Introduzione La TV fa bene o fa male ai bambini?

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Introduzione La TV fa bene o fa male ai bambini?
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Introduzione
La TV fa bene o fa male ai bambini?
Un aspetto comune alle moltissime analisi di teorici e ricercatori
sul ruolo potenziale o effettivo dei mass media, e in particolare
della televisione, nei processi di influenza sul pubblico infantile è
l’inevitabile e appassionata discussione sui loro effetti positivi o
negativi. Questione che riguarda anche il pubblico adulto, ma che
nel caso dei bambini assume connotazioni di valore e posizioni ancora più estreme.
Una prospettiva ampiamente rappresentata considera la società, la cultura e le comunicazioni di massa come esito di un processo degenerativo, funzionale al soddisfacimento delle esigenze
di mercato, secondo strategie di vendita rivolte a un pubblico culturalmente e ideologicamente omogeneo. Le radici storiche e teoriche di questa prospettiva si possono far risalire alla cosiddetta
teoria “critica”, di matrice europea, che si identifica storicamente
nel gruppo di studiosi della Scuola di Francoforte. In quest’ottica
i mass media, e più in generale l’industria culturale, sono considerati forme di dominio nelle società altamente sviluppate; la ripetitività e la standardizzazione fanno della moderna cultura di massa un potente mezzo di controllo, essendo l’obiettivo dei mass media quello di ottenere la totale integrazione di un pubblico indistinto e diffuso. Alla denuncia di questa strategia di subordinazione del pubblico, perseguita e raggiunta dai mass media tramite effetti che si realizzano sui livelli latenti dei messaggi, fa da sfondo una concezione dei media stessi come agenti di legittimazione
delle visioni dominanti e di consenso acritico, secondo un progetto manipolatorio e repressivo.
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Nel consumo generalizzato di televisione, in particolare, sarebbe ravvisabile, oltre al pericolo di una progressiva omogeneizzazione culturale, una valorizzazione dell’“etica del consumo”. A
questo proposito Cashmore afferma:
La televisione fornisce una immagine del mondo in cui la vita, la libertà
e il perseguimento della felicità sono equiparate alla novità, al denaro ed
al bisogno del superfluo. [...] La televisione ha trasformato la cultura dal
suo interno, incoraggiando lo spostamento dall’etica del lavoro a quella
del consumo. Influenzando il gusto degli spettatori e facendo appello alle loro insicurezze, essa ha contribuito pienamente alla crescita della cultura del consumo, diventandone parte integrante .
Tra gli autori che assumono una posizione fortemente critica nei
confronti del mass media, Neil Postman evidenzia il conflitto che
si viene a creare tra la concezione tecnologica e quella tradizionale, che condurrebbe alla nascita del tecnopolio, definito come «tecnocrazia totalitaria», «assoggettamento di tutte le forme della vita
culturale alla sovranità della tecnica e della tecnologia», o «condizione culturale e mentale consistente nella deificazione della tecnologia». Tale condizione si verifica in una società quando la vita
istituzionale non basta più a gestire la cultura e, sopraffatta dall’informazione generata dalla tecnologia, cerca di servirsi della tecnologia stessa per trovare orientamenti e finalità. Un ulteriore pericolo del tecnopolio sarebbe rappresentato dallo svuotamento e
dalla banalizzazione dei grandi simboli tradizionali, principalmente a opera della pubblicità. Esisterebbe, infatti, afferma Postman, «in prossimità del nucleo centrale del tecnopolio [...] una vasta industria vestita del potere di usare tutti i simboli disponibili
per secondare gli interessi del commercio, divorando la psiche dei
consumatori» . In questo clima di scetticismo, agnosticismo, nichilismo, si inserisce la storia del tecnopolio che sostituisce il centro morale della cultura con l’efficienza, l’interesse e il progresso
economico, proponendo, in luogo dei simboli tradizionali, un modello di perizia tecnica e di “estasi del consumo” di cui la televisione è promotrice. Ai mezzi di comunicazione elettronici lo stesso autore attribuisce la causa della “scomparsa” dell’infanzia, il cui
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pieno riconoscimento culturale può essere fatto risalire all’avvento della stampa e al processo di alfabetizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi tre secoli .
La televisione sta eliminando la linea divisoria tra infanzia ed età adulta
in tre modi, tutti e tre in rapporto con la sua indifferenziata accessibilità.
Innanzitutto, perché essa non richiede un’istruzione per poterne comprendere la forma; in secondo perché non impone difficili questioni di
natura intellettuale o etica; infine, perché non separa gli uni dagli altri i
suoi spettatori. [...] La nuova dimensione comunicativa che ne deriva
fornisce a tutti simultaneamente le stesse informazioni. In queste condizioni, è impossibile che i mezzi elettrici riescano a nascondere alcun segreto. Ma senza segreti, una dimensione come quella dell’infanzia non
può più esistere .
I danni sociali conseguenti a una espansione del potere della televisione in termini di quantità di tempo assorbito, di influenza sui
comportamenti, di competizione con la famiglia e la scuola, di crescita abnorme di miti e divismi sono segnalati anche dagli autorevoli contributi di Karl Popper  e John Condry . Popper afferma
la necessità di introdurre una disciplina nel campo delle comunicazioni di massa basata sulla piena coscienza degli effetti sociali
della televisione, attraverso l’istituzione di un organismo di formazione e controllo degli operatori nel settore. A questi, afferma
Popper, dovrebbe essere conferita una “patente”, subordinata alla dimostrazione di una consapevolezza delle responsabilità educative nei confronti dell’audience e del rispetto delle potenzialità
evolutive e delle differenze individuali. Una parte notevole delle
responsabilità del cattivo funzionamento delle tradizionali agenzie di socializzazione, come la famiglia e la scuola, è, invece, a parere di Condry, attribuibile al sistema di informazioni e valori di
cui la televisione è portatrice.
La televisione è una ladra di tempo: deruba i bambini di ore preziose, essenziali per imparare qualcosa sul mondo e sul posto che ciascuno vi occupa. E questo sarebbe già abbastanza negativo. Ma la TV non è soltanto ladra: è anche bugiarda. Guardando la televisione i bambini vi scorgono una fonte ragionevole di informazioni sul mondo. Questo non è ve
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ro, ma loro non hanno modo di capirlo. Per quel po’ di verità che la televisione comunica, c’è molto di falso e di distorto, sia in maniera di valori che di fatti reali .
Ed è proprio l’esposizione alla televisione, affermano in molti, indipendentemente dai contenuti, a rappresentare un potenziale
danno per le menti dei bambini. Marie Winn utilizza ricorrentemente la metafora della televisione come droga: la televisione è un
«insidioso narcotico» che «oscura il mondo reale» e i bambini sono degli «zombie» che guardano la TV in uno «stato di trance». La
televisione – sostiene Winn – distrugge la capacità di pensiero intelligente, ritarda lo sviluppo intellettuale, indebolisce i sensi e favorisce la pigrizia mentale e fisica. Come effetto aggiuntivo la «dipendenza dal video» porterebbe a un isolamento sociale, togliendo al bambino spazio per il gioco con i coetanei e per la partecipazione alla vita familiare .
Una concezione della televisione e della sua funzione sociale
riconducibile all’ipotesi dei powerful mass media  è quella della
teoria della coltivazione (cultivation theory) formulata da George
Gerbner e dai suoi collaboratori.
La formula ripetitiva dei messaggi e delle immagini televisive prodotti in
massa costituisce la principale componente di un ambiente simbolico
comune a tutti .
Questa teoria si incentra sul contenuto televisivo quale elemento
che convoglia idee e norme relative al comportamento e alle relazioni sociali: la televisione presenta ai bambini un’immagine coerente della realtà tramite programmi che esercitano la loro influenza secondo un processo di apprendimento cumulativo.
Una posizione sostanzialmente contrapposta a quella fin qui
delineata assegna ai media, e alla televisione in particolare, una
funzione di agente della modernizzazione e della democrazia. In
quest’ottica, come già diversi autori hanno evidenziato , la società
industriale “di massa” è caratterizzata da un processo di democratizzazione politica, sociale e culturale a cui i media contribuiscono proponendo a tutti le stesse informazioni e sollecitazioni
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culturali. La cultura d’élite, e con essa i vecchi privilegi goduti da
pochi di contro all’ignoranza e all’isolamento di molti, perde la sua
centralità grazie anche alla creazione di una opinione pubblica più
informata e consapevole. I mass media, quindi, e in modo particolare la televisione, pur a scapito della qualità dell’informazione,
sono visti come artefici di processi che favoriscono la partecipazione e l’integrazione sociale.
A questa posizione si può ricondurre anche la tradizione di ricerca nordamericana applicativa, detta anche “amministrativa”,
che si caratterizza per lo studio di fenomeni circoscritti con procedimenti quantitativi e tecniche standardizzate di raccolta, misurazione e analisi dei dati. In quest’ottica i media sono mezzi “neutrali” che operano in un contesto pluralistico.
In una prospettiva largamente favorevole ai mass media e alla
loro diffusione si inscrivono due studi pionieristici, sul rapporto tra
televisione e bambini, considerati ormai “classici” nel settore: quello condotto da Hilde Himmelweit  nel  e quello diretto da
Wilbur Schramm , in collaborazione con Lyle e Parker, nel .
Le due ricerche, svolte in due realtà differenti, quella britannica e
quella nordamericana, presentano interessanti convergenze in relazione al ruolo attribuito all’audience infantile nell’uso e nella gestione del mezzo televisivo. Sin da queste prime ricerche, alle quali, purtroppo, non hanno fatto seguito molti altri lavori che si distinguessero per la coerenza, la sistematicità e l’ampio respiro teorico, sono riconosciute l’importanza e l’unicità del processo di
comprensione e “costruzione” da parte del bambino. Lo stimolo
televisivo è uno fra i tanti e si inserisce in un sistema di aspettative,
motivazioni, competenze individuali e sociali. Ai bambini si riconosce un ruolo attivo nelle esperienze in cui sono coinvolti, e non
sono considerati contenitori vuoti in attesa di essere “riempiti” dai
contenuti televisivi. A questo proposito osserva Wilbur Schramm:
In un certo senso il termine “effetto” è fuorviante poiché suggerisce che
la televisione “fa qualche cosa” ai bambini. Si vorrebbe con ciò dire che
la televisione è quella che agisce e i bambini sono quelli su cui agisce; i
bambini, così, sono considerati relativamente inerti, e la televisione relativamente attiva. I bambini sarebbero vittime sedute, che la televisio
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ne assale. Nulla è più distante dalla verità: sono i bambini ad essere più
attivi in una tale relazione; sono piuttosto i bambini che si servono della
televisione che non viceversa .
L’ottimismo degli studi di Himmelweit e Schramm, condotti negli
anni Sessanta, sembrerebbe difficilmente trasponibile all’analisi
dell’attuale condizione, caratterizzata da elevati livelli di esposizione al mezzo televisivo e da contenuti dei programmi spesso violenti e inadeguati al pubblico infantile. Tuttavia a questi autori è senza
dubbio ascrivibile il merito di aver affermato la necessità di tenere
nella dovuta considerazione la personalità e l’esperienza sociale dei
bambini, così come hanno fatto determinati approcci che hanno
consentito il superamento di alcune premesse che avevano caratterizzato la ricerca sui media nella prima metà del secolo scorso.
Per lungo tempo lo studio degli effetti era, infatti, rimasto legato a un modello in cui il processo comunicativo era considerato:
– asimmetrico, con un soggetto attivo che emette lo “stimolo” e
un soggetto passivo che reagisce allo “stimolo” da cui è colpito;
– individuale, riguardante i singoli soggetti e da studiare su di
essi;
– intenzionale, poiché il comunicatore mira a ottenere un determinato effetto;
– episodico, con una limitazione temporale dei singoli episodi
comunicativi ed effetti isolabili e indipendenti.
Questo paradigma si è profondamente modificato passando
dall’analisi degli effetti “a breve termine” a quella degli effetti “a
lungo termine”. La ricerca non si è focalizzata più sui singoli casi,
per lo più campagne di propaganda elettorale o pubblicitarie, ma
ha utilizzato metodologie integrate e complesse di analisi del processo attivo di ricostruzione della realtà sociale che l’individuo
compie all’interno del contesto socio-culturale in cui vive. Il tipo
di effetto analizzato è di natura cognitiva, relativo ai sistemi di conoscenza che l’individuo assume e struttura stabilmente a seguito
del consumo di comunicazioni di massa. Si evidenziano l’interazione e l’interdipendenza dei molteplici fattori che entrano in gioco nel processo di influenza, legittimando una via di ricerca interdisciplinare.
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L’approccio ai media si caratterizza così per un interesse allo
studio degli effetti in senso più ampio, sulla base sia di una considerazione del modo in cui l’audience organizza e struttura la percezione del mondo, sia di una concettualizzazione degli “effetti
cognitivi” che va al di là dei tradizionali modelli di conoscenza e
include la percezione della realtà, la salienza dell’argomento, il
mantenimento dell’informazione, la discriminazione del messaggio e così via .
Negli ultimi anni, inoltre, la ricerca psicologica e psico-sociale
ha riaffermato il ruolo attivo del soggetto nell’elaborazione dell’informazione e, sulla base delle formulazioni teoriche di autori
come Henry Tajfel  e Serge Moscovici , ha posto l’enfasi sui processi sociali di costruzione della realtà, rappresentando un significativo punto di riferimento anche per gli studi sulle comunicazioni di massa. Il costruttivismo sociale e il paradigma delle rappresentazioni sociali suggeriscono, infatti, una prospettiva di analisi
della comunicazione, anche di quella che vede i mass media protagonisti, in senso bidirezionale e simmetrico. La televisione è un
mezzo che invia immagini, parole e suoni a un pubblico che attivamente interpreta e rielabora i messaggi, ricavandone autonomamente il significato . La prospettiva costruttivista  sostiene
che la realtà fisica è trasformata in realtà psicologica, a seguito di
un processo di interpretazione del materiale grezzo dell’esperienza, basato sull’interazione e sulle specifiche caratteristiche e competenze individuali, che porta alla costruzione sociale della realtà.
Ogni persona utilizza gli stimoli fisici disponibili, l’apparato fisiologico
umano, i sistemi di elaborazione dell’informazione e gli schemi interpretativi derivanti dalla sua cultura per interagire con il mondo, e dargli
significato, momento dopo momento, giorno dopo giorno, per ogni
esperienza. Da questo punto di vista, l’interazione con la televisione e
con i suoi contenuti non differisce da tutte le altre esperienze della vita.
Tutti gli spettatori costruiscono i significati di programmi e pubblicità,
creati da persone che hanno usato la tecnologia e il proprio sapere anzitutto per dare significato al contenuto .
Le attività di elaborazione, interpretazione e valutazione delle
informazioni sono quindi processi costruttivi interconnessi e inter
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dipendenti piuttosto che indipendenti e sequenziali. La costruzione della realtà si basa sul comune contatto con certi stimoli e sulla
condivisione culturale degli strumenti conoscitivi e di interpretazione dei messaggi. Il paradigma costruttivista approda quindi al
concetto di “rappresentazione” della realtà, intesa come insieme di
elementi di esperienza selezionati e considerati significativi in base
all’attribuzione di senso da parte degli attori sociali .
La ricerca più attenta ai contesti e alle interazioni sociali dei riceventi e che descrive l’efficacia della comunicazione come risultato di un complesso di molteplici fattori approda, osserva Mauro Wolf, a un rovesciamento di prospettiva teorica passando dalla domanda «che cosa i media fanno all’audience» alla domanda
«che cosa il pubblico fa con i media». Il rovesciamento di prospettiva si basa sull’assunto «che anche il messaggio più potente
dei media non può di solito influenzare un individuo che non ne
faccia uso nel contesto socio-psicologico in cui vive» .
Questa nuova prospettiva dà origine a un filone di analisi specifico, direttamente e significativamente influenzato dal paradigma funzionalista, noto come ipotesi degli “usi e gratificazioni” .
«L’effetto delle comunicazioni di massa – afferma Wolf – è inteso
come conseguenza della gratificazione ai bisogni sperimentati dal
ricevente; i media sono efficaci se e quando il ricevente attribuisce
loro tale efficacia, sulla base, appunto, della gratificazione dei bisogni» . La fonte delle gratificazioni che il destinatario ricava dai
media può essere sia il contenuto del messaggio, sia l’esposizione
al mezzo, sia la particolare situazione comunicativa legata a un dato mezzo.
Gli studi basati sul paradigma di ricerca degli “usi e gratificazioni” si possono far convergere in tre fasi temporalmente distinte.
Una prima fase, intorno agli anni Quaranta e Cinquanta, si caratterizza per la presenza di lavori prevalentemente di tipo descrittivo. Una seconda fase, intorno agli anni Sessanta, comprende una
serie di ricerche volte all’analisi dei bisogni che si presume medino
i modelli di fruizione dei media. I lavori a partire dal decennio , riferibili a una terza fase, sono maggiormente esplicativi della relazione tra il consumo dei media e la formulazione sistematica
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dei bisogni sociali e psicologici e della relazione tra i modelli di gratificazione cercati e ottenuti e gli effetti dei media.
Sebbene siano state rivolte molte critiche a questo paradigma
di ricerca per la tendenza «ad accentuare un’idea di un’audience
come insieme di individui scissi dal contesto e dall’ambiente sociale che invece modella le loro stesse esperienze, e quindi i bisogni e i significati attribuiti al consumo dei diversi generi comunicativi» , l’ipotesi degli “usi e gratificazioni” ha favorito la nascita di moltissimi studi che hanno posto l’enfasi sull’audience “attiva”, prendendo in esame il modo in cui i bisogni del pubblico trovano “gratificazione” nell’“uso” dei mass media.
I modelli analitici del costruttivismo e degli usi e gratificazioni
hanno il merito di descrivere la relazione tra contenuti televisivi e
bambino come un processo in cui quest’ultimo è parte attiva e non
un oggetto “esposto a uno stimolo”. Nei due modelli la comprensione degli effetti è possibile solo sulla base della conoscenza delle caratteristiche individuali del soggetto e delle motivazioni alla
base dell’ascolto. In tale ottica il contenuto televisivo può avere un
potere di influenza solo in relazione alla significatività e utilità che
esso ha per il soggetto: non esistono gli effetti, ma i bambini che li
determinano.
In Italia, un reale interesse da parte di studiosi e ricercatori per
l’incidenza della televisione nella vita dei bambini risale all’inizio
degli anni Ottanta, in relazione alla radicale trasformazione del sistema televisivo determinata dalla diffusione e dal consolidamento
dell’emittenza privata. Seppure con ritardo rispetto a una tradizione internazionale consolidata di studi e ricerche sugli effetti della
TV, promossi in gran parte da prestigiose associazioni governative
e private , si registra nel nostro paese una crescente attenzione nei
confronti degli effetti della televisione sui bambini, in particolare
in relazione a temi di grande interesse sociale come la violenza, e i
comportamenti di consumo indotti dalla pubblicità e gli stereotipi
socio-culturali veicolati dalla rappresentazione televisiva dei sessi,
delle minoranze etniche, delle diverse fasce d’età e così via.
Generalmente l’orientamento prevalente è stato di “demonizzazione” del mezzo televisivo, a cui si sono addebitati una riduzione delle capacità creative del bambino, l’acquisizione di mo
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delli di comportamento aggressivi e violenti, uno scarso rendimento scolastico, un impoverimento dei rapporti sociali. Questo
approccio è assimilabile a un punto di vista semplicistico e superato, ricorrente e ciclico, che ha visto negli anni avvicendarsi i diversi mezzi e generi (fumetti, cinema, radio, computer, nippo-cartoons) sul banco degli imputati, come se i media agissero nel “vuoto” sociale e non all’interno di contesti educativi, sociali e ambientali. D’altra parte, come osserva Renato Porro,
non si tratta evidentemente di adottare aprioristicamente un approccio
assolutorio. Più semplicemente appare indispensabile superare e rifiutare definitivamente un approccio, un modello interpretativo di “causa-effetto”. Questo si presenta infatti troppo elementare per poter comprendere una realtà fortemente complessa e del tutto inadeguato a individuare possibili strategie della politica mediale .
Un sapere conoscitivo oramai consolidato, che si basa su un significativo patrimonio di acquisizioni frutto di oltre mezzo secolo
di ricerche sul tema in ambito internazionale, può consentire di
superare l’infondato convincimento che la comunità scientifica
non sia in grado di fornire indicazioni condivise e accettate, seppure non del tutto esenti da alcuni elementi contraddittori . In
quest’ottica Mario Morcellini afferma la necessità di accostarsi a
questi temi senza pregiudizi e di valutare serenamente l’influsso
della televisione sui processi di socializzazione e di costruzione
dell’identità culturale dei bambini. In un testo dal titolo eloquente, La TV fa bene ai bambini, l’autore cerca di «rovesciare in positivo» la sindrome apocalittica, l’«ideologia della disgrazia», ponendo in risalto alcuni tra i risultati più significativi della ricerca
scientifica degli ultimi anni.
Anzitutto una prima constatazione: il consumo televisivo da
parte del piccolo telespettatore avviene sulla base di scelte determinate e consapevoli, e questo rappresenta un buon indicatore di
competenza televisiva. Un consumo ridotto di televisione, a causa
dell’ampliamento dell’offerta e della diversificazione dei consumi
di altri prodotti culturali, tra i quali l’uso delle tecnologie multimediali e di internet, evidenzia una capacità attiva da parte del
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bambino di fruire del prodotto televisivo come di uno tra i tanti
prodotti culturali, facendogli perdere quella centralità che ha avuto in passato. Inoltre, la TV non è una cattiva maestra, come ha sostenuto Popper, poiché il consumo di televisione non distrugge la
curiosità intellettuale dei bambini che sono diventati teleutenti
smaliziati e competenti, più degli stessi adulti.
Una posizione per così dire intermedia è quella di alcuni autori che considerano la televisione come fonte al tempo stesso di
stimoli e di pericoli potenziali, tra i quali la passività e la dipendenza dal video. I bambini, considerati i soggetti più deboli nella
comprensione, interpretazione e ricostruzione del messaggio televisivo, devono essere messi in grado di possedere una serie di conoscenze sul mezzo, su come esso veicola frammenti di realtà e finzione e su come questi due mondi possono sovrapporsi e confondersi . Come sostiene Marina D’Amato, facendo suo un pensiero di John Condry, anche se la televisione non ha conseguenze dirette sui bambini, li aiuta a «pensare il mondo». È quindi indispensabile mettere i bambini in condizione di capirne e valutarne
i contenuti, vista la quasi impossibilità di valutare gli effetti non
solo individuali ma anche collettivi .
Anche altri autori, riferendosi ai nuovi media, hanno messo in
evidenza come il processo di socializzazione nei soggetti in età
evolutiva, che avviene attraverso l’assunzione di informazioni e
modelli comportamentali provenienti da fonti culturali eterogenee, non sia esente da lati oscuri . È quindi necessario valutare
l’impatto della comunicazione multimediale nei processi formativi del «bambino di fine millennio», come sostengono anche pedagogisti e sociologi .
Un approccio consapevole dei rischi ma anche delle opportunità può essere il più produttivo nell’ottica di un superamento delle posizioni estreme in senso sia positivo sia negativo. Nonostante
le diversità di valutazione degli effetti delle comunicazioni di massa, queste posizioni hanno in comune la tendenza ad attribuire ai
media una funzione centrale nel rapporto con la società, tenendo
in scarsa considerazione la mediazione di una molteplicità di fattori individuali e sociali. Come evidenzia Gianni Losito, sia per la
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posizione “apocalittica” sia per quella “apologetica” il potere dei
media è sostanzialmente illimitato e il pubblico è costituito da individui che fruiscono e “subiscono” solitariamente i messaggi veicolati dai mass media .
Il superamento della contrapposizione tra le diverse posizioni
può avvenire solo a partire da un’ottica di possibile integrazione
di riferimenti teorici e approcci disciplinari differenti. È necessario, quindi, trovare un punto di incontro tra le varie prospettive,
considerando che ogni soggetto, anche in giovanissima età, costruisce il significato in maniera autonoma in relazione ai differenti contenuti, ai suoi bisogni e interessi e alle sue caratteristiche
personali e socio-culturali, sebbene tale processo avvenga, spesso,
in un “ambiente simbolico comune a tutti” costituito dai messaggi e dalle immagini televisive.
Note
-.
. E. Cashmore, ... And There Was Television, Routledge, London , pp.
. N. Postman, Technopoly. The Surrender of Culture to Technology, A.
Knopf, New York  (trad. it. Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia,
Bollati Boringhieri, Torino , p. ).
. Molti autori hanno analizzato l’evoluzione storica del concetto di infanzia nell’Occidente. Cfr., tra gli altri, P. Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime, Plon, Paris  (trad. it. Padri e figli nell’Europa medievale moderna, Laterza, Roma-Bari ); Id., The Family and the City, in “Daedalus”,
Spring , pp. -; M. J. Chombart De Lauwe, Un monde autre: l’enfance.
De ses représentations a son mythe, Payot, Paris  (trad. it. I segreti dell’infanzia e la società, Armando, Roma ); L. de Mause (ed.), The History of
Childhood, Condor Book, London  (trad. it. Storia dell’infanzia, Emme Edizioni, Milano ); A. Oliverio Ferraris, Determinanti storico-sociali dell’individuo, Cortina, Milano .
. N. Postman, The Disappearance of Childhood, Delacorte Press, New York
 (trad. it. La scomparsa dell’infanzia, Armando, Roma , pp. -).
. K. Popper, Una patente per fare TV, in K. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione, a cura di F. Erbani, I libri di Reset, Donzelli, Roma , pp. -.
. J. Condry, Ladra di tempo, serva infedele, ivi, pp. -.
. Ivi, p. .
. M. Winn, The Plug-In Drug, Penguin, Harmondsworth .
