La chiesa di Antiochia Atti 11,19-30 ovvero come trasformare i

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La chiesa di Antiochia Atti 11,19-30 ovvero come trasformare i
La chiesa di Antiochia Atti 11,19-30
ovvero come trasformare i drammi in una occasione
Hospice “Casa Madonna dell’Uliveto” - Montericco d’Albinea
1 dicembre 2013
ATTI 11, 19-30
Intanto quelli che si erano dispersi a causa della persecuzione scoppiata a motivo di Stefano
erano arrivati fino alla Fenicia, a Cipro e ad Antiòchia e non proclamavano la Parola a
nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiòchia,
cominciarono a parlare anche ai Greci, annunciando che Gesù è il Signore. E la mano del
Signore era con loro e così un grande numero credette e si convertì al Signore. Questa
notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, e mandarono Bàrnaba ad
Antiòchia.
Quando questi giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò ed esortava tutti a restare, con
cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di
fede. E una folla considerevole fu aggiunta al Signore. Bàrnaba poi partì alla volta di Tarso
per cercare Saulo: lo trovò e lo condusse ad Antiòchia. Rimasero insieme un anno intero in
quella Chiesa e istruirono molta gente. Ad Antiòchia per la prima volta i discepoli furono
chiamati cristiani.
In quei giorni alcuni profeti scesero da Gerusalemme ad Antiòchia. Uno di loro, di nome
Àgabo, si alzò in piedi e annunciò, per impulso dello Spirito, che sarebbe scoppiata una
grande carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l'impero di Claudio. Allora i
discepoli stabilirono di mandare un soccorso ai fratelli abitanti nella Giudea, ciascuno
secondo quello che possedeva; questo fecero, indirizzandolo agli anziani, per mezzo di
Bàrnaba e Saulo.
Siamo al capitolo 11 degli Atti. Nel nostro brano si parla di persecuzione e ci si aggancia,
così sembra di capire, al capitolo 9 dove si parla della persecuzione che si scatena nei
giorni dell’uccisone di Stefano, là troviamo scritto: “Saulo approvava la sua uccisione. In
quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme; tutti, ad
eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria. 2Uomini pii
seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. 3Saulo i cercava di distruggere la
Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere.4 Quelli
però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola.
Nei giorni della persecuzione si aprono spazi per la parola.
Vorrei ricordare, nei capitoli di mezzo, due episodi fra gli altri significativi: quello del
diacono Filippo che, mandato su una strada deserta in un’ora improbabile del giorno, vede
passare il carro di un funzionario regio, un eunuco, chiede passaggio, chiede che cosa il
funzionario sta leggendo e racconta di Gesù. Al torrente subito il battesimo come segno
della fede che si è aperta in cuore all’eunuco. I nostri pastoralisti avrebbero avuto non
poco da ridire, avrebbero sconfessato Filippo: per loro ci vogliono tre anni per il battesimo
di un adulto.
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Altro episodio quello che precede il nostro: Pietro ha una visione, la visione lo invita a
mangiare cibi ritenuti impuri. Al suo rifiuto la voce dice: ”Ciò che Dio ha reso puro tu non
chiamarlo più immondo”. Pensate quante cose e persone noi chiamiamo immonde. Subito
dopo Pietro viene invitato da Cornelio, un centurione pagano nella sua casa:
“Il giorno dopo arrivò a Cesarèa. Cornelio stava ad aspettarli con i parenti e gli amici intimi
che aveva invitato. 25jhMentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò
ai suoi piedi per rendergli omaggio. 26Ma Pietro lo rialzò, dicendo: "Àlzati: anche io sono un
uomo!". 27Poi, continuando a conversare con lui, entrò, trovò riunite molte persone 28e disse
loro: "Voi sapete che a un Giudeo non è lecito aver contatti o recarsi da stranieri; ma Dio mi
ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo. 29Per questo,
quando mi avete mandato a chiamare, sono venuto senza esitare”.
Pietro annuncia Gesù e scopre che lo Spirito l’ha preceduto nella casa del pagano. Ma ecco
nascono subito reazioni a Gerusalemme. Pietro deve difendersi. Racconterà quanto è
avvenutoe concluderà: “17Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi,
per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?".
18All'udire questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: "Dunque anche ai
pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!".
Ed ecco il nostro episodio, che segna un momento importante nella vita del movimento
cristiano delle origini: per la prima volta si costituisce in una città dell’impero un gruppo di
cristiani misto, formato da giudei e pagani convertii. Con la nascita della nuova chiesa
anche il centro di gravità si sposta da Gerusalemme a Antiochia. Da questa comunità
aperta e dinamica partiranno le missioni rivolte all’evangelizzazione.
Rileggiamo: Intanto quelli che si erano dispersi a causa della persecuzione scoppiata a
motivo di Stefano erano arrivati fino alla Fenicia, a Cipro e ad Antiòchia e non
proclamavano la Parola a nessuno fuorché ai Giudei. 20Ma alcuni di loro, gente di Cipro e
di Cirene, giunti ad Antiòchia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunciando che
Gesù è il Signore. 21E la mano del Signore era con loro e così un grande numero credette e
si convertì al Signore
Nella comunità ci sono uomini e donne che non solo non si fermano al lamento, ma
vedono unA opportunità. Mentre alcuni si restringono nella cerchia dei giudei, altri vedono
la possibilità di aprire le porte ai pagani, ai greci, annunciando che Gesù è il Signore.
Da dove nasce la chiesa di Antiochia? Ma, pensate la fantasia delle vie di Dio, nasce dalla
dispersione, dalla persecuzione. Perchè, dobbiamo dirlo, dai lamenti dei profeti di sventura
non nasce mai niente.
Cacciati da Gerusalemme, uomini e donne comuni giungono ad Antiochia, donne e uomini
comuni, pensate, senza ruoli di autorità, cittadini, semplicemente cittadini, di Cipro e di
Cirene: cominciano a parlare, a raccontare. Di Gesù. Di lui, perché lui è la notizia buona.
Fuori dai recinti istituzionali, nella passione del racconto. E quella comunità diventa il
segno della potenza di Dio, della universalità della salvezza, che fiorisce in un ambiente
nuovo, ricco di una pluralità di provenienze e di appartenenze. Una missione avvenuta
senza investiture o protocolli.
Una opportunità vista nelle circostanze, e vista nella potenza della parola, nel messaggio
essenziale, purificato da fronzoli. Raccontare di Gesù è l’opportunità da afferrare.
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Come se pensassero: via i lamenti, partiamo da Gesù. E qui vengo al punto. Perché a me
sembra che l’inizio del pontificato di Francesco, il vescovo di Roma custodisca in
trasparenza come un invito a ritornare a Gesù. Come se la teologia dei dogmi fosse passata
in seconda linea e in prima linea venisse il vangelo. La scelta del nome “francesco”
sembrava alludere a questo ritorno a una chiesa che scrosta La figura di Gesù ma anche se
stessa dalle troppe incrostazioni che l’hanno appesantita velando la figura di Gesù e la
traiettoria del suo cammino, della via che lui ha aperta. Toglie gli orpelli, gli inchini che
confondono. Ricordate Pietro che non vuole che Cornelio gli si inginocchi davanti: “sono un
uomo come te”.
La percezione, guardando i gesti di Francesco è che questo sia in cima ai suoi pensieri.
Di ritorno da Roma al suo paese, José Antonio Pagola, un illuminato biblista spagnolo, in
una lettera che volle scrivere a Francesco, Vescovo di Roma, così si esprimeva:
“Caro fratello Francesco, da quando sei stato eletto per essere l’umile “Roccia” sulla quale
Gesù vuole continuare a costruire oggi la sua Chiesa, ho seguito con attenzione le tue
parole. Ora, sono appena rientrato da Roma, dove ti ho potuto vedere mentre abbracciavi i
bambini, benedicevi gli infermi e gli invalidi e salutavi la folla.
Dicono che sei vicino, semplice, umile, simpatico, e non so quante altre cose. Penso che c’è
in te qualcosa di più, molto di più. Ho potuto vedere la Piazza San Pietro e la Via della
Conciliazione piena di gente entusiasta. Non credo che questa folla si senta attratta
soltanto dalla tua semplicità e simpatia. In pochi mesi sei diventato una “buona notizia”
per la Chiesa e, anche, molto al di là della Chiesa. Perché?
Quasi senza che ce ne rendiamo conto, stai introducendo nel mondo la Buona Notizia di
Gesù. Stai creando nella Chiesa un clima nuovo, più evangelico e più umano. Ci stai
portando lo Spirito di Cristo. Persone lontane dalla fede cristiana mi dicono che li aiuti ad
avere più fiducia nella vita e nella bontà dell’essere umano.
Alcuni che vivono senza un orientamento verso Dio mi confessano che si è risvegliata
dentro di loro una piccola luce che li invita a rivedere il loro atteggiamento di fronte al
Mistero ultimo dell’esistenza.
Io so che nella Chiesa abbiamo bisogno di riforme molto profonde per correggere
deviazioni favorite durante molti secoli, ma in questi ultimi anni è andata crescendo in me
una convinzione. Perché queste riforme si possano realizzare, abbiamo bisogno prima di
una conversione a un livello più profondo e radicale. Abbiamo bisogno, semplicemente, di
tornare a Gesù, radicare il nostro cristianesimo con più verità e più fedeltà nella sua
persona, nel suo messaggio e nel suo disegno del Regno di Dio. Per questo voglio
esprimerti che cosa è quello che più mi attrae del tuo servizio come Vescovo di Roma in
questo inizio del tuo impegno.
Godo sottolineando le tue parole. “Dobbiamo costruire ponti non muri per difendere la
fede”; abbiamo bisogno di “una Chiesa dalle porte aperte, non di controllori della fede”.
“La Chiesa non cresce con il proselitismo, ma per l’attrazione, la testimonianza e la
predicazione”. Mi sembra di ascoltare la voce di Gesù che, dal Vaticano, ci spinge: “Andate
ad annunziare che il Regno di Dio è vicino”, “Andate e guarite gli infermi”, “Quello che
gratuitamente avete ricevuto, datelo gratuitamente.
Ti ringrazio anche dei tuoi inviti costanti a convertirci all’Evangelo. Come conosci bene la
Chiesa! Mi sorprende la tua libertà nel dare nome ai nostri peccati. Non lo fai con
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linguaggio da moralista, ma con forza evangelica: l’invidia, l’affanno di far carriera e il
desiderio di denaro; “la disinformazione, la diffamazione e la calunnia”; l’arroganza e
l’ipocrisia clericale; la “mondanità spirituale” e la “borghesia dello spirito”; i “cristiani da
salotto”, i “credenti da museo”, i cristiani con “faccia da funerale”. Ti preoccupa molto “un
sale senza sapore”, “un sale che non sa di nulla”, e ci chiami a essere discepoli che
imparino a vivere con lo stile di Gesù.
Non ci chiami solo a una conversione individuale. Ci spingi a un rinnovamento ecclesiale,
strutturale. Non siamo abituati ad ascoltare questo linguaggio. Sordi alla chiamata
rinnovatrice del Vaticano II, abbiamo dimenticato che Gesù invitava i suoi seguaci a
“mettere il vino nuovo in otri nuovi”. Per questo mi riempie di speranza la tua omelia della
festa di Pentecoste: “La novità ci fa sempre un po’ paura, perché ci sentiamo più sicuri se
abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, programmare e pianificare la
nostra vita, secondo i nostri schemi, sicurezze e gusti. Abbiamo paura che Dio ci porti per
strade nuove, ci allontani dai nostri orizzonti, spesso limitati, chiusi, egoisti, per aprici ai
suoi”.
Per questo ci chiedi che ci domandiamo sinceramente: “Siamo aperti alle sorprese di Dio o
ci chiudiamo con paura alla novità dello Spirito Santo? Siamo decisi a percorrere le vie
nuove che la novità di Dio ci presenta o ci trinceriamo in strutture caduche, che hanno
perso la capacità di risposta?”. Il tuo messaggio e il tuo spirito stanno annunziando un
futuro nuovo per la Chiesa.
Voglio chiudere queste linee esprimendo umilmente un desiderio. Forse non potrai fare
grandi riforme, ma puoi dare impulso al rinnovamento evangelico in tutta la Chiesa. Certo
puoi prendere le misure opportune perché i futuri vescovi delle diocesi del mondo abbiano
un profilo e uno stile pastorale capace di promuovere questa conversione a Gesù a cui tu
cerchi di dare impulso da Roma. Francesco, sei un dono di Dio. Grazie!”.
E’ vero, la chiesa di Gerusalemme manda una delegazione, bisogna controllare, sempre
controllare quando a muoversi non sono i vertici, per di più cittadini comuni,
semplicemente i laici. Per grazia, negli inviati si respira la freschezza: viene scelto Barnaba
che non ha l’anima dell’inquisitore, è uno capace di stabilire contatti, uno che si
entusiasma del nuovo, uno spiritualmente ricco e aperto, uno che ha fiducia, come dice il
suo nome, “uomo dell’esortazione”. Non è un controllore: “Si rallegrò” è scritto “e da
uomo virtuoso com’era e pieno di Spirito santo e di fede esortava tutti a perseverare”. Un
esempio luminoso di come trasformare un dramma in una occasione. In forza della
speranza che ci abita.
E io a chiedermi se questa non è l’ora in cui lasciare i lamenti e, cittadini comuni come
siamo, osare ciò che Dio vuole che osiamo: trasformare pazientemente, tenacemente, per
quanto ci è possibile, i drammi in una occasione di novità, per il vangelo, per il bene della
terra che abitiamo.
Qualcuno forse ricorderà come in un tempo di spada, di fame e di peste, in un tempo di
desolazione e di assedio il profeta Geremia (Ger. 32,24-27) si sentì rivolgere da Dio una
parola che lo invitava paradossalmente a comprare campi e case. Proprio quando le
macchine d'assedio avevano raggiunto la città per occuparla.
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“Ecco, le opere di assedio hanno raggiunto la città per occuparla; la città sarà data in mano
ai Caldei che l'assediano con la spada, la fame e la peste. Ciò che tu avevi detto avviene;
ecco, tu lo vedi. 25E tu, Signore Dio, mi dici: Comprati il campo con denaro e chiama i
testimoni, mentre la città viene messa in mano ai Caldei!".
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Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: 27"Ecco, io sono il Signore, Dio di ogni essere
vivente; c'è forse qualcosa di impossibile per me?”
Ricordo l'emozione patita ritrovando l’immagine in una lettera scritta da Dietrich
Bonhoeffer dal carcere militare di Tegel -Berlino, il 12 agosto 1943. Il 9 aprile 1945, su
ordine di Hitler, sarebbe stato giustiziato. La lettera è un dirizzata a Maria von Wedemeyer,
una ragazza diciannovenne che Dietrich, teologo e pastore della chiesa confessante
tedesca, aveva da poco fidanzata:
«Se poi penso alla situazione del mondo, alla totale oscurità che avvolge il nostro destino
personale e alla mia attuale prigionia, credo che la nostra unione -se non è stata una
leggerezza e sicuramente non lo è stata- può essere soltanto un segno della grazia e della
bontà di Dio, che ci chiama alla fede Saremmo ciechi se non lo vedessimo. Geremia, nel
grave bisogno del suo popolo, dice che "in questo paese si devono ancora comprare case e
campi", come segno della fiducia del futuro. Per far questo ci vuole fede; che Dio ce la doni
ogni giorno. Non intendo la fede che fugge dal mondo, ma quella che resiste nel mondo e
ama e resta fedele alla terra malgrado tutte le tribolazioni che essa ci procura. Il nostro
matrimonio deve essere un sì alla terra di Dio, deve rafforzare in noi il coraggio di operare
e di creare qualcosa sulla terra. Temo che i cristiani che osano stare sulla terra con un
piede solo, saranno con piede solo anche in cielo...»
Ogni giorno, giunti a sera, dovremmo chieder ci se ciò che abbiamo fatto ha un futuro.
Non hanno, certo, un futuro le nostre grettezze, le nostre ambizioni, le nostre durezze, le
nostre menzogne, le nostre ipocrisie, le nostre avidità, le nostre superficialità, i nostri
arbìtri.
Ha un futuro ciò che conforta la speranza, ciò che fa trasalire il cuore, ciò che avvicina a
Dio, alla verità, alla giustizia, ciò che ci rende interiormente liberi e trasparenti, ciò che
apre gli occhi e il cuore, ciò che dilata la visione.
Diamo fiato a ciò che ha un futuro, con la consapevolezza che un volto lieto, fiducioso apre
al cambiamento. Se non sbaglio noi veniamo da una educazione i cui ha dominato molto il
verbo correggere e ha avuto più difficoltà, non ha avuto buon corso il verbo incoraggiare:
quante volte interveniamo a correggere, poche a dire l’ammirazione, lo stupore per una
cosa buona, bella, non importa se piccola, per una piccola fessura. Gesù scopriva fessure,
era una sua arte: “Donna, grande è la tua fede”. “Ha molto amato”. “Non sei lontano dal
regno di Dio”. E’ così che ci si mette in cammino e si mettono gli altri in cammino.
Questo era il messaggio più puro e trasparente del Concilio. il sogno di una Chiesa della
fiducia. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a
condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere. Il discorso della luna la sera dell’apertura
del Concilio è rimasto impigliato nell’aria, tutti lo ricordiamo, ma quelle parole della notte
non gli erano scivolate spontanee solo per un’emozione, erano il frutto di una convinzione
profonda, che il Papa aveva ricordata, al mattino dello stesso giorno, in un discorso, cui
aveva lavorato personalmente con grande impegno, fino a limarlo più volte. Si trattava del
discorso che inaugurava il Concilio, intitolato "Gaudet Mater Ecclesia" - "Gioisce la Madre
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Chiesa", così iniziava. Come a dire si inizia così. Forse il discorso non ebbe l'effetto
immediato di quello "della luna", ma ne era la premessa, l'impostazione di fondo. Parole
più che mai attuali di cui avremmo un grande bisogno.
Erano da un lato un invito alla fiducia e dall’altro un "no" forte, senza risparmi, ai profeti di
sventura, quelli di allora, come di ogni tempo. Disse: “Alcuni, sebbene accesi di zelo per la
religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle
attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e
guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del
tutto peggiori... A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di
sventura, che annunziano il peggio quasi incombesse la fine del mondo”.
Di questo sguardo, che ha l’ottimismo dei veri credenti, voi tutti sapete quanto ce ne sia
bisogno anche oggi quando la tentazione del pessimismo prende parecchi di no.
Mi chiedo se oggi, a tutti i livelli non siamo chiamati a resistere a questo disfattismo
strisciante. E regalare in ogni ambito fiducia. Perdonate il piccolo rilievo. Tra poco saranno
giorni in cui ci si consumerà alla ricerca affannosa di regali. Non dovremmo fermarci e
pensare che potrebbe essere questo il regalo da fare, anche non avessimo la possibilità di
farne altri, in sostituzione o a fianco degli altri: regalare fiducia? Per un principio di
cambiamento. Tutti oggi auspichiamo un principio. Ma da dove incominciare? Da dove un
nuovo inizio?
E forse la prima cosa da regalarci è la percezione che ci possa essere un arrovescia mento.
Dopo tanta corruzione, dopo una stagione di così pervasivo inquinamento. In tutti i campi:
in noi, nella società, nella chiesa stessa.
Ma che cosa può propiziare il cambiamento atteso, quale la condizione primaria, che cosa
ci fa alzare il capo se non una parola in cui vibri la fiducia, quella di Dio e quella degli
uomini. Nei nostri confronti. Regalate fiducia oggi, è la condizione per un cambiamento.
Se ci si lascia inghiottire dai nostri pessimismi, si muore. Vorrei ricordarvi alcune immagini
che dicono come la mancanza di fiducia provochi morte. Molti di voi, penso, abbiano visto
il film di Diritti “Il vento fa il suo giro”. Arriva da un paese pirenaico in questo villaggio
montano un pastore, la sua giovane moglie, i suoi piccoli figli, il loro gregge, un paese di
montanari isolati, che sta morendo. Ed ecco che, dopo un primo entusiasmo, viene meno
nei paesani la fiducia verso i nuovi venuti, li costringono ad andarsene, il risultato un paese
morto.
Sono in molti oggi a lamentare lo spaesamento il fuori paese, non potremmo penderlo
come una opportunità. Occorrono donne e uomini del confine
Di confini e di cristiani sui confini parlava già anni fa il card. Martini in un piccolo gioiello,
una lettera sul tema della città, un libricino prezioso dal titolo significativo. “Alzati e va’ a
Ninive, la grande città”, là dove scrive: ”Sono molti oggi a Milano coloro che ogni giorno
silenziosamente passano l’arduo confine tra l’oscurità e la luce, tra la penombra e il calore
del sole, come tanti sono quelli che nello stesso tempo passano silenziosamente la
frontiera tra la verità e il buio, tra la certezza e l’incertezza, il dubbio, la sfiducia. La
presenza di molte e volonterose guide, preti e laici, attenti alle frontiere della fede,
scoprirà questi sconfinamenti, consiglierà gli smarriti, conforterà gli sfiduciati. Sui confini
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tra fede e incredulità si può attuare uno straordinario apostolato del dialogo, del
confronto, dell’esempio”.
L’urgenza di uomini e donne del confine, come voi, radicati ma liberi, gente di frontiera,
questa una necessità del nostro tempo.
Per fedeltà a Gesù e al suo vangelo dobbiamo come singoli e come comunità riappropriarci
dell’arte di Gesù: la cura dell’uomo e della donna che stanno sul confine o sulla soglia, o, se
volete, nelle periferie che non è solo un termine geografico, ma esistenziale. Dove essere
sui confini prima ancora che esserlo geograficamente, significa un esserci con la mente e
con il cuore. Sto per dire che forse tutto dipende da uno sguardo, da come tu guardi l’altro,
o l’altra: dal vuoto o dallo Spirito che li abita?
Questo invito a uscire è frequente nel messaggio di Francesco, il Vescovo di Roma, che
invita a non avvilirsi “nella solitudine, nello scoraggiamento, nel senso di impotenza di
fronte ai problemi.”.
Anella veglia di Pentecoste ai movimenti ecclesiali rivolse parole forti, contro il rischio
della chiuura. Disse:
“Non chiudersi, per favore! Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli
amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose… ma sapete che cosa
succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. Pensate ad una stanza
chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno.
Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se
stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Gesù ci dice:
“Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo!” (cfr Mc
16,15). Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può
capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico:
preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa
ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite! Pensate anche a quello che dice l’Apocalisse.
Dice una cosa bella: che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro cuore
(cfr Ap 3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi questa domanda: quante volte
Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per uscire fuori, e noi non lo lasciamo uscire,
per le nostre sicurezze, perché tante volte siamo chiusi in strutture caduche, che servono
soltanto per farci schiavi, e non liberi figli di Dio? In questa “uscita” è importante andare
all’incontro; questa parola per me è molto importante: l’incontro con gli altri. Perché?
Perché la fede è un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù:
incontrare gli altri. Noi viviamo una cultura dello scontro, una cultura della
frammentazione, una cultura in cui quello che non mi serve lo getto via, la cultura dello
scarto. Ma su questo punto, vi invito a pensare – ed è parte della crisi – agli anziani, che
sono la saggezza di un popolo, ai bambini… la cultura dello scarto! Ma noi dobbiamo
andare all’incontro e dobbiamo creare con la nostra fede una “cultura dell’incontro”, una
cultura dell’amicizia, una cultura dove troviamo fratelli, dove possiamo parlare anche con
quelli che non la pensano come noi, anche con quelli che hanno un’altra fede, che non
hanno la stessa fede. Tutti hanno qualcosa in comune con noi: sono immagini di Dio, sono
figli di Dio. Andare all’incontro con tutti, senza negoziare la nostra appartenenza”.
Senza negoziare. Ancora ieri agli universitari diceva: “Per favore non guardate la vita dal
balcone, ma mischiatevi lì dove ci sono le sfide, la lotta contro la povertà, per i valori. Il
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contesto socio-culturale in cui vivere è appesantito da mediocrità e noia. Non bisogna
rassegnarsi alla monotonia. Ma andare oltre l’ordinario. Non lasciatevi rubare
l’entusiasmo”.
Siamo alla ricerca di chissà quali mezzi. Che mezzi avevano quelli di Cipro e di Cirene che si
trovarono a fare i conti con una città come Antiochia? Il racconto. Con cui tessere fili.
Dunque tessere fili valorizzando i mezzi poveri, quelli che riteniamo poveri, per spingere a
pensare: il passa voce, il passa parola, il passa vangelo. Troviamo una cosa bella,
passiamola, una notizia buona, passiamola. Creiamo rete. Perché si scopra che esiste anche
una chiesa diversa, una chiesa minore, che non va sui palchi, ma vive nel quotidiano.
Entrando in relazioni buone con chi avviciniamo. E i solchi vanno nelle più diverse direzioni,
nelle più diverse situazioni dello spirito. Oggi viviamo una stagione in cui i cammini dello
spirito non sono più riconducibili ad un unico cammino. Somma ingenuità sarebbe
pretendere di uniformare, pretendere ingenuamente di pilotare gli uccelli del cielo in
un’unica direzione, pretendere di chiudere il vento nelle nostre mani. Occorre uscire da
programmazioni schematiche e arrivare là ove ognuno in quel momento si trova, come
condizione dello spirito. Accendere dunque un contatto: è questo che conta.
E regalare fiducia. Nascerà fantasia.
Penso che molti di voi abbiano letto quella sorta di testamento spirituale che il card.
Martini pochi giorni prima di morire lasciò al suo confratello Padre Georg Sporschill, che
anni prima l’aveva intervistato in “Conversazioni notturne a Gerusalemme. Padre Georg e
Federica Radice lo incontrarono l'8 agosto a Gallarate. L’ultima loro domanda al cardinale
fu:
“Lei
cosa
fa
personalmente?”
La risposta: “La chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo
paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della chiesa. La fede,
la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone
buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di
sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della chiesa in Europa. Solo l'amore vince
la stanchezza. Di o è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la
chiesa?”.
La fede, la fiducia, il coraggio. Sempre lui, era la fine di luglio, Don Barbareschi e don
Grampa, il parroco di S. Giovanni in Laterano, vanno dal card. Martini, registrano una
brevissima intervista sul Concilio. Lui quasi non aveva più voce, smagrito, quasi solo spirito
Alla domanda di Don Barbareschi: “A 50 anni dal Concilio, Eminenza, quale il ricordo più
bello che lei ha?”. Risponde: “Sono stato presente al Concilio, ma non in quanto padre
conciliare, non ero vescovo. Ma sono stato a Roma in quegli anni, sono stati gli anni più
belli della mia vita, eravamo entusiasti, guardavamo il futuro, parlavamo al mondo, è stata
una bellissima esperienza”.
Anche questo sembra un testamento: nonostante tutto riprendere a essere entusiasti, a
guardare il futuro, a parlare al mondo.
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