Attaccamento e coscienza di legame in Giappone

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Attaccamento e coscienza di legame in Giappone
Attaccamento e coscienza di legame in Giappone
Riflessioni psicoanalitiche
CHIARA ROSSO
Introduzione
Gli osservatori occidentali che si sono interessati alla cultura giapponese
sottolineano la presenza di qualcosa di misterioso ed ineffabile che sfugge allo studio più
meticoloso. Ne fa un accenno il giornalista Federico Rampini (L’Impero di Cindia, 2006)
nel suo saggio sulle «tigri asiatiche» o nuove potenze orientali emergenti. Jorge Canestri,
nella sua prefazione al libro di Takeo Doi Anatomia della dipendenza (1973), ricordando la
complessità della lingua giapponese e le difficoltà connesse al problema della traduzione,
riporta un passaggio della conversazione tra il filosofo Heidegger (1959) e il conte
giapponese Shuzo Kuki. Heidegger concludeva il dialogo con il suo interlocutore
suggerendo l’idea che quanto più «Il mondo orientale traluceva… in luminosa chiarezza,
più distinto emergeva il pericolo implicito» nei dialoghi giacché: «Il pericolo dei nostri
colloqui si nascondeva nella lingua stessa, non in ciò che noi discutevamo, e neppure nel
modo in cui cercavamo di discuterlo» (corsivo mio) poiché la lingua ha uno spirito e lo
spirito della lingua giapponese può rimanere inaccessibile all’interrogante [occidentale]
(Doi,1973, 8).
Considerando alcuni aspetti propri alle due culture, tenterò di circoscrivere la mia
riflessione ad un’area essenzialmente psicoanalitica. Tuttavia, addentrarsi nel territorio
della psicoanalisi giapponese, per un occidentale, equivale al cimentarsi in una lingua
straniera con tutte le difficoltà e insidie che questa operazione comporta dal momento che
anche la «lingua» psicoanalitica condensa in sé un mondo intero e porta il sigillo della
cultura a cui appartiene. Consapevole dei limiti della mia osservazione, traggo
incoraggiamento dalle parole di Goethe «chi non conosce una lingua straniera non conosce
la propria» (Doi, 1973, 8) e dirigo uno sguardo a «volo d’uccello» sulle dimensioni
dell’attaccamento, della dipendenza e del legame nella cultura giapponese, sottolineandone
differenze e similitudini con quella occidentale. Approfondisco la relazione precoce madrebambino e la peculiare funzione di «ponte» che la figura materna sembra esercitare per
favorire il passaggio del piccolo alla comunità gruppale. A tal fine mi sono avvalsa di
contributi psicoanalitici orientali che in parte elenco, come quelli offerti dai lavori di
Heisaku Kosawa (1932) sul concetto di colpa e del mito di AJASE, di Takeo Doi (1973)
sulla questione della dipendenza, di Keigo Okonogi (1977) sulla famiglia giapponese, di
1 Osamu Kitayama (1985) per quanto concerne l’AMAE. Sul fronte occidentale
l’insegnamento di diversi autori mi ha, naturalmente, accompagnata. Menzionandone solo
alcuni, ho fatto riferimento, a proposito delle teorizzazioni concernenti il legame, al
pensiero di Bion (1959), di Pichon Rivière e degli Scharff (2011). Il lavoro di Bolognini
(2002) sull’empatia mi è stato di grande aiuto per sondare le possibili connessioni tra l’area
del legame e il concetto di AMAE. Infine, le osservazioni di Freeman (2009), psicoanalista
statunitense che si è interessato in modo approfondito alla psicoanalisi in Giappone, sono
state per me centrali. Per contestualizzare meglio le mie riflessioni, ho attinto preziose
informazioni da un classico dell’antropologia sui modelli culturali giapponesi Il crisantemo
e la spada (1946) di Ruth Benedict.1
Qualche cenno storico-sociale
Il motto giapponese «Ogni cosa al suo posto» ci illumina riguardo al concetto di
gerarchia, elemento strutturale di questa società. Malgrado le rivoluzioni interne
attraversate dal Giappone nel corso dei secoli, esso è ancora attuale e permea
profondamente questa cultura, interessando sia il nucleo famigliare che la collettività. Il
Giappone del VI, VII secolo D.C. importa dalla Cina la religione e la scrittura,
modificandole entrambe per adattarle alla sua matrice culturale. Il Buddismo già arrivato in
Cina dall’India, viene considerato una perfetta religione di stato poiché si sposa con la
complessa teoria del legame e delle interazioni gruppali che caratterizzano il paese, mentre
lo Scintoismo sussume il politeismo preesistente. A differenza di ciò che accade per la
Cina, la figura dell’imperatore giapponese è considerata di origine divina. L’imperatore
vive appartato e non si mostra pubblicamente. L’alone sacrale che lo avvolge ha un ruolo
coesivo nei riguardi del corpo sociale. In occasione degli ultimi eventi catastrofici che
hanno funestato il Giappone, l’attuale imperatore Akihito è comparso in via eccezionale
agli occhi del suo popolo per un breve discorso televisivo (16 marzo 2011), rompendo una
tradizione di estrema riservatezza. Il Giappone è dunque una società essenzialmente
aristocratica che tiene conto della diversa posizione sociale occupata dagli individui, oltre
che delle differenze di sesso, di età e del tipo di legami famigliari. Come altri popoli del
Pacifico il Giappone possiede una «lingua del rispetto» (Benedict, 1946, 58); essa
regolamenta i rapporti interpersonali attraverso un raffinato cerimoniale interessante la
postura e si declina in vari tipi di inchini e di manifestazioni gestuali.
Rivolgiamo brevemente il nostro sguardo alla storia del Giappone, avvalendoci del
1
Il «Crisantemo e la spada» (1946) viene commissionato all’Autrice dall’ Office of War Information degli
Stati Uniti e pubblicato all’indomani di Hiroshima. Diventato il «manuale –breviario» delle forze americane
di occupazione in Giappone, rimane ancor oggi, malgrado la sua datazione, un documento di impressionante
attualità e di grande lucidità. 2 contributo della Benedict (1946) e notiamo quanto segue. Il Giappone feudale del ‘600 è
suddiviso in caste.2 Con l’avvento dell’era dei TOKUGAWA, al potere per un paio di
secoli, il paese attraversa una fase evolutiva particolare. L’imperatore, considerato fino ad
allora la massima autorità, viene relegato ad un ruolo di pura rappresentanza mentre è lo
SHOGUN, o comandante armato supremo, a dominare la scena. I TOKUGAWA vegliano
sull’equilibrio omeostatico delle classi sociali: la casta dei commercianti è frenata nella sua
espansione e quella dei samurai-guerrieri limitata nel suo potere militare. Questi due «poli»
della società, infatti, pur costituendo una risorsa, possono anche rappresentare un pericolo,
ragione per cui sono confinati a ruoli specifici. Con il crollo dei TOKUGAWA e la
restaurazione del potere imperiale dell’epoca dei MEJI (1868) il Giappone subisce una
nuova rivoluzione interna ed entra nell’epoca moderna. Mentre in occidente la crisi dei
regimi feudali e i laceranti conflitti intestini creano le condizioni perché si sviluppi ed
emerga il cosiddetto «ceto medio», il Giappone conserva la sua intrinseca organizzazione
gerarchica e vede svilupparsi nel suo seno una progressiva «mobilità sociale» (Benedict,
1946, 84). Si verifica cioè una condizione assolutamente originale e propria del Giappone
in quanto la casta dei mercanti «compra» una condizione sociale superiore stringendo
alleanze coi samurai. Si ridisegnano così gli equilibri interni senza tensioni eccessivamente
critiche tra l’aristocrazia e la borghesia, come in una sorta di rivoluzione silenziosa. Il
rispetto irrinunciabile e in qualche modo strutturante della gerarchia, nonché le particolari
qualità dei legami interpersonali, famigliari e societari, garantiscono una transizione
relativamente indolore verso l’era moderna e tendono a fondare ancora oggi la peculiarità
delle interazioni giapponesi.
Il «Complesso di AJASE» nella psicoanalisi giapponese
La psicoanalisi arriva presto in Giappone innestandosi su un terreno fecondato da
una solida cultura psichiatrica che si è diffusa, sulla scia delle idee di Emil Kraepelin,
intorno al 1860. In seguito all’incontro di Marui con Freud, viene fondato nel 1933 il primo
ramo dell’IPA a Sendai. È però Heisaku Kosawa (1932) la figura più intraprendente e
feconda nel divulgare il messaggio freudiano. Considerato il padre della psicoanalisi
giapponese, egli sottopone a Freud una rivisitazione del complesso di Edipo che chiama
«Complesso di AJASE». In questo complesso, che trae origine dalla rielaborazione di un
antico mito indiano, è l’ambivalenza materna nei confronti del figlio che viene messa
particolarmente in luce rispetto al versante edipico. Riportiamo la storia del mito indiano.
In un antico regno indiano la coppia regale formata da Bimbisora e dalla regina
Vaidehi non riusciva ad avere figli. La regina, temendo di perdere l’amore del marito se
2
Vi è la casta privilegiata dei samurai-guerrieri, quella dei contadini e quella degli artigiani. Segue la casta dei
mercanti subito al di sopra di coloro che sono considerati gli «intoccabili» o gli ETA, rappresentati dai
becchini, conciatori di pelle, spazzini 3 non gli avesse dato un erede, consulta un indovino che le predice che nel giro di tre anni, un
saggio abitante in una foresta, sarebbe morto reincarnandosi nel suo seno. La regina,
impaziente, non attende il tempo stabilito e fa uccidere il saggio. Costui, morente,
proferisce una maledizione secondo la quale egli si sarebbe sì reincarnato in lei ma un
giorno suo figlio l’avrebbe uccisa. Ella rimane incinta e, tormentata dalla maledizione, tenta
invano di abortire. Subito dopo il parto infine, butta giù il neonato da un’alta torre. Il
neonato sopravvive riportando solo la frattura del dito mignolo (verrà per questo chiamato
AJASE che significa: «il principe dal dito rotto»). I postumi della frattura resteranno il
segno del «rancore prenatale» (MISHON) della madre nei suoi confronti. Una volta adulto,
AJASE apprende la storia delle sue origini. Una profonda disillusione lo investe così come
intensa era stata l’idealizzazione della madre durante la sua infanzia. Divenuto re, progetta
di vendicarsi della madre e si accinge ad ucciderla come già aveva fatto col padre, di cui
aveva usurpato il trono. AJASE viene però dissuaso dai suoi consiglieri dal procedere in
questa intenzione omicida e successivamente, animato da un profondo senso di colpa,
sviluppa un conflitto a causa del quale si ammala. Il suo corpo si riempie di pustole
maleodoranti e nessuno può più avvicinarlo. Solo la madre, sostenuta dal Buddha ancora
vivente, decide di perdonarlo e di occuparsi di lui, alleviando le sue sofferenze. La
leggenda narra che AJASE guarisce divenendo in seguito un sovrano apprezzato e
illuminato.
In questo mito l’aspetto del figlicidio precede quello del matricidio, come già
Rascovsky (1974) aveva sostenuto in un lavoro sulla rivisitazione dell’Edipo e come
ricordano Carloni e Nobili (2004) nelle loro riflessioni riguardo alla clinica del figlicidio.
AJASE catalizza su di sé una linea di sangue: vi è il rancore del saggio assassinato e i
ripetuti attentati materni nei suoi confronti ma AJASE sopravvive agli istinti figlicidi e,
diminuita l’ambivalenza materna, gode della relazione fusionale e idealizzata con la madre.
Quando l’idealizzazione viene meno ed apre gli occhi sulla propria storia, nutre vendetta e
rancore verso una madre che è stata manchevole. Pensiamo al lancio dall’alto della torre e
più tardi alla malattia del suo «involucro-pelle», come manifestazione tardiva che segnala
un difetto del contenitore primario (Bleandonu, 2002). In AJASE il desiderio di vendetta
lascia però il posto alla vergogna per i suoi istinti matricidi e al senso di colpa associato al
pentimento. Kosawa (1932) si basa su questa narrazione mitologica per illustrare due tipi di
sensi di colpa: quello infantile legato alla paura della punizione (castrazione) e quello più
adulto legato alla consapevolezza della colpa che conduce al pentimento e al desiderio di
riparazione. Sia il senso di colpa che il desiderio di riparazione affondano le loro radici
nella gratitudine o debito morale ON nei confronti della madre. L’Autore riprende l’idea
della Klein (1921-1958) riguardo al senso di colpa depressivo, legato all’istinto di vita e il
senso di colpa persecutorio, connesso all’istinto di morte, sviluppandoli però in due tempi
appartenenti a due età della vita distanziate tra di loro. La psicoanalisi giapponese riflette
l’enfasi della relazione madre-bambino preedipica nei suoi aspetti legati all’oralità e
all’ambivalenza. Nella relazione diadica fusionale della madre con il bambino,
4 l’ambivalenza assume in qualche modo un ruolo strutturante e contribuisce al
ridimensionamento dell’onnipotenza della coppia preparando il terreno al successivo
avvento della triangolazione edipica. Il Complesso di AJASE sembra quindi includere sia
l’ipotesi kleiniana che quella edipica. Inoltre, l’alternarsi della ostilità con la gratificazione
fa sì che la gratificazione non sia scontata divenendo in questo modo un’attitudine alla
riparazione ed alla accettazione della dipendenza. La dipendenza d’altra parte, a differenza
di ciò che avviene in occidente, è considerata un valore; essa consente l’interiorizzazione di
un forte legame con la madre ed influenza più tardi la qualità del legame che il soggetto
stabilisce coi membri del gruppo di appartenenza. L’attitudine alla riparazione che
accompagna l’individuo durante tutto il suo percorso vitale potrebbe essere ricollegabile
alla teorizzazione dell’AMAE.
L’enigma dell’AMAE
L’AMAE è un concetto della psicoanalisi giapponese di difficile traduzione, non ha
una precisa corrispondenza nel pensiero occidentale. L’AMAE è a metà strada tra
l’amicizia e l’amore benché esprima più della prima condizione e meno della seconda.
Potremmo anche dire che è un sentimento ineffabile che lega emotivamente due individui,
un anelito o desiderio mai completamente soddisfatto. È una condizione della relazione che
si esprime su di un registro non verbale, si esperisce ma non si racconta. L’AMAE affonda
le sue radici nel rapporto madre-bambino. Doi (1973), lo indica come un sentimento che
nasce nella seconda metà del primo anno di vita del bambino quando questi comincia a
reclamare la madre che riconosce esistere indipendentemente da lui. L’AMAE è quindi
anche un tentativo di negare la separazione indulgendo nella relazione fusionale e
regressiva con la madre. Per Balint (1968), in seguito agli scambi avuti con Doi, questo
concetto è assimilabile a quello dell’amore primario e alle sue trasformazioni nel corso
dell’esistenza dell’individuo. Ne fa cenno nel suo lavoro, The basic fault (1968,194).
L’AMAE sarebbe dunque una caratteristica psicologica dell’individuo giapponese. Il
concetto di AMAE descrive un ampio arco che abbraccia l’area emotiva connessa con
l’attaccamento, la dipendenza e il desiderio affettivo che si sviluppa tra due persone.
L’AMAE è identificabile come un formidabile motore del legame; offre il rifornimento
libidico di cui l’individuo necessita durante la sua vita e a cui può attingere nel corso delle
sue molteplici interazioni con l’altro. Potremmo avvicinare il concetto di AMAE anche a
quello di una regressione attiva (a differenza della passività) al servizio dell’Io, di una
regressione influenzata e disciplinata dalle pratiche ispirate alla tradizione buddista, come
per esempio l’autocontrollo e la meditazione, tanto per citarne alcune.
Legami d’Oriente e d’Occidente: una trama complessa
Riflettendo sul complesso di AJASE, le particolarità del concetto di AMAE e la
5 conflittualità tra madre e bambino, possiamo notare come lo svilupparsi del senso di colpa e
l’attitudine alla riparazione si articolino tra di loro in modo complesso. Queste dinamiche
fondano a loro volta il legame tra l’individuo e il gruppo in un rapporto di reciprocità:
l’individualità del singolo si legittima attraverso l’appartenenza al gruppo. Sul piano
simbolico, dunque, il gruppo assume un ruolo centrale e rappresenta l’equivalente della
legge paterna nella cultura occidentale. Come sottolinea Maurice Pinguet (2002): «Se il
Super-Io occidentale si basa sulla interiorizzazione della legge del padre, il Super-Io
giapponese si basa sulla coscienza di legame». Del resto, anche nel campo del diritto e della
organizzazione sociale del paese, ritroviamo analogie con ciò che descriviamo sul piano
psicologico. Chiara Gallese, nel suo libro (2002, 14), riguardo alla storia dell’ ordinamento
giuridico in Giappone scrive: «Il rispetto delle norme sociali è assunto come imperativo
categorico e la coercizione risiede non nella minaccia di una sanzione di legge ma nella
riprovazione sociale». E ancora: « […] Esiste in Giappone un quasi-diritto non scritto,
“tradizionale”, geneticamente conculcato nella coscienza individuale e di massa che spesso
e volentieri sovrasta il diritto ed influenza enormemente il comportamento» (tratto da Villa,
2002, 157).
Affrontando il tema del legame, diamo uno sguardo alle sue definizioni.
Etimologicamente il legame significa «tenere insieme qualcosa» e nel contempo evoca
l’idea di uno scioglimento. Si tratta di un concetto complesso che include vari significati;
esso rinvia all’immagine del contenitore di Bion (1959), allo spazio transizionale
winnicottiano (1958), oppure ancora all’Io pelle di Anzieu come involucro gruppale (1985)
e naturalmente al concetto di attaccamento sviluppato da Bowlby (1988). In Argentina,
negli anni ’50, Pichon Rivière approfondisce la teoria del legame, vinculo (Berenstein,
2010) in base alla quale la psiche individuale si sviluppa secondo due assi: quello verticale
che collega l’individuo alla generazione precedente e alla cultura d’origine, e l’asse
orizzontale che lo collega alla famiglia e al gruppo sociale di appartenenza. Il legame
indicherebbe quindi una struttura super-ordinata alimentata dall’interazione personale. «I
legami si costituiscono a partire dai bisogni infantili di amore, cura, comprensione,
riduzione della frustrazione e della aggressione e gratificazione sessuale, che persistono per
tutta la vita». (Scharff D. e J., 2011, 2). La teoria del legame completa ed estende quella
delle relazioni oggettuali nello studio e nel trattamento degli individui, della famiglia e
delle istituzioni. Idealmente (pensando all’immagine di una catena), il legame è
raffigurabile non solo come un anello che congiunge altri due anelli ma anche come una
maglia, parte integrante di una rete più o meno vasta e complessa, delle relazioni umane. Il
legame esprime le relazioni oggettuali interne, le interazioni delle persone con l’esterno ed
infine la zona intermedia. Si tratta di una organizzazione globale alla cui fondazione
concorrono tutti i partecipanti i quali a loro volta ne sono essi stessi organizzati. Attraverso
il legame infine, quello che è interattivo o interpersonale diventa intrapsichico e ciò che è
psichico diventa interpsichico (Bolognini, 2008).
Affrontare il tema dei legami in Oriente, è un po’ come giocare al gioco dello
6 «SHANGAI».3 È però difficile estrarre un singolo stecchino dal mucchietto senza
simultaneamente far precipitare gli altri che gli fanno da supporto, che sono sopra o sotto di
esso o semplicemente contigui. D’altra parte è proprio l’insieme degli stecchini che dà
risalto al singolo e ne definisce la posizione. Lo «stecchino-legame», allora, ci appare in
stretta connessione con una cascata di concetti tra cui L’ON (debito), L’AMAE
(dipendenza), il MISHON (risentimento), L’ HAJI la (vergogna) che concorrono a
caratterizzare la ricchezza delle interazioni presenti in questa cultura orientale. Nelle
frequenti raffigurazioni della coppia madre-bambino ad opera dell’artista giapponese
Utamaro (2009) possiamo osservare come il piccolo, pur aggrappandosi alle vesti materne
con una manina, si protenda verso il mondo esterno con la parte opposta del corpo. Mi
sembra che il dettaglio di questa immagine rappresenti efficacemente il legame madrefiglio nella società giapponese. La madre intreccia un rapporto fusionale di lunga durata
con il suo bambino per un tempo assai lungo rispetto ai canoni occidentali. Ella è il grembo
che accoglie il piccolo e nel contempo si costituisce come un ponte di accesso alla
dimensione gruppale.
Due concetti possono illustrare la «specificità» giapponese ed essere utilizzati, a
mio avviso, come una chiave di lettura del sistema etico-simbolico di questa cultura: il
BONSAI e il KOAN. Il primo esprime «l’arte di coltivare un piccolo albero in un piccolo
vaso». Formato da due ideogrammi BON (contenitore) e SAI (educare/coltivare), il
BONSAI è qualcosa di più di una semplice tecnica botanica nata in Cina e perfezionata in
Giappone, il BONSAI risente dell’influenza buddista e rappresenta l’unione della natura
con l’arte. Il KOAN, anch’esso di origine cinese (KO = pubblico e AN = regola) è una
tecnica meditativa del culto buddista zen. Ha il significato di un dilemma a cui non c’è
risposta oppure può anche indicare una espressione paradossale (ne è un esempio l’idea de
«l’applauso con una sola mano»). Il KOAN potrebbe attagliarsi all’immagine della madre
giapponese cioè di una figura che nella relazione col bambino esprime l’apparente
inconciliabilità di opposte dimensioni, la dipendenza fusionale duale e l’accesso al rapporto
«plurale». Del resto anche la stessa cultura giapponese, nella sua qualità enigmatica, si
presenta a noi sotto le vesti di un KOAN, e fa appello alla nostra umiltà e ad un certo grado
di illuminazione interna per essere compresa.
Secondo una espressione rimasta celebre, la Benedict (1946,245) ha definito il
Giappone come la cultura della vergogna, paragonata all’occidente impregnato da una
cultura della colpa. È solo con l’occidentalizzazione che si assiste ad una graduale
transizione da una dimensione all’altra. Ad ogni modo, il Giappone sembra esprimere una
3
Questo gioco di società consiste nel gettare un insieme di stecchini lunghi , di diversi colori, su di un piano
orizzontale. Vince chi riesce ad accaparrarsi il numero maggiore di stecchini affastellati, del colore scelto,
senza muovere gli altri.
7 raffinata “cultura del legame”. Riflettendo sui contributi psicoanalitici giapponesi relativi a
questo tema, un aspetto che accomuna le varie declinazioni del legame è rappresentato dal
fatto che esso “non si recide”. Il legame viene plasmato piuttosto, modellato e adattato alla
situazione specifica o all’esigenza del momento. Abbiamo colto questo fenomeno anche a
proposito delle trasformazioni storiche avvenute in Giappone, in occasione delle nuove
alleanze tra samurai e commercianti dell’epoca post feudale. In campo botanico, la tecnica
stessa del BONSAI offre un mirabile esempio di «addomesticamento» del legame.
Nell’ambito delle relazioni socio-famigliari il legame può anche essere «moltiplicato», ne è
un esempio l’antica pratica dell’adozione del marito (Benedict, 1946, Okonogi, 1977). In
un casato con solo figlie femmine il padre «adottava» un marito per la figlia, marito che,
rinunciando al suo nome, diventava parte integrante della famiglia (nell’eventualità che il
marito si trovasse schierato in battaglia contro il proprio padre avrebbe dovuto essere fedele
al nuovo casato). Questa pratica adottiva estende il concetto di legame ad una dimensione
«parafamigliare» che ricorda il sistema clanico di devozione assoluta al signore del feudo
Daimyo (Benedict, 1946) più che ai componenti della propria famiglia. La forza del gruppo
dunque, trascende i vincoli famigliari originari. A questo proposito K. Nohara (1936) citato
dalla Benedict (1946, 138) così si esprime: «Proprio per l’alta opinione che hanno per la
famiglia, i giapponesi mancano totalmente di rispetto per i singoli componenti di essa e per
il legame che li unisce tra di loro come individui». Da questa frase possiamo evincere che
una certa quota di violenza animi le dinamiche intrafamigliari, dove i desideri
dell’individuo devono adeguarsi alle regole implacabili del gruppo. L’ostilità è tuttavia
contemplata ed accettata. Nell’infanzia si tollera che il bambino sfoghi la sua collera nei
confronti della madre, poiché si pensa che così facendo egli possa fortificare la sua
personalità. Anche le forti rivalità tra fratelli e le conflittualità all’interno della parentela
sono considerate normali. Ricordiamo, ad esempio, le cosiddette parenti-del riso-freddo di
cui parla la Benedict (1946, 137), termine con cui vengono connotate le vedove in difficoltà
accolte dalla parentela. Se da un lato esse vengono aiutate, dall’altro sono trattate senza
riguardo e, da ultime arrivate, mangiano un riso ormai «freddo».
Nelle interazioni orientali, esplorate fino ad ora, notiamo la presenza di un
particolare investimento della zona intermedia del legame (Scharff, 2011). Cioè di quella
parte che è connessa con la funzione del legame o funzione di collegamento in senso
bioniano (1959) piuttosto che con l’oggetto stesso del legame. Analogamente, l’idea di
globalità, nella sua espressione più diffusa, tenderebbe a trascendere l’unità del singolo
individuo. Adottare un sistema di pensiero analogico piuttosto che digitale ci avvicina
maggiormente alla comprensione della circolarità dell’esistenza, di ispirazione buddista. La
dimensione etico-simbolica giapponese, del resto, non contempla l’opposizione dualistica
tra bene e male, entrambi gli elementi sono costitutivi dell’essere umano e, seconda delle
circostanze, potrà prevalere nell’individuo l’animo «nobile» o quello «rozzo». L’attenzione
per la zona intermedia del legame, piuttosto che per l’oggetto del legame, ci porta ad
associare con le osservazioni relative al concetto giapponese di Sé o JIBUN, di un Sé cioè
8 che tra le sue qualità annovera quella di poter «non essere» o di «sfumare» finanche a
sparire. Doi ricorda infatti come esista un’espressione relativa all’eventualità di non
possedere un Sé, di essere cioè jibun ga nai e, scrive Doi, questo fatto è: «probabilmente
tipico ed esclusivo della lingua giapponese […] è tuttavia interessante chiedersi perché i
giapponesi si siano presi la briga di sottolinearne la presenza o l’assenza. In occidente
nessuna lingua offre equivalenti corrispondenti a questa espressione» (Doi, 1973, 135).
Si può pensare che la zona intermedia del legame e il Sé «sfumato» si armonizzino
col pensiero buddista e con la tradizione zen secondo la quale il soggetto e l’oggetto si
confondono finendo per coincidere. In questo stesso orientamento si collocano gli studi
filosofici sul vuoto o MU di Nishida (Doi, 1973). Il vuoto o l’equilibrio interiore rinviano
all’unione tra l’Io osservante (il nostro Super-Io occidentale) e l’Io dell’azione (il nostro
Io), unione raggiungibile a costo di severe pratiche di autodisciplina zen. L’unità interiore
si esprime allora attraverso un gesto divenuto fluido e spontaneo, non più frenato da
sentimenti di colpa, di vergogna od oscurato da scissioni interne. Si toccherebbe un culmine
in cui – sottolinea la Benedict (1946,265) – tra l’Io osservante e l’Io dell’azione non
esisterebbe più neppure lo spazio di un capello.
Infine, a proposito del legame, riportiamo le osservazioni di Okonogi (1977) relative
alla distinzione dei vari tipi di legame nei gruppi. Egli solleva un confronto interessante tra
il legame contrattuale, basato sulla legge del padre e tipico della tradizione giudaico
cristiana e quello invece basato su una dimensione materna e riparativa. L’Autore paragona
la storia greca di Oreste, governata dal principio di contrattualità, a quella orientale di
Ajase, fondata sulla conservazione del legame e illuminata dall’AMAE. Nella mitologia,
Oreste ed Elettra erano i figli di Agamennone, re di Micene, sposato a Clitemnestra. Per
vendicare il padre Agamennone, ucciso da sua madre Clitemnestra e dall’amante Egisto,
Oreste uccide a propria volta la madre. Nel caso del mito di AJASE, sia la madre del
principe AJASE che il figlio passano da uno stadio di violenza e di egoismo a quello
successivo di pentimento e riparazione. Entrambi sono animati da reciproche intenzioni
omicide in seguito non agite. Nella situazione di Oreste invece, il matricidio è agito
nell’intenzione di tener fede ad un principio contrattuale di ordine e giustizia. Okonogi
conclude sottolineando come, per Freud, la tragedia di Oreste segua il passo della
transizione da una società matriarcale a quella patriarcale, espressa attraverso
l’antagonismo tra Agamennone e la moglie Clitemnestra.
Il legame madre-bambino
Negli ultimi venti anni la società giapponese si è profondamente trasformata. La
struttura della famiglia e l’insieme delle regole educative hanno subito modificazioni a
contatto con l’occidentalizzazione, come ci ricorda Keiko Okonogi (1977) nel suo lavoro.
Antiche tradizioni hanno progressivamente ceduto il passo a nuove configurazioni sul piano
micro e macrosociale sfociando nella crisi dei legami abituali, sia all’interno della famiglia
9 che nella collettività. Tuttavia alcune riflessioni della Benedict a proposito della
distribuzione dei privilegi e dei doveri a carico dell’individuo giapponese, ci aiutano a
comprendere qualcosa di più a proposito del legame madre-bambino. L’Autrice prende
come esempio l’immagine della lettera U dove i due poli estremi diretti verso l’alto
indicano l’infanzia e la vecchiaia, le stagioni della vita in cui predominano la libertà e
l’indulgenza. La parte concava della lettera coinciderebbe con la fatica e le responsabilità
che invece investono l’adulto. Riguardo all’infanzia, impariamo che l’allattamento è
protratto e che vi è una sorta di «gestazione extrauterina» espressa attraverso un contatto
continuo e duraturo col corpo materno. Freeman (2009), nei suoi studi sulla psicoanalisi
giapponese, ci fa notare come l’ambivalenza originaria tra madre e bambino non venga
risolta completamente nella prima infanzia. L’Autore, riprendendo la teorizzazione
kleiniana delle fasi schizo-paranoide e depressiva, sottolinea la divaricazione temporale nel
passaggio dalla prima alla seconda fase, in particolare, la fase depressiva in connessione col
senso di colpa e la successiva riparazione, caratterizzerebbero epoche più mature
dell’individuo. La scena primaria, inoltre viene denegata finché il bambino non sia pronto a
sopportarne le implicazioni emotive e l’ansia che essa comporta. Il processo di
individuazione del bambino, all’interno di una simbiosi prolungata con la madre, è
incoraggiato mentre viene ritardata le separazione fisica e spaziale del bambino dal corpo
materno. In altre parole è come se il piccolo dovesse maturare «nelle braccia della
mamma»; del resto Freeman (2009) ci fa notare come il bambino impari prima a parlare
che a camminare. Secondo un’immagine di Kitayama (1985, riportata da Freeman, la
madre condivide lo sguardo verso l’esterno con il bambino, pur tenendolo stretto a sé,
pertanto il bambino si affaccerebbe sul mondo dal vertice di un «triangolo proto
simbolico», costituito dalla madre, dal bimbo e dagli oggetti esterni. Per il piccolo, si
sviluppa così una fase transizionale di apprendimento «in sicurezza» che comporta anche la
comprensione del linguaggio non verbale. Il bambino, infatti, percependo le contrazioni
muscolari del corpo materno ne decodifica il linguaggio corporeo e trae indicazioni sullo
stato mentale e affettivo della madre, sia nei propri confronti che nei confronti degli
interlocutori con cui ella interagisce. Le discontinuità che si presentano nel contatto con la
madre, nei momenti di non sintonizzazione di quest’ultima coi bisogni dell’infante,
contribuiscono ad introdurre le piccole separazioni che preparano il bambino agli stadi
evolutivi successivi. La madre, offrendo un holding caldo e paziente al bambino si
costituisce come un Io ausiliare che riduce al minimo la conflittualità. Parallelamente, ella
si offre anche come il supporto di un Super-Io che affonda le radici nel sentimento di
gruppalità interna. Attraverso le riflessioni di Freeman e di Kitayama che indagano le
differenze fra la cultura giapponese e quella occidentale, emerge come gli occidentali
possiedano un ricco vocabolario di espressioni verbali indicanti l’area emotiva, mentre sono
più esitanti rispetto al contatto corporeo e accordano meno attenzione alla comunicazione
non verbale. Il bambino, che nei suoi primi passi si distacca dal corpo materno, mantiene
con la genitrice un legame verbale: è per così dire «a portata di voce». Questo vincolo
10 uditivo-verbale nella coppia madre bambino occidentale assume il ruolo che ha il contatto
nelle interazioni madre-bambino orientali. Lo stretto legame con la madre e
l’addestramento al linguaggio non verbale, stimolano le capacità empatiche del bambino e
ne incoraggiano la disposizione altruistica.
Possiamo avvicinare l’area delle capacità empatiche e quella della comunicazione
non verbale al tema dell’AMAE. Abbiamo descritto l’AMAE come una condizione della
relazione che si esprime su di un registro non verbale, esso si esperisce, non si racconta.
L’AMAE implica la presenza di una relazione tra due persone analogamente a ciò che
avviene per l’empatia. Bolognini (2002) scrive nel suo libro sull’empatia: «[…] l’empatia è
[…] una condizione di contatto conscio e preconscio caratterizzata da separatezza,
complessità e articolazione» (2002, 136-137, corsivo mio) e ancora, riportando il pensiero
di Pao, egli sottolinea come nella comunicazione empatica, si sviluppi una «[…] intricata
rete di comunicazioni connesse tra loro, composta non solo da un continuo scambio
(verbale e non verbale), tra i due [interlocutori] ma anche da interazioni mentali attive
dentro ciascuno» (2002, 59). L’empatia è dunque un’esperienza difficile da trasmettere o,
come scrive Semi nella prefazione del libro, è «un’esperienza, con quel tanto di non
completamente dicibile – e ancor più, scrivibile – che ogni esperienza ha» (2002, 9). Infine
Bolognini, citando Pao, associa l’empatia ad un «potenziale empatico» che «può essere
imparato ma non può essere insegnato» (2002, 60). Potremmo allora immaginare che
questo potenziale empatico, analogamente all’AMAE, possa essere, se non insegnato,
perlomeno «trasmesso» nella relazione madre-bambino orientale e che si costituisca come
una sorta di «kit formativo» a disposizione del bambino. Del resto, in Giappone la
comunicazione non verbale caratterizza gran parte delle interazioni tra gli adulti ed implica
una quota di empatia affinché il messaggio veicolato sia compreso. La comunicazione non
verbale si accompagna alla creatività, ognuno è libero di «colorare» a suo modo il
messaggio ricevuto al di là del limite rappresentato dalle parole. A tal proposito Freeman
(2009, 9) riporta le impressioni di un suo dialogo con Kitayama in cui, all’interno di uno
scambio ricco di allusioni implicite, il legame empatico tra Freeman e Kitayama si
sostituiva ad ogni ulteriore precisazione verbale che confermasse l’avvenuta comprensione
tra i due; Freeman si sentiva libero di attingere alle proprie capacità immaginative senza
avvertire la necessità di illustrarle a Kitayama.
Riguardo le connessioni tra empatia e creatività, ricordiamo qui le osservazioni
della Klein (1957), relative al legame tra frustrazioni sopportabili e l’emergere delle
capacità riparative e sublimative. Il bambino, in grado di elaborare piccole frustrazioni
all’interno di una relazione sufficientemente buona con la madre, alimenta la fiducia nel
seno buono ed impara a sviluppare il sentimento di gratitudine, all’opposto, un’invidia
eccessiva e quindi distruttiva verso l’oggetto non permette alla gratitudine di insediarsi e
intralcia lo sviluppo dei processi creativi.
11 ON, il senso del debito tra vergogna e masochismo
Nel descrivere l’influenza del rapporto madre-bambino sullo sviluppo della psiche
dell’infante, Doi (1962) parla di una «coscienza duale». Il bambino impara a coltivare «due
Sé», entrambi ritenuti costitutivi dell’identità giapponese. Da una parte vi è il Sé di
rappresentanza (la maschera sociale) e dall’altra il Sé più profondo o il back side della
personalità (Freeman, 2009). Potremmo indicare questa capacità del bambino come un
«addestramento alla scissione», attitudine funzionale al codice etico-sociale dei giapponesi.
Parallelamente, la scissione tra i due Sé, così come l’abbiamo tratteggiata, ci rinvia alla
descrizione offerta da Bolognini (2002, 81). Egli cita un esempio che illustra la distinzione
tra il cosiddetto Sé orbitale e il Sé nucleare. Nel primo caso il Sé sarebbe costituito dagli
oggetti che lo rappresentano e «ospita il mondo oggettuale esterno interiorizzato»; nel
secondo caso, il Sé nucleare sarebbe assimilabile al Sé più profondo o al «vero Sé» nel
senso winnicottiano (1965).
La collettività giapponese riconosce nell’individuo l’esistenza del Sé autentico e ne
comprende le esigenze, tanto è vero che l’individuo, durante la sua vita, può attingere ad un
rifornimento libidico attraverso l’AMAE, nell’ambito delle relazioni con l’altro. Tuttavia il
Sé autentico rimane in secondo piano rispetto al Sé di rappresentanza e ciò genera
sofferenza ed alimenta sentimenti ostili. E proprio in una società che tenta di appianare i
conflitti e di ridurre al minimo la competizione si possono osservare due fenomeni
interconnessi: il sorgere dell’aggressività, e la tendenza al masochismo. Okonogi (1977, 74)
sottolinea come nella cultura giapponese vi sia un masochismo di fondo ed una certa
indulgenza nei confronti del suicidio, ultima via d’uscita onorevole in situazioni
impossibili. D’altro canto, il masochismo e l’aggressività si situano su di uno stesso asse e
con lo sfaldarsi dei legami famigliari il masochismo, da contenitore culturale può diventare
il terreno di una aggressività esplosiva. La crisi dei legami famigliari nel Giappone odierno
coincide con il cambiamento, come è avvenuto altrove, dei ruoli maschili e femminili. La
famiglia giapponese vive per i figli e con le separazioni di coppia si indebolisce la
dimensione simbolica della genitorialità a vantaggio dell’identità femminile o maschile
individuale. Nei figli si innesca così una sofferenza psicologica caratterizzata dal rancore
(MISHON) verso i genitori, che può condurre ad atti di estrema violenza culminanti col
matricidio o col parricidio, gesti divenuti più frequenti in Giappone rispetto al figlicidio.
Del resto il Giappone moderno affronta il doppio lutto: la perdita della madre, intesa
come valore della maternità e quella del padre, figura diventata debole ed incerta (Okonogi
1977,113 e Nishizono, 2008). La rivoluzione dei costumi ha in parte intaccato la forza
coesiva di certi riti tradizionali, come il rito dell’ON che esprime il concetto di debito. In
Giappone il ringraziamento ha il significato del “sentirsi in obbligo” per un favore ricevuto.
Se, come abbiamo visto, la dimensione di gerarchia infiltra il tessuto culturale orientale,
anche quella del debito, ON, è onnipresente e si intreccia saldamente con l’idea del legame
all’interno del gruppo. Il bambino che cresce, deve rispettare ed onorare il proprio ON per
12 tutta la vita. L’ON esprime un concetto ampio che può includere anche il sentimento di
affetto ma non si sottrae ad una complessa contabilità.4 Il senso del debito si associa
naturalmente al sentimento di pietà filiale che appare molto sviluppato in Giappone: il
miglior modo di onorare i genitori consiste nel dedicarsi appieno all’educazione della prole
e il legame con essa è funzione di quello con gli ascendenti. Non si può prescindere dalle
figure del padre e della madre e ad esse si farà inevitabilmente ritorno. Un interrogativo
Zen relativo al tema della pietà figliale e che pone l’accento sulla indivisibilità del soggetto
dall’oggetto e del Sé dagli altri, così recita: «A chi assomiglia un individuo prima che suo
padre e sua madre nascano?» ( Doi, 1973, 81).
Il concetto di debito inoltre, si connette profondamente con quello della dipendenza,
una delle caratteristiche dell’AMAE. A causa dei mutati legami tra i membri della famiglia
la dipendenza, che suggella il valore dell’attaccamento reciproco tra genitori e figli, tende a
sfilacciarsi sempre più, lasciando libero corso ad una crescente aggressività. Parallelamente
aumenta il senso di colpa dei genitori che sostituisce, nei confronti dei figli, il legame
rappresentato precedentemente dalla vergogna. Riguardo alla vergogna ricordiamo che
nella tradizione giudaico cristiana il senso di colpa, connesso al Super-Io edipico,
costituisce un «invisibile» travaglio morale per l’individuo. La vergogna invece, affetto
patologico legato all’Io Ideale, si riflette «negli occhi dell’altro» e, sottolinea Hermann
(1929), rappresenta una angoscia sociale con due versanti: quello intrapsichico (angoscia di
frammentazione) e quello relazionale (angoscia di esclusione dal gruppo). Nella cultura
nipponica l’accento si pone perlopiù sul versante relazionale della vergogna, HAJI. Essa ha
una funzione di coesione sociale importante rinviando l’individuo al giudizio dell’altro ed
evocando l’idea di una sanzione sia dal gruppo esterno che dalla «gruppalità interna».
Inoltre, l’emergere della vergogna turba l’equilibrio armonioso della «forma» o KATA,
aspetto rilevante in questa cultura. Possiamo pensare al KATA come «all’ultima mano di
lacca» che racchiude in un velo di perfezione formale l’essenza giapponese, in tutte le sue
espressioni. Concludiamo a questo proposito con le parole di De Mente (2005,15): «Agli
albori della loro storia i giapponesi svilupparono la convinzione secondo la quale la forma
anticipava la realtà precedendo anche la sostanza […] fare le cose “in modo giusto” è
sempre stato più importante che fare “la cosa giusta”».
Conclusioni
Ho inseguito il legame e le sue vicissitudini come correndo dietro ad un serpente
fiabesco, sinuoso e sfuggente, un serpente dalle molteplici teste e dalle mute frequenti.
Rispetto all’intento iniziale di dare un taglio psicoanalitico al mio lavoro ho certamente
4
Tradizionalmente, come la Benedict (1946,129) ricorda, esistono vari tipi di debito: il CHU, debito verso
l’imperatore, il KO, verso i genitori e gli antenati, i GIRI, debiti limitati nel tempo e da ripagarsi con una
equivalenza matematica, oppure ancora i debiti d’onore verso il proprio nome o verso il lavoro. 13 «sconfinato» nei campi affini. Ho camminato fuori strada e ai bordi del legame, soprattutto
nella sua zona intermedia. Ho tuttavia il sospetto che non ci fosse propriamente una
«strada» quanto un insieme di sentieri che, schiudendosi l’uno nell’altro, formassero un
reticolo intrigante quanto affascinante. Ho osservato come il legame, nelle sue varie
declinazioni orientali, assuma caratteristiche specifiche quali la flessibilità, l’adattabilità, la
capacità di trasformarsi: esso si piega ma non si spezza.
E così, nella contestualizzazione storica, il nuovo legame tra commercianti e
samurai ha permesso di ridisegnare il profilo societario dell’epoca senza cruenti soluzioni
di continuità; a proposito del Complesso di AJASE, il legame tra madre e figlio sopravvive
alle tempeste dell’odio per accedere ad una dimensione riparativa attraverso l’AMAE. Ho
descritto l’evoluzione del legame comunicativo ed empatico nella relazione madrebambino, ho preso in considerazione gli aspetti masochistici del legame e di come esso
sottostia alle leggi del debito, ON , tra rancore e dipendenza.
Un ultimo sintetico sforzo mi porta a ricorrere all’immagine del BONSAI, figura
che racchiude tre dimensioni apparentemente contraddittorie: quella della conservazione,
della trasformazione e della creazione. La pianta del BONSAI conserva le caratteristiche
dell’albero originario, al tempo stesso quest’ultimo è trasformato rispetto alle sue
proporzioni. Il BONSAI non è solamente un albero rimpicciolito ma rappresenta una nuova
creazione. Come infatti fa notare Doi (1973) per poter assimilare qualcosa di nuovo, lo
spirito giapponese deve poterlo trasformare adattandolo alla propria cultura attraverso uno
sviluppo creativo. Così è stato per la lingua, per la religione e per tanti altri aspetti ancora.
In qualche modo anche il processo psicoanalitico subisce la stessa sorte e analogamente al
BONSAI è frutto di una tecnica sapiente che «coltiva» le trasformazioni. La rilettura che ho
proposto di concetti psicoanalitici classici, rivisitati da colleghi orientali, e la presentazione
di alcune teorizzazioni psicoanalitiche giapponesi,come quella relativa al Complesso di
AJASE, invitano tuttavia a riflettere sulla difficoltà di trovare tracce comuni lungo la via
del sapere psicoanalitico. Qualcuno potrà rimanere deluso o perplesso, oppure ancora,
meravigliato o affascinato, dipenderà di volta in volta dal vertice di osservazione adottato
qualora ci si inoltri in una dimensione «altra», pur sempre appartenente ad un pianeta
comune.
SINTESI
L’Autrice prende in considerazione alcune teorizzazioni della psicoanalisi giapponese
associate a caratteristiche della tradizione culturale (AMAE, ON, Complesso di AJASE), dirigendo
uno sguardo «a volo d’uccello» sulle dimensioni della dipendenza, dell’attaccamento e del legame.
Avvalendosi di contributi psicoanalitici orientali ed occidentali, ne sottolinea differenze e
similitudini. L’Autrice si interroga in particolare sulle qualità del legame nelle interazioni
giapponesi fondanti le dinamiche gruppali. Approfondisce la relazione precoce madre-bambino ed
indaga sulla peculiare funzione di «ponte» che la figura materna sembra esercitare in Giappone, nel
14 favorire il passaggio del bambino dalla dimensione fusionale a quella «plurale».
PAROLE CHIAVE: Psicoanalisi giapponese, legame madre-bambino orientale, AMAE, ON,
Complesso di AJASE.
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