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Alfonso Balzico
Cleopatra
Emanuele Caggiano
Pane e Lavoro
figurina in bronzo, h cm 22,5x10x23 - firmata sulla base del letto a tergo: A. Balzico
1862
statua in marmo, h cm 120x95x61
Benevento, Museo del Sannio, in sottoconsegna dal Museo Nazionale di Capodimonte, 11/10/1956
Roma, Recta Galleria d’arte
La piccola scultura in bronzo rappresenta la regina egiziana
seminuda sdraiata su di una pelle di tigre, che fissa il serpente velenoso nascosto in un canestro di frutta, pronta ad affrontare la morte. Balzico dimostra grande perizia nel saper
utilizzare il bronzo per realizzare un piccolo capolavoro che
s’inserisce nel filone dell’orientalismo morelliano a Napoli.
Anche nelle piccole dimensioni, dunque, lo scultore ottiene
una sensualità ed una grazia che lo resero famoso nel suo
tempo, sebbene alcuni critici parlino di una “stucchevole
abilità”. La stessa tematica è ripresa nell’opera in marmo di
grandi dimensioni, conservata alla GNAM di Roma. A tal
proposito Vigezzi (Milano, 1932, p.126), che pure riconosce come splendido il nudo e bella la posa, scrive che la
“formosa donna sembra più in attesa di una fatica d’amore che
non della morte”. Per realizzare Cleopatra Balzico studiò attentamente l’arte egiziana nei Musei e riuscì così a scolpire
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le chiome divise in cento sottili trecce, le collane, i braccialetti, gli anelli, la tunica aperta ai fianchi e il cestino dell’aspide. Lo scultore era particolarmente contento della resa
della Cleopatra in marmo e avrebbe voluto inviarla all’Esposizione Universale di Parigi del 1901, ma la Commissione
nominata per esaminare le opere italiane, forse in seguito a
gelosie, scartò quel marmo e scelse il Flavio Gioia con grande dispiacere dell’autore. Ricordiamo che al Concorso Balzico fu comunque premiato con una medaglia d’oro.
Tonia Grassia
Opera inedita
Bibliografia del soggetto:
Trezza 1913; Vigezzi 1932; Bucarelli 1951; Langui 1962; Panzetta 1989; Grieco 1996; Grassia 2000; Napolib 2000; di Majo, Lafranconi (a cura di) 2006, p. 214.
Provenienza:
Acquisto DATA XXXX
Esposizioni:
XXXX
«Io l’ho riveduta la buona fanciulla che sempre lavora, e discinta e scalza come si leva di letto siede sopra uno scanno, e
non intende altro che al suo lavoro su cui tiene fissi gli occhi
e il pensiero. Ella è la figliuola di Emanuele Caggiano scultore, ed è una statua, e si chiama con un bel nome: Pane e Lavoro» (Settembrini 1879, vol. I, p. 467).
Questo l’incipit con cui Settembrini introduce una riflessione sull’opera scolpita nel 1862 da Emanuele Caggiano.
Luigi Settembrini, eminente figura di erudito, letterato e
uomo politico, più d’una volta nei suoi scritti si è soffermato
a discutere di opere d’arte presenti in città, con fini prevalentemente pedagogici e politici, più che stilistici. Le sue note al
proposito sono raccolte negli Scritti vari di letteratura, politica ed arte, dati alle stampe nel 1879: fra queste le pitture di
Donnaregina, il Tasso di Celentano, il Monumento dei Martiri e il Monumento a Dante, frutto quest’ultimo di un importante momento storico e di una commissione di rilievo
culturale.
Nel giudizio finale che il letterato dà dell’opera di Caggiano è racchiuso il motivo principale del suo interesse: «È
una statua che fa pensare. Che altra lode vorrebbe l’artista?» (ivi, p. 469). L’invito a riflettere offerto da un’opera
d’arte assolveva per Settembrini la principale funzione
dell’opera stessa, la trasmissione, cioè, di un portato didascalico e demagogico che potesse essere diffuso. È la stessa
posizione assunta in merito al Monumento a Dante, a cosa
quel monumento fosse in grado di insegnare e trasmettere.
Nel caso di Dante l’idea di un’Italia libera, laica e unita; in
Pane e lavoro scorgeva già nel solo titolo il potenziale educativo delle masse: insegnare «al mondo che il solo lavoro
dà pane e fa dolce il pane, e nobilita e santifica l’anima»
(ibid.); inoltre, «insegna all’artista che il solo lavoro dev’essere la sua speranza». L’ammonimento finale è ancor più
esplicativo; rivolgendosi al Caggiano, Settembrini chiosa:
«Insegna pure con l’opera tua agl’Italiani che il lavoro è la
loro forza e la loro speranza: e se hai cuore veramente, contentati di un tozzo, anche muffito – aveva notato una macchia del marmo proprio sul tozzo di pane - ma italiano»
(ivi, p. 469).
La scultura, che ottenne favorevoli riscontri (tra i quali il
giudizio positivo di Filippo Palizzi, in generale contrario
all’opera di Caggiano), fu tradotta in marmo per volere del
principe Oddone di Savoia ed acquistata dalle gallerie di
Capodimonte.
A questo punto, il progetto didattico sarebbe venuto meno,
il messaggio inascoltato, e poiché per Settembrini era ne-
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cessario diffondere quel «pensiero santo» e «ripetere al mondo, il quale stoltamente crede che il
lavoro sia una maledizione che Dio scagliò sul
capo dell’uomo», era quasi d’obbligo rifare la
scultura. «E l’ha rifatta con maggior cura e per
questo fine: e questa è sorella di quella» (ibid.).
Inoltre il letterato si augurava che Caggiano realizzasse tanti esemplari in gesso da mandare nei
vari educandati femminili.
Il secondo esemplare in marmo, eseguito per il
francese Boudillon (De Gubernatis 1889, p. 83),
fu esposto, insieme con una Frine dello stesso collezionista, al Salon des Beaux Arts di Parigi del
1876, dove ottenne una menzione d’onore e dove
Caggiano risulta registrato come allievo di Duprè
(Paris 1876, p. 391, nn. 3119 e 3120); l’opera,
che fu incisa e pubblicata da Goupil, fu riesposta
successivamente alla Royal Academy di Londra,
dove fu nuovamente premiata.
Tornando alla riflessione di Settembrini, nella
seconda parte fa una descrizione del soggetto,
sempre con quella particolare occhiata al valore
semantico e al potenziale didattico: «Se costei
non soffrisse, sarebbe bella e piacente: le sue
membra giovanili sono un po’ magre come di
colei che lavora, ma ben proporzionate e gentili:
in tutta la persona è diffusa quella bellezza che
nasce dalla bontà e produce amore casto e durevole» (ivi, p. 468). L’assimilazione dell’idea di
bontà e di bellezza proviene dalle posizioni puriste, assunte da Caggiano a contatto con Giovanni Duprè, durante il Pensionato Artistico fiorentino, del quale Pane e Lavoro fu il saggio
finale.
La bellezza giovanile eguagliata alla bontà d’animo trovava poi riscontro nelle posizioni conservatrici della borghesia ottocentesca e conferma
in tanta scultura italiana ed europea del tempo,
a cominciare dalla bartoliniana Fiducia in Dio.
Questo concetto filosofico di origine antica si ritrova anche nella posizione del letterato avellinese che volle ancora una volta sottolineare che: «A
vederla nuda il petto e le spalle e le gambe ed i
piedi voi non sentite alcun motivo lascivo, perché ella è tutta intesa a lavorare, non a parer bella: e quella nudità vi rivela che il pensiero suo sta
in altro, e trascura la persona» (ibid.).
A cosa sta lavorando la fanciulla? A una reticella.
Che farà di quella rete? Si innescano nel pensiero
educativo i concetti di devozione al prossimo:
«Ella non l’ha fatta per sé, per adornarne il capo
suo, dove ha un tesoro di molti e lunghi capelli, che
spesso sono la ricchezza delle povere fanciulle, ed
esse amano di mostrarli e farsene belle. Ella pensa
che la venderà e comprerà il pane […] pensa a qualche cara persona a cui vorrebbe dare qualcosa col
frutto del suo lavoro. A sé non pensa: e se guardate
nel cestino che le sta presso ai piedi e in cui elle ripone la lana, eccovi un pezzo di pane di cui ella è
contenta» (ibid.).
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A completare il quadro concorre l’idea dell’opera
pia, soccorsa dal crocefisso che la fanciulla indossa
al collo.
Pane e Lavoro di Caggiano rappresenta un unicum
nel panorama napoletano della scultura del suo
tempo, molto più vicina alle istanze della scultura
italiana coeva. A Napoli, infatti, sono pochissimi
gli echi romantici che si riflettono sulla scultura di
compromesso fra classicismo e naturalismo, addolcita, inoltre, da tangenziali idee puriste. L’Unità
italiana coincide nell’ex capitale borbonica con il
brusco passaggio da un attardato neoclassicismo (o
da un vivido nuovo classicismo di matrice ercolanese) alle questioni realiste e poi socialiste. La fanciulla di Pane e Lavoro, infatti, si avvicina maggiormente agli esiti centristi, non soltanto della cultura
del maestro Duprè e, in generale, dell’ambiente
toscano, ma anche a quelli del Nord Italia; si allinea alla Leggitrice di Pietro Magni, di pochi anni
precedente, ma all’epoca ancora attualissima, alle
opere di Monteverde (come lo Jenner) e preannuncia la Cieca Leggitrice di Salvatore Grita, sebbene
quest’ultima fosse il risultato di un connubio fra
classicismo quattrocentesco purista e una forma di
naturalismo più accentuato.
Risulta molto interessante, nel prosieguo della dissertazione di Settembrini, l’idea che il letterato, ora
nei panni del critico d’arte, si era fatta della scultura
del suo tempo: «Un tempo non si facevano altre
statue che di vecchi frati che si chiamavano Santi, e
di signori vestiti di ferro. Ai tempi nostri, quasi per
reazione, si fanno statue di donne nude provocanti
a lascivia, e non c’è scultore che non abbia fatte
nude la metà delle figure femminili da lui scolpite.
Ora il Caggiano vi rappresenta un’altra specie di
santi, che debbono convertire il mondo ad aver
fede nel lavoro delle proprie mani; ed è verecondo,
ed io vorrei che fosse sempre così, e lo chiamassero
lo scultore verecondo» (ivi, p. 469). La chiusa del
suo trattato è, come al solito, di natura politica, assumendo una posizione durissima.
«Egli porterà la sua fanciulla a Roma – nella città
che non ha vissuto mai di lavoro, ma di rapine, di
sportule, di limosine. Che ne diranno in Roma?
[…] Se Roma non è aria per lei, egli la porterà in
America, dove il lavoro è pregiato e dà il pane»
(ibid.).
Chi scrive ha rintracciato in una collezione privata
un inedito gesso patinato a imitazione del bronzo,
poco più grande della scultura in marmo, che si
pubblica in questa sede per la prima volta, e che
non si esclude possa essere il gesso originale del
Pensionato Artistico del 1862.
Isabella Valente
Bibliografia:
Settembrini 1879, vol. I, p. 465-46; Giannelli 1916, p.
533; Picone 1995, pp. 215, 260; Panzetta 2003, vol. I,
p. 238; Valente 2011, p. 155.
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