dominio turco.
Non per giustificare Moneta, ma va detto che in
quella democrazia incompleta e venata d’autoritarismo che comandava in Italia (non c’era nemmeno il
suffragio universale che sarà concesso in quell’occasione come offa ai cittadini per compensarli della
guerra) i dissensi, soprattutto quando il paese era
impegnato in un conflitto armato, erano pagati a caro prezzo.
Già nel 1896, la posizione dei pacifisti era stata bollata come “disfattista” ed era stato loro in parte imputato il disastro di Adua.
Ora tra l’altro montava la marea nazionalista e
Moneta temeva che una forte opposizione al conflitto avrebbe potuto far scontare ai suoi compagni di
fede le conseguenze d’un’altra eventuale sconfitta.
Quando all’alba del 2 ottobre 1911, le nostre truppe sbarcano a Tripoli, l’ex garibaldino, tradendo i
principi del pacifismo, accetta le ragioni addotte dal
governo e considera una fatalità storica non tanto
l’occupazione da parte dell’Italia dei territori africani, quanto che “tutta l’Africa venga rimessa in contatto con la civiltà non più romana ma europea”. In
compenso fa voti perché la guerra duri poco e faccia poche vittime.
L’Europa e tutto il mondo civile avranno pace vera,
sincera e durevole, garantita da convenzioni
con tutti gli stati da una Corte suprema
internazionale di giustizia quando tutti i cittadini
comprenderanno il loro dovere di occuparsi
direttamente della politica del proprio paese.
naloga esposizione si dovrà allestire a Castel
Sant’Angelo in occasione del XIX raduno universale. Nello stesso anno 1911, Ernesto Teodoro, nonostante l’età (ha settantaquattro anni) e la forte menomazione agli occhi, si presenta alle elezioni comunali in una lista di moderati appoggiata persino
dal Guerin sportivo che incita così i votanti.
Dunque, o elettor, sopporta ch’io ti dica/ di votar
questa lista, /poiché premio si merita ogni fatica.
/Non dar Milano alla Massoneria/ e neanche al socialista,/A Votar va’, ti prego!/Se per te questa lista
si completa /per qualcun che non desta simpatia,/
dà al suo nome di frego/ e metti in vece sua quel di
Moneta…
Poi i programmi dei pacifisti italiani sono sconvolti
dell’intervento colonialista del governo. La sconfitta di Adua aveva impegnato l’Italia nella cosiddetta
politica delle mani nette, vale a dire nell’abbandono
di altre mire di conquista nel territorio del continente nero. Tuttavia, su pressione dell’opinione pubblica, influenzata dal nazionalismo, Giovanni
Giolitti è costretto a fare la guerra contro la Turchia.
Fatta eccezione per i socialisti mussoliniani, quasi
tutti i partiti sono contagiati dallo spirito nazionalista; dai liberali ai cattolici. L’idea dell’espansione
coloniale è collegata alla prospettiva di trovare uno
sbocco alla nostra emigrazione e alla possibilità di
ottenere un miglioramento delle condizione di vita
della classe lavoratrice attraverso uno sviluppo della nostra borghesia. Tesi questa sostenuta anche dai
sindacalisti rivoluzionari, da una parte dei socialisti,
dai radicali e dai repubblicani. Pure una porzione
del mondo cattolico, quella che fa capo al trust dei
giornali controllato da Giovanni Grosoli, è per la
ORDINE
4-5
2007
in Società per la Pace
e la Giustizia Internazionale
in Almanacco Pro Pace,
in La vita Internazionale 1913.
in La Martinella di Milano
in Quaderni della città di Milano
premio Nobel per la pace 1907, Mursia
Uomini e tempi
L’Universel, Le Havre
1953.
1971
Milano 1968.
Milano 1921.
Senza data.
Quaderni della Brianza,
1995.
L
verso la patria e quelli verso l’ideale della pace che
non mi ha mai abbandonato e che è nelle supreme
aspirazioni della mia vita. Ecco la ragione per la
quale aderii all’ordine del giorno votato dall’Unione
lombarda per la penetrazione pacifica in
Tripolitania”. Postilla poi come la contraddizione
che gli si vuole imputare non è nella coscienza sua
bensì nei fatti che accadono.“La verità è che la nostra è un’epoca intermedia tra la civiltà integrale da
noi invocata e la civiltà attuale (che è in gran parte
eredità di parecchi secoli di guerra) nella quale la
forza tiene ancora un gran posto nel destino delle
nazioni. Ebbene, poiché noi siamo in questo stato di
transizione, non è da meravigliarsi se l’Italia ha voluto prendere le sue misure sentendosi abbastanza
forte, onde non essere presto o tardi vittima della
forza altrui. Ora per avvicinarci il più possibile alla
civiltà integrale che sogniamo non basta predicare
la pace, ma bisogna creare una situazione la quale
conduca ad una vera e durevole pace. I precursori
del 1848 vedevano questa attuazione nella federazione europea; è questa la prima tappa da conquistare e per giungervi bisogna seguire la via che ha
condotto alla formazione delle nazioni, vale a dire
creare prima di ogni altra cosa l’unità morale
d’Europa e questo dovrebbe essere il compito dei
pacifisti più illuminati e dei governi delle nazioni
più civili”.
I
’
e reazioni dei pacifisti internazionali contro Moneta
e i confratelli italiani sono durissime. Quelli s’aspettavano un gesto di intransigenza. Ma dopo la
risoluzione degli italiani conniventi con i propugnatori del conflitto, prima si meravigliano, poi
s’indignano, quindi danno la stura ad aspre critiche e ad accuse implacabili. Quale conseguenza
immediata è annullato il XIX congresso universale
della pace che si sarebbe dovuto tenere a Castel
Sant’Angelo e che è trasferito a Londra con l’etichetta di 1 congresso universale delle razze.
I più violenti contro gl’italiani e il loro leader premio Nobel 1907 sono gli esponenti del Bureau
International de la paix che li accusano d’aver tradito i principi del pacifismo. Oltre che con articoli
sull’Almanacco, Moneta risponde con un opuscolo
intitolato L’ideale della pace e della patria, nel quale compendia il suo pensiero. Ricorda quando, nel
1890, i pacifisti con tutta la democrazia italiana
osteggiarono la campagna d’Africa “in omaggio ad
una giustizia ideale”. “Per lo stesso principio dopo
Adua abbiamo imposto la pace e le dimissioni di
Crispi che aveva sognato per la nostra monarchia
l’impero d’Etiopia. Quale fu la conseguenza? Che
l’Italia fu nuovamente considerata come una potenza militarmente e politicamente senza valore”.
Scrive che nella sua decisione a favore della guerra
di Libia prevalse il principio di scegliere il male minore.“Impedendo quell’impresa, temetti che potesse essere fatto cadere il governo dando la prevalenza ai nazionalisti con le conseguenze della probabile esplosione di una conflagrazione generale. Ho
passato notti insonni per la lotta che si combatteva
nella mia coscienza. Lottavano in me i miei doveri
Milano 1980.
1934
Firenze 1911.
guerra perché vede nell’impresa libica una crociata
contro gli infedeli; visione avversata dal Vaticano
che nell’avventura individua invece “un atto politico al quale la religione dove restare fuori”.
I
‘
in L’Adula (1913)
l relativismo con il quale egli maltratta l’ideale della
pace, la proclamazione del divario esistente tra
aspirazione primaria e ciò che poi accade nella
vita, irritano sempre di più i pacifisti francesi, inglesi e tedeschi che non mancano d’attaccarlo
periodicamente. Anche in Italia egli subisce forti
critiche. Un giorno è affrontato da Paolo Valera, il
cronista della Plebe che era finito in galera nel 1898
durante la repressione di Bava Beccaris e che è molto amico di Mussolini a quel tempo socialista e contrario dell’intervento dell’Italia in Tripolitania. Il
giornalista, incontrandolo in Galleria, gli intima fermamente d’andare a restituire il premio Nobel che
gli era stato concesso quattro anni prima.
Rilievi, addebiti, rimproveri angustiano e tormentano Moneta ormai quasi cieco da entrambi gli occhi.
Agli amici che lo vanno a trovare confida che più
che dalla malattia è tormentato dal timore di vedere
travolto il frutto dei lunghi anni dedicati alla propaganda della pace ed invoca una urgente conciliazione degli animi.
Sull’Almanacco non si stanca di spiegare e di giustificare il suo atteggiamento nei confronti della
guerra di Libia. Il chiarimento è rivolto ai lettori ma
il messaggio è diretto soprattutto ai suoi critici europei. In un numero del 1912 scrive che non è giusto fare ricadere sul nostro paese tutta la responsabilità della guerra sulla questione coloniale. La sua
tesi è che l’Italia, arrivata ultima fra le nazioni marittime, non aveva fatto che prendere quelle misure
necessarie per proteggere la sua sicurezza nell’avvenire e per non restare chiusa nel Mediterraneo.
Sospinto nell’impresa dalle altre potenze, il nostro
paese doveva assolvere a un duplice dovere: in linea
politica stabilire l’equilibrio nel Mediterraneo e sul
piano storico-culturale avviare quelle terre agli influssi della vita civile. “Come italiano e come pacifista mi sono convinto che uno e uno solo era il
compito del pacifista: non ostacolare in alcun modo
l’impresa”.
T
orna ancora una volta sul divario che separa ideale e realtà. “È bene ripetere come le nostre idee
siano state sempre chiare e precise e come da noi
sia sempre stato lontano quell’assolutismo teorico che può pregiudicare anziché affrettare il raggiungimento della meta. Noi tendiamo alla formazione di una coscienza internazionale che metta veramente la ragione al di sopra della forza, il diritto
al di sopra della violenza, che sappia imporre per la
risoluzione delle eventuali controversie fra stato e
stato forme pacifiche deferite ad organi speciali, di
cui gli stati debbano riconoscere l’autorità”.
I suoi avversari trovano pretestuose e devianti quelle giustificazioni e non cessano d’attaccarlo. Il XIX
congresso universale di Ginevra, che si tiene mentre gli italiani combattono sulle sabbie libiche, è
tutto una dura requisitoria contro la penisola. I delegati accusano: “I pacifisti italiani hanno subito
l’ubricatura colonialista”. La misura di quanto incidono sull’animo dell’ex garibaldino quelle ripetute accuse è data dall’insistenza con la quale egli
porta a conoscenza dei confratelli i retroscena che
11
Il frontespizio
del “Compendio”
che Moneta pubblicò
nel 1904.
Cent’anni fa
il giornalista
ERNESTO
TEODORO
MONETA
riceveva il Nobel
avevano improntato le decisioni dei pacifisti di
Milano d’accettare il conflitto e la risoluzione di
non prendere parte all’assise nella città del
Lemano, da alcuni giudicata quale espediente per
sottrarsi al redde rationem. Fa sapere che nella riunione che si era tenuta alla vigilia della guerra i pacifisti, com’era noto, s’erano divisi in due fronti.
“Io tentai di conciliare ultimamente queste due
tendenze. Non mi fu possibile. E allora mi chiesi:
dobbiamo noi recarci innanzi agli stranieri ad offrire questo spettacolo di discordia quando invece
sarebbe necessaria un’affermazione energica di
compattezza. Così decidemmo l’astensione”.
In realtà, con la scusa che il rapporto del relatore
avrebbe pregiudicato la serenità del congresso,
l’Unione lombarda e le associazioni italiane avevano deciso di non partecipare all’assise. L’Italia
però non fu del tutto assente. Vi presero parte a titolo personale alcuni delegati nostri che tentarono
di rimbeccare gli oratori critici verso il nostro paese. I reduci del congresso, una volta rientrati in
Italia, furono a loro volta rimproverati per avere
disatteso le direttive.
Effettivamente nel suo rapporto ai congressisti,
Charles Albert Gobat, uomo politico svizzero, presidente del Bureau international de la paix, e premio Nobel per la pace del 1902, lanciò dure accuse contro i soldati italiani denunciando atrocità
commesse in terra libica.
M
M
oneta dapprincipio si dichiara a favore della
pace “ma di una pace che non favorisca la
Germania”. Il pacifismo, non disgiunto dall’amore verso il suo paese, gli impone d’aderire all’impegno patriottico. Il 5 febbraio del 1915 scrive su La vita internazionale. “Nel momento attuale la nostra condotta è tracciata dal grande scopo
che abbiamo sempre perseguito: la pace non soltanto per il nostro paese, ma per tutti i popoli già
travolti dalla guerra o da essa minacciata. Ma si
tratta di una pace ben definita.
Se questa pace potesse darla una forte lega di neutri o la vittoria di uno dei belligeranti, che essa sia
la benvenuta e tutti i popoli la benediranno; ma se
invece dovesse essere una pace quale la Germania
oggi desidera, pace foriera di nuove guerre quando, cresciute una o due generazioni, saranno rimarginate le piaghe della presente carneficina, meglio sarebbe che questa conflagrazione continuas-
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entre nei diversi fronti gli uomini si combattono e si uccidono, il pensiero di Moneta è rivolto alla futura pace. Conformandosi agli europeisti classici, prefigura un nuovo assetto del
continente. Con questo intento nel 1916 pubblica uno studio di Pietro Bonfantini, esperto di
diritto, considerato uno dei più illustri maestri
della moderna scuola giuridica italiana.
Bonfantini pensa che il primo nucleo dell’Europa
debba essere un’unione latina italo-francese, uno
stato con 80 milioni di cittadini con capitale Nizza
e un ordinamento costituito da due parti ben distinte, una riguardante i popoli, l’altra le basi e gli
organi dello stato: piena parificazione dei diritti di
cittadinanza con uguale godimento di diritti civili
e politici; unità di codice penale e civile; moneta
unica; unica barriera doganale; esercito e marina
comuni. Alla presidenza sarebbe stato chiamato alternativamente un transalpino e un italiano; il francese sarebbe stato adottato quale lingua per gli affari.
Attorno a questo primo nucleo si sarebbe dovuta
formare una Federazione europea che più tardi
avrebbe aggregato Germania, Austria e resto
d’Europa. Bonfantini è convinto che “tra i popoli
vincono coloro che a tempo opportuno sanno fondersi in una grande unità; chi si chiude tenacemente in se stesso non subisce soltanto un arresto,
muore”. “Se un movimento verso la costituzione
di maggiore unità non si svolge ora in Europa,
questa vecchia culla della civiltà mondiale avrà in
breve finito il suo ciclo e fra due secoli o meno, gli
stati nazionali d’Europa sopravviveranno nel mondo come gli stati comunali d’Italia sopravvivevano
nel secolo XIV”.
se ancora per parecchi altri mesi, o se fosse necessario per qualche altro anno”. L’ex direttore del
Secolo ritiene che il conflitto debba finire con una
conciliazione basata su tali condizioni di piena
soddisfazione dei diritti dei popoli grandi e piccoli che non possa essere più turbata da qualsiasi altro sogno d’imperialismo agognante a grandeggiare sulla rovina e sul martirio del popoli”.
M
entre nel paese si fa sempre più acceso il dibattito tra coloro che sono a favore della guerra e
i contrari, s’accentua la posizione interventista
e antigermanica di Ernesto Teodoro. Scrive ancora il 5 aprile, e sempre su La vita internazionale. “Tenerci in disparte mentre si combatte la grande lotta fra i difensori della libertà e della civiltà,
contro i due imperi centrali che questi principi hanno calpestato è come servire la loro causa”.
Sostiene che l’Italia debba prepararsi ad ogni cimento “per evitare che la pace si concluda lasciando insolute alcune delle più gravi questioni di
nazionalità o imponendo modificazioni di territorio che rechino in sé il germe di future rivendicazioni”.
In polemica con i neutralisti, i quali ritengono che
anche senza la guerra l’Italia avrebbe potuto ottenere soddisfazione alle sue richieste territoriali, ricorda come anche nel 1866 il nostro paese avesse
“già assaporato frutti amarissimi con la conseguenza che ai danni e alla vergogna della battaglia
perduta si aggiungeva il fatto che l’Austria con il
consenso di Bismarck potè conservare il Trentino,
il Cadore e tutto l’Isonzo”.
D
a saggio politico e vecchio combattente per la pace, Moneta attende che si plachi la bufera e che
ritorni l’armonia sia in Italia sia tra i suoi colleghi pacifisti internazionali. Nel 1913, a ottant’anni, totalmente cieco, nel mese di agosto si
reca al XX congresso universale che si tiene
all’Aia. Qui, sempre imbarazzato dal groppo che
gli avevano provocato le accuse dei pacifisti internazionali, espone ancora una volta le ragioni che
nel 1911 avevano portato gli italiani a non opporsi al conflitto, sollecitando una rappacificazione
che di fatto poi avviene. In quell’occasione è inaugurato il Palazzo della Pace, finanziato dal magnate americano Andrew Carnage per la cui costruzione avevano contribuito i pacifisti dei diversi
paesi (l’Italia aveva fornito i marmi del vestibolo).
L’edificazione del complesso edilizio rendeva più
paradossale la posizione dei pacifisti molti dei quali appartenevano a paesi che dal 1900 al 1913 erano stati al centro di conflitti. Tale assurdità era stata colta da un giornale tedesco il quale, mentre
chiedeva ai congressisti i motivi che avevano determinato la nascita di quel palazzo, elencava il numero delle guerre che in quell’arco di tempo era
stato scatenato nel globo: guerra russo-giapponese,
guerra americana, guerra italo-turca, guerra balcanica... E non era ancora finita.
A dimostrare, se ce ne fosse stato bisogno, l’estrema fragilità e l’ininfluenza della propaganda pacifista, interviene l’anno successivo il primo conflitto mondiale. La dichiarazione di guerra che
l’Austria invia alla Serbia, ritenuta responsabile
dell’assassinio degli arciduchi a Serajevo, divide
subito gli italiani. La proclamata equidistanza tra
la Triplice e l’Intesa, solleva contrapposizioni all’interno delle forze politiche e sociali che si ripartiscono in neutralisti, i quali invocano il rispetto di un articolo del trattato stipulato tra Germania,
Austria e Italia, e interventisti che intendono cogliere l’occasione per ultimare la missione risorgimentale con il riscatto delle terre non ancora redente (Trento e Trieste).
lanza sentendosi solidali nel mantenimento della
libertà che stavano conquistando, lavorai sempre,
anche nei momenti più difficile, per l’unione delle
nazioni civili d’Europa, primissime la Francia
l’Inghilterra, la patria vostra, la mia. Questa fede
era in me rinsaldata dai principi di libertà e di umanità che tutti i nostri grandi ci tramandarono:
Dante, Mazzini, Alberto Gentili, il precursore di
Grozio e Carlo Cattaneo, che negli Stati Uniti
d’Europa aveva veduto le maggiori guarentigie
della libertà delle singole patrie”.
I
l pacifista pronuncia parole di guerra che però ritiene indispensabili. “I neutralisti ignorano che vi
sono guerre necessarie le quali, combattute e vinte, assicurano alle nazioni vittoriosi millenni di vita indipendente e onorata; ignorano che da una
sconfitta subita per una causa giusta, si risorge presto immancabilmente mentre lo starsene chiusi nel
proprio egoismo quando popoli generosi ma deboli vengono assassinati da una feroce barbarie e la
civiltà è minacciata nelle maggiori conquiste, è
prova di tale mancanza di umani sensi da meritare
il disprezzo del mondo civile e la certa condanna
della storia”. Critica il neutralismo di Woodrow
Wilson allineandosi sulle posizioni di Teodoro
Roosevelt secondo il quale la neutralità assoluta
andava a tutto vantaggio degli aggressori e avrebbe avuto l’effetto di prolungare il conflitto mentre
l’intervento degli Usa l’avrebbe potuto abbreviare.
Quattro giorni prima della dichiarazione di guerra
dell’Italia all’Austria ancora su La vita internazionale annota. “Questa guerra, la più crudele e più
orribile che il mondo moderno abbia veduto, noi
coi pacifisti di tutti i paesi, abbiamo lavorato moltissimi anni per scongiurarla.
La sola vera grande colpevole è la Germania che
l’aveva concepita e preparata da quarant’anni per
realizzare il sogno di dominio sull’Europa e sul
mondo. Combattere adunque i due imperi centrali
e ridurli all’impotenza di continuare la loro impresa per l’asservimento universale sarà l’opera più
umana, più civile, più meritoria nel grande periodo storico che l’Europa e il mondo attraversano”.
Q
uest’ardente impegno interventista gli procura
ancora una volta violenti critiche da parte delle correnti pacifiste più intransigenti e utopistiche e numerosi attacchi anche dai confratelli tedeschi di cui si fa interprete con un articolo
uscito il 2 giugno 1915 sul Berliner Tageblatt il
deputato bavarese Ludwig Quidde. Questi,
membro dell’ufficio della pace di Berna, mentre
attribuisce la responsabilità della guerra alla
Francia (sposando dunque la tesi del kaiser) respinge sdegnosamente le accuse contro i metodi
militari tedeschi e sostiene le asserzioni del proprio governo secondo le quali la Germania affrontava una guerra difensiva.
Moneta nega il preteso, scorretto, atteggiamento
italiano a proposito della violazione del patto della Triplice ed esegue un exursus critico della recente politica tedesca volta a preparare il conflitto
per una imperiale conquista.
Quale prova della sua buona fede offre a garanzia
la sua storia personale.“Ciò che è vero è che io, nato alla politica nel grande anno rivoluzionario del
1848, quando tutti i popoli insorgendo per la propria libertà ed indipendenza si scambiavano da un
capo all’altro dell’Europa calde parole di fratel-
C
i vorrà una seconda guerra mondiale perché il
vecchio continente accolga la lezione del giureconsulto. Quel piccolo nucleo di paesi da lui indicato, Italia e Francia, con l’aggiunta di
Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo formeranno la Ceca, primo plesso d’unità europea
che oggi raggruppa 27 nazioni.
Anche la rivoluzione sovietica dà motivo a Moneta
per giustificare la guerra che ha liberato i russi dal
giogo zarista ed ha permesso loro di realizzare le
aspirazioni dei patrioti risorgimentali. Quella lotta
di liberazione, secondo il giornalista, non potrà
che favorire gli Stati Uniti d’Europa rinnovando ed
allargando lo spirito pacifista.
Il suo interventismo non cala d’intensità neppure
durante le tragiche giornate di Caporetto certo che
“l’atroce dolore potrà essere confortato presto dalla vittoria”.
Le notizie della ritirata non agevolano certo lo stato della sua salute. Ormai afflitto dalla totale cecità, vive nella sua villa di Tegnoso, in Brianza, assistito dai due figli (la moglie era morta nel 1899)
Luigi ed Emilio, dilettato dai numerosi nipotini e
coadiuvato dalla segretaria.
Nonostante le precarie condizioni, il 28 dicembre
1917 vuole presiedere la riunione del comitato
dell’Unione anche per rendere omaggio ad alcuni
componenti dell’organizzazione i cui congiunti o
sono morti in guerra o sono prigionieri, dispersi,
oppure feriti. Sarà l’ultima uscita. In ogni caso egli
non rinunzia ad esprimere il suo pensiero che è
raccolto dalla segretaria.
Nell’Almanacco della pace del 1918 fa scrivere
che un rinnovato esame di coscienza lo induce a ripetere che “l’onore e insieme l’interesse nazionale, lasciavano aperta all’Italia una sola via: quella
su cui nel 1915 si era arditamente incamminata”.
O
ttantacinquenne alla luce degli occhi che gli si è
ormai spenta da oltre un quinquennio, sopperisce con una lucidità mentale che lo aiuta non solo a rintuzzare ancora e sempre le accuse degli
intransigenti ma a indicare la linea al pacifismo
italiano e a collegarlo con le correnti di pensiero più aperte. In un articolo del 5 gennaio 1918,
ribadisce la sua posizione d’interventista coerente
con il suo programma e sostiene la legge di Ettore
Ciccotti che propone un premio ai combattenti e
l’assegnazione, a loro e alle cooperative, di molte
terre italiane incolte.
In un altro intitolato Justitia et pax del 20 gennaio
1918, loda il discorso che il presidente americano
Wilson ha tenuto al congresso e con il quale è condannata la diplomazia segreta mentre è lodata l’azione politica aperta, alla luce del sole. “I popoli
non dovranno essere più trattati come minorenni
incapaci d’intendere le proprie responsabilità”.
Sarà l’ultimo compito assolto dal vecchio garibaldino. Colpito dalla polmonite, morirà il 10 febbraio 1918.
Sei anni più tardi, nel 1924 il comune di Milano
gli dedicò un busto (Ernesto Teodoro Moneta/Garibaldino/Pensatore Pubblicista/Apostolo
della Pace/Fra libere genti) che fu eretto ai giardini pubblici vicino a quello di Carlo Porta. Il fascismo, lo rimosse qualche anno più tardi e così, fortuitamente, lo salvò dalla bomba che nel 1943 cadde proprio là dove c’era il monumento.
Enzo Magrì
ORDINE
4-5
2007