Formazione al ruolo di Agente di Polizia Locale. Valutare i corsisti

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Formazione al ruolo di Agente di Polizia Locale. Valutare i corsisti
Istituto Regionale di Formazione – Regione Lombardia
Formazione al ruolo di Agente della Polizia Locale
Formazione al ruolo di Agente della Polizia Locale
Valutare i corsisti: come e perché del “manuale di valutazione”
A cura di Gianluca Braga, per conto di IREF – Istituto Regionale di Formazione
La storia
La proposta di valutazione emersa dal lavoro di sperimentazione condotto presso Iref nel corso di
questi ultimi due anni ha due dimensioni: la prima, “sincronica”, è quella che emerge nel “manuale”
predisposto dallo scrivente e che intende porsi come “stato dell’arte” al momento attuale. Raccoglie
infatti modalità, strumenti e metodologie che, alla luce delle varie esperienze condotte – per prime
le sperimentazioni presso i Comandi di Varese, S. Giuliano (MI) e Albano S. Alessandro (BG) –
emergono come le più funzionali e, al contempo, facilmente realizzabili nei percorsi formativi.
La seconda dimensione, “diacronica”, vede invece una biografia di questo prodotto, che in momenti
diversi ha avuto anche forme più o meno differenti. Questo documento nasce con lo scopo di
rileggere alcuni di questi momenti e dei contributi che da essi si sono prodotto e che sono confluiti
nel manuale conclusivo. In altri termini, come tutti i prodotti, anche questo, sebbene anomalo, ne ha
una sua.
Come spesso accade, è difficile datare l’inizio di questa storia. Pertanto andiamo ad elencare in
ordine sparso alcuni “prodromi” che, seppure non direttamente collegati in termini logici al
“manuale” esito della sperimentazione, l’hanno fortemente influenzato.
Il laboratorio
Innanzitutto va ricordata l’esperienza del laboratorio di valutazione condotto con un gruppo di
operatori delle Polizie Locali interessati a questo tema.
Il laboratorio, fu guidato in tandem dal prof. Piergiorgio Reggio e dal sottoscritto (avvalendosi
peraltro anche della preziosa collaborazione della tutor Elena Zanoni); venne strutturato in due
sessioni differenti: la prima più specificamente formativa, durante la quale vennero forniti alcuni
elementi “di fondo” della valutazione e venne chiarito il “vocabolario” della stessa. La seconda
parte, più “laboratoriale”, intendeva impegnare i partecipanti a collaborare nella definizione di
strumenti e metodologie utili alla valutazione dei corsi formativi di cui essi stessi avessero avuto
esperienza.
I risultati ottenuti e i contributi forniti furono diversi: innanzitutto si realizzò una piacevole alleanza
tra “esperti”. Gli esperti di Polizia Locale – in quanto operatori con grande esperienza – si avvalsero
dei contributi forniti dagli esperti di valutazione, in senso anche più generale. I temi trattati, infatti,
spaziarono oltre la questione della valutazione dei corsi, affrontando, ad esempio, la valutazione dei
collaboratori, del potenziale personale dei neo-assunti, dell’operato del comando. Argomenti utili
sia per generalizzare gli apprendimenti, mettendoli alla prova in contesti diversi da quelli specifici
trattati; sia per riflettere sugli usi e sull’utilità di ripensare al processo valutativo e, più
estensivamente, al processo decisionale.
Gli esperti di valutazione ottennero invece, dall’interazione con gli esperti di Polizia Locale, la
capacità di riflettere in termini operativi e pratici sull’effettiva possibilità per la valutazione di
trovare spazio nel contesto della Polizia Locale. La valutazione, infatti, incontra spesso forti
resistenze laddove non sia già introdotta. Vuoi per l’accezione di “controllo” o di “esame” che essa
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spesso evoca, vuoi per la peculiarità di rimettere in discussione le decisioni e, per estensione, i
decisori. E’ pertanto cruciale, volendo introdurre la valutazione come strumento di crescita
organizzativa, trovare il modo di presentarla nel miglior modo; trovare le giuste strategie e i tempi
per una sua graduale integrazione; soprattutto, trovare una “sostenibilità” e una “ecologia” della
proposta valutativa, affinché non provochi “crisi di rigetto” dall’organismo dal quale deve venire
metabolizzata. In questo senso, l’esperienza del laboratorio si dimostrò preziosa e assai efficace.
I limiti di questa esperienza furono sostanzialmente due: il primo, “voluto” e relativo, legato alla
decisione di non limitare il lavoro del gruppo alla valutazione del corsista ma di estenderlo
all’intero corso. Ne sono pertanto emerse indicazioni legate molto alla valutazione della qualità dei
corsi realizzati. Tra gli strumenti che vennero elaborati si trova pertanto il questionario di
soddisfazione dei partecipanti, per la verifica degli aspetti organizzativi e per avere un’idea della
chiarezza e della qualità dei docenti in aula. Altri strumenti invece si sono potuti riprendere e
riadattare per la sperimentazione, in quanto legati a dimensioni relative ai partecipanti al corso. Ad
esempio, la griglia che raccoglie l’opinione di tutor e docente sul clima d’aula come indicatore
legato alla motivazione dei partecipanti.
Un secondo limite, più incidentale che voluto, riguarda gli interlocutori presenti nel gruppo di
lavoro: infatti, coerentemente con un primo disegno di lavoro, si era scelto di includervi solamente
personale in servizio presso diversi comandi della regione. Perché, come già riportato, essi
possiedono una profonda conoscenza del contesto; ma anche perché si ipotizzava di coinvolgerli
come “supervisori interni” sui temi della valutazione, una volta che avessero maturato una
sufficiente familiarità con le logiche e gli strumenti valutativi. Questa scelta, con il tempo si è
rivelata inattuabile: il gruppo infatti si è ridotto di numero, divenendo non sufficiente a gestire
l’impegno sui diversi corsi attivi contemporaneamente in luoghi diversi della regione. Inoltre anche
il tipo di impegno continuativo richiesto dal processo valutativo necessita una figura più costante e
presente all’interno del corso di quanta ne possano garantire professionisti con responsabilità
all’interno del proprio Comando. In questo senso si è passati, nelle varie stesure della proposta
valutativa, dalla figura di “esperto dei processi valutativi” a quella del tutor con un mandato nella
raccolta e organizzazione dei documenti per il supporto al valutatore finale (la commissione).
Gli altri corsi di formazione
Nella ricerca di materiali sulla valutazione della formazione già prodotti da Iref, si sono trovati
numerosi documenti utilizzati per la valutazione dei corsi. Anche in questo caso, come per il
laboratorio, la maggior parte di questi strumenti era stato costruito con la logica della valutazione
del corso. Iref infatti ha spesso necessità di verificare la qualità di corsi realizzati in sedi distaccate
e, pertanto, si è dotata nel tempo di diverse tipologie di strumenti utili a tale scopo.
Il test di valutazione delle conoscenze
Sono però emersi anche –quale conferma delle metodologie proposte– alcuni strumenti di
valutazione dell’apprendimento da parte dei corsisti.
Innanzitutto i test sui contenuti trattati, ovviamente, sono molto diffusi. Spesso soffrono di
“invecchiamento” in quanto si riferiscono a norme che vengono periodicamente riviste e aggiornate.
Inoltre hanno una impostazione molto tradizionale. Non che questo aggettivo debba
necessariamente costituire un difetto; in questo caso però, sta anche a significare che non vi sia stato
nessuno sforzo di introdurre elementi innovativi per la rilevazione di altre variabili che
intervengono nei processi di apprendimento. Si è deciso pertanto di introdurre un’innovazione che
può essere considerata opinabile in termini di “purezza” della rilevazione dell’apprendimento, ma
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che permette una maggiore sensibilità di analisi. La modifica riguarda la richiesta, per ogni risposta,
di indicare – da parte del compilatore – del grado di certezza con cui egli risponde.
La logica seguita è quella che, spesso, i test vengono costruiti con molta fretta e senza una prima
sperimentazione pilota che consenta di distinguere tra item troppo semplici (e quindi non
discriminanti), item troppo complessi (indadeguati al programma che verrà trattato e ai relativi
obiettivi didattici) e item “centrati”.
Rilevare il grado di certezza con il quale il candidato ritiene di rispondere dovrebbe contribuire a
ridurre l’aberrazione data dalle domande troppo semplici. Infatti, un candidato che rispondesse
correttamente a molti item nel test di ingresso semplicemente basandosi sul “buon senso”, dovrebbe
rispondere che è al massimo “abbastanza sicuro” della risposta data.
A fine corso, se lo stesso avrà dato contributi sui temi oggetto delle domande del test, il partecipante
avrà avuto l’opportunità di consolidare le proprie convinzioni e, allo stesso item risponderà
comunque in modo corretto, salvo manifestare un miglioramento in termini di sicurezza nel
rispondere. In altri termini, questa modifica dovrebbe consentire di registrare la capacità dei corsi di
non fornire conoscenze completamente nuove e imprevedibili – per il partecipante – ma anche il
consolidamento e la sistematizzazione di nozioni altrimenti precarie e disorganizzate.
Perché questo possa avvenire, sarà necessario però garantire al compilatore che le riposte che darà –
in termini di sicurezza – non verranno utilizzate per comporre il punteggio relativo al possesso delle
conoscenze. In questo modo si sentirà libero di rispondere in modo più spontaneo e non fornendo la
risposta – “assolutamente certo” – che può essere più facilmente vista come un modo per fornire di
sé una rappresentazione migliore (risposte fornite in base al criterio di “desiderabilità sociale”).
Quindi, non potendo “correggere” i punteggi relativi alle conoscenze possedute, in che modo
utilizzare il “grado di certezza”? Così come il cambiamento tra il punteggio della prima e
dell’ultima soddisfazione, esso andrà a costituire un elemento per valutare la motivazione
all’apprendimento e la responsabilità nel prepararsi in modo scrupoloso alla prova di valutazione. Si
ritiene infatti che, a differenza delle conoscenze – che devono essere possedute a sufficienza entro
la fine del corso – questi due “indicatori” sono fortemente correlati con la capacità di una persona di
riconoscere il proprio limite e attivarsi per migliorarlo (“responsabilità”) e con la motivazione a
colmare il gap per divenire un Agente di PL (“motivazione”).
Per la valutazione invece delle conoscenze tecniche utili allo svolgimento del ruolo di agente di PL,
si utilizzerà soltanto il punteggio dell’ultima prova; questo per non penalizzare ingiustamente chi
non avesse delle conoscenze tecniche pregresse avendole piuttosto conseguite durante il corso
apposito (se un buon punteggio iniziale fosse considerato un elemento favorevole al candidato) o,
viceversa, per non discriminare coloro che fossero già in possesso delle informazioni prima
dell’avvio del corso (otterrebbero infatti un punteggio di “incremento delle conoscenze” più basso).
La sperimentazione del Corso Formazione Lavoro presso il Comando di Brescia
Altra esperienza assai significativa nella logica della valutazione degli apprendimenti dei
partecipanti a percorsi formativi fu la sperimentazione del CFL presso il Comando di Brescia.
Come spesso accade nelle sperimentazioni, infatti, si prestò una particolare attenzione a molti
aspetti che altrimenti procedono in modo automatico. Uno di questi aspetti riguardò proprio la
valutazione dei corsisti.
La prova pratica
E’ difficile dire cosa rimane di quella impostazione nel manuale prodotto dalla sperimentazione. A
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parte il test di valutazione delle conoscenze (comunque già ovviamente molto diffuso presso tutti i
corsi), forse l’importanza da attribuire anche alle prove pratiche che, se possibile, andrebbero
realizzate direttamente in situazione, in strada.
Peraltro la possibilità di utilizzare la segnalazione manuale presso un’intersezione una prova pratica
di valutazione delle abilità è stata riportata negli stessi termini. Si è però mischiata e confusa –
credo giustamente – con molte altre possibili prove pratiche altrettanto importanti; anzi, questa è
rimasta un ottimo esempio di come la prova pratica sia importante, ma vada “tarata” sulle abilità più
significative da insegnare nei diversi momenti della formazione dell’Agente di PL. Sebbene infatti
si affermava che la segnalazione manuale resti una competenza basilare da possedere e neanche gli
agenti con maggiore anzianità possono sottovalutarla, è altrettanto vero che a seconda del Comando
– si pensi ad esempio alla differenza tra un grosso Comando quale Milano e la funzione di un
Agente di un piccolo paese di montagna – e del livello di formazione – di ingresso o specialistica –
le abilità più utilizzate possono variare enormemente.
Le esercitazioni e la discussione dei casi
Una considerazione importante da focalizzare, emersa durante questa esperienza, riguarda la
differenza tra la prova pratica e la “esercitazione”. La prima, infatti, prevede un suo “protocollo”
sempre uguale a se stesso; per quanto complesse, le segnalazioni ad una intersezione vanno fatte in
modo che può essere codificato e, pertanto, vi è un modo giusto ed uno sbagliato di
praticarle.L’esercitazione, invece, intende mettere alla prova le persone in contesti dove le modalità
di comportarsi siano più complesse, al limite incerte.Infatti si può facilmente intuire come l’Agente,
una volta che si trova a gestire il proprio ruolo istituzionale, verrà a confrontarsi con situazioni per
le quali il “manuale” non ha una risposta chiara e univoca. Addirittura, anche se non sempre gli
Agenti sono disposti ad ammetterlo, l’applicazione integrale del codice rischia di creare situazioni
critiche e di ostacolare il raggiungimento della “mission” del Corpo della Polizia Locale.
Come valutare quindi un comportamento (forse, più precisamente, un “atteggiamento”, un
“approccio”) di cui non si sa quale sia il modo giusto e quello sbagliato? Questa importante i
significativa riflessione è emersa, nella nostra esperienza, proprio a partire dal Corso di Formazione
al Lavoro di Brescia. Non che ad oggi se ne sia venuti a capo in modo univoco; va però sottolineato
come, da allora sono stati messi a punto alcuni strumenti che, seppure in parte, danno delle risposte
ad una questione che ha vasta letteratura ma poche certezze in merito.
La prima ipotesi, realizzata allora, fu quella di far analizzare e discutere ai corsisti alcune situazioni
critiche che loro stessi, durante le uscite in affiancamento, avevano potuto notare. Alle discussioni
assistevano degli osservatori che avevano il compito di rilevare elementi di diversa natura: da un
lato “l’approccio al problema”, ovvero la posizione che i vari interlocutori prendevano in merito ad
alcune situazioni. Dall’altro, le modalità di discussione potevano rivelare anche il tipo di relazione
tra i partecipanti e la capacità degli stessi di interpretare ruoli di leadership – quando presentavano il
caso e guidavano la discussione – e di collaborazione con il gruppo – quando erano nel gruppo a
discutere.
Il grande vantaggio – oltre a quelli di natura educativa – di questa modalità di valutazione è
indubbiamente la facilità di realizzazione. I casi possono essere direttamente portati dai partecipanti
(e costituire anche elemento di valutazione) piuttosto che recuperati da altri contesti e corsi
(rendendo così ancora più semplice la realizzazione della prova).
Il limite evidente è che l’approccio alla situazione che si valuta è soltanto quello “dichiarato”,
quello “teorico”. Non si può cioè prevedere con sufficiente tranquillità che, trovandosi direttamente
coinvolto in quella situazione, il partecipante agirà nel senso in cui ha dichiarato. E’ peraltro vero
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che comunque un qualche livello di approssimazione sarà il massimo consentito da questo livello di
valutazione; infatti, ciò che accadrà nella situazione reale non sarà possibile prevederlo totalmente,
salvo ricreare la situazione in tutti i suoi dettagli e particolari anche socio-emotivi. Cosa
evidentemente non plausibile per più motivi.
La seconda ipotesi, emersa più avanti, con il progetto di recupero delle competenze mancanti
realizzato presso il Comando di Monza, è quella di strutturare una situazione reale, non da gestire
(per i motivi di cui sopra), ma quantomeno da progettare e programmare. A Monza, ad esempio,
venne proposto a gruppi di partecipanti di programmare ed eseguire tutte le azioni preliminari per
un evento di interesse pubblico che avrebbe avuto luogo sul territorio (nella fattispecie, una corsa
ciclistica che si svolge realmente ogni anno).
I gruppi avevano più giornate di tempo per realizzare il compito; due osservatori si muovevano
liberamente nei gruppi per rilevare elementi simili a quelli già individuati per la discussione di casi
in gruppo (leadership, rapporto con i colleghi, capacità di problem solving, capacità
organizzative…).
I risultati furono da un lato incoraggianti: l’esercitazione fu molto apprezzata dai partecipanti e
divenne un valido strumento per l’apprendimento. Fu assai complessa da organizzare e, in ultima
analisi, gli osservatori notarono una convergenza delle osservazioni fatte con i giudizi che
avrebbero potuto esprimere anche prima dell’esercitazione, avendo avuto modo di osservare i
partecipanti in classe. Rimane da capire se questo significa che l’osservazione in aula sia già di per
sé uno strumento molto potente (e, come tale, è stato valorizzato nel manuale scaturito dalla
sperimentazione) oppure se sia un difetto dato dal pregiudizio dell’osservatore. In questo caso, si
potrebbe pensare ad osservatori completamente “naive” (ad esempio Agenti di PL con esperienza
ma che non abbiano fatto docenze durante il corso e non conoscano i partecipanti). Tutto ciò però,
per quanto assai stimolante, finisce con il rendere ancora più rilevante l’unico difetto di questa
prova: la complessità realizzativa. Per quanto riguarda l’approssimazione rispetto alla situazione
reale (la prova è “artificiale”: gli errori non comportano reali disagi per i cittadini se non addirittura
pericoli e incidenti) e la conseguente facilità di approccio – minore pressione – vale il discorso fatto
in precedenza: in sede di valutazione sarà necessario accontentarsi di simulazioni che si
approssimino alla realtà quanto più possibile. L’unico modo di osservare la realtà sarebbe quello di
indagare presso i Comandi dove i partecipanti potessero fare dello “Stage” sulla strada, con compiti
(commisurati) in autonomia.
Il contributo proprio della sperimentazione
Ovviamente, il primo contributo della sperimentazione è stato quello di rimettere “a sistema” tutto
quanto emerso nei diversi contesti. Questo non è un valore da poco: sebbene nel termine
“sperimentazione” sia intriso di “novità”, “innovazione”, di qualcosa che finora non si era mai visto
o provato, è altrettanto vero che, soprattutto in questo campo, è difficile se non “dannoso”
inventare. Pertanto, il solo aver raccolto tutte le idee, gli esperimenti, le versioni dei vari strumenti
utilizzati nel corso del tempo e averli riorganizzati in un protocollo “sostenibile” è già un contributo
di notevole importanza.
Il portfolio
Questo contributo ha altresì un nome proprio: si chiama “portfolio” delle competenze. Anche il
nome non è nuovo. Eppure sembra essere quello più evocativo dell’idea che porta con sé.
Il portfolio infatti, rappresenta proprio quanto sopra: il tentativo di articolare e organizzare in forma
semplice, leggibile ancorché completa, tutti gli elementi descrittivi delle capacità dimostrate da ogni
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singolo partecipante, per elaborarne un profilo sintetico, fedele alle caratteristiche dell’individuo.
Esso è costituito da una specie di “dossier” – ovviamente raccolto a favore dell’individuo, per
dimostrarne e descriverne le potenzialità e le capacità acquisite – che contiene tutte le prove che lo
stesso ha sostenuto così come tutti i dati raccolti dalle varie fonti di informazioni rilevanti dei corsi
di formazione. Nello specifico, vi saranno le griglie di osservazione compilate dagli osservatori
esperti che hanno valutato le prove sostenute dallo stesso partecipante; i dati relativi a presenze,
assenze, ritardi per documentare la costanza con cui avrà frequentato il corso; copie dei test
compilati con i relativi risultati; la valutazione del contributo che avrà dato al clima e al lavoro in
aula, raccolti da tutor e dai docenti più presenti in aula. In altre parole, in questa sezione del
portfolio si raccoglieranno con continuità gli elementi utili al formarsi di un giudizio articolato sul
soggetto, organizzandoli nelle dimensioni che sono emerse come le più significative 1 per l’Agente
di Polizia Locale.
Ci preme sottolineare il termine “articolato”: con ciò si intende che il giudizio su una persona,
ancorché limitato alla propria performance lavorativa, non può che essere complesso. Perché questa
complessità non porti all’impossibilità di formulare qualsiasi giudizio, è necessario mantenere più
dimensioni che indaghino aree differenti tra loro, salvo sceglierne un numero non eccessivo – per
evitare di perderne la possibilità di padroneggiarle, anche per un semplice limite mnemonico che
l’essere umano possiede – e, soprattutto, individuando quelle più “significative”. Con questo
termine si intende fare riferimento più ad una categoria logica piuttosto che statistica. Non vi sono –
e difficilmente potrebbero esserci – studi che dimostrino qualche forma di correlazione tra tratti,
caratteristiche della persona e adeguatezza al ruolo professionale. Pertanto si intende con
“significative” quelle caratteristiche che possano rappresentare delle “spie” di una presunta
adeguatezza al ruolo sociale. Possano fornire la “spinta”, a mo’ di “effetto leva”, all’individuo per
trovare quel giusto equilibrio, sinonimo di adattamento tra il sé e l’identità professionale.
In questo senso – e in sintonia con il paradigma sistemico – la complessità trova una sua
rappresentazione attraverso alcune con-cause particolarmente rilevanti che vengono monitorate e
descritte in forme sintetiche e comparabili. Viene cioè compilato un “quadro” di sintesi che
riassume quanto presente all’interno del “dossier” e permette al lettore che ha poco tempo a
disposizione, di formarsi un’opinione non monodimensionale ma ricca e strutturata sull’individuo
che deve valutare.
La commissione d’esame: chi prende le decisioni?
Ci riferiamo in questo senso soprattutto – ma non solo – alla commissione che, allo stato attuale
della norma, ha il mandato di definire l’idoneità della persona a svolgere un ruolo istituzionale e
anche la graduatoria che classifica i diversi individui secondo il grado di idoneità dimostrata.
Non volendo cioè affrontare il tema, politico più che tecnico, di chi debba giudicare, si è pensato di
indirizzare tutto il processo di valutazione del candidato, oltre che a supporto dello stesso (per una
fondamentale operazione di autoconsapevolezza e auto-riflessione su di sé e sul proprio percorso di
crescita) e dei docenti (per migliorare il proprio approccio all’educazione professionalizzante degli
adulti), a supporto della decisione che la commissione d’esame dovrà prendere in condizioni non
facili.
Si è pensato che, qualora il processo di raccolta dei dati sia dichiarato e omogeneo, avere in quanto
decisore più elementi, raccolti da più fonti di informazioni, su cui basare il proprio giudizio, possa
essere soltanto un aiuto e un contributo a migliorare la qualità dei concorsi e corsi pubblici.
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In questo senso, si veda il contributo dell’equipe che ha lavorato sulla selezione in ingresso.
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