Movimenti sociali e forme di partecipazione nella globalizzazione
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Movimenti sociali e forme di partecipazione nella globalizzazione
1 ACLI - 46° Incontro Nazionale di Studi - Cortona, 20 settembre 2013 Movimenti sociali e forme di partecipazione nella globalizzazione di Paolo Ceri Se c’è una massima sulla democrazia che viene ripetuta, soprattutto in tempi di crisi, è l’aforisma di Winston Churchill: “la democrazia è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte quelle sperimentate finora”. Con minor frequenza ci si chiede perché: perché essa sia, per quanto insoddisfacente, la migliore. Non che manchino le spiegazioni, tanto che ci possiamo avvalere di intere biblioteche. Vorrei qui però attirare la vostra attenzione su una spiegazione che trovo tanto illuminante quanto trascurata, se non ignorata. Ed è quella che dà Tocqueville: la democrazia è la forma preferibile di governo perché più di altre favorisce una vita sociale piena e attiva, più di altre rende una società viva. Perché richiamare in questa occasione un’osservazione espressa quasi due secoli fa? Perché, usata come un controfattuale, orienta a chiederci: che ne è della democrazia, cosa accade alla democrazia quando – ed è il caso attuale dell’Italia, e non solo – quando, dicevo, la vita sociale, più che essere attiva, langue, quando la società è bloccata e divisa. Ma cosa vuol dire “attiva”, “viva”, “vitale”? Sono qualificativi, si potrebbe obiettare, forti ma vaghi. Per alcuni, ad esempio, è vitale una società competitiva, modellata al mercato; per altri lo è una società guerresca, improntata a un nazionalismo militante. No, qui s’intende quel che è corretto in generale intendere. Una società è tanto più attiva, viva e vitale, quanto più estesa e intensa è la partecipazione sociale e quanto più questa produce innovazione culturale. Certo, si apre un campo di interrogativi, di osservazioni e di valutazioni relative alle condizioni e alle forme della partecipazione; ed è proprio al riguardo che qui siamo impegnati a riflettere e scambiare idee. Per farlo conviene, anzi, occorre chiarire cosa debba intendersi per partecipazione. A tal fine, più che una definizione formale è utile distinguere tra processi, relazioni sociali e comportamenti che si collocano a tre livelli differenti e che possiamo considerare come le tre dimensioni della partecipazione sociale. Le indicherò con espressioni di comodo ma indicative: aver parte, far parte, prender parte. Al primo livello vi è partecipazione se e nella misura in cui si può aver parte all’attività collettiva tramite lo svolgimento di ruoli. A questo livello, la partecipazione è tanto maggiore quanto più ampia è l’autonomia nel ruolo e quanto più alta la motivazione a impegnarsi in esso per le finalità collettive. Al secondo livello partecipare significa poter influenzare le decisioni collettive entro il sistema di ruoli (impresa, partito, famiglia, associazione, ecc.), cosa che equivale a far parte nel senso di un’appartenenza attiva, cioè riconosciuta e ricambiata. Se a questi primi due livelli la partecipazione s’inscrive nel quadro delle regole di funzionamento del sistema, al terzo livello essa si esplica come un’azione orientata a cambiarne finalità, obiettivi e regole di funzionamento e consiste perciò nella possibilità di prender parte all’azione collettiva. Nel primo caso rilevante è soprattutto la partecipazione nel lavoro, nel secondo caso lo è la partecipazione alla vita politica, nel terzo la partecipazione nei movimenti sociali. Se potessimo ripercorrere con uno sguardo panoramico la storia del nostro Paese dal dopoguerra a oggi, ci renderemmo conto di quanto variabile sia stato nelle diverse fasi il livello della partecipazione lungo le tre dimensioni, tanto da assumere in estensione e intensità le più diverse combinazioni. Ma forse mai essa ha registrato un livello critico come l’attuale in tutte e tre le dimensioni. Basti pensare, rispettivamente a: la disoccupazione e la precarietà del lavoro, in specie giovanile; l’astensionismo elettorale, il calo degli iscritti a partiti e sindacati e il vuoto di rappresentanza; l’assenza di movimenti incisivi sul piano culturale e politico. Accade però che lo stato della partecipazione appaia sotto tutt’altra luce se osservato sulla scorta di rilevazioni campionarie con questionario e su ricerche serie come quelle dell’Iref, basate sulla rielaborazione di dati Istat, dalle quali risulta la tenuta del livello di partecipazione sociale e politica nell’arco di un decennio (20012011). Si tratta di un dato che pare smentire la tesi che la crisi economica comporti un calo della partecipazione e corroborare l’ipotesi che essa abbia tenuto malgrado e, per certi aspetti, “grazie a” la crisi economica. Visto il contrasto tra le due serie di osservazioni, è naturale chiedersi quale delle due sia attendibile. A mio modo di vedere lo sono entrambe, tanto da essere per certi versi complementari. Sotto questo profilo, due evidenze tratte dalle indagini menzionate mi paiono di particolare rilievo. Una è lo sviluppo di forme di partecipazione online, in specie quelle dei cosiddetti “partecipativi digitali”. L’altra è la tenuta dell’associazionismo e, al suo interno, la crescita – in parte legata alla crisi – del settore no profit e del volontariato. Sotto diversi aspetti sono due dati di realtà positivi. A renderli problematici sono una precisazione e un’avvertenza. La precisazione è che la partecipazione online, di certo destinata a crescere e a innovare, è a tutt’oggi ancora ampiamente individuale e più sostitutiva che integrativa o trasformativa delle forme e delle aree tradizionali di partecipazione. L’avvertenza ci dice come, oltre alla partecipazione nelle 3 associazioni, si debba considerare partecipazione attraverso le associazioni, cioè l’effetto partecipativo che l’appartenenza a e il coinvolgimento in un’associazione proiettano all’esterno, sulla società più ampia. Un effetto, questo, che è tanto più rilevante, sul piano individuale come su quello collettivo, quanto più la vita dell’associazione – relazioni, attività e dibattito interno - è collegata a temi, istanze e soggetti di altre sfere della vita sociale. Ebbene, è su questo piano che la partecipazione oggi fa problema . Insomma, se la partecipazione non è in calo, è però in crisi. E lo è a causa del diminuito collegamento fra le tre dimensioni della partecipazione. A determinare un simile stato di cose hanno certo contribuito la globalizzazione e la crisi economica. Capire come non è però semplice, poiché richiederebbe di considerare le connessioni causali con molti fattori, a cominciare dai modi con cui l’una e l’altra sono state affrontate e gestite sul piano politico, nazionale e internazionale. Qui mi limiterò, da sociologo, a indicare in estrema sintesi i principali processi attraverso i quali la globalizzazione influisce sulla partecipazione politica e sociale. A essere in questione non è la globalizzazione intesa come apertura dei mercati, dal momento che essa è all’origine anche di processi e opportunità che, pur tra squilibri vistosi, hanno favorito la crescita economica e la modernizzazione di aree del pianeta prima emarginate e arretrate. Lo è, per contro, la globalizzazione neoliberale, basata più che su politiche di liberalizzazione, su politiche di finanziarizzazione più o meno speculativa, di privatizzazione, di delocalizzazione e di omologazione dei consumi. I modi e il ritmo accelerato con cui esse sono attuate accentuano una tendenza propria della globalizzazione: la tendenza a dissociare economia e società. Vengono a formarsi due mondi di relazioni e di esperienza separati : da una parte la finanza e la tecnica, dall’altra la produzione e la cultura; da una parte il ruolo e la razionalità strumentale, dall’altra il soggetto, i sentimenti e il giudizio morale. Le conseguenze sulla prima dimensione della partecipazione, quella dell’”avere parte” sono affatto negative. Sul piano individuale la dissociazione ha l’effetto di deprimere la partecipazione personale nelle varie sfere di relazione, poiché l’impegno profuso in una specifica sfera non è, e ancor meno è percepito, come trasmissibile a e apprezzabile in altre, fino al punto di essere una reazione più o meno compensativa alle carenze e frustrazioni esperite in altre sfere dell’esistenza, in specie in quella del lavoro. Sul piano collettivo la principale conseguenza è l’incomunicabilità fino alla contrapposizione tra quanti agiscono orientati dai modelli competitivi e edonistici del mercato e quanti reagiscono difensivamente attraverso chiusure e integralismi comunitari, com’è dato vedere nelle forme più rigide di multiculturalismo e nelle reazioni più o meno razziste alla presenza di immigrati. A ragione possiamo ritenere che contenere e contrastare questi esiti distruttivi sul piano dell’integrazione e della convivenza sia compito in primo luogo della politica, sennonché a limitare fin quasi a paralizzare tale funzione interviene l’altra tendenza della globalizzazione neoliberale. Essa consiste nella capacità che hanno i global powers di sottrarsi al controllo dei governi nazionali e degli organismi di regolazione sovranazionali, fino a ridurne l’autonomia e condizionarne le scelte proprio quando le decisioni globali hanno in modo tanto diretto quanto imprevedibile conseguenze locali. Ne segue che l’attività di governo tende, di là dalle rappresentazioni mediatiche, a essere sempre più avulsa dal confronto parlamentare e dalla comunicazione con la società civile. Se a ciò si aggiunge una classe politica spesso autoreferenziale e in parte tollerante o incline alla corruzione, si capisce come alla rappresentanza e alla fiducia si sostituiscano un corporativismo anarchico e una disaffezione diffusa. Gli effetti sulla partecipazione politica – sulla seconda dimensione, quella del “far parte” - seguono: esclusi dall’arena politica, i cittadini sono indotti a sentire la politica come una dimensione estranea. A questo punto potremmo pensare che se la combinazione di globalizzazione e crisi economica deprime per molti versi la partecipazione nelle sue prime due dimensioni – nel lavoro e nella politica - proprio per questo la favorisca nella terza dimensione, provocando la manifestazione di conflitti e lo sviluppo di movimenti sociali. Lo penseremmo a torto. Se è vero che la globalizzazione è all’origine di specifici movimenti, non è vero che essi si sviluppano in tempi di crisi economica. Si potrebbe obiettare che in questi anni difficili la scena internazionale è stata a più riprese occupata da forme anche estese e accese di protesta: dagli Indignados a Occupy Wall Street. Sennonché, questo è il punto, la protesta collettiva non è di per sé l’azione di un movimento sociale. Per esserlo non deve essere puramente difensiva, ma deve essere più offensiva che difensiva, ciò che richiede, primo, che il collettivo definisca la propria identità in modo assertivo e non soltanto in negativo e, secondo, che sia anche propositivo, cioè che la sua azione sia orientata da valori che innovano sul piano culturale e/o politico. Quanto all’identità, si pensi alle lotte operaie. Esse hanno dato espressione a un movimento quando il collettivo non si è definito soltanto come la massa degli fruttati, ma anche e in primo luogo come la classe dei veri produttori. Da qui si può capire la grande differenza che vi è con le proteste attuali di lavoratori che, alla mercé delle delocalizzazioni e di un capitalismo d’azzardo, sono definiti dalla precarietà e dall’esclusione piuttosto che dall’autonomia professionale e dai valori della produzione. Proteste sacrosante, ma 5 appunto proteste. Quanto al secondo elemento, l’innovazione culturale tramite rivendicazioni che sono espressione di nuovi valori, si pensi, da una parte, alle differenze tra le istanze dell’ecologismo nei primi anni Ottanta o dei Noglobal sul finire degli anni Novanta e, dall’altra, a quelle presenti nelle manifestazioni di Occupy Wall Steet. Si deve, ad esempio, al movimento ecologista il riferimento etico all’interesse delle generazioni future, quale criterio di legittimazione e regolazione degli interessi e dei comportamenti a breve, così come si deve al movimento antiglobalizzazione una proposta come la Tobin tax. Sotto questo profilo, se la protesta, a mio parere necessaria, di Occupy Wall Street ha presentato anche alcuni caratteri propri di un movimento sociale è più per il fatto di riproporre valori e simboli di movimenti precedenti che per una sua autonoma creazione. Una volta chiarita la differenza tra movimento e protesta, una volta distinti i movimenti sociali all’interno del vasto campo delle azioni di protesta, possiamo tornare, con un paio di osservazioni, alla questione del contesto nel quale essi si sviluppano. La prima osservazione è che essi prendono forma sulla scia di un periodo di crescita economica e/o di modernizzazione, in specie quando questa si arresta o dà segni di inversione. Così è stato, ad esempio, per i movimenti dell’ultimo terzo degli anni Sessanta – decennio nel quale il Pil era cresciuto oltre 50% -, così è stato per il movimento antiglobalizzazione tra la seconda metà degli anni Novanta e il primissimo avvio di questo secolo. E’ un dato che contrasta con l’idea – tipica ma non esclusiva della vulgata marxista – secondo la quale tanto più si approfondiscono le contraddizioni e si rafforza il dominio, quanto più si svilupperebbe un’azione di movimento. Si tratta di una credenza tanto smentita dalla storia quanto dura a estinguersi. Se così fosse, il movimento delle donne avrebbe dovuto formarsi ben prima della fine degli anni Sessanta, quando la sottomissione e la segregazione sociale della donna era ben maggiori. Per contro, è proprio per il fatto di essere sensibilmente diminuite - grazie alla scuola di massa, all’ingresso nel mondo del lavoro, alle tecnologie domestiche, alla pillola e alla crescita dei consumi – che le donne, divenute un soggetto socialmente più complesso e capace di azione, avvertono le proprie istanze come legittime e, per ciò stesso, i controlli e le limitazioni residue ingiuste e insopportabili. Processi di tipo analogo ci consentono di capire perché, di là da moti di protesta più o meno episodici, i movimenti che lottano per la giustizia sociale non si sviluppano, come ci si potrebbe aspettare, quando la disuguaglianza è aumentata, ma quando è diminuita. La seconda osservazione riguarda il rapporto tra i movimenti e la democrazia: l’esistenza di una democrazia sufficientemente sviluppata favorisce L’emergere di movimenti sociali e la traduzione politico-istituzionale delle loro istanze è favorita dall’esistenza di una democrazia sufficientemente sviluppata. Sono invece ostacolati dall’esistenza di un regime autoritario o di una democrazia bloccata e corrotta, nelle quali più facilmente le proteste si radicalizzano e assumono forme violente. La differenza tra le due situazioni è esemplificata, per restare a tempi recenti, dall’evoluzione movimento antiglobalizzazione. Sorto e affermatosi in epoca clintoniana come un vasto e quanto mai composito movimento sociale, al tempo dell’amministrazione Bush si è trasformato da no global in no war, radicalizzandosi fino a esaurire la spinta innovativa Per quanto le osservazioni svolte fin qui contribuiscano a dar conto, ritengo, dell’attuale crisi di partecipazione, per giungere a un’adeguata spiegazione della profondità raggiunta negli ultimi anni nel nostro Paese dovremmo mettere meglio a fuoco la seconda dimensione, in particolare con un’analisi dei fattori che ostacolano o distorcono la partecipazione politica. Qui mi limito a indicare quello che considero il più rilevante nel caso italiano: la compresenza di un abnorme sviluppo del sistema politico e di divisioni e ostilità politiche radicate sul terreno della legalità. Per sistema politico abnorme qui intendo sia la partitocrazia (l’occupazione della società e dell’economia da parte dei partiti), sia la diffusione di pratiche negoziali e di compromesso tra soggetti – singoli, fazioni o organizzazioni - della società politica e della società civile – l’una e l’altra ereditate dalla Prima Repubblica. Se troppo Stato – un eccesso di dirigismo e di regolazione statale – favorisce l’esplosione periodica della protesta, come nel caso della Francia, troppo sistema politico favorisce una partecipazione collusiva, cioè forme più o meno corrotte di partecipazione. Le divisioni e ostilità politiche alle quali mi riferisco sono quelle a tutti note da un ventennio, da quando Berlusconi è “sceso in politica”, da quando la politica è stata per molti versi privatizzata, ridotta da fatto pubblico a fatto privato. Esse sottopongono a continue tensioni i rapporti tra le istituzioni dello Stato democratico, approfondendo il già cronico distacco tra Stato e società e perciò minando la fiducia e il rispetto dei cittadini verso di esse. Insomma, i due fattori insieme – un sistema politico invasivo e una divisione politica endemica - concorrono in un’opera di deistituzionalizzazione, fino a indebolire e corrompere le istituzioni democratiche. A questo punto si può capire quanto questa corrosiva opera di de-istituzionalizzazione, sommandosi e innestandosi nel più ampio e profondo processo di deistituzionalizzazione proprio della globalizzazione finanziaria, esponga più di altri il nostro Paese ai pericoli della recessione e, più in generale, al rischio globale. Se quanto detto finora equivale a una diagnosi – una diagnosi non certo incoraggiante - ci si potrebbe chiedere quale possa o debba essere la terapia. Non spetta al sociologo proporla. Posso soltanto indicare quelle che ritengo essere le 7 condizioni e le basi di una possibile riattivazione della partecipazione. Quanto alle condizioni, nella situazione attuale è decisiva la partecipazione alla vita e alle istituzioni politiche, ma, come s’è visto, perché essa possa svilupparsi occorre un’opera di ricostruzione e innovazione delle istituzioni stesse. Ma ancor prima – è un prima più logico-politico che temporale - occorre ricostruire la struttura della fiducia. La connessione tra partecipazione e fiducia è infatti diretta, giacché la motivazione a partecipare e impegnarsi nella sfera pubblica risente del livello della fiducia: senza fiducia, niente partecipazione, né vera cooperazione. Nel caso dell’Italia la debolezza della fiducia istituzionale e della fiducia sociale è stata in parte compensata dalla fiducia interpersonale. Ma in un contesto di vita globalizzato quanto mai interdipendente, instabile e imprevedibile - la fiducia interpersonale è, per quanto necessaria, ancor più insufficiente. Occorre che in un circolo virtuoso si sviluppino sia la fiducia istituzionale (la fiducia nelle istituzioni) che la fiducia sociale (la fiducia verso chi è esterno alla rete personale di relazione). Ciò richiede di operare su tre piani, per molti versi collegati: a) il rispetto della legalità, ristabilendo un equilibrio tra diritti e doveri, b) la giustizia sociale, riducendo le disuguaglianze, c) il contrasto all’isolamento, mettendo in relazione sfere di vita e mondi culturali separati. L’opera di ricostruzione può riuscire se vede il concorso di tre tipi di soggetti indipendenti, tre tipi di minoranze attive: gruppi dirigenti dotati di una visione internazionale e orientati alla modernizzazione, associazioni volontarie non corporative e movimenti sociali orientati allo sviluppo dei diritti e della democrazia. Quanto alle basi sulle quali fondare le nuove istanze e forme di partecipazione è importante riconoscere la portata del cambiamento operato al riguardo dalla globalizzazione. La dissociazione tra l’economia e la società, cui ho accennato prima, ha infatti depotenziato, quando non annullato, le basi sociali (come, ad esempio, la professionalità per il movimento operaio) e istituzionali (come la cittadinanza per vari movimenti successivi) su cui finora poggiavano rivendicazioni e diritti. Ne segue che nel contesto attuale le basi possibili hanno di necessità natura extra-sociale e extraistituzionale, hanno cioè un fondamento etico. La parola che ne esprime meglio la natura e il senso è “dignità”. L’appello alla dignità fa riferimento al “diritto della la persona di avere diritti” - la proprietà che secondo Annah Arendt definisce l’essere umano. Denunciare le offese alla dignità, richiedere il rispetto della dignità, costituisce un’istanza difensiva volta a sostenere la protesta contro il misconoscimento di diritti acquisiti, ma è anche un’istanza offensiva che anima il movimento nell’azione volta a promuovere il riconoscimento di nuovi diritti. Si tratti della salvaguardia del lavoro minacciato o di provvedimenti contro l’omofobia, della conquista della cittadinanza per gli immigrati o del riconoscimento dell’identità sociale o culturale di una minoranza, l’appello alla dignità è sempre più frequente. Esso fa riferimento ai diritti dell’Uomo, che in tempi di globalizzazione sono sempre più declinati e sviluppati in termini di diritti culturali. Sbaglieremmo a ritenere che l’appello alla dignità sia una base debole per l’azione e la partecipazione. Il fatto di presupporre e affermare la sacralità della persona – vale a dire che la persona non deve essere trattata come un mezzo - orienta il soggetto a definire non negoziabili le proprie istanze. Il fatto di avere natura morale – significativa l’invocazione “indignatevi!” - e di avere carattere universale gli conferisce una forza che è pari al campo potenziale di applicazione, tanto esteso quanto vario in termini di temi e di soggetti sociali. Ed è sia dall’esperienza di azioni collettive di protesta – quali quelle degli Indignados e di Occupy - contro la globalizzazione della speculazione finanziaria e la “globalizzazione dell’indifferenza”, sia dalla pratica nell’impegno civile – quale quello di molte persone operanti nel Terzo settore e nel volontariato – nel campo dell’integrazione sociale e dell’innovazione culturale, che hanno origine le nuove istituzioni della partecipazione, le nuove forme di partecipazione e, con esse, le possibilità di rinnovamento della democrazia.