Daniela Lancioni

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Daniela Lancioni
Daniela Lancioni
Inventare, costruire, trasfigurare: un’ipotesi contemporanea
Con gli altri commissari, ci siamo interrogati a lungo su quale fosse l’indirizzo da dare alle nostre
scelte. Siamo giunti alla conclusione che nell’ordinare una mostra periodica riservata agli artisti
italiani viventi (ad eccezione di eventuali omaggi), la cosa più interessante da fare fosse tentare
una mappa dell’attualità. Delineare le coordinate di un’eccellenza italiana. Un’operazione che è
anch’essa di una certa attualità, dal momento che stanno tramontando le rassegne dedicate
all’arte dei Paesi stranieri, mentre aumentano quelle nelle quali ci si interroga sulla cultura del
proprio Paese (reazione forse al processo di globalizzazione in atto; iniziative che foraggiano
mercati potenti, come la fortunata Sensation di Norman Rosenthal o che ne fronteggiano
l’avidità, da Italian Metamorphosis di Germano Celant a Minimalia di Achille Bonito Oliva a Exit di
Francesco Bonami).
Credo che ciascuno di noi, all’interno della propria libertà di manovra, abbia voluto deporre, come
in uno scrigno, opere che considera preziose nell’attuale scena italiana, spesso condividendo le
scelte degli altri.
Si può discutere, naturalmente, sul senso da dare al termine attualità, in ogni caso abbiamo
chiesto e ottenuto di non normalizzarne il concetto attraverso il regolamento della mostra,
inserendovi limiti anagrafici o cronologici.
“Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che viene dal suo tempo”, ha
scritto Giorgio Agamben, che definisce “la contemporaneità (…) una singolare relazione col
proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, (…)
quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo” (Che
cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008).
A scelte fatte, noto che nessuno degli artisti che ho segnalato è nato prima del 1960 e che nel
loro insieme scandiscono l’emergere di tre diverse generazioni.
Da un punto di vista storico, possiamo ipotizzare che alcuni fatti segnino, a monte, il confine
dell’epoca attuale: l’esplosione del reattore nucleare a Cernobyl il 26 aprile del 1986 e la caduta
del muro di Berlino, il cui rapido smantellamento prese avvio il 19 novembre del 1989.
Due “crolli” di natura diversa.
Nella scia del disastro di Cernobyl si allineano la guerra dei Balcani, quelle del Golfo, il crollo
delle Twin Towers e la distruzione sistematica dell’ambiente naturale.
In relazione al crollo del muro di Berlino, seppure di portata politica non equiparabile, vi sono le
demolizioni degli edifici abusivi, cui di tanto in tanto si assiste in Italia e, più in generale, ogni
smantellamento grazie al quale sono migliorate le condizioni di vita (l’abolizione del servizio di
leva obbligatorio, lo snellimento dell’apparato burocratico dello stato, delle frontiere tra i diversi
paesi europei; un problema di grande attualità in Italia, quello dell’immondizia in Campania, è
provocato proprio dalla scarsa attenzione riposta nella prassi dello ‘smaltimento’).
Nell’attuale ordinamento sociale, viene da pensare che l’azione benefica e quella rovinosa
comportino entrambe un atto di distruzione.
In che misura il Novecento sia stato segnato da episodi rovinosi, lo ha raccontato Marco Belpoliti
in un libro nel quale raccoglie esempi di letteratura, arte e architettura e affianca le sue
considerazioni a quelle di Marc Augé, Susan Sontag, Paul Virilio, Jean Baudrillard (Crolli, Einaudi
2005). Nel 2002 Paul Virilio aveva dedicato una mostra e un libro all’analisi delle catastrofi,
intese come eventi naturali o accidentali (Ce qui arrive, Fondation Cartier pour l’art
contemporain, Parigi 2002-2003).
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Ipotizzando che la società abbia appreso dalla cultura a migliorare se stessa attraverso un atto di
rinuncia applicando modelli elaborati dal pensiero (destrutturare, frammentare, procedere per
differenze, smaterializzare), non dovrebbe essere giunto il momento, nell’arte, di considerare
un’azione di natura diversa?
Dopo il salutare minimalismo, non sarebbe necessario attivare una nuova categoria del fare che
assicuri all’opera sufficiente autorità per accedere all’invenzione? Alla capacità di
trasfigurazione? Al posto di un gesto che preleva icone dal mondo dei consumi, che assume,
destrutturandoli, i simboli del vivere civile o i comportamenti quotidiani, che cerca l’identità nei
frammenti di un corpo, non si avverte la necessità di un segno costruttivo? Appurata la fragilità
umana, non si dovrebbe riconsiderarne la forza? Ridimensionata la figura dell’autore in nome
dell’inevitabile condivisione di idee e di conoscenze e della reciprocità tra chi porge l’arte e chi la
riceve, non si potrebbe di nuovo aspirare a un gesto autorevole? Se sull’assunto che gli uomini si
comportano sempre nello stesso modo è nata la moderna scienza economica il cui strumento è
la statistica (Hannah Arendt), l’arte, per scardinare questo sistema, non deve rivalutare il gesto
raro?
L’opera da sempre è il campo di una sedimentazione, il problema è se lasciare in vista i lacerti di
altre culture, le pratiche quotidiane, le memorie storiche o biografiche, l’ispirazione che viene dal
cinema, dalla letteratura, dalla musica, dalle migliaia di informazioni che si hanno oggi a
disposizione (le opere intese come percorsi attraverso la cultura da Nicolas Bourriaud) o se
fonderli in un amalgama che si concretizzi nell’immagine dell’opera.
Mi sembra di osservare gli esiti positivi di un’inversione di rotta. Non nei termini di un rimando ai
modi e alla prassi della tradizione moderna (Carolyn Kristov-Bagargiev, I moderni, Castello di
Rivoli 2003), ma ancora una volta, di fare e di pensare nei termini della pittura. Scelta assunta da
quegli artisti che affidano l’opera al valore visivo dell’immagine. Arrivandoci attraverso la
consapevolezza dei fatti contingenti per un momento cancellati da una salutare distrazione,
rinunciando ai significati univoci o a servire a qualcosa. Opere nelle quali precipita di tutto, ma
nelle quali tutto si fonde in un insieme che nello stile di ciascuno (la parola stile non deve far
paura, tutti gli artisti ne hanno uno) esprime qualcosa di altrimenti indefinibile. Opere che sono il
campo dell’utopia, perché immagini in cui l’informe si invera e che durano nel tempo, in grado di
ridisegnare un paesaggio, il nostro, collassato in rovina.
Fare pittura attraverso l’uso disincantato, liberatorio e mai ideologico di mezzi diversi, non è un
processo che appartiene solo agli artisti delle più giovani generazioni. Questi, però, hanno il
vantaggio di poter gestire l’enorme e benefico patrimonio, accumulato attraverso molti decenni,
di arte détournement, smaterializzata, nomade, destrutturata, displacement, relazionale.
Luciano Fabro è uno di quegli artisti che aveva “deciso per il fare”. A lui, concettuale che tra i
primi della sua generazione si è misurato con la seduzione della materia e la necessità della
forma senza rinunciare all’ardore civile, si è voluto dedicare un omaggio, anche sull’onda
dell’emozione provocata dalla sua improvvisa scomparsa. Una delle sue ultime opere, il grande
marmo intitolato Autunno sarà esposta nella Rotonda del Palazzo delle Esposizioni, nel cuore
della mostra dal quale partiranno i diversi e non allineati itinerari che il visitatore potrà scegliere di
percorrere.
“L’arte e la cultura in generale sono la forza politica più pericolosa mai prodotta da pensiero
umano”, ha scritto Bernhard Rüdiger, che alla Quadriennale espone Secolo XXI!, una struttura
alta cinque metri, alla cui sommità si trova un gong che il visitatore può suonare azionando dal
basso un batacchio. Per Rüdiger il terreno dell’incontro tra chi porge l’opera e chi la riceve è
fondamentale. Sulla struttura svettante, (come molte altre ne ha ideate e il cui senso alberga
forse in alcune riflessioni dell’artista sulla necessità dell’arroganza), il gong evoca la chiamata a
raccolta dei cittadini, è forma, suono e allarme.
Liliana Moro annovera nei suoi lavori l’uso di un grande numero di tecniche e materiali diversi. Il
suo eclettismo è prova del coraggio con cui l’artista si misura ogni volta con lo spazio nel quale è
chiamata a intervenire, con le persone che presume avrà di fronte, con i fatti di cronaca, con il
dolore, talvolta con la gioia del mondo. Si pone nella condizione dell’Ascolto (tradotta
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nell’immagine dell’opera in mostra), senza protezioni, cercando di mantenere se stessa a quello
stato che definisce lo “stato pulito dell’immaginazione dei bambini”.
Luca Pancrazzi con il nome di una fusione sintetica altamente abrasiva, Carborundum, ha
intitolato una macchina Maserati, completamente rivestita di schegge di vetro. Con le stesse
lamine taglienti ha rivestito una serie di oggetti, un’altra macchina, una sedia, una bottiglia,
alcune lampadine. Attraverso un lungo processo di realizzazione, ha ridotto la materia
adamantina a frammento, sino a renderla duttile.“Un liquido astratto fatto di luce e di tempo” con
il quale ha velato gli oggetti di uso quotidiano: la loro familiarità arretra, l’immagine, trasfigurata,
diventa minaccia o regale presenza.
“Dopo anni di scomposizione e di assemblaggio”, ha dichiarato Loris Cecchini, “sto provando a
mettere in gioco degli elementi di costruzione, che mi diano libertà di intervento maggiori nello
spazio dell’immaginazione così come in quello fisico”. Le serie Monologue Patterns, Destiny
Spectum Zone o l’opera Gaps, sono tutte strutture che modificano la percezione dell’ambiente,
alcune configurano dei veri e propri abitacoli nei quali sostare, leggere, riposare, conversare, da
cui irradia un disegno capace di incidere felicemente sul paesaggio esterno.
Lettiga di Flavio Favelli delinea uno spazio fantastico: lettiga, ma anche pulpito, balcone. L’opera
è ottenuta assemblando elementi diversi (porzioni di mobili, parti del decoro architettonico). Sono
i lacerti consumati dal tempo e portatori di memoria, che l’artista rielabora e con i quali costruisce
“residenze immaginali”, “stazioni temporali”. Luoghi permanenti di relativo isolamento, ma anche
di accoglienza, dove archiviare i propri beni, trascorrere il tempo dell’attesa.
VB61 Darfur Still Death! Still Deaf? è la performance di Vanessa Beecroft realizzata alla
Pescheria di Venezia nel 2007. All’interno del quadrilatero delimitato dal portico neogotico è
stesa una tela bianca sulla quale sono ammassate una trentina di giovani donne sudanesi (la
loro pelle scura è stata tinta di nero). L’artista le imbratta con un liquido che ha il colore del
sangue. Elementi diversi si coagulano in un’immagine che ha l’impatto di una pittura (per il valore
cromatico, per il silenzio che l’avvolge), che ha riferimenti a opere del passato (azionismo
viennese e dripping) e una qualche relazione al luogo (pare di assistere a una mattanza).
“Espongo solo donne e razze in cui mi identifico”, ha più volte dichiarato l’artista, che con questa
opera e con altre che l’hanno preceduta, sbatte in faccia al pubblico il dramma che si perpetua
nel Darfur.
Daniele Puppi contempla il caso, anzi lo eleva alla condizione di un accidente con il quale
misurarsi (metafora della crudeltà dell’esistenza e formidabile riscossa). Megahòm è una sintesi
di percezioni visive, sonore e tattili portate all’estremo, una struttura compressa che si dilata nello
spazio. La forma del megafono, la sovrapposizione di media diversi (videoproiezione e monitor al
plasma), il suono sincronizzato all’alternanza delle immagini e il ritmo, sfondano la superficie
della parete con una visione prospettica e, contemporaneamente, invadono lo spazio contingente
abitato dall’osservatore. Il senso dell’opera è sospeso, come vuole l’autore. Si avverte una sfida
che incanta.
They Live We Sleep, sussurrano, pausando, voci diverse e sfalsate, provenienti dai circa
trecento megafoni con i quali Elisabetta Benassi ha scritto sulla parete a caratteri cubitali “They
Live We Sleep” (ogni mezzora i megafoni pronunciano la frase per intero, all’unisono e a volume
più alto). La scritta appare nel film They Live di John Carpenter (1988), dove il protagonista
riesce a decifrare, in luogo delle pubblicità commerciali, i messaggi con i quali gli alieni
addormentano le coscienze degli individui in nome del profitto: “Obbedisci”, “Sposati e
riproduciti”, “Consuma” (scritte che all’artista ricordano le opere di Jenny Holzer o di Barbara
Kruger e che ricontestualizza nel museo). L’antico dualismo tra apparenza ed essenza è di
attualità nel dramma di una civiltà che lascia atrofizzare gli strumenti fisici e psichici
indispensabili per l’esperienza diretta delle cose e la verifica dei dati. L’intero lavoro di Benassi
sembra opponga a questa deriva immagini di una forza primordiale, gesti veloci, accostamenti
inattesi, sedimenti culturali, lirica sospensione.
Fori.avi di Andrea Aquilanti è un lavoro costruito per sovrapposizioni (avi è l’estensione di un
software usato per le animazioni). Un video di via dei Fori Imperiali ripresa dall’alto, a camera
fissa per un paio di ore la sera, con il via vai di pedoni e di macchine e i monumenti illuminati, è
proiettato su un disegno a matita dello stesso paesaggio realizzato su due pareti ad angolo e sul
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parallelepipedo che sta di fronte. Sopra a tutto questo, il volo incessante degli uccelli. L’opera
assomma cultura e natura, libertà e costrizione, capacità di trasfigurare e allo stesso tempo di
consegnare alla memoria una sintesi della realtà che si è vissuta (il disegno), diverse categorie
dello spazio abitabile (declinate dall’alternanza di volumi e di proiezioni e dalle ombre e dalle
cornici che queste definiscono). Nel suo insieme configura uno stato della percezione
complesso, che attiene alla contemporaneità e che contempla le categorie della simultaneità e
della reversibilità.
Brain di Luisa Rabbia è un grande ulivo di porcellana, realizzato con una tecnica messa a punto
dall’artista. Su una base di gesso, come se si trattasse di un grande foglio, ha disegnato l’albero
con la porcellana che, asciugandosi lentamente nell’arco di diversi giorni, si è ritirata, crepata, in
alcuni casi spaccata. Prima di cuocere i singoli pezzi, li ha dipinti, accentuando il tracciato di
cicatrici naturali che si era creato sulle loro superfici.
Il presente inteso come frammento di tempo (collegato al passato e al futuro) e il pensiero inteso
come psiche (l’insieme delle funzioni cerebrali, fisiche ed emotive), si materializzano nella scelta
di una tecnica che asseconda la reazione naturale del materiale, nel disegno di un albero che ha
le radici affondate nella terra e i rami che crescono nello spazio, nell’immagine dell’ulivo longevo
la cui corteccia crepata assomiglia alla superficie irrorata di sangue del cervello.
Processo formale vivente di Claudia Losi è un’opera nata lo scorso anno in occasione della
Biennale di Sharjah negli Emirati Arabi, quando l’artista ha inviato 20 pezze di tessuto imbottito a
cinque sarti della città perché le ricamassero seguendo il tracciato dei suoi disegni. Calcificazioni
sovrapposte a felci e ad alghe, tutte le forme animali e vegetali che sottoterra, in assenza di
ossigeno e attraverso un processo che ha interessato milioni di anni, hanno dato origine al
petrolio. “Si voleva dare l’idea di un processo sedimentato” ha scritto l’artista, la cui opera fonde
nel magma dell’immagine riflessioni e innesti diversi (Pier Paolo Pasolini che ne La Divina
mimesis definisce l’opera “un processo formale vivente”, il proprio disegno e il lavoro dei sarti, gli
stessi che ricamano gli abiti per le donne che in pubblico li velano di nero, nero come il petrolio
da cui siamo dipendenti e che non distribuisce ricchezza).
Tulipani è la serie di opere avviate da Bruna Esposito a partire dal 2004. Il fiore della gigliacea
introdotta in Europa dalla Turchia, è reso dall’artista con la foto plastificata di una persona
immediatamente identificabile come una donna mussulmana, dall’abito grigio lungo e dal capo
velato. L’artista ha associato la bellezza della natura, quella con la quale decoriamo gli ambienti
in cui viviamo, la stessa sulla quale in passato s’è fondata l’economia della ricca Olanda,
all’immagine, odiosa per l’occidente, della donna costretta al velo dalla cultura islamica.
L’amore, coltivato nei secoli di lontananza dai campi di battaglia, non riesce a condizionare i
modi collettivi e l’emancipazione rischia di rendere le donne complici della violenza storicamente
ascrivibile agli uomini. Per questo, forse, Bruna Esposito con uno dei suoi gesti, gesti pieni di
grazia, propiziatori, mai spettacolari, ha voluto riconsiderare nei termini della bellezza, una
pratica femminile che attiene al riserbo, al nascondersi, all’atto di custodire.
L’orso su due zampe di Maurizio Savini guarda nello spioncino di una porta, con i piedi affondati
in una distesa di mondezza. È tutto rosa, ricoperto, come altre opere dell’artista, dalle gomme da
masticare Big Babol (la cui pasta, in questo caso, è lavorata e modellata su un calco di
vetroresina), anche il muro intorno a lui è rosa, dipinto come se fosse una planimetria seguendo i
contorni di un filo elettrico nero da cui pendono lampadine accese.
Il titolo è Destined for nothing ripreso, come altri dell’artista, da una poesia di Greg Graffin, voce
del gruppo punk americano Bad Religion (carismatico personaggio, poeta, musicista e docente
universitario, utopista e ribelle).
Al senso della sciagura, Savini oppone un catalogo di oggetti, animali e persone, virati in rosa e
profumati. Sono il campionario immaginario di un mondo sull’orlo di esplodere, una miccia che è
possibile disinnescare.
Nell’opera Deriva di Paolo Grassino governa il nero assoluto. Il calco in vetroresina della scocca
di una Fiat Panda e fasci di tubi proiettati nello spazio in direzioni opposte, sono tutti ricoperti con
un materiale sintetico, lo stesso usato per le spugne da cucina o i tappeti da bagno (Grassino lo
acquista a rotoli e lo colora, talvolta ne ritaglia le strisce che poi dispone una accanto all’altra,
ricostruendo la pelle delle cose, come se dipingesse). L’insieme, si può rimontare, dice l’artista,
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in un milione di modi diversi, disponendo i tubi come se si disegnasse nello spazio. Un grande
ingombro, un groviglio, un’esplosione di forme, un ostacolo (la macchina) sul quale si sono
impigliati rami e oggetti (come gli capita di vedere nel canale di fronte casa quando viene
svuotato). Un paesaggio nel quale domina la proliferazione, la fluidità delle cose.
Nel lavoro di Perino e Vele compare il frullatore con il quale gli artisti macerano la carta, è in
funzione, emette un rumore fastidioso e imbratta il manufatto che ha contribuito a realizzare: una
grande struttura di cartapesta dalla nota superficie a tasselli simile a una coperta imbottita, che
da una parte si erge e dall’altra aderisce al pavimento. Il titolo dell’opera è Dick e sta per Dick
Cheney, il vice-presidente degli Stati Uniti, “il falco” di Desert Storm e dei più recenti attacchi in
Iran. Il manto di cartapesta, enigmatica montagna, ha due gobbe come quelle di un cammello. È
sua la pelle scuoiata, che la macchina impazzita calpesta e imbratta.
Ambiente mobile di Marina Paris è un corridoio lungo e stretto. Vi si accede da una porta che,
non appena varcata, si chiude alle spalle del visitatore. All’interno questi si dirige lungo il
percorso obbligato che lo condurrà all’altro estremo del corridoio, ma il suo incedere è rallentato,
reso faticoso, assurdamente osteggiato da un tapis roulant in funzione sotto i suoi piedi che lo
spinge nella direzione opposta a quella dei suoi passi.
La struttura è coesa, tenuta insieme da un dramma psichico. L’avverso sarà combattuto con un
gesto semplice (alla portata di tutti), procedendo senza paura o seppure tremanti.
Nel presentare il progetto di Senza titolo, Valentino Diego elenca tre intenzioni: “raccontare e far
esperire al pubblico una mia esperienza” (costruisce un soppalco identico a quello della sua
camera da letto); “indurre gli spettatori a una interazione volontaria e obbligata con l’opera”
(l’opera ostruisce un corridoio e il visitatore può accedervi, ma anche passarci sotto); “cercare
un’interazione con l’architettura dell’edificio” (affacciandosi dal soppalco collocato lungo il
ballatoio al primo piano del Palazzo delle Esposizioni si osserverà da molto in alto il piano
sottostante, con una sensazione di vertigine dovuta alla balaustra leggermente inclinata verso
l’esterno). L’artista compie il gesto primordiale di costruire una casa, ma il suo è un luogo
eccezionale, all’interno del quale, pur nel privilegio del riparo, permane la coscienza delle
tensione che animano l’ambiente esterno.
Dichiaratamente finto l’interno domestico costruito da Luana Perilli (l’impalcatura di legno che lo
sostiene è a vista). Un’immagine frontale (set, scenografia) con carta da parati, moquette, un
paio di mobili, piante da appartamento, mensole e alcuni souvenir: la venere di Milo insieme alla
testa del David e alla Pietà di Michelangelo. Le statue ridotte alla dimensione di piccoli oggetti
kitsch, animate da una videoproiezione, recitano la poesia di Boris Vian, Non vorrei crepare. Le
loro labbra pronunciano stupefacenti desideri, assurde curiosità, sogni, volontà sorprendenti…
“(…) non vorrei crepare prima di aver gustato il sapore della morte”.
Si intitola Ai caduti di oggi il lavoro di Gea Casolaro. Su uno schermo video che ha le misure
opportune per contenere l’immagine di un individuo, appaiono, in sequenza, foto di persone
ritratte di spalle (sono foto scattate per la strada a persone sconosciute all’artista) e scritte
diverse: “Pietro Novaldi 50 anni lavoratore edile caduto nella tromba di un ascensore di una
palazzina in costruzione”. Il testo scorre dal basso verso l’alto mentre l’immagine gradualmente si
dissolve sino a sparire. Trasmette il senso della perdita e risponde a un’esigenza di denuncia.
Al momento in cui scrivo l’opera degli Stalker non è ancora stata definita per intero. Fa parte del
loro modo di lavorare, fondato sul confronto tra i componenti del gruppo e sull’approccio a realtà
sociali difficili, per fare esperienza delle quali è necessario tempo e quotidiana frequentazione. Di
certo l’opera sarà dedicata alla cultura delle comunità Rom romane e alcuni dei loro esponenti
parteciperanno alla sua realizzazione. Sarà un intervento “politico” con lo scopo di dimostrare la
possibilità di un dialogo, vedremo come vorranno farne un’opera.
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