1 L`APPROCCIO DI GOFFMAN ALL`INTERAZIONE FACCIA A

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1 L`APPROCCIO DI GOFFMAN ALL`INTERAZIONE FACCIA A
L’APPROCCIO DI GOFFMAN
ALL’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA
Adam Kendon
Traduzione italiana di Maria Graziano
Original title: “Erving Goffman's approach to the study of face-to-face
interaction.” In A. Wootton and P. Drew (a cura di), Erving Goffman:
Exploring the Interaction Order. Cambridge: Polity Press, 1988, pp. 14-40.
L’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA COME CAMPO DI STUDIO AUTONOMO
In questo articolo passerò in rassegna alcuni concetti che Goffman ha
sviluppato per lo studio dell’interazione faccia a faccia. Il mio intento è
quello di mostrare che questi concetti forniscono un’intelaiatura molto
generale in base a cui può essere condotto uno studio completamente
integrato dell’interazione.
Come affermerò alla fine dell’articolo, una maggiore sfida teorica
che gli studiosi dell’interazione affrontano è quella di mostrare come le
componenti del comportamento umano, che hanno un ruolo
nell’interazione e che sono così apparentemente differenti, siano invece
articolate l’una in relazione all’altra. Specialmente nei suoi ultimi scritti,
Goffman si è dato da fare per ricordarci che l’interazione faccia a faccia in
generale, e la conversazione in particolare, è lungi dall’essere una questione
di sole parole. Così facendo, egli ha indicato la strada da seguire per
arrivare ad una comprensione veramente integrata del comportamento
comunicativo umano. Io credo che un ulteriore sviluppo dell’intelaiatura
che è implicita nel lavoro di Goffman su questo argomento sia il modo
migliore per arrivare ad una teoria dell’interazione faccia a faccia che
consentirà di avere una visione integrata dell’interazione.
Comincerò ad esaminare l’affermazione di Goffman secondo cui lo
studio dell’interazione faccia a faccia dovrebbe essere considerata una
branca della sociologia a se stante. Lo studioso ha suggerito l’esistenza di
ciò che lui ha chiamato “ordine dell’interazione” (Goffman, 1983; trad. it.
Goffman 1998) che può essere considerato come un campo di studio a sé.
Questa convinzione è espressa in alcuni dei suoi primi scritti. La si può
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trovare nella sua tesi di dottorato (Goffman 1953) e costituisce la premessa
principale di alcuni suoi primi articoli, come “On face work” (1955; trad. it.
“Giochi di faccia” in Goffman 1971a) e “Alienation from interaction”
(1957; trad. it. “Alienazione dall’interazione” in Goffman 1971a); ed è
esplicita nella prefazione di “Encounters” (1961; trad. it. Espressione e
identità 2003). Egli sostiene ripetutamente la stessa idea nei lavori
successivi, come nelle pagine introduttive di Behavior in Public Places
(1963; trad. it. Il comportamento in pubblico, 1971b), nella prefazione di
Interaction ritual (1967; trad. it. 1971a) e nelle prefazioni di Strategic
Interaction (1969; trad. it. Interazione strategica 1988) e Relations in
Public (1971c; trad. it. Relazioni in pubblico 1981). Il modo in cui
presenta e difende quest’idea cambia un po’ da un lavoro all’altro. Un
confronto tra loro è istruttivo, perché suggerisce come il contesto teorico, in
cui Goffman si aspetta che i suoi lavori siano inclusi, cambia da una
pubblicazione all’altra.
In Encounters (Espressione e identità), scritto nel 1961, quando lo
studio dei “piccoli gruppi” era molto popolare in sociologia e nella
psicologia sociale, l’interesse di Goffman è di mostrare che lo studio
dell’interazione, così come lui lo concepiva, è diverso dallo studio dei
“piccoli gruppi”. Egli afferma che le unità di organizzazione, come i
raggruppamenti focalizzati o gli incontri, non sono la stessa cosa dei
“piccoli gruppi”, come le bande, la famiglia, i plotoni militari o i gruppi
delle psicoterapie. Sebbene ci siano delle similitudini – per esempio i
gruppi, come i raggruppamenti, hanno delle regole di reclutamento e norme
di comportamento a cui i membri devono aderire se vogliono continuare a
parteciparvi – nello studio dell’interazione in quanto tale bisogna occuparsi
di molte questioni che sembrano irrilevanti per lo studio dei gruppi. Queste
comprendono la questione della gestione delle attività, come il problema
della regolazione del perdere o assumere il ruolo di parlante o la
distribuzione dei partecipanti nello spazio.
In Behavior in Public Places (Il comportamento in pubblico)
troviamo un’enfasi diversa, c’è il tentativo evidente di giustificare lo studio
dell’interazione come una branca della sociologia indipendente. Goffman
qui propone una nozione di “ordine pubblico” con cui intende l’ordine che
regola il comportamento delle persone quando si trovano nell’immediata
presenza l’una dell’altra. L’ “ordine pubblico” è proposto come una specie
di “ordine sociale” e quest’ultimo è definito come “l’effetto di qualsiasi
insieme di norme morali che regoli il modo in cui le persone perseguono i
loro obiettivi” (Goffman 1963: 8; trad. it., 1971, p. 10). E continua:
“L’insieme di norme non specifica gli obiettivi che devono essere
perseguiti, né lo schema formato da e per mezzo della coordinazione o
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integrazione di questi fini, ma semplicemente i mezzi per perseguirli”. Il
regolamento stradale ed il conseguente ordine del traffico ne sono un chiaro
esempio. Il campo dell’interazione faccia a faccia, quindi, deve occuparsi
delle “regole del traffico” dell’interazione e non del perché le persone
interagiscono o cosa ottengono quando lo fanno. L’ “ordine pubblico”,
visto come una specie di “ordine sociale” si può paragonare all’ “ordine
giuridico” o all’ “ordine economico” di una società. In quanto tale ha lo
stesso diritto dell’ordine giuridico o dell’ordine economico di essere uno
studio indipendente. Nel proporre un campo di studio in questi termini,
credo che possiamo scoprire il primo tentativo più o meno chiaro di
Goffman di proporre, pubblicamente, lo studio dell’interazione come una
branca della sociologia indipendente e di conseguenza il tentativo di
sostenere l’importanza dell’area di fronte ai colleghi sociologi (Goffman
aveva già sostenuto questa idea nella sua tesi, come è stato messo in rilievo
da Leeds-Hurwitz, 1986).
Nella prefazione di Interaction Ritual (Il rituale dell’interazione),
scritto nel 1967, il suo interesse è dimostrare che ciò che sta propugnando
non deve essere confuso con la psicologia. In questa prefazione egli attira
l’attenzione sull’allora recente comparsa di interesse per ciò che talvolta è
chiamato “comportamento non-verbale” o “comunicazione non-verbale”
(sebbene Goffman non usi questi termini). Questo interesse si sviluppò in
gran parte grazie agli psicologi e qui Goffman afferma che nel campo dello
studio dell’interazione, così come lui lo intendeva, la psicologia
dell’individuo non è l’interesse primario. In questo studio dobbiamo
occuparci, certo, di “sguardi, gesti, atteggiamenti e affermazioni verbali”
(Goffman, 1967: 1; trad. it., 1988, p. 3), che i partecipanti all’interazione
producono continuamente, perché questi sono “i segni esteriori
dell’orientazione e della partecipazione”; tuttavia, ciò che interessa non è la
psicologia dell’orientazione e della partecipazione ma la loro
organizzazione sociale. Continua dicendo: “Io parto dal presupposto che
l’oggetto dello studio della interazione non debba essere l’individuo e la
sua psicologia, ma piuttosto le relazioni sintattiche esistenti fra gli atti di
persone che vengono a trovarsi a contatto diretto” (Goffman, 1967: 2; trad.
it., 1988, p. 5).
In Strategic Interaction (Interazione strategica) (1969) Goffman si
interessa di stabilire lo studio dell’interazione in modo ancora più esplicito.
Nella prefazione a questo libro afferma che il suo “scopo primario” è
“sviluppare lo studio dell’interazione faccia a faccia come campo
naturalmente delimitato, analiticamente coerente – una sotto area della
sociologia” (p. ix). Continua poi sollevando la questione della
“comunicazione” e, come era diventato un luogo comune in quel periodo,
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se fosse appropriato dire che ogni tipo di interazione è comunicazione.
L’argomento di Goffman in Strategic Interaction è che ci sono dei limiti a
ciò che possiamo chiamare “comunicazione” e che questi limiti non sono
gli stessi di ciò che possiamo chiamare “interazione”.
Quando arriviamo a Relations in Public (Relazioni in pubblico)
(1971; trad. it., 1981) vediamo che Goffman si rende conto che era
cominciato ad emergere qualcosa di ciò che stava chiedendo. Nota che
alcuni studiosi, in particolare alcuni linguisti ed etologi, erano impegnati in
un’impresa parallela alla sua. Suggerisce di chiamare quest’area “etologia
dell’interazione” sebbene si affanni a mettere in evidenza che noi “ci
sbarazziamo cortesemente” (Goffman, trad. it., 1981, p. 9) della visione
darwiniana degli etologi, pur riconoscendo che i loro metodi corrispondono
bene al tipo di domande che spera di sollevare e perseguire. In particolare,
appoggia i metodi di questo tipo di ricercatori, mentre critica severamente i
metodi della psicologia e della sociologia sperimentale, da cui sembra
distanziarsi consapevolmente.
Dieci anni dopo, in Forms of Talk (1981b; trad. it. Forme del parlare
1987) non c’è più bisogno di descrivere e giustificare il campo in quanto
tale. Gli articoli di questa raccolta sono ora rivolti ad altri che, come lui,
hanno intrapreso lo studio delle pratiche dell’interazione. Le questioni
sollevate, riguardanti il ruolo del linguaggio nell’interazione, sono
presentate come questioni importanti da discutere in quello che è
considerato un campo ormai già affermato.
Alla fine della sua carriera, nel discorso come presidente
dell’Associazione Sociologica Americana – intitolato “The interaction
order” (1983, trad. it. L’ordine dell’interazione (1998) – discute ancora il
posto che lo studio dell’ordine dell’interazione occupa nella sociologia. In
questo discorso tenta di spiegare esaurientemente i modi in cui lo studio
dell’ordine dell’interazione è allo stesso tempo distinto dallo studio degli
altri aspetti dell’ordine sociale ma anche collegato ad essi. Un problema
centrale in quest’articolo è la questione di come l’oggetto della macrosociologia – status, potere, strutture sociali ecc. – si collega al micro-studio
di particolari segmenti dell’interazione. Qui sembra interessato a mostrare
che lo studio dell’ordine dell’interazione non solo è un interesse legittimo
di per se stesso (in verità non c’è più bisogno di affermare questo perché il
campo è oramai stabilito, almeno in modo informale), ma anche che può
dare un utile contributo per gli altri sotto-campi che interessano la
sociologia.
Vediamo allora come, nelle prime prefazioni e introduzioni,
Goffman rende esplicito il suo scopo di stabilire un sotto-campo della
sociologia che deve occuparsi dell’interazione. Chiarisce l’oggetto di
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questo studio, ma si preoccupa di evidenziare che ciò che sta proponendo
non fa parte dello studio dei “piccoli gruppi”, non fa parte dello studio della
psicologia e non è lo studio della comunicazione. Scrivendo in questo
modo, Goffman dà l’impressione di tentare di stabilire qualcosa di
completamente nuovo. Afferma ripetutamente che si è prestata poca
attenzione allo studio dell’interazione, malgrado che il lavoro fatto sui
piccoli gruppi, sulla psicologia sociale e sulla comunicazione avrebbe
dovuto suggerire il contrario.
GOFFMAN E LO STUDIO DELL’INTERAZIONE NELLA SOCIOLOGIA
AMERICANA
A prima vista quest’enfasi sulla novità di questo campo sembra un po’
strana. Lo studio della “interazione” come tradizione affermata nelle
scienze sociali americane era apparso molto prima che Goffman iniziasse le
sue ricerche. Ad esempio, negli anni venti, i lettori americani poterono
leggere il lavoro di Georg Simmel (si veda Park e Burgess, 1924;
Spykman, 1925). Il suo concetto di “sociologia formale” e il suo tentativo
di descrivere le strutture della “pura socialità” che per lui si esemplificava
nelle componenti del comportamento interpersonale è forse, nella
sociologia americana, la prima esplicita presentazione dell’idea che
l’interazione possa essere studiata come scienza a sé. Questo interesse si
adattava bene alla linea di pensiero iniziata da William James (1890: vol. 2)
e proseguita da George Herbert Mead (1934), nel cui lavoro l’ “io” non è
visto come attore ma come prodotto dell’interazione. Quest’idea favorì
l’interesse per lo studio delle componenti dell’interazione e costituì una
parte importante dello sfondo che portò all’emergere dello studio empirico
dell’interazione. Questo iniziò alla fine degli anni trenta, quando le prime
ricerche furono condotte da studiosi come Eliot Chapple (1939, 1940),
George Homans (1950), Robert Bales (1950; si veda anche Hare, Borgatta
e Bales, 1955) e Kurt Lewin e colleghi (per le “dinamiche nei piccoli
gruppi”) - il lavoro di Cartwright e Zander (1953) è il prodotto tipico di
questa tradizione. A questi primi studi seguì un gran numero di ricerche
basate sull’osservazione di occasioni naturali e su esperimenti fatti in
laboratorio. Sebbene Goffman mostri di essere influenzato dai primi
ricercatori, come Simmel e Mead, ad eccezione del lavoro basato
sull’osservazione di situazioni naturali nella “ecologia psicologica” (ad
esempio, Barker e Wright 1955), lo studioso cita raramente questo
successivo lavoro empirico sull’interazione. Leggendo fra le righe abbiamo
l’impressione che egli non debba molto a questa tradizione.
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Una più attenta riflessione mostra che Goffman aveva buone ragioni
per non considerare questi lavori e per affermare che lo studio
dell’interazione così come lui lo proponeva era qualcosa di nuovo.
Vedremo che l’approccio di Goffman sollevava questioni completamente
nuove. Nella tradizione a cui abbiamo appena fatto riferimento,
l’interazione era studiata perché sembrava che potesse servire per risolvere
altre questioni. Ad esempio, Chapple sviluppò l’ingegnoso metodo della
“cronografia dell’interazione” come mezzo per “misurare le relazioni
umane”. Come seguace dell’ “operazionalismo” di Percy Bridgman
(Bridgman, 1936) non sopportava lo stile letterario degli antropologi sociali
(era stato allievo di Lloyd Warner e aveva lavorato allo studio sulla
“Yankee City”). Egli cercò di trovare un modo per osservare direttamente
gli elementi di cui sono composti le relazioni umane; escogitò l’idea di
misurare il tempo che le persone passano ad interagire e, più
specificamente, di misurare come le loro azioni sono organizzate nel tempo
l’una in relazione all’altra. Riuscì ad avere risultati molto interessanti; ma
poiché usava lo studio dell’interazione come mezzo per arrivare ad uno
scopo si limitò a misurare solo l’aspetto dell’interazione che gli serviva per
raggiungere il risultato che più lo interessava. Similmente, Robert Bales, il
cui metodo dell’ “analisi del processo dell’interazione”, scatenò un vero e
proprio fiume di articoli, sviluppò un sistema di categorizzazione degli
“atti” interazionali, non perché fosse interessato all’interazione in sé ma
perché era interessato a comprendere aspetti come le dinamiche di
leadership nei piccoli gruppi e come le persone in gruppo arrivassero a
risolvere i problemi.
Questi approcci si basavano sul concetto secondo cui i fenomeni di
consueto interesse della sociologia e della psicologia sociale – leadership,
stratificazione sociale, organizzazione dell’autorità e simili – dovevano
trovare la loro ragion d’essere nell’adesione dei membri della società ad un
modello di atti interazionali specifici. Tali atti dovevano costituire i dati su
cui la ricerca si doveva basare. Tuttavia, gli atti interazionali stessi non
erano studiati. Soltanto uno degli aspetti che li caratterizzava fu usato come
mezzo attraverso cui studiare qualcos’altro. Goffman si rese conto di
questo e chiarì che ciò che interessava a lui era qualcosa di diverso:
sollevare, cioè, la questione di come si verificasse l’interazione. Goffman
osservò, dunque giustamente, diverse volte nelle sue prefazioni, che
l’interazione in quanto tale era stata poco considerata. Come scrive nella
prefazione di Relations in Public: “le pratiche dell’interazione sono state
utilizzare per chiarire altre cose, ma sono state trattate come se non ci fosse
bisogno di definirle o valga la pena di farlo” (Goffman, 1971: ix; trad. it.,
1981, p. 3). E per Goffman, ovviamente, il problema consiste proprio nelle
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“pratiche dell’interazione”. Studiosi come Chapple e Bales semplicemente
davano per scontato che le persone potessero interagire. Non studiarono il
modo in cui le persone riuscissero a farlo o cosa fossero queste pratiche. Il
loro interesse si concentrava interamente sui risultati dell’interazione;
quello di Goffman sul modo in cui essa si realizzava, anzi, su come si
potesse verificare.
Il tentativo di Goffman di stabilire lo studio delle pratiche
dell’interazione come campo indipendente non fu un tentativo isolato,
sebbene egli si fosse reso conto, più chiaramente di molti altri, che ciò si
stava cercando di fare era diverso da quello che normalmente si
considerava come importante nell’interazione.
Il riconoscimento dell’importanza delle questioni di come
l’interazione si potesse verificare, il problema di cosa occorresse alle
persone per essere in grado di interagire, era cominciato ad emergere nel
lavoro di diversi studiosi. Gregory Bateson era arrivato a formulare, nel
1951, un approccio allo studio dell’interazione come sistema di
comunicazione e il suo interesse principale fu l’organizzazione di questo
sistema (Ruesch e Bateson, 1951). In questo fu molto influenzato dai
contatti che ebbe con lo sviluppo della teoria dell’informazione e della
cibernetica (fu influenzato soprattutto da Norbert Weiner e von Neumann –
si veda Heims, 1977) e dalla collaborazione con lo psichiatra interpersonale
Jurgen Ruesch, (si veda Ruesch, 1972). Per Ruesch il problema nella
psicoterapia consisteva non tanto nelle dinamiche psicologiche interne del
paziente, quanto nel processo dell’interazione tra paziente e psichiatra.
Similmente, alcuni sviluppi nella linguistica strutturale avevano portato
studiosi come Norman McQuown (1971) e Ray Birdwhistell (1952, 1970) a
cominciare ad esaminare il “materiale comportamentale” dell’interazione
con uno spirito completamente affine a quello che Goffman stesso avrebbe
proposto in seguito.
Molti studiosi di questa convinzione, sotto l’influsso della psichiatra
interpersonale Frieda Fromm-Reichmann, si riunirono all’Institute for
Advance Study a Stanford nel 1956 per intraprendere lo studio dettagliato
del filmato di un’interazione in cui ogni aspetto di ciò che veniva osservato
doveva essere minuziosamente annotato ed esaminato rispetto al posto che
occupava nel processo comunicativo. Questo progetto, conosciuto col
nome di “La storia naturale di un’intervista”, coinvolgeva tra gli altri,
Gregory Bateson, Norman McQuown e Ray Birdwhistell, i quali sarebbero
tutti stati strettamente collegati con il successivo sviluppo di un approccio
che avrebbe tentato di esplicare davvero, in modo microscopico, le
componenti della pratica dell’interazione (McQuown, 1971; Zabor, 1978;
Leeds-Hurwitz, 1987).
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Goffman mantenne un vivo interesse per lo sviluppo di questo
approccio e ne fu indubbiamente influenzato. Egli ha ammesso di essere
stato influenzato da Gregory Bateson e fu allievo di Ray Birdwhistell
quando era ancora studente all’Università di Toronto. Partecipò, insieme a
Gregory Bateson, al secondo convegno della Josiah Macy Jr Foundation
Group Processes Conference, tenutosi nel 1956; ebbe un ruolo importante
nella discussione al Convegno sulla Paralinguistica e sulla Cinesica
tenutosi alla Indiana University nel 1962 (Sebeok, Hayes e Bateson, 1964).
Negli anni seguenti fu lui stesso ad organizzare convegni in cui l’interesse
principale fosse lo studio dell’interazione secondo il cosiddetto approccio
della storia naturale o della “analisi del contesto”.
Tra i primi maggiori esponenti dell’approccio allo studio
dell’interazione, che tenta di esaminare il processo in sé e il modo in cui si
realizza, possiamo includere Gregory Bateson, Ray L. Birdwhistell e Albert
Scheflen. Ciascuno a proprio modo ha tentato di sviluppare un’intelaiatura
teorica in base a cui comprendere il processo o la pratica dell’interazione
come sistema di comportamento. Un aspetto particolarmente importante di
questo approccio è la visione integrata del processo dell’interazione: si
presta attenzione tanto all’organizzazione dell’attività del corpo, e il ruolo
che questo ha nel processo interattivo, quanto agli enunciati verbali. Inoltre,
questi autori, coerentemente con tale idea, lottano per formulare una
visione in cui l’interesse si concentri sul sistema di relazioni tra gli atti dei
partecipanti piuttosto che sui partecipanti stessi. Potrebbe essere proprio
questo che Goffman aveva in mente quando, nel già citato passaggio della
prefazione a Interaction Ritual, ha scritto che il vero e proprio studio
dell’interazione richiede lo studio delle “relazioni sintattiche tra gli atti
delle varie persone reciprocamente presenti”. L’uso di Goffman del termine
“sintattico” è significativo qui, perché indica che ha già cominciato ad
impiegare l’analogia linguistica nell’analisi dell’interazione. I concetti della
linguistica ebbero un ruolo importante nello sviluppo dell’approccio
all’interazione per studiosi come Birdwhistell e Scheflen (Birdwhistell,
1952, 1970; Scheflen, 1963, 1964, 1974; McQuown, 1971. Per una
discussione su questo approccio si veda Kendon, 1972, 1979, 1982;
McDermott e Wertz, 1976 e McDermott e Roth, 1978).
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L’INTELAIATURA DI GOFFMAN PER LO STUDIO DELL’INTERAZIONE
FACCIA A FACCIA
La co-presenza e i modi per fornire l’informazione
In generale, Goffman assume il raggruppamento come unità di studio
dell’interazione faccia a faccia, definendolo come tutte le occasioni in cui
due o più persone sono, come lui dice, co-presenti l’una all’altra. Lo
studioso definisce la co-presenza nel modo seguente: “Gli individui devono
sentirsi abbastanza vicini agli altri tanto da essere percepiti qualsiasi cosa
stiano facendo, incluso anche il loro esperire gli altri; e abbastanza vicini da
“essere percepiti” in questa sensazione di essere percepiti” (Goffman,
1963: 17; trad. it., 1971, p. 19). Continua dicendo che generalmente ci si
aspetta che le condizioni della co-presenza si trovino soprattutto tra i
confini di una stanza, ma nei posti non delimitati da muri i confini della copresenza non sempre possono essere tracciati chiaramente. In un parco, per
esempio, se è relativamente affollato, le persone che si trovano a 50 metri
di distanza possono non percepirsi allo stesso modo in cui possono farlo se
si trovano a soli due metri.
Quando le persone sono co-presenti, di regola, riescono a percepirsi
con i sensi nudi. In tali circostanze ognuno può accorgersi di ciò che sta
facendo l’altro, ma può anche vedere di essere visto nel momento in cui
vede le azioni dell’altro; così si crea una speciale reciprocità. P può
valutare le azioni di Q e adattare le proprie azioni di conseguenza, ma in
situazioni di co-presenza Q può fare lo stesso, e sia P sia Q possono,
quindi, adattare le proprie azioni per il fatto che l’altro le sta adattando
rispetto a lui. In tali circostanze si crea un tipo di accordo secondo cui
ciascuno prende sulla fiducia la linea d’azione dell’altro. Ciò significa che
non è necessario che le persone controllino continuamente l’altro, perché
quello che una persona fa è interpretato dall’altro come una linea d’azione e
così può si presumere cosa farà in seguito; cioè, l’altro è visto come se
fosse impegnato in un progetto, sul quale si può fare affidamento; di
conseguenza colui che percepisce la linea d’azione dell’altro può costruire
la sua linea d’azione in virtù di questo. Inoltre, ovviamente, può fare questo
alla luce della sua stessa supposizione che l’altro supporrà che anche lui sia
impegnato in un progetto.
Stabilendo la nozione della co-presenza, Goffman ci fa rendere conto
che in tutte le situazioni in cui le persone si trovano in condizione di
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percepirsi reciprocamente è destinata a crearsi una sorta di interdipendenza
delle azioni. In questa maniera il concetto di “interazione” è
immediatamente ampliato in modo radicale. Fino a quel momento gli
studiosi dell’interazione si erano occupati solo degli esempi in cui due o
più persone (ma generalmente due) parlavano effettivamente tra loro.
Goffman mostrò che questa era una visione troppo ristretta.
Nella sua discussione sulla co-presenza, inoltre, Goffman mise in
rilievo un altro principio molto importante. E cioè che ogni volta che le
persone sono co-presenti sono, allo stesso tempo ed inevitabilmente, una
fonte d’informazione per l’altro. Questo era un punto che Gregory Bateson
aveva evidenziato qualche anno prima (si veda Watzlawick, Beavin e
Jackson, 1967: 51), ma Goffman gli diede nuova vita perché riuscì a
mostrare in quali diversi modi le persone davano informazioni l’uno
all’altro e di che tipo di informazione si trattasse.
Mise in evidenza che in ogni raggruppamento i partecipanti
suppongono che essi danno informazioni in due modi: fornendo
informazioni ed emettendo informazioni. Quando una persona fornisce
informazioni lo fa attraverso azioni che sono considerate volontarie, per cui
è ritenuto responsabile di ciò che fornisce. Ciò significa che, di regola,
l’informazione fornita è data attraverso l’uso di azioni simboliche – cioè,
azioni che sono reciprocamente riconosciute come azioni che si riferiscono
a qualcos’altro. In questo senso, quando parliamo, forniamo l’informazione
attraverso il contesto di ciò che diciamo – sebbene, oltre al parlare, ci sono
molti altri modi per fornire informazioni. Dall’altro lato, le informazione
che sono emesse sono considerate come informazioni che vengono date che
la persona lo voglia o meno; è un prodotto immancabile ed inevitabile della
sua presenza e delle sue azioni. Posso indicarti la strada per arrivare alla
cattedrale ma nel farlo trasmetto, attraverso la scelta delle parole, attraverso
il mio accento e così via, informazioni aggiuntive. Queste informazioni
aggiuntive sono trasmesse piuttosto che fornite.
È importante ricordare che qui la questione non è se l’informazione
sia fornita di fatto volontariamente o involontariamente, ma piuttosto se i
co-partecipanti al raggruppamento la considerano come volontaria o meno.
In tutte le situazioni di interazione, sembra che i partecipanti trattino solo
alcuni aspetti del comportamento degli altri come deliberatamente
intenzionali e destinati a trasmettere qualcosa. Nelle conversazione è quello
che generalmente è chiamato “contenuto della conversazione” ad essere
considerato in questo modo, non il modo di parlare, e certamente non la
disposizione del corpo e le disposizioni ecologiche in cui la conversazione
è condotta. Tuttavia, non è che questi altri aspetti della situazione non
abbiano un ruolo nella strutturazione dell’interazione. Tutt’altro. Hanno un
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ruolo decisivo nell’intera organizzazione dell’evento. Dobbiamo molto a
Goffman per averci fatto scoprire questo.
Goffman affronta questa fondamentale distinzione tra “fornire” e
“emettere” l’informazione in svariati modi. Una delle sue più elaborate
trattazioni dell’argomento si trova in Frame Analysis (1974). In questo
libro lo studioso sviluppa la nozione di “piste di attenzione”. Suggerisce
che in ogni incontro sociale c’è sempre un aspetto dell’attività che si sta
svolgendo che è considerato come facente parte di una “pista principale” o
di una “trama”. Un campo d’azione è delineato come rilevante allo scopo
principale dell’incontro ed è orientato in quanto tale ed è trattato di
conseguenza. L’azione trattata in questo modo è considerata come
volontaria e l’informazione che data in questo caso è un’informazione
fornita. Altri aspetti dell’attività che si sta svolgendo non sono trattati in
questo modo ma ciò non significa che essi non abbiamo un ruolo nel
processo interattivo. Dunque Goffman propone di distinguere una “pista
direzionale” in cui, come lui stesso dice, “si trova un flusso di segni che è
esso stesso escluso dal contenuto dell’attività ma che serve come mezzo per
regolarla, delimitando, articolando e qualificando le sue varie componenti e
fasi” (Goffman, 1974: 210; trad. it., 2001, p. 143). Si può parlare anche di
una “pista della disattenzione” (Goffman, 1974: 210) alla quale sono
assegnati una varietà di azioni che sono considerate come se non avessero
affatto un ruolo nell’interazione. Goffman ha fatto riferimento, in
particolare, alla “liberazione di bisogni umani” – grattarsi, cambiare la
posizione del corpo e così via – che sono, per così dire, deviazioni
consentite della disciplina comportamentale che tutti i partecipanti in copresenza seguono come prezzo da pagare per essere considerati come esseri
umani normali e predicibili e che passano inosservati.
Come lo stesso Goffman chiarisce, e come si può comprendere con
una breve riflessione, non è che i partecipanti non notino e non rispondano
alle azioni incluse nella pista della disattenzione. Al contrario, si può
mostrare che in molte situazioni esse svolgono un ruolo importante nel
processo interattivo. È per mezzo delle azioni che sono trattate
reciprocamente come appartenenti alla “pista della disattenzione”, per
esempio, che i partecipanti ad un incontro conversazionale possono
mettersi d’accordo su quando terminare l’incontro. Posso avvisarti che ho
bisogno di spostarmi in qualche altro posto con un certo cambiamento nella
direzione dello sguardo, con una certa irrequietezza nella postura, forse
cambiando la velocità con cui svolgo un’attività collaterale, come bere o
fumare. Questi cambiamenti non sono considerati in modo ufficiale, non
sono nemmeno considerati come parte della mia espressione, eppure
possono essere trattati, nondimeno, come elementi che trasmettono certe
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precise informazioni circa le mie intenzioni attuali e permettono all’altro di
adattare la propria linea d’azione di conseguenza.
Tipi di occasioni interazionali: interazione focalizzata e interazione non
focalizzata
Il raggruppamento, come abbiamo visto, è il termine che Goffman usa per
definire un insieme di individui che sono co-presenti. I raggruppamenti
possono essere organizzati in diversi modi. Goffman ha proposto
un’importante generica distinzione tra ciò che ha chiamato raggruppamenti
focalizzati e raggruppamenti non focalizzati. In un raggruppamento
focalizzato i partecipanti sono organizzati in modo da mantenere un punto
focale di attenzione in comune. In un raggruppamento non focalizzato un
simile punto focale non può essere percepito e i vari partecipanti
perseguono linee di interessi indipendenti. I raggruppamenti non focalizzati
includono, ad esempio, i pedoni per strada, gli utenti di una sala di lettura,
persone che aspettano in una sala d’attesa. Esempi di raggruppamenti
focalizzati sono occasioni di qualsiasi tipo di conversazione, partite di
tennis, coppie di ballerini, coppie di lavoratori che cooperano per portare a
termine un compito che richiede un’attenzione mantenuta in comune,
interviste, colloqui, sedute di psicoterapia e simili.
Operando questa distinzione, e mostrando che una gran varietà di
occasioni interazionali possono essere adattate in questo modo, Goffman ha
suggerito che occasioni che a prima vista sembrano molto diverse hanno
caratteristiche organizzative comuni. Attirando la nostra attenzione su
queste caratteristiche ci ha mostrato aspetti delle situazioni interazionali
che non erano mai stati presi in considerazione in modo sistematico prima.
Inoltre, soprattutto attraverso la caratterizzazione degli aspetti del
raggruppamento focalizzato, è riuscito a suggerire i modi in cui i vari
aspetti del comportamento, finora non considerati nello studio
dell’interazione, dovevano invece giocare un ruolo cruciale.
Se cominciamo a lavorare tenendo conto di questa dicotomia e,
pensando ai diversi tipi di raggruppamento cerchiamo di stabilire se siano
focalizzati o non focalizzati, scopriremo molto presto che questa
distinzione non può essere considerata molto più che una semplice
approssimazione. Guardiamo alcuni esempi.
Le persone che camminano per strada costituiscono un insieme di
individui che, sebbene co-presenti, perseguono ciascuno una linea d’azione
indipendente – sembrerebbe questo, un puro esempio di interazione non
focalizzata. Tuttavia, come lo stesso Goffman ha mostrato nell’elegante
12
discussione di questa situazione (in Behavior in Public Places, 1963: 83-8
e poi in modo più elaborato in Relations in Public, 1971: 5-18), esiste una
reciproca coordinazione tra le persone. Egli identifica un rituale interattivo
minimo, che egli chiama “disattenzione civile”, in cui ciascun passante si
comporta rispetto all’altro in modo da comunicare, allo stesso tempo, il
riconoscimento del passaggio di un altro essere umano e il riconoscimento
dell’altrui diritto di seguire una propria e indipendente linea d’azione. Già
in questo minimo tipo di scambio, per esempio, lo sguardo che i passanti si
lanciano accordandosi reciprocamente sul non far incontrare i propri occhi,
facendo in questo modo capire agli altri di non essere spaventati, ostili o di
non guardare l’altro come un automa, possiamo vedere che nella situazione
del camminare per strada c’è molto più che il semplice guidare il proprio
corpo per passare tra gli altri. In quella che è apparentemente la più non
focalizzata delle situazioni, possiamo tuttavia scorgere una serie di accordi
momentanei sul non mantenere un punto focale d’attenzione comune ed in
questo, sembra, abbiamo un esempio di interazione che ha alcune delle
proprietà degli scambi focalizzati. Si può osservare che in questi momenti
di “disattenzione civile” due persone coordinano le loro azioni su un
comune obiettivo, pur accordandosi in questo caso sul non unirsi in un
punto focale d’attenzione comune.
Consideriamo ora un altro tipo di raggruppamento, la coda. Si tratta
di un esempio di raggruppamento focalizzato o non focalizzato? Una coda
si forma laddove un certo numero di persone vogliono tutti fare qualcosa
che può essere fatta da una sola persona (o piuttosto, per usare un utile
concetto di Goffman, una “unità di partecipazione”)1 per volta: comprare il
biglietto per entrare nel cinema, ad esempio. A primo acchito, si potrebbe
pensare che una coda sia un raggruppamento focalizzato perché ogni
partecipante è in attesa per fare la stessa cosa: tutti focalizzano la propria
attenzione sull’attività di comprare il biglietto. Ma ciò sarebbe sbagliato
perché, ovviamente, l’acquisto del biglietto è una transazione individuale
che coinvolge i membri della coda come partecipanti indipendenti. La
1
Il concetto di “unità di partecipazione” è stato introdotto in Relations in Public (1971:
pp. 19-27). Goffman mette in evidenza che gli individui possono partecipare alle
occasioni interazionali come “singoli” e come membri di un “insieme”. Un buon
esempio di un “insieme” è una “coppia” o un “gruppo familiare” composto da genitori e
figli. In una coda al cinema, per esempio, i “posti” possono essere occupati da “coppie”
o da “gruppi familiari”, e ad ogni individuo che costituisce una parte di queste unità è
accordata la stessa priorità nella coda. Le unità che compongono una coda, quindi, se
considerate dal punto di vista della sua organizzazione come occasione interazionale,
non sono individui ma “unità di partecipazione”, alcune delle quali possono essere
“singoli”, altre “insiemi”.
13
transazione dell’acquistare il biglietto in sé è un’interazione focalizzata,
ovviamente, ma i membri della coda non sono i partecipanti ad un
raggruppamento che collaborano per mantenere l’attività del comprare il
biglietto. In una coda, ciò che abbiamo è un insieme di unità di
partecipazione, ciascuna focalizzata separatamente ed indipendentemente
sulla stessa cosa. In un’interazione focalizzata il punto focale comune deve
essere la comune responsabilità dei partecipanti.
Ciò nonostante la coda possiede alcuni aspetti non dissimili da quelli
che possiamo osservare in un raggruppamento completamente focalizzato,
come le conversazioni. Per esempio, una coda ha una caratteristica e
particolare organizzazione spaziale, ha dei confini e chi vuole essere
membro della coda deve rispettare questi confini altrimenti non verrà
considerato come un effettivo membro della coda e quindi non può tenere
un “posto” in essa. Se una persona sta troppo a lato o troppo indietro alla
persona vicina, possono sorgere dubbi circa il suo essere in coda. Per essere
impegnati nello stare in coda, quindi, i partecipanti devono unirsi nel
mantenere una certa disposizione spaziale (o “formazione” come l’ho
chiamata altrove - Kendon, 1977) e questo deve essere fatto attraverso un
tipo di interazione che si possa considerare a tutti gli effetti come governata
da un punto focale d’attenzione mantenuto in comune. Questo punto focale
è raramente formulato in quanto tale, non viene trattato come la “trama” di
un’interazione. Tuttavia è qualcosa a cui tutti i membri della coda prestano
attenzione ed è facile osservare come essi cooperano affinché esso venga
mantenuto. Non sarebbe corretto dire che una coda è un raggruppamento
focalizzato, eppure non possiamo negare che, almeno in termini di manovre
spaziali ed orientazionali, ciò che avviene è un tipo di interazione
focalizzata.
Un altro esempio che possiamo considerare da questo punto di vista
è un plotone militare in parata, o forse, gli allievi e l’insegnante durante
un’escursione o in classe. Qui abbiamo un insieme di individui che
seguono tutti un unico punto focale d’attenzione, l’ufficiale che dà gli
ordini o l’insegnante. Ancora una volta, queste occasioni hanno
un’organizzazione spaziale che è mantenuta grazie alla cooperazione dei
membri e a cui bisogna partecipare per essere considerati partecipanti.
Anche in questi casi ci sono delle cose che è giusto aspettarsi, altre che
sono invece inadeguate – vi sono adeguati modelli di sguardo e di posture e
ci sono delle disposizioni che governano l’organizzazione delle mosse e
delle risposte come negli scambi verbali tra allievo ed insegnante o negli
scambi enunciato-movimento tra l’ufficiale che dà l’ordine e gli uomini che
lo eseguono. Vari sono, dunque, i modi in cui tutti i partecipanti devono
cooperare per mantenere occasioni come le parate o le escursioni. Tuttavia,
14
il punto focale “ufficiale”, le cose che sono trattate come appartenenti alla
“trama” o alla “pista principale” non sorgono attraverso le azioni comuni
dei partecipanti allo stesso modo in cui accade in una conversazione o in
una partita di tennis. In una classe o in una parata vi è un unico punto
focale d’attenzione che deve essere seguito da un insieme di individui
singolarmente e questo punto focale non cambia per mezzo dell’azione
cooperativa dei partecipanti. In una conversazione, tuttavia, l’argomento in
corso è creato in comune ed è mantenuto in comune; e se uno dei
partecipanti, al suo turno di parola, per qualche ragione non riesce a parlare
(a causa di un attacco di tosse o forse perché non riesce a pensare a nulla da
dire) la conversazione potrebbe dover essere sospesa. O se in una partita di
tennis – un altro esempio di interazione focalizzata – una delle parti ha
improvvisamente uno strappo muscolare e non può servire o rispondere al
servizio, il gioco deve essere sospeso. Invece, un soldato che ha un collasso
durante la parata o un allievo che resta indietro non determinano la
sospensione dell’intera faccenda a meno che l’ufficiale o l’insegnante non
lo ritengano opportuno. Ovviamente, gli allievi o i soldati possono
ribellarsi, possono rifiutarsi di mantenere l’organizzazione in cui ciascuno
singolarmente presta attenzione al punto focale in comune, nel cui caso la
situazione cambia. Tuttavia, il punto è che il punto focale d’attenzione in sé
non è qualcosa che è mantenuto insieme, come l’argomento di una
conversazione o la partita di tennis. Si è tentati di distinguere da un lato il
raggruppamento con un punto focale in comune, di cui il plotone militare in
parata e l’escursione sono un esempio, e dall’altro il raggruppamento con
un punto focale mantenuto congiuntamente, come le conversazioni o le
partite di tennis.
Goffman stesso ha suggerito che possiamo distinguere il
raggruppamento plurifocalizzato da quello monofocalizzato. L’esempio
standard di raggruppamento plurifocalizzato è un ricevimento pomeridiano
(“cocktail party”) in cui ci sono più partecipanti, tutti all’interno di uno spazio
delimitato, dove ci sono molti singoli raggruppamenti congiuntamente
focalizzati – una molteplicità di “nodi” conversazionali o “riunioni”. Tali
occasioni sono di particolare interesse perché mettono in evidenza molto
chiaramente alcune importanti caratteristiche dei raggruppamenti
congiuntamente focalizzati. Tra questi aspetti includiamo il modo in cui i
partecipanti cooperano per mantenere l’integrità dell’occasione come unità di
un’attività sostenuta in comune. Ciò che interessa in un raggruppamento
plurifocalizzato è che si hanno una serie di queste occasioni delimitate nello
spazio di un’attività mantenuta congiuntamente all’interno dello stesso spazio
fisico. L’osservazione di simili ambienti dà l’opportunità di vedere come è
mantenuta l’integrità di queste occasioni.
15
Si può osservare, per esempio, che ogni incontro focalizzato si
mantiene come gruppo spazialmente distinto. Le persone si muovono l’uno
in relazione all’altro cosicché il piccolo mondo della conversazione che
essi hanno stabilito sia mantenuto come un mondo indipendente; ciò che
accade intorno è accuratamente considerato irrilevante. Possiamo
osservare, inoltre, le procedure che le persone seguono quando entrano in
queste unità delimitate nello spazio e quando ne escono. Goffman, in
Behavior in Public Places (1963) introduce in modo succinto tali
procedure, riferendosi in particolare al modo in cui gli impegni diretti
devono essere aperti da una serie di mosse attraverso cui, prima dell’inizio
dell’incontro, le eventuali parti devono far capire agli altri che sono aperti e
disponibili per l’impegno. Questo avviene spesso attraverso un sottile
scambio di sguardi che può essere seguito da manovre spaziali comuni che
portano i partecipanti a trovarsi ad una distanza adatta. Normalmente, c’è
uno scambio di parole e gesti – un “saluto”, cioè – che serve a stabilire che
le parti sono apertamente entrate nell’interazione. Questi enunciati e questi
gesti di saluto servono ad annunciare pubblicamente l’accordo di
impegnarsi in un incontro focalizzato, rendendo pubblico l’accordo sia ai
partecipanti stessi sia a coloro che stanno intorno. E questo è importante
perché quelli che stanno intorno si comporteranno in modo molto diverso
nei confronti dei due o più che sono impegnati in un incontro focalizzato,
rispetto alle persone che non lo sono. L’integrità di un incontro
congiuntamente focalizzato è, dunque, il prodotto sia della cooperazione
mantenuta dei partecipanti che della cooperazione degli altri, che si trovano
nello stesso ambiente ma non sono partecipanti. Così possiamo osservare,
in situazioni come i ricevimenti pomeridiani, come i diversi esempi di
interazione focalizzata cooperano per restare spazialmente distinti. Intorno
ad ogni occasione di conversazione c’è una specie di “terra di nessuno”,
una zona tampone. Le persone possono passare in questo spazio ma, di
regola, nel farlo non prestano attenzione ai raggruppamenti che vi sono in
esso. Se si fermano, d’altra parte, ammesso che si dispongano in un
particolare tipo di orientazione rispetto all’incontro focalizzato che si sta
svolgendo, è probabile che essi vengano fatti entrare o siano invitati ad
unirsi. In tali occasioni, dunque, possiamo notare come un mero
movimento e l’orientazione nello spazio possono costituire una mossa nello
scambio interazionale.
Goffman fornisce uno schema dettagliato dell’organizzazione di ciò
che ho chiamato raggruppamento congiuntamente focalizzato – lui li
chiama anche “impegni diretti”, “incontri” o “sistemi di attività situate”. Lo
studioso dice: “Gli impegni diretti comprendono tutti i casi in cui due o più
partecipanti ad una situazione risultano apertamente legati l’un l’altro allo
16
scopo di mantenere un unico punto focale di attenzione conoscitiva e
visiva, il che viene considerato come un’unica attività reciproca che
comprende un diritto a un tipo di comunicazione preferenziale” (Goffman,
1963: 89; trad. it., 1971, p. 90-91). Lo studioso mette in evidenza che
questa organizzazione prevale non solo in quelle occasioni in cui il parlato
è l’attività principale e il mezzo attraverso cui l’attività reciproca è portata
avanti, ma anche nei casi in cui due o più individui si uniscono per
mantenere un punto focale di comune interesse. Egli illustra come le
persone che sono entrate in un’interazione focalizzata tendono a mantenere
una diversa organizzazione spaziale – “una relazione ecologica di tipo
occhi-negli-occhi, aumentando al massimo l’opportunità di captare le
percezioni reciproche” (1963:95; trad. it., 1971, p. 97). Continua poi:
Prevale una definizione partitiva della situazione, che consiste in un accordo su
ciò che è rilevante o irrilevante percepire, e in un “consenso operativo” che implica un
certo grado di reciproca considerazione e simpatia, nonché la messa a tacere delle
divergenze. Spesso si sviluppa uno spirito di gruppo, che Bateson ha definito ethos.
Contemporaneamente sembra anche aumentare il senso di responsabilità morale per i
propri atti. Si manifesta una “logica comunitaria” (we-rationale), che consiste nella
consapevolezza da parte dei partecipanti di star facendo apertamente tutti insieme, in
quel momento, la stessa cosa. (1963: 96-8; trad. it., 1971, p. 97-98)
La caratterizzazione di Goffman delle proprietà dell’incontro
focalizzato – sviluppato in modo leggermente diverso in molti suoi lavori –
servì a sollevare nuove questioni per gli studiosi dell’interazione e portò
l’attenzione sull’importanza di analizzare tutti gli aspetti del
comportamento che fino a quel momento erano stati ignorati.
Così, enfatizzando la singolarità del mondo interazionale che si
stabilisce in queste occasioni, Goffman ha attratto l’attenzione
sull’importanza di studiare i mezzi attraverso cui ciò si compie. Cioè, ha
messo in rilievo che considerare gli aspetti del comportamento
nell’interazione che servono a mantenerne i confini è tanto importante, per
capire come avviene l’interazione, quanto lo studio degli scambi effettivi
che occorrono in questi confini. Ha indicato anche cosa cercare – in
particolare la disposizione spaziale adottata dalle persone impegnate
nell’interazione ed anche il modo in cui i raggruppamenti focalizzati sono
organizzati in relazione all’ambiente fisico in cui hanno luogo. Lo studio
dei sistemi di formazione (Scheflen e Ashcraft, 1976; Kendon, 1977;
Ciolek e Kendon, 1980) – cioè, lo studio di come gli interagenti iniziano e
mantengono una disposizione spaziale ed orientazionale – è un prodotto
diretto del lavoro di Goffman sull’interazione focalizzata. Goffman
sostenne anche che per capire come è mantenuta l’integrità dei
raggruppamenti è molto importante considerare anche l’ambiente fisico in
17
cui questi hanno luogo; così ha prestato attenzione ai vari modi in cui
l’ambiente è strutturato per l’interazione e ai diversi modi in cui, nei
raggruppamenti, i partecipanti usano le caratteristiche dell’ambiente fisico
a seconda di come l’interazione è organizzata.
Goffman ha attirato l’attenzione anche sul problema delle persone
che sono potenziali partecipanti ad un’interazione focalizzata. Come
passano dallo stato dell’essere “non impegnati” a quello di essere
“impegnati”? Dall’essere singoli partecipanti impegnati solo in
un’interazione non focalizzata ad essere “collocati in stato di
conversazione” l’un con l’altro? I piccoli rituali attraverso cui gli incontri
focalizzati sono allestiti diventano, così, aspetti interessanti. Egli ha
mostrato che prima che le persone possano iniziare uno scambio di
enunciati o di gesti devono accordarsi sull’intenzione di avere questo
scambio. E per capire come si raggiunge questo accordo precedente,
bisogna guardare al di là degli effettivi enunciati e dei gesti che vengono
scambiati e considerare le condizioni prestabilite in anticipo: quindi
dobbiamo considerare gli sguardi, le manovre, la postura e l’orientazione,
tutti elementi che portano allo scambio di esplicite mosse e risposte.
Studiando questi aspetti possiamo avere una buona illustrazione del modo
in cui gli aspetti del comportamento, non esplicitamente organizzati come
mosse che forniscono informazioni agli altri – cioè gli “atti espliciti” come
li chiamerò tra poco – sono nonostante ciò esaminati attentamente perché
emettono informazioni sulle future intenzioni degli altri; e possiamo
ottenere un’illustrazione anche di come le persone possono deliberatamente
manipolare il comportamento che normalmente è trattato come parte della
pista della disattenzione per fornire informazioni circa le loro intenzioni,
cosicché gli altri possano organizzare le loro intenzioni e il loro
comportamento di conseguenza (si veda anche Kendon e Ferber, 1973;
Kendon, 1985).
Analisi degli scambi espliciti
In un’interazione focalizzata i partecipanti si impegnano in ciò che
Goffman ha chiamato “scambi”. In uno “scambio” normalmente prima una
persona fa qualcosa e poi un’altra fa qualcos’altro, ma queste azioni
consecutive sono trattate dai partecipanti come se fossero in qualche modo
collegate, spesso come se le azioni di B fossero una sorta di risposta alla
precedente azione di A. Molti studiosi hanno tentato di caratterizzare i
principi di governano il modo in cui le “azioni” in uno scambio sono
18
collegate e come, di conseguenza, esse sono organizzate in un certo tipo di
unità coerente, come una “conversazione”, un “discorso”, un “incontro” di
combattimento, un “giro” di danza o una “partita” a carte.
Implicito nell’azione dello scambio è il riconoscimento che i
partecipanti all’interazione prestano attenzione al comportamento dell’altro
in modo molto differenziato. Prima ho discusso di questo in rapporto con il
generico punto del “fornire” e “emettere” informazioni e in rapporto alle
osservazioni che Goffman fa circa le “piste di attenzione” nell’interazione.
Sembra che le persone trattino alcuni aspetti del comportamento degli altri
sempre come se fossero degli atti espliciti, mentre altre come se fossero o
attività di “sfondo” o come se fossero irrilevanti. Nell’interazione i
partecipanti trattano alcuni aspetti di ciò che gli altri fanno come azioni
“volute”, azioni che sono preparate come se necessitassero una risposta
esplicita, mentre altre azioni non sono affatto trattate allo stesso modo.
Fondamentali per l’occorrenza degli scambi, come sono concepiti
qui, allora, è l’abilità dei partecipanti di avviare il “consenso operativo”,
circa ciò che è rilevante e ciò che non lo è in qualità di “atto esplicito”.
L’accordarsi sulla cornice, quindi, deve essere visto come un processo
precedente e fondamentale nell’organizzazione di qualsiasi scambio
(Kendon, 1985).
Dato l’accordo sulla cornice, possiamo dunque considerare come
sono strutturati gli atti espliciti nell’interazione. Goffman suggerisce di
prendere in considerazione due aspetti: i requisiti del sistema e i requisiti
del rituale. I requisiti sistemici sono quei requisiti che un sistema
interazionale deve avere, dato che i partecipanti hanno certe capacità
anatomiche, fisiologiche e di elaborazione delle informazioni. I requisiti
rituali si riferiscono alle regole che guidano l’interazione, dato che i
partecipanti sono essere morali che sono guidati da norme di buona ed
appropriata condotta che mantengono reciprocamente. Molto del lavoro di
Goffman sugli scambi si è concentrato sulla spiegazione dei requisiti del
rituale che guidano gli scambi. Tuttavia, in Forms of talk (Goffman, 1981b)
egli delinea prima i requisiti sistemici e poi suggerisce come i requisiti
rituali e quelli sistemici si rafforzano a vicenda. Lo schema dei requisiti del
sistema che egli fornisce, racchiude insieme molti degli esiti del dettagliato
lavoro svolto in anni recenti sull’interazione faccia a faccia. È un buon
sommario di molto di quello che oggi si sa su questa organizzazione. Egli
riesce anche a mostrare molto chiaramente perché il concetto dei requisiti
del rituale è indispensabile per una completa comprensione
dell’interazione.
Lo schema di Goffman comprende otto requisiti sistemici che sono
elencati sotto con alcuni commenti. Ho anche aggiunto alcuni riferimenti
19
ad una selezione di lavori sull’interazione che stanno alla base delle
sommarie affermazioni presentate qui.
Primo, deve esserci una capacità nei due sensi di trasmettere e
ricevere messaggi chiari ed adeguati. Goffman specifica che questi
messaggi devono essere “adeguati da un punto di vista acustico” ma
possiamo supporre che Goffman accetterebbe la formulazione più generica
che ne abbiamo dato, in quanto i messaggi possono anche essere visivi – un
punto a cui dà molta enfasi, in verità, come discuteremo sotto. Questa
capacità di inviare e ricevere messaggi ovviamente dipende da adeguate
condizioni ambientali e dalle circostanze che permettono ai partecipanti sia
di regolare l’apparato “trasmittente”, sia di orientare l’apparato “ricevente”.
In questo modo si può comprendere l’ecologia dei raggruppamenti
conversazionali: le persone devono essere abbastanza vicine da potersi
sentire e vedere, devono orientarsi in modo adeguato, ecc. (si veda Kendon,
1977; Ciolek e Kendon, 1980).
Secondo, è necessaria la presenza di segnali per informare
l’emittente che la ricezione è in atto. Molti aspetti del comportamento degli
ascoltatori possono avere questa funzione. Per esempio, alcune disposizioni
posturali ed orientazionali, normalmente usate dagli ascoltatori, servono ad
informare che si sta prestando attenzione al parlante – Scheflen (1964,
1972) fornisce alcune osservazioni pionieristiche su questo aspetto. Alcuni
modelli di direzione dello sguardo, i gesti della testa e del volto e i brevi
enunciati vocali servono come feedback per il parlante per sapere come i
suoi enunciati sono considerati e ricevuti (Yngve, 1970; Duncan e Fiske,
1977; Goodwin, 1981).
Terzo, ci devono essere segnali per annunciare la ricerca del canale
di comunicazione, per annunciare che un canale è aperto ed anche segnali
per chiudere un canale. Queste funzioni di apertura e chiusura forniscono,
in parte, una spiegazione per la presenza degli scambi di saluto e di
congedo (Kendon e Ferber, 1973, Schegloff e Sacks, 1973).
Quarto, dato che P non può rispondere a Q finché non sa quale sarà
l’azione pertinente di Q, vediamo che i partecipanti agli scambi espliciti
tendono ad alternarsi o a fare a turno quando sono impegnati in azioni
esplicite. Ciò implica che occorreranno una serie di segnali o marcatori
attraverso cui indicare l’inizio e la fine di ogni turno e attraverso cui
indicare quale dei partecipanti avrà il turno successivo.
Bisognerebbe aggiungere che la questione del “turn-taking”
nell’interazione e la sua spiegazione è molto più complessa di quanto
questo paragrafo possa suggerire. Per esempio, P talvolta può iniziare il suo
turno prima che il turno di Q sia terminato. Ciò può accadere non solo in
quelle situazioni in cui P vuole interrompere Q, ma può capitare perché
20
spesso P riesce a prevedere la natura dell’azione attinente di Q, che è in
corso. Questa anticipazione può essere dovuta a diversi fattori, come il fatto
che P può conoscere l’argomento di cui Q sta parlando, che P può avere la
capacità di afferrare la struttura dell’intonazione dell’enunciato di Q o di
afferrare la ridondanza nella struttura del discorso di Q. Questo, talvolta, fa
sì che P completi l’enunciato di Q e che vi faccia delle aggiunte. In alcune
circostanze, inoltre, sembra che gli individui siano in grado di ascoltare e
di parlare allo stesso tempo. Nonostante ciò, l’alternanza degli atti
comunicativi espliciti è una caratteristica preminente di molte interazioni e
ciò probabilmente si può spiegare in gran parte tenendo conto delle
limitazioni della capacità di elaborazione delle informazioni che hanno i
partecipanti. Nelle misura in cui ciò è valido, possiamo aspettarci la
presenza di quegli aspetti del comportamento che funzionano come segnali
per la regolazione del turno, che probabilmente sono inclusi in tutte le
interazioni umane.
Quinto, ci devono essere tecniche per ripetere, ritardare o
interrompere un messaggio.
Sesto, ci devono essere modi attraverso cui i messaggi possono
essere inquadrati in una certa cornice; cioè ci devono essere segnali
metacomunicativi, per usare un termine di Gregory Bateson (si veda
Bateson, 1956), che segnalano come leggere il messaggio inviato.
Settimo, ci sono norme che regolano lo sviluppo del contenuto del
messaggio in modo che sia attinente a ciò che è stato detto in precedenza.
Infine, ci devono essere regole che guidano la relazione tra gli
individui attivamente impegnati in uno scambio e coloro che, pur
trovandosi a portata di ciò che è in atto, non sono partecipanti. Cioè, ci
devono essere dei modi per distinguere gli effettivi emittenti-riceventi dai
potenziali emittenti-riceventi. Ancora una volta troviamo un principio in
base a cui considerare la condotta spaziale ed orientazionale degli individui
co-presenti, dove alcuni dei essi sono impegnati in uno scambio mentre
altri no o non nello stesso scambio. (Kendon, 1977; Ciolek e Kendon,
1980).
Questi requisiti sistemici possono contribuire in modo determinante a
spiegare ciò che osserviamo dell’organizzazione del comportamento negli
scambi espliciti. Tuttavia, essi ci sono utili se assumiamo che i partecipanti
hanno già, come dice Goffman stesso, “concordemente deciso di operare
(di fatto) soltanto come nodi di comunicazione e di rendersi del tutto
disponibili a questo scopo” (Goffman, 1981b: 15; trad. it., 1987, p. 44).
Se una persona deve impegnarsi ad operare come “nodo di
comunicazione”, tuttavia, può farlo solo rispetto ad un unico sistema per
volta (un altro “requisito del sistema”), e di conseguenza deve rinunciare a
21
qualunque altra attività. Ricevere una richiesta di aprire un canale di
comunicazione con un’altra persona, significa ricevere la richiesta di
mettere da parte le altre richieste. Questa richiesta è una violazione della
propria autonomia, quindi, il ricevente potrebbe sentirsi offeso. Allo stesso
modo, trasmettere una richiesta per l’apertura di un canale di
comunicazione ad un altro significa rischiare che l’altro la consideri
un’offesa e ricevere un rifiuto, e significa rischiare che la propria
rispettabilità, come persona individuale, venga negata. E ovviamente
l’altro, nel rifiutare, è probabile che sia visto come una persona che nega il
valore degli altri – buona ragione, questa, per non inviare, in futuro,
richieste per aprire un canale di comunicazione a quella persona. Le
richieste per aprire un canale di comunicazione sono rischiose per la stima
di se stessi, quindi, ma rifiutare queste richieste equivale a mettere a rischio
la rispettabilità che gli altri accorderanno a quella persona. Quindi il
destinatario ha un certo obbligo di rispondere ma l’emittente ha l’obbligo di
formulare il suo discorso in modo da consentire all’altro di rifiutare, se
deve, con cortesia.
Quindi possiamo vedere che gli scambi espliciti hanno delle
caratteristiche che non possono essere spiegate semplicemente in termini di
requisiti sistemici. Nel cercare di aprire una conversazione, per esempio, le
persone rivolgono agli altri vari tipi di gesti e di enunciati che, pur avendo
la funzione di aprire un canale, servono anche come mezzi per riconoscere
la rispettabilità dei partecipanti. Per chiudere una conversazione, una
persona non mette semplicemente fuori servizio i suoi organi di ricezione
(cioè non si tappa le orecchie o chiude gli occhi), passa piuttosto attraverso
un elaborato processo di avviso di chiusura. Si cerca prima un accordo sulla
chiusura e poi si avvia questo accordo; e la cerimonia della chiusura stessa
è vincolata da espressioni che rassicurino reciprocamente i partecipanti che
l’interruzione dei canali di comunicazione che sta per avere luogo non
implica che essi non saranno disposti a riaprirli, se le circostanze dovessero
permetterlo. Dunque i processi di apertura e di chiusura di un canale di
comunicazione sono elaborati attraverso rituali di saluto e di congedo.
Possiamo cercare di spiegarli in termini di requisiti sistemici ma una
comprensione della loro struttura richiede anche una comprensione dei
requisiti rituali dell’interazione. La manovre pre-esplicite di saluto a cui
abbiamo alluso prima, spesso composte dal comportamento considerato
appartenente alla pista della disattenzione, richiedono l’aspetto rituale
dell’interazione per essere comprese. Infatti, il modo stesso in cui le
persone scelgono di differenziare le azioni in “esplicite” e non “esplicite”, è
una funzione della struttura rituale dell’interazione. Certo, il modo selettivo
con cui rispondiamo al comportamento degli altri è una conseguenza delle
22
limitazioni delle capacità d’attenzione. La risposta differenziata, quindi, ha
origine in un requisito del sistema. Ma ciò su cui le persone si accordano di
prendere o non prendere in considerazione è parte dell’accordo generale
che essi hanno di considerarsi reciprocamente come persone rispettabili.
Anche l’accordo a cui si arriva, quindi, è regolato da requisiti rituali.
Atti espliciti
Ora, deve essere discussa un’ultima questione sollevata dall’analisi di
Goffman sugli scambi espliciti: si tratta della questione della natura di
questi atti espliciti, in virtù della quale sono organizzati. Ho cercato, per
quanto possibile, di non specificare cosa siano gli “atti espliciti”. La
maggior parte delle volte, naturalmente, sembra che assumiamo che ciò che
si considera un “atto esplicito” sia un atto linguistico o almeno una
vocalizzazione, e virtualmente tutti gli studi che hanno tentato di fare una
precisa analisi dell’interazione si sono limitati alle occasioni in cui gli
scambi di enunciati verbali costituiscono il principale coinvolgimento dei
partecipanti; ciò vale anche per quegli studi il cui principale interesse erano
gli aspetti non-verbali della comunicazione. Il numero di indagini
sull’interazione dove il parlato non è compreso o dove gioca un ruolo
minore sono davvero pochi, per quanto ne so.
Goffman, tuttavia, si è dato sempre molto da fare per mettere in
evidenza che gli atti espliciti, di cui sono composti gli scambi espliciti, non
devono essere necessariamente né atti linguistici né gesti, ma possono
essere qualsiasi cosa i partecipanti abbiano deciso di considerare come
esplicito. Ad un atto verbale si può rispondere in modo appropriato con un
gesto, come quando dico “Passami il sale” ed il sale viene passato; ad
un’azione fisica si può rispondere adeguatamente con un atto verbale, come
quando il cameriere muove il beccuccio della caffettiera ed io dico “Solo
metà tazza, per favore”; e ad un’azione fisica si può rispondere
appropriatamente con un’altra azione fisica, come quando A prende una
sigaretta, ne offre una a B, B la prende e tira fuori il suo accendino e lo
porge con la fiamma accesa ad A affinché possa accendere.
O si consideri la transazione che ha luogo quando un cliente compra
una tavoletta di cioccolato in un bar. Il cliente può avvicinarsi alla cassa e
dire “Quanto costa?” e la cassiera può rispondere “50 centesimi”. Qui
abbiamo una domanda verbale alla quale segue una risposta verbale.
Tuttavia, il cliente può anche avvicinarsi alla cassa e mantenere la tavoletta
di cioccolato tenendola in alto e in avanti in modo che sia bene in vista.
23
Anche questa sarà presa come una mossa e la cassiera può dire ancora,
semplicemente, “50 centesimi”. Qui un’azione fisica, combinata con il
mantenere un oggetto, riceve una risposta verbale. Infine, se il cliente
conosce già il prezzo della tavoletta di cioccolato può avvicinarsi alla cassa
mantenendo sia la cioccolata che i soldi, a questo la cassiera può
semplicemente stendere la mano, col palmo verso l’alto, il cliente vi può
depositare il denaro e andarsene. Qui l’intera transazione è condotta senza
dire una parola. Tuttavia, in tutti e tre i casi abbiamo un esempio di
scambio esplicito, uno scambio che, in ogni caso, ha fondamentalmente la
stessa struttura.
Per le transazioni di questo tipo possiamo identificare una mossa di
apertura, per mezzo della quale il cliente stabilisce il suo desiderio di essere
un acquirente, mosse attraverso cui è identificata la merce di cui si ha
bisogno ed è stabilito il prezzo ed una serie di mosse finali attraverso cui il
denaro è offerto e ricevuto. Che queste mosse e risposte siano realizzate
attraverso delle manovre spaziali e l’orientazione, attraverso i gesti facciali
o manuali, attraverso la manipolazione e il passaggio degli oggetti,
attraverso la parola o attraverso una combinazione di tutto ciò, il modello
organizzativo della transazione resta lo stesso.
Si può riconoscere, dunque, una struttura comune per queste transazioni di
vendita. Si può mostrare come, in varie circostanze, le mosse stesse sono
espresse in modi diversi: ora solamente come manovre spaziali e manipolazione
degli oggetti, ora come atti linguistici e gesti. Un’analisi di questo tipo
mostrerebbe come, “le sequenze interazionali stabiliscono una fessura, ed essa
può essere riempita con qualsiasi cosa sia disponibile: se non si ha una frase, un
borbottio può andare bene, se non si ha un borbottio, una contrazione muscolare
farà lo stesso” (Goffman, 1971: 149, n. 38).
Con esempi di questo tipo, Goffman riesce a concludere, come fa in
“Replies and Responses” (Goffman, 1981b), che il parlato non è che un “esempio
di quell’organizzazione in virtù della quale gli individui si riuniscono e
sostengono una situazione che ha un centro di attenzione ratificato, reciproco e in
continuo sviluppo, il che li colloca insieme in qualche sorta di mondo mentale
intersoggettivo” (Goffman, 1981b: 70-1; trad. it., 1987, p. 111). Egli è d’accordo
sul fatto che “le parole sono il più importante strumento per portare parlante e
ascoltatore” nello stesso mondo mentale intersoggettivo, ma mette in evidenza
che sebbene le parole possano essere il “mezzo migliore” per fare ciò, “non
significa che siano l’unico e neppure che l’organizzazione sociale che ne risulta
sia intrinsecamente verbale in natura”.
L’organizzazione sociale che ne deriva è, come abbiamo visto, un
prodotto dei processi sull’accordo sulla cornice, dei vincoli sistemici, e dei
requisiti rituali.
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I processi sull’accordo della cornice permettono ai partecipanti di
arrivare al “consenso operativo” dell’incontro, tramite il quale ci si accorda
su quali aspetti del comportamento bisogna considerare come “mosse” e
cosa sia pertinente al contenuto dell’incontro.
I vincoli sistemici contribuiscono all’organizzazione ecologica
dell’incontro e determinano anche il tipo di organizzazione basilare che
avranno le sequenze delle mosse, che sono condizionate dalla natura del
comportamento che è considerato come “azione esplicita”. Per esempio, se
è coinvolto il parlato, possiamo aspettarci una struttura di “turn-taking”, se
sono coinvolti i movimenti di una danza o azioni come le carezze o la lotta,
è probabile che ci sia una struttura diversa.
I requisiti rituali spiegano i modi in cui i partecipanti mostrano la
loro volontà di partecipare all’incontro, i modi in cui mostrano livelli di
attenzione appropriati e risposte appropriate e come negoziano ed arrivano
ad un accordo per chiudere un incontro.
I processi sull’accordo della cornice, la gestione dei vincoli sistemici
e l’adempimento dei requisiti rituali includono una varietà di azioni che
può includere il parlato, ma non sempre – ma che sempre include tipi di
comportamento diversi dal parlato. Il parlato quindi non è fondamentale per
la produzione degli scambi espliciti, non sempre è necessario.
Ciononostante, conserva un posto centrale nella nostra esperienza, che
nessuno potrebbe negare. Il problema resta determinare che posto occupa
nell’interazione. La discussione di Goffman serve a sollevare questo
problema. La sua soluzione è una questione lasciata ai lavori futuri.
Conclusioni
Come si può riassumere il contributo di Goffman allo studio
dell’interazione faccia a faccia e quali compiti ci ha lasciato per il futuro?
Primo, credo che egli abbia dato ampia dimostrazione della
fondatezza della sua opinione di considerare le occasioni interazionali
come sistema che merita uno studio a parte. Egli ha espresso in modo
particolarmente chiaro il punto che i partecipanti possono impegnarsi in
azioni in un’interazione nell’interesse del sistema in cui sono coinvolti, e
non perché abbiano necessariamente qualcosa da esprimere. Ha mostrato
l’importanza di un approccio il cui punto di partenza per l’analisi non sia
l’individuo ma l’interazione tra gli atti. Ciò ha fornito, per molti di noi
almeno, un’intelaiatura nuova, in base a cui interpretare le piccole
componenti del comportamento interazionale, le quali finora erano state
considerate in termini puramente psicologici.
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Secondo, credo che egli ci abbia aperto gli occhi e ci abbia fatto
vedere che tutto ciò che le persone fanno quando sono in presenza degli
altri meritano di essere studiate minuziosamente, che la regolarità del
comportamento degli individui quando sono in co-presenza è meritevole di
attenzione, e non solo quegli eventi che normalmente ci si aspetta che noi
riportiamo. Ci ha mostrato sia la possibilità sia l’importanza di una storia
naturale dell’interazione sociale e ha ampliato di molto il campo
dell’osservazione.
Infine, ci ha fornito una terminologia che ci permette di parlare della
complessità dell’interazione. In particolare, ha proposto una serie di termini
che servono a mostrare come le caratteristiche comuni dell’interazione
quotidiana siano rappresentative di un’intera classe di fenomeni che, fino a
Goffman, non erano mai stati trattati in questo modo. Per fare giusto un
esempio, chiamando la conversazione “interazione focalizzata”, ha in tal
modo assegnato la conversazione ad una più vasta classe di occasioni
interazionali, di cui la conversazione non è che una specie. In questo modo
ha gettato le basi per una teoria generale dell’interazione faccia a faccia.
Per il futuro ci sono molte questioni, ma ce ne sono tre che mi
sembrano di particolare importanza.
Primo, c’è la questione della generalità culturale dello schema di
Goffman. Fino a che punto l’analisi delle pratiche dell’interazione di
Goffman è appropriata solo alla cultura in cui visse e scrisse, o in che
misura può essere applicata più genericamente? La mia opinione è che
l’analisi dell’interazione di Goffman può essere vista come il tentativo di
una formulazione applicabile all’interazione umana in generale. I principali
concetti che egli ha sviluppato, incluso quelli di “raggruppamento”, “unità
di partecipazione”, il contrasto tra interazione “focalizzata” e “non
focalizzata”, l’analisi del lavoro di definizione della cornice che gli
interagenti devono fare per stabilire le occasioni di interazione focalizzata,
gli scambi rituali che ha identificato, specialmente il “parentesizzare” o l’
“accesso rituale” (Goffman, 1971: 73-80, trad. it., 1987, p. 50) tramite i
quali le cornici interazionali vengono stabilite e alterate - possono essere
considerate come proposte completamente generiche per le caratteristiche
dell’interazione faccia a faccia. Tuttavia, le analisi comparative delle
pratiche dell’interazione sembrano essere ancora troppo rare affinché
queste affermazioni possano essere maggiormente elaborate.
Per intraprendere uno studio comparativo più sofisticato, credo che i
tentativi di creare una tassonomia dell’interazione sociale sarebbero di gran
valore. C’è tutta una serie di termini che usiamo nella vita di tutti i giorni
per riferirci a diversi tipi di occasioni sociali, diversi tipi di incontri; e
Goffman stesso fa uso di alcuni di essi in modo quasi tecnico, suggerendo
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la possibilità di una sistematica delle occasioni interazionali, sebbene non
presentandone una lui stesso. Così, ha distinto l’interazione in
“focalizzata” e “non focalizzata” ma anche messo in evidenza come le
occasioni si distinguono anche per la cornice di partecipazione – come la
differenza tra eventi “podio” e occasioni in cui i diritti alla partecipazione
sono più equamente distribuiti. Goffman fornisce un punto di partenza per
una simile classificazione dei diversi tipi di occasioni interazionali. Sta ad
altri sviluppare questo aspetto in futuri lavori.
Infine, c’è la questione della natura delle unità di cui sono composti
gli scambi espliciti. Ho fatto riferimento a questo, evidenziando come
Goffman, soprattutto in “Replies and Responses” e in “On Footing”,
afferma che “tutto può bruciare nel fuoco della conversazione”. Goffman
ha chiaramente ragione qui; tuttavia, essere lasciati con il punto molto
generico che la conversazione – con cui presumibilmente egli intende
qualunque tipo di interazione focalizzata – è “un prolungato segmento di
riferimenti, dove ciascun riferimento tende ad avere, ma spesso in maniera
indiretta, una qualche connessione percepibile retrospettivamente con
quello immediatamente precedente” (Goffman, 1981b: 72; trad. it, 1987, p.
113), significa essere lasciati con una sfida, non una risposta. La sfida è
decifrare i modi in cui sono elaborati i diversi tipi di azioni che possono
essere utilizzate come riferimenti. Quali sono i contesti, le situazioni, in cui
gli individui seguono le giuste limitazioni del modello conversazionale,
quando invece non lo fanno? Come possiamo esplicare che posto occupa il
parlato nell’interazione umana, dopo tutto?
Nota
Vorrei ringraziare Mathew Ciolek, Charles Goodwin, Allen Grimshaw, Wendy LeedsHurwitz, Stephen Mugford e Emanuel Schegloff per gli utili commenti e suggerimenti.
Sono molto grato a Anthony Wootton e Paul Drew per avermi suggerito di scrivere
questo articolo. Il supporto finanziario, istituzionale e tecnico per questo articolo
provengono dall’Australian Institute for Aboriginal Studies, dal Dipartimento di
Antropologia della Research School of Pacific Studies dell’Università Nazionale
Australiana, Camberra e dal National Science Foundation di Washington, DC.
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