La lunga notte dell`Iguana
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La lunga notte dell`Iguana
librivolanti 5 riccardo bruni La lunga notte dell’Iguana isbn 88 901145 4 1 © 2004 Editrice effequ Orbetello Disegno di copertina di Daniele Marotta Prologo ROMA, 2034 d.C. Un punto di inizio. L’Iguana mi sta aspettando. Sono finito in mezzo a una guerra tra bande e l’unico modo per uscirne vivo è trovare quei documenti. Trovarli prima del mio nemico. Il serbo lo ha sguinzagliato sulle mie tracce: il Pitbull lavora per lui. Un punto di inizio. Bombay, il quartiere indiano. Una stanza all’hotel Sahil. Luminescenze bluastre attraversano il cielo. Un profondo senso di isolamento mi avvolge. Un’entità transeunte da un non luogo a un altro. Senza evoluzioni. Seguo un’orbita priva di centro, come il satellite impazzito che lascia il suo percorso per affidarsi al cosmo. L’universo mi appare nella sua incompiutezza, mentre il fumo del serpente danza raccogliendosi in forme psichedeliche sopra la mia testa. L’Iguana mi sta aspettando, e con lui la fine di questa storia. Aki. Il viaggio nelle periferie esterne mi porterà ancora più lontano dal nucleo, ai confini più estremi dell’agglomerato. I pensieri si confondono in un magma sempre più liquido. «A quanto pare non perdi le vecchie abitudini». I «Goooodmorning pezzo di merda!». La voce di Duffy Duck schizzò fuori dalla videosveglia. Il mio Qd aveva raggiunto il livello 8, e adesso che ero ufficialmente un Pessimista non avevo più bisogno di cercare un motivo per alzarmi dal letto a un’ora prestabilita. C’era chi me lo aveva trovato. Così, mentre l’anatra continuava a vomitare volgarità sul mio conto, aprii gli occhi e iniziai a fissare la finestra. Il paesaggio montano, con il sole che risplendeva sulla neve delle Dolomiti. Adoro i condizionali, pensavo. Dovrei alzarmi, potrei cercare di non essere sempre così di cattivo umore. Le cose andrebbero in maniera diversa se solo provassi a essere più propositivo. Allungai la mano e soffocai la videosveglia: Fuckduck! Il suono del bosco. Uccelli e acqua che scorre tra le rocce. Me lo aveva consigliato un tizio, mentre stavo in fila all’Ipermerkato: «Un risveglio piacevole, le assicuro» mi aveva detto. Soltanto una cosa ancora non funzionava: l’odore. Per quanto mi sforzassi di utilizzare i filtri connessi all’impianto paesaggistico, c’era ancora nell’aria quel sapore di artificiale, freddo, a ricordarmi che dietro quell’immagine avrei trovato il fumo, le auto, la gomma bruciata, i cartelloni pubblicitari della Cubacola con il ritratto di Che Guevara incorniciato nel deprimente slogan ‘Rivoluziona la tua sete’. Erano le 7,50. La mia seduta del giovedì con il professor Sigmund Freud era fissata per le 8,05. Al Drp, il Dipartimento recupero pessimisti, erano convinti dei vantaggi che un regolare bioritmo mattina-pomeriggio-sera avrebbe apportato agli iscritti del programma di recupero. Erano convinzioni basate sul peggior prodotto del nostro secolo: il buonsenso. Quella serie di idee, che risulta da una brodaglia di consigli della nonna e intuizioni populistiche, era il vero pensiero unico, e dato che la maggioranza degli italiani credeva nell’alzarsi presto per ossigenare il cervello, il Presidente si alzava presto per ossigenare il cervello e anch’io dovevo alzarmi prima delle 8 per ossigenare la mia poltiglia grigia. Tutto considerato, la deriva collettiva della nostra era avrebbe potuto essere il risultato di una diffusa sovraesposizione all’ossigeno. Mi appostai sul divano con una tazza di bicarbonato e digitai la password sulla tastiera, che avevo recuperato sotto il cuscino. Lo schermo si accese ed entrai nel Network. Chiamai in visione i messaggi, compreso quello del Drp che mi avrebbe ricordato la seduta e mi avrebbe fornito i codici di attivazione. Primo messaggio. Un uomo incredibilmente capelluto sorride e inizia a parlare. «Il 75 per cento degli italiani ha dichiarato di preferire la cute per capelli Omegaquattro, facilmente ossigenabile. La cute Omegaquattro è la superficie ideale per i vostri capelli, ed è anche il prodotto di estetica preferito dal nostro Presidente, che non ha dubbi: se avesse bisogno di una chioma artificiale, chiederebbe aiuto a Omegaquattro. Perché tu ancora non la usi?». Una donna bellissima gli passa una mano tra i capelli solleticandogli l’orecchio con la lingua. L’uomo riprende a parlare. «Preferisci somigliare a una palla da biliardo? A lei non piaceresti davvero». Secondo messaggio. Una ragazza compare a mezzobusto mentre si palpeggia il seno nudo. «Non accontentarti di un qualsiasi seno rifatto. Il 65 per cento delle donne italiane dichiara di affidarsi solo e soltanto a Beautiful dream per i ritocchi sul proprio corpo». L’inquadratura si allarga e accanto alla ragazza due giovani si stanno baciando. Lui palpeggia il seno alla sua fidanzata, poi si volta e vede quello della ragazza che ha parlato prima, ancora nuda. E a questo punto il ragazzo butta via la fidanzata e inizia a palpeggiare il seno della protagonista dello spot che riprende: «Beautiful dream è la gamma di prodotti e interventi a prezzo popolare più amata dalle donne italiane. E dagli uomini. Perché non ci pensi? Cosa c’è di meglio di esibire un bel seno?». Terzo messaggio. Un uomo dai lineamenti asiatici inquadrato a mezzobusto. «Notizie del giorno. Aumentano i volontari del soccorso stradale, e il Presidente, in visita al centro della Croce rossa italiana, ringrazia tutti i giovani che trascorrono il loro tempo libero dedicandolo agli altri». Parte il servizio, primo piano di un ragazzo biondo e dallo sguardo rassicurante. «Io credo nella mia famiglia, e so che a mamma e papà non dispiacerà se passo più tempo fuori casa, perché lo faccio per loro». Campo lungo su una piazza piena di giovani. A questo punto il volto del Presidente, mentre parla sorridente con i suoi piccoli occhi neri. «E poi, la sua famiglia siamo tutti noi». Torna l’asiatico e prosegue con le notizie. «Arrestati 20 clandestini, oggi impareranno la lezione. L’indice di gradimento per il nostro notiziario è del 92 per cento, siamo felici di piacervi. Grazie, alla prossima edizione». Affondai le labbra nel bicarbonato, nella debole speranza che potesse aprirmi un buco nello stomaco dove poter sprofondare. Quarto messaggio. Un uomo anziano ma in ottima forma, in camice bianco. «I Pessimisti stanno diminuendo. Il Drp sta producendo risultati molto incoraggianti. Cresce il numero dei cittadini recuperati a un Quoziente di dissidenza 9, a un passo dal Crimine politico. Il Sistema funziona». Compare la scritta Allegato personale. Torna l’uomo con il camice bianco. «E a tale riguardo, caro cittadino, ti ricordo della tua seduta di analisi che inizierà tra cinque minuti». Quinto messaggio. Solo audio, schermo bianco. «Ciao Fargo, sempre vivo? Sono il tuo angelo custode, e ho un lavoro per te. Stasera, al Planet». Era Prisco? Lo riascoltai. Era Prisco. Possibile? Sesto messaggio. Una ragazza vestita da collegiale, con i capelli biondi raccolti in due trecce. «Solo la pornografia di Xroom per te, che vuoi solo corpi perfetti e garanzie di legalità». La ragazza si passa una mano sotto la minigonna. «Xroom, accendi il tuo proiettore olografico, indossa il tuo cyberslip, e sarà come la realtà». Primo piano con un piccolo leccalecca vicino alle labbra rosse. «Anzi, meglio della realtà». Prisco, non sapevo più niente di lui da un sacco di tempo. Settimo messaggio. Due donne, una delle due molto abbronzata, sedute su un divano. Quella dalla pelle più chiara dice all’altra «Hai un colore favoloso, cara, non sai quanto ti invidio, io ho sempre meno tempo per dedicarmi alla mia lampada». La donna abbronzata si volta e sorridendo risponde «Da quando ho scoperto Bronzarella non ho più bisogno di sottopormi alla lampada». Primo piano della donna che si porta un piccolo flacone di pillole accanto al volto scuro. «Bronzarella. Una compressa prima di dormire per un’abbronzatura tutta da invidiare». Fine messaggi. Staccai e cancellai tutto. Mandai giù quel che rimaneva del bicarbonato, mi distesi sul divano e accesi il proiettore olografico. Il fascio di luce si compose accanto a me, proprio sopra il tavolino, nella figura del professor Sigmund Freud, comodamente seduto sulla sua poltrona di pelle in perfetto stile secolo scorso. Il professore Freud si aggiustò gli occhialetti e mi chiese di raccontargli la mia giornata di ieri. Era soltanto un programma, disegnato sulla base di vecchie fotografie e motion capture digitalizzati con un attore, per rendere i movimenti più fluidi. La sua funzione era raccogliere informazioni e immagazzinarle da qualche parte, in attesa che un secondo programma, stavolta direttamente controllato dal Drp, esaminasse il mio Quoziente di dissidenza, il mio Qd. Tutto questo per un’intervista che un dipendente di Johnny Live, il conduttore di Stasera a casa mia, mi aveva fatto all’uscita di un pub. Erano cose che facevano spesso, praticamente il Network si reggeva sulla voglia di chiunque di vedersi trasmesso là dentro. Così la programmazione si basava sulla “gente comune” che parlava del più e del meno. Che aveva sempre un’opinione su tutto. Oltre alla vendita di spazi pubblicitari, il meccanismo della Democrazia in diretta, attraverso il quale il pubblico sovrano esercitava il suo potere, aveva anche un’altra funzione, voluta e finanziata dal Governo. In pratica il Drp monitorava tutto ciò che veniva trasmesso per individuare eventuali argomenti di dissidenza. E dato che come tutte le strutture del Sistema anche il Drp doveva quotidianamente dimostrare la propria indispensabilità, dichiarazioni come quella che rilasciai io, in gran parte suggerito da un’allegra banda di Hellboy, erano immediatamente utilizzate per il calcolo del Qd. In quell’occasione, platealmente ubriaco, proposi al pubblico del Network uno spunto di riflessione, sostenendo che non era il Governo ad adeguarsi in base ai sondaggi, ma i sondaggi ad adeguarsi alle decisioni governative per farle passare come iniziative volute dai cittadini. Grazie a quella bravata passai da un Qd di 6, rimediato con altri brillanti spunti di riflessione proposti in passato, a un Qd di 8. Fatto sta che avendo superato la soglia del quoziente 7, ero diventato un Pessimista, e questo significava che se avessi combinato qualcosa di neanche troppo grandioso, tipo sottrarmi ancora una settimana a Stasera a casa mia, il programma più seguito di tutto il Network, sarei diventato un criminale. Il programma si collegava direttamente con le case degli italiani che lo seguivano, per parlare dei cazzi di chiunque. Microscopiche tragedie di casalinghe e parentadi dispersi. E chi non apprezzava Johnny Live era per forza di cose una “testa calda”, uno che non apprezza questo stile di vita, questo modello di società basata sul “divertimento”. Era un Pessimista, appunto. Fino a diventare, a livello 10, un Dissidente, l’autore del peggior crimine che il Sistema potesse concepire, e per il quale era previsto un lungo programma di recupero, in carcere, curato dal Dipap, il Dipartimento preventivo antiterrorismo della polizia. Qualcosa di terrificante dal quale uscivano in pochi. Niente a che vedere con le mie patetiche sedute di analisi. Freud stava recitando le formule di rito. La sua liturgia comprendeva una prima parte in cui era pubblicizzata la Statebenefratelli, la compagnia che aveva in appalto la gestione dei servizi assistenziali per Pessimisti depressi sulla cattiva strada. E una seconda dedicata al Presidente, con la sua faccia serafica che fluttuava nell’aria accanto al padre della psicanalisi. Quello era il momento in cui mi occupavo mentalmente delle cose alle quali pensare ogni tanto. Tipo controllare l’impianto di automatizzazione dell’appartamento, dato che la lavastoviglie aveva già iniziato a dare i primi segnali di precarietà; controllare il frigo, dato che ormai non facevo la spesa da un paio di settimane e mi ero ritrovato a mangiare da due giorni pane a lunga conservazione e maionese; e segnarmi da qualche parte l’appuntamento per la sera al Planet. Già, il Planet. Il mio angelo custode preferito, come recitava il messaggio audio, era un tizio, Prisco, che non sentivo da quasi due anni. Lo conoscevo da una vita, e avevo lavorato per lui già diverse volte, ma quando il suo Qd era arrivato a 10, lo avevo visto prelevare dal nucleo operativo del Dipap. Mi trovavo a pochi metri da lui, con una serie di documenti che avevo inseguito per settimane, ma non trovò neppure il tempo di pagarmi la parcella. Poi, dopo tutto quel tempo, mi aveva mandato quel messaggio. Ed era una prospettiva sicuramente più allettante degli ingaggi da fame che avevo rimediato negli ultimi tempi: Prisco era uno che pagava bene. «Un investigatore privato deve sapersi valorizzare» avrebbe ribadito con orgoglio il vecchio Tad. Ma l’era romantica in cui il maestro aveva esercitato la professione era lontana anni luce, e non mi sembrava ci fosse rimasto molto da valorizzare in quello straccio buttato sul divano di fronte al professor Freud. «E quando si è accorto che i piatti all’interno della sua lavastoviglie erano ancora sporchi, cosa ha pensato?». La voce sintetica dell’ologramma perseverava in quel tono di viscido paternalismo di cui era infarcito tutto quanto. Io pensavo a Prisco, il mio angelo custode. Un boss a capo di un’organizzazione che fino a poco tempo fa aveva in mano buona parte dell’agglomerato. Non gli andava a genio il Sistema, ma la Dissidenza era stata solo il modo più immediato per incastrarlo. Teneviki, dicevano in Russia: uomo ombra. Quel termine indicava chi operava nell’ambito della Seconda economia, quella illegale, sommersa. Quella che governava tutto. E un giorno, dalla sua lunga schiera di nemici, il destino ne aveva estratto uno che, con una soffiata, gli aveva prenotato un soggiorno a pensione completa nell’esclusivissimo villaggio vacanze curato dal Dipap. «Ho pensato che era ora di riguardare il mio impianto di automatizzazione, professore». Ma non sapevo chi fosse stato a giocargli quello scherzo, e non ero sicuro che lo sapesse neppure Prisco. Comunque, il proprietario del Planet, Minkya Mouse, come lo chiamavano nell’ambiente, apparteneva alla sua organizzazione, e se il messaggio fosse stato uno scherzo, di cattivo gusto, era sicuramente la persona giusta a cui chiedere spiegazioni. «E per quale motivo ha sostituito il paesaggio marino con le Dolomiti sull’impianto paesaggistico della sua camera da letto? Una recrudescenza di quel suo senso di disagio?». Mi specchiai nel bicchiere. Avevo gli occhi rossi e un aspetto da schifo: «Avevo voglia di cambiare, di guardare a domani con uno spirito migliore. Ricominciare a vivere di nuovo con interesse verso la società». Questo amaro colpo di genio avrebbe dato una bella spinta al mio Qd. Infatti, dopo che il professor Freud si dissolse, alla fine della seduta andai a pescare il mio tesserino identificativo dal portafoglio, e dopo averlo osservato per alcuni minuti, vidi scomparire il numero 8. Il cittadino Andrea Berardi era di nuovo a 7: ancora un Pessimista, ma sulla via della guarigione. Cercando di impegnare il tempo fino all’appuntamento del Planet in modo più o meno utile, decisi di fare un giro all’Ipermerkato, per piazzare nel frigo qualcosa che si accordasse con l’unico residuo di materia commestibile presente nel mio appartamento: un barattolo di maionese. Decisi di fare due passi, la cattedrale del consumismo era abbastanza vicina a casa, nella zona della Piramide. L’Ipermerkato si era proposto, qualche anno fa, come il modello vincente dell’economia di consumo. Un’enorme struttura all’interno della quale trovare tutto. E questo tutto era ordinato seguendo i criteri espressi dalla bibbia del commercio: lo Studio sulle teorie del consumo di massa a cura del Dipartimento tutela dei consumatori. In pratica, per tutelare la libertà di scelta dell’individuo, l’ordine di scaffalatura era affidato alla legge della domanda e dell’offerta, in base alla quale la ditta che avrebbe offerto un maggior contributo alla formula dell’Ipermerkato si sarebbe aggiudicata i centri strategici all’interno della struttura, guadagnando così una posizione estremamente favorevole per bombardare il cliente a forza di coercizioni sorridenti e spietate. La libertà dell’individuo, nello studio dipartimentale, era toccata soltanto in via teorica. E teoricamente, più il mercato fosse stato in grado di condizionarne le scelte, più il consumatore avrebbe dovuto ritenersi libero. Con il risultato che il cittadino era orgogliosamente libero di non scegliere. Di non pensare. Presi un carrello vicino all’ingresso e scelsi dal display un’identità femminile. «Gentile cliente sono lieta di accompagnarla. Le ricordo soltanto che il nostro dispositivo antifurto si attiverà non appena la mia parte anteriore varcherà il cancello dell’Ipermerkato». Mi piaceva quella voce, avevo un debole per lei. Nel piazzale dal quale si diramavano i vari corridoi settoriali, si trovava un ologramma di circa due metri. Era il volto di una ragazza, con gli occhi da gatto gialli e neri, che roteava su se stesso mentre una voce da bimba sull’orlo dell’orgasmo ripeteva: «Apri gli occhi, con le lenti a contatto Deltavisu». Imboccai verso il settore precotti, attraversando il reparto bibite con la faccia di Che Guevara moltiplicata all’infinito sulle bottigliette di Cubacola. Rivoluziona la tua sete. Alla terza confezione di hamburger al curry il carrello mi rimproverò: «Dovrebbe pensare a inserire nella sua dieta una maggiore quantità di fibre, le consiglio le Verdure saporite di zia Ortolana, nel sottosettore 3» disse. Selezionai l’automatico e il carrello mi accompagnò nel regno di zia Ortolana. Seguendo i consigli della mia identità carrello femminile mi organizzai per una dieta molto più equilibrata di quella che seguivo abitualmente. Ma appena intravidi sul display a infrarossi l’entità del conto che stavo accumulando, grazie ai preziosi consigli di quella perfetta donna di casa a quattro ruote, svoltai per la cassa. Alla prima fila era il turno di un tizio piuttosto basso, con pochi capelli e un bel paio di baffoni neri. Non aveva preso molta roba e dietro aveva soltanto una bionda sull’ottantina, curva come un manico d’ombrello e con la pelle carbonizzata dalle lampade solari vecchio tipo. Il tizio con i baffi estrasse dal carrello una scatola di carciofini sottolio. La cassiera la prese, la passò sul sensore e disse: «Lei sa che questa confezione fa parte dell’offerta treperdue?». «Cioè?» le rispose lui. «Cioè lei può prenderne tre confezioni e pagarne soltanto due». Il tizio con i baffi fissò la sua scatola di carciofini sott’olio, poi riprese a parlare con un’aria disorientata: «Vede, non saprei cosa farmene di tre scatole di carciofini sott’olio, preferisco prenderne una sola». La cassiera appoggiò i carciofini sul bancone: «Mi spiace signore, ma questa confezione può essere acquistata solo all’interno dell’offerta treperdue, e non singolarmente». Il tizio con i baffi mutò espressione. E si fece serio. «Mi dia i miei carciofini». «La prego di non insistere, signore, nello scaffale accanto c’è un’altra marca di carciofini, e quelle confezioni possono essere acquistate singolarmente». Il cliente, a quel punto, iniziò a urlare. Afferrò il carrello e lo issò per aria. E anche il carrello a quel punto iniziò a urlare: «Mi metta giù, gentile cliente, sarò lieto di accompagnarla per i suoi acquisti, e a tale proposito mi permetto di ricordarle che il mio dispositivo di antifurto...». L’identità carrello fu interrotta. Il tizio con i baffi lo lanciò addosso al proiettore olografico della pubblicità delle lenti a contatto, distruggendolo. La ragazza con gli occhi da gatto scomparve. Mi allontanai dalla fila e aprii una confezione di patatine al formaggio per gustarmi meglio la scena. «Io voglio i miei carciofini hai capito? Ma vivo da solo brutta stronza, mia moglie è scappata con l’istruttore di body jump style e non so cosa cazzo farci con tre confezioni di merdosissimi carciofini». Era piuttosto alterato, ma lo capivo. Neppure io sopportavo le offerte. E non c’è niente di peggio che sentirsi presi per il culo e non poterci fare niente lo stesso. I carciofini dell’altra marca, che si trovavano nello scaffale accanto, costavano esattamente il doppio di quelli che il tizio con i baffi aveva preso. Per questo motivo, e solo per questo, potevi prenderne una sola confezione. Sullo schermo che si trovava sopra la cassa comparve l’immagine del direttore dell’Ipermerkato, seduto alla scrivania del suo studio con l’immagine del Presidente alle spalle. «Mio caro cliente, mi spiace per il disguido e ti assicuro che farò tutto il possibile per rimediare. Adesso, per favore, avvicinati all’uscita, in modo da permettere agli altri clienti di pagare il loro conto. Ti raggiungerò il prima possibile». «Va bene, ma voglio i miei carciofini e voglio pagarne soltanto una confezione, chiaro?». Il tizio con i baffi indietreggiò verso l’uscita. Tutti gli altri lo fissavano. Io li vidi arrivare per primo. Ma solo perché sapevo come funzionava. Il braccio meccanico sfondò l’intera parete a vetri dell’Ipermerkato, trasportando all’interno quattro agenti della Polizia in assetto da guerra. Ognuno indossava i rinforzi, strutture in lega che li rendevano simili ai giocatori del vecchio football americano. Completi di casco e avambracci in ghisa. Erano le squadre d’assalto: i gorilla. Saltarono addosso al tizio con i baffi colpendolo con le spranghe. E in pochi secondi lo avvolsero in una rete di metallo, lo agganciarono al braccio meccanico e una volta risaliti sopra, uscirono dall’Ipermerkato. Tutto questo, per una scatola di carciofini sott'olio. A garanzia del consumatore. Era una bella serata, comunque. Una bella serata invernale, e a volte passeggiare per Roma è piacevole. Arrivato a casa sistemai la spesa nel frigo senza neppure togliermi il giaccone. Era ora di andare al Planet. Presi l’auto, una Volks-aderente. I modelli gravitazionali non erano durati molto: gli amanti del volante preferivano le vecchie gomme, il cambio con le marce e i pedali. Ma forse qualcosa sarebbe cambiato con la prossima serie: a quanto pareva il nuovo modello si sarebbe alzato fino a dieci metri da terra. «Fargo, hai una gran faccia di merda a presentarti qui soltanto quando senti puzza di soldi». Minkya Mouse, il proprietario del Planet, era un uomo piuttosto grasso, con la faccia piccola e un naso appuntito come il becco di un tucano. Un vero schifo. Fargo, nell’ambiente, ero io. «Sei senza cuore» gli dissi. «Non farmi vomitare. Al terminale 7 c’è un messaggio per te, sai da parte di chi. Se hai voglia, già che ci sei ti faccio caricare un programma da urlo. Una ragazzina con un leccalecca che...». «Tieniti la ragazzina, e dammi un Hellboy». «Non ti piacciono le mie ragazzine?». «E’ l’idea di eccitarmi con qualcosa che ti riguarda che non mi piace». Presi il bicchiere e andai verso il Corridoio, il lungo salone dove si trovavano i terminali del Planet. Ma prima di arrivare, attraversai l’intero locale. Da qualche tempo il mio senso di non appartenenza a pressoché tutto ciò che mi circondava iniziava a farsi opprimente. Era per questo motivo che utilizzavano quella parola, Pessimista. Guardavo negli occhi quei trogloditi, scolpiti dagli stimolatori muscolari, impomatati e viscidi come lumache, che ballavano ondeggiando all’unisono, come un prato privo di intenzioni mosso dal vento. Avevano il solo scopo di piacere. A me, non piacevano. La musica era come al solito un martellante susseguirsi di nenie per minorati mentali. Tutto era diventato dannatamente semplice, e noi Pessimisti avevamo iniziato a rendercene conto da tempo. Nei film la trama era sempre più esile, più semplice, altrimenti il pubblico si perdeva. La storia veniva sostituita da interminabili inseguimenti, o da scene di sesso, o da esplosioni e cose di questo tipo, che catturavano l’attenzione del pubblico senza richiedere un eccessivo sforzo di comprendonio per seguirne la storia. Per la musica era la stessa cosa. Gli ultimi testi che avevano un senso risalivano al secolo scorso. Ciò che sopravviveva di cantautori come Fabrizio De André era la riproduzione tripdance di quelle vecchie canzoni: tormentoni che ripetevano all’infinito le prime tre strofe di un ritornello triste e decontestualizzato. «Appropriarsi anziché proibire» era il motto della Demenza collettiva indotta, perché in questo modo avrebbe prodotto inglobati anziché disobbedienti. E se non ti fosse bastato il ritornello della Guerra di Piero, incastrato in un demenziale susseguirsi di impulsi ritmici, se non ti fosse bastato Stasera a casa mia, allora voleva dire che eri un rompicazzi, che non ti piaceva vivere come tutte le sacrosante persone normali che consultano un sondaggio per sapere cosa pensano. Arrivato al terminale 7 affondai nella poltrona e infilai il casco. Era un messaggio registrato. La brutta faccia da mezzonegro di Prisco mi apparve dopo due anni, e così mi ritrovai piantati addosso quegli occhi grandi ma come al solito costretti in una scadente imitazione di Rubin Carter. Prima di parlare, però, si sciolse in un sorriso che mi restituì quello che in un certo senso avrei potuto definire un amico. «Ciao campione, ho bisogno di te. Ho ricevuto un messaggio, me lo manda un certo Rak. E’ un hacker, di quelli bravi. Stava facendo un lavoretto, per conto suo. Non ne so niente, ma forse è interessante, e voglio sapere di cosa si tratta. La solita tariffa, più le spese, più quel piccolo saldo che ti devo per l’ultimo lavoro che hai fatto per me. Devi scusarmi se non mi sono fatto vivo, c’è voluto un po’ per capire come sono andate le cose, e ora so chi mi ha fregato. Ma non c’è problema, da dove sono adesso mi sto riorganizzando. Ti lascio un numero, contattami soltanto con terminali portatili, e solo con chiamate vocali, per ora: viaggiano più velocemente e sono più difficili da tracciare per i loro programmi guardian. Spero di sentirti presto». Il messaggio ha un allegato: un ragazzo con i capelli rossi e blu che parla velocemente: «Prisco se ti arriva questo messaggio vuol dire che qualcosa è andato storto. Ho programmato il chip della microcamera per mandartelo e se lo stai vedendo vuol dire che non ho avuto più occasione di deprogrammarlo. Ma la buona notizia è che se mi stai guardando, il chip è salvo. E i documenti che ci sono dentro anche. Ti costeranno un po’, e spero di essere io a riscuotere. Ti faccio un nome, anzi, due: Calvani e Zebra». Fine del messaggio. Mi appuntai il numero di Prisco sul mio terminale portatile, il tep. La faccenda era seria, ma dovevo avere una conferma. «Pronto?» la voce di Prisco mi sembrò subito molto stanca. «Un angelo custode non dovrebbe scomparire per due anni». «Ciao campione. Dammi un brivido, dimmi che ci stai. Ma fallo alla svelta perché non possiamo rimanere troppo a parlare». «Dove ti trovi? Qualche spiegazione me la devi, no?». «Sono al sicuro». «Questo te lo auguro, ma le ultime notizie sul tuo conto ti davano al sicuro nel reparto di massima sicurezza per i Dissidenti». «Già, ma c’è stata un’escursione non autorizzata. Una di quelle notizie che il Network di solito lascia perdere. Sto riallacciando contatti importanti, campione, e ti rivoglio nella mia squadra». «Così dovrei fidarmi di un messaggio registrato e di una chiamata audio». «Qualche problema?». «Sì, da quando mi hanno detto che Babbo Natale è una fregatura mi sono fatto piuttosto sospettoso». «C’è un anticipo sul conto che dovrebbe farti passare qualche dubbio». «Vedremo. Per il momento voglio una conferma, anzi due: Ersilio Calvani e Goran Zebratovich?». «Sì. E’ Zebra che me l’ha messa nel culo, campione, adesso vorrei preparargli una bella festa». «Mi faccio vivo io». Brutta storia. Ersilio Calvani era un politico. Goran Zebratovich, detto Zebra, un boss. Stavo mettendo insieme le informazioni giocherellando con il mais tostato sul bancone. La prima intuizione che mi si presentò in testa, oltrepassando la densa cortina prodotta dal terzo Hellboy ordinato a una delle conigliette di Minkya Mouse, riguardava proprio Zebra. Era cresciuto all’interno dell’organizzazione di Prisco, prima curandone i rapporti con il suo clan di origine, una famiglia serba che operava nel sud Italia e cercava agganci nella zona intorno a Roma, poi, appoggiato da un potentato russo che lo usava come testa di ponte per i suoi affari italiani, diventando un vero e proprio luogotenente dell’organizzazione romana all’interno della quale fece confluire una parte di quella serba. E quando il mio angelo custode venne accompagnato al gabbio, lui fece il grande salto, e si prese il controllo di un gran numero di imprese, appalti e situazioni che gestiva Prisco. Non era l’unico ad averlo fatto. Erano almeno in tre gli ex apostoli dell’angioletto che si erano spartiti la sua carogna. Con Zebra, c’erano Testarossa e Achille Brega. Quest’ultimo, però, si era spostato verso l’estremo sud dell’agglomerato, dove aveva sistemato una serie di centrali per lo smaltimento dei rifiuti urbani. Perciò, in città ne rimanevano due: Zebra e Testarossa. A questo punto il quadro era piuttosto chiaro: il serbo era quello che aveva mandato dentro il mio angelo custode, e, nel tentativo di un’ulteriore espansione, era entrato in contatto con Calvani. Per quale tipo di affare? E cosa c’entrava Rak? Ritornai al terminale 7 e feci una breve ricerca. L’onorevole Ersilio Calvani aveva collezionato una bella serie di incarichi, tra i quali quello di team manager della Commissione di vigilanza sulla concessione di spazi nel Network. Quindi, Zebratovich voleva il Network. Sapevo che una sua società, l’Osiride, già controllava una piccola quota della produzione di In cucina con nonna Elvira, un programma piuttosto seguito, ma evidentemente aveva voglia di mettere su qualcosa di più grosso. E per quello gli serviva Calvani. Adesso rimaneva da chiarire cosa c’entrasse quel Rak e di quali documenti fosse entrato in possesso. Un hacker. Sempre al terminale 7 cercai informazioni su di lui e scoprii che era un tizio piuttosto famoso: uno di quei netmaster che aprivano finestre private per trasmettere materiale poco gradito alla Commissione di tutela per la salvaguardia della veridicità e della dignità umana. In pratica, Rak era uno degli eredi dello spirito che regnava nel vecchio Internet. Da qualche parte avevo segnato un po’ di codici per ricercare quel materiale sul Network, così riuscii ad entrare in un server pirata dove, tra una gran quantità di roba, trovai un gruppo di ragazzi che impartiva lezioni di elettronica. In quel momento stavano spiegando come sbloccare un comune terminale domestico e aumentarne le capacità di ricerca. Entrai nel menù interattivo e rimandai dall’inizio la lezione. A presentare il programma c’era lui, Rak. La produzione aveva il logo degli Indiani Metropolitani, un gruppo di hacker che si rifacevano a un movimento culturale della metà del secolo scorso. Un qualcosa che aveva imperversato negli anni d’oro, i settanta, in un locale che si chiamava La Bussola. Intorno al 2030 gli IM erano stati parte dei sioux: oppositori del sistema emersi dai centri sociali clandestini. Non appena il movimento raggiunse dimensioni ragguardevoli, e portò a termine un paio di operazioni, se ne occupò il Dipap. I sioux divennero tutti entusiasti iscritti al Programma di recupero, mentre i centri sociali clandestini ripresero a ospitare quelle loro abituali forme di controcultura talmente sclerotizzate, e corrose di Cubacola, da essere addirittura tollerate dal Sistema di controllo. Ma la notizia migliore, semisoffocata dal quinto Hellboy che avevo appena finito di buttare giù, era che sapevo dove si trovava uno dei centri dal quale furono prelevati alcuni sioux. E là dentro avrei potuto trovare informazioni sugli IM e su Rak. Era il momento di fare una visita alla Riserva. Ma a mani vuote sarebbe stato piuttosto rischioso. Così tornai al mio appartamento e mi misi in tasca la Browning. Le semiautomatiche del secolo scorso erano ancora i colleghi più affidabili. Avevo saputo di un tale, un ragazzotto che ripuliva gli appartamenti nella zona della Prenestina, che era stato trovato morto, mezzo sbranato dalle pantegane, con accanto la sua pistola elettronica, dalla quale proveniva una voce gentile che continuava a ripetere: «Il sistema operativo della sua arma da fuoco ha compiuto un’operazione sbagliata e dovrà essere riavviato». Infilai nel giaccone anche una mezza bottiglia di Jack Daniel’s. Il vecchio Tad mi avrebbe scaricato un colpo della semiautomatica sul ginocchio, se mi avesse visto in quelle condizioni. Ma il mio maestro non era lì, e nel posto in cui si trovava avrebbe avuto senz’altro di meglio da fare che perdere il suo tempo con le mie sbronze. Buttai giù un po’ del whisky, ma quando arrivai alla porta dell’appartamento inciampai in qualcosa, completamente ubriaco, e persi i sensi fino alla mattina dopo. Quando riaprii gli occhi trovai i vetri della bottiglia che si era frantumata proprio davanti a me. La Browning ancora in tasca. Mentre un pazzo scatenato mi era entrato in testa e aveva iniziato a prendermi a calci il cervello. Bicarbonato. Programmai la termodoccia in posizione verticale a temperatura piuttosto bassa. Due bottigliette di Cubacola. E quando iniziai a digerire tutto l’alcol che avevo bevuto, svuotandomi lo stomaco in maniera piuttosto rumorosa, mi buttai sotto la doccia. L’impatto termico fu devastante. Mi ci volle un’ora per riportarmi in condizioni di precaria lucidità. Non era il modo migliore per rapportarmi a un nuovo ingaggio, ma sarei arrivato in Riserva in pieno giorno, e conoscendo i centri sociali clandestini, e la quantità di droghe empatogene che ne erano consumate all’interno, non avrei trovato interlocutori molto più in forma di me. Avevo un aspetto orribile. Il lavoro era iniziato. La Nuova periferia industriale era cresciuta dalle parti dell’Eur, estendendosi fino alla costa e mangiando tutto ciò che c’era da mangiare. Stabilimenti enormi, gettate di cemento. Un deragliamento urbano grigio e incrostato dallo smog. Nella Zona ovest i fabbricati si facevano più fitti. Magazzini, strutture per la trasformazione dei materiali urbani, tossici. Discariche in piena regola, molte in mano all’organizzazione di Testarossa. Era una zona piuttosto scomoda da raggiungere, così lasciai l’auto dalle parti della Magliana e presi la metro. Camminare in mezzo a tutta quella gente era una delle poche cose che riusciva ancora a darmi un certo senso di libertà. L’indifferenza cresce, in quelle situazioni, in maniera proporzionale all’affollamento, e ti rende un puntino quasi impercettibile in una distesa di altri puntini uguali. Libero dal vicino che controlla la quantità della tua spazzatura, dal Network che ti chiede di partecipare a un sondaggio. Libero da chi studia i tuoi gusti, i tuoi movimenti, i tuoi acquisti, la tua salute. Libero da chi cerca di capire per quale motivo sei triste. Libero da chi ti chiede di essere un buon consumatore in cambio dell’offertona di Natale. Libero di essere niente. Era come attraversare una città sotto la città, con un universo di disadattati e piccoli criminali che era sempre pronto a dissolversi non appena le linee entravano nelle stazioni del nucleo, dove la polizia organizzava i suoi presìdi. Affrontai quelle poche fermate seduto da una parte, di fronte al pannello semovente della Grandicrociere, dove una hostess con una goccia di sudore che le scendeva in mezzo alle tette ti invitava a bordo per un Dolce su e giù tra le onde. All’uscita della metro trovai una zingara che stava rosolando un grosso topo, su un piccolo fuoco acceso in un bidone. La donna aveva la bocca bruciata, senza labbra, e i suoi denti carbonizzati uscivano in fuori come una manciata di sassi. Forse un laser, pensai. Sapevo quale edificio cercare: un investigatore privato ha comunque amicizie che dicono un sacco di cose se ricattate con metodo e dedizione. Dopo una serie di vicoli, inforcati tra quei colossi di cemento armato, in un infittirsi di sottopassaggi sporchi e maleodoranti, arrivai a una piccola entrata sul retro. Una minuscola porta di ferro. Là dentro c’era la Riserva. Avrei potuto trovarci di tutto. Di solito quel genere di sovversivismo adolescenziale recluta ragazzini dalla seconda vita, figli di famiglie sicure, quanto a Qd. Ma qualche nostalgico del periodo sioux avrebbe potuto tirare fuori dal proprio repertorio comportamentale qualche numero piuttosto violento. Era rischioso, ma l’acconto che Prisco mi aveva versato era quel genere di argomento che riesce a essere straordinariamente convincente. E d’altronde, io ero un Pessimista, e se ancora potevo esibire un porto d’armi e svolgere le mie funzioni di agente privato, lo dovevo soltanto alla lentezza pachidermica di alcuni reparti del Sistema, che con una piccola gratifica riescono a rallentarsi ancora di più. Per cui dovevo aggrapparmi a quell’ingaggio che alla fine dei conti era l’unica prospettiva che avevo. Dovevo entrare là dentro, raccogliere informazioni su Rak e uscire fuori con la velocità di uno spermatozoo. Era in situazioni come quella che gli insegnamenti del vecchio Tad si facevano utili, e le parole del maestro mi tornavano alla mente con estrema lucidità. «Sii veloce come il vento, lento come la pianta, aggressivo come il fuoco e immobile come la montagna, inconoscibile come lo yin e irruente come il tuono». Il vecchio Tad aveva elaborato la sua strategia investigativa basandosi sull’Arte della Guerra di Sun Tzu, un maestro di tattica militare infarcita di filosofie orientali vissuto qualche secolo prima di Cristo. E anche se interpretare quelle parole per trarne un consiglio strettamente pragmatico e circostanziato era piuttosto difficile, anche se in pratica non avevo capito come mostrarmi inconoscibile come lo yin mi avrebbe aiutato a portare tutte le mie ossa intatte fuori da quel buco, il conforto altisonante di quelle lezioni era imprescindibile. Ma “veloce” e “irruente” sapevo cosa significassero. Aprii la porta ed entrai, con la mano sinistra a pronta disposizione e la destra in tasca ben avvolta attorno alla Browning. L’idea era di sfoggiare un’aria sicura e in un certo senso familiare al posto, dove in realtà non ero mai entrato. Ma i centri sociali clandestini erano tutti uguali, e di solito il cuore di quei posti era adibito all’assunzione degli empatogeni, sostanze che, secondo chi ne faceva uso, riuscivano a mettere in comunicazione extrasensoriale i consumatori, che si riunivano metafisicamente in un trip collettivo. L’idea di coesione di unità come evoluzione dell’essere-individuo era tipicamente un concetto della Dissidenza, ma in quanto legato al consumo di droghe che avevano nell’immediato l’effetto di incenerire materie cerebrali, era più o meno sopportato dal Sistema, almeno fin quando non si fosse tramutato in una Teoria. Questo distingueva l’uso che ne veniva fatto nei centri sociali clandestini, perché lì dentro gli empatogeni non erano soltanto un modo divertente per passare la serata. No, erano Teoria. E questo contravveniva al primo comandamento della Demenza collettiva indotta: «Divertitevi, non pensate». Per questo motivo la pelle di rospo, che precipitava in uno sballo individuale, aveva conquistato nella coscienza di massa l’immagine di droga vincente, mentre le sostanze empatogene, consumate in gruppo e tendenti al collettivismo, erano considerate da sfigati. Ogni valutazione che si trovava nella coscienza di massa era, ovviamente, indotta dai mezzi di propaganda del Sistema. Dal Network. Comunque, se avessi avuto fortuna, avrei trovato il modo di risolvere la situazione prima di addentrarmi nel cuore della Riserva. La porta di metallo dava su un luogo completamente buio. Strategicamente un’ottima soluzione per avere qualche secondo di vantaggio sugli intrusi ancora accecati dallo sbalzo di luminosità. Ma non trovai guardiani a ricevermi. Dopo pochi passi, però, una volta riacquistata la vista, mi accorsi di alcuni movimenti provenienti da oltre una porta che si apriva sulla destra a pochi metri da me. E quando mi trovai proprio all’altezza di quella porta, mi si presentarono di fronte due tizi. Uno era ammantato con una vecchia bandiera del Che, l’altro sprofondava la faccia nei colori dell’Internazionale islamica. «Chi cazzo sei» disse quello in tenuta sudamericana. L’idraulico, il tecnico dell’impianto di automatizzazione e il presidente degli Stati Uniti erano risposte sbagliate. Lo sapevo per certo, ogni volta che le avevo usate mi erano costate un prolungato dolore allo stomaco. Ma dovevo essere veloce, aggressivo, inconoscibile e irruente. «Duffy Duck» e con la sinistra mirai al naso di quello che aveva parlato, estraendo con la destra la nove millimetri che piazzai sotto la gola del filoislamico. Il primo si accasciò per terra, tamponandosi il naso spaccato con la bandiera del guerrigliero. L’altro sgranò gli occhi in preda al panico. «Stai zitto ragazzino non fare casino» dissi al naso rotto. Ma quello continuava a blaterare ad alta voce cose prive di significato, obbligandomi a scaraventargli un calcio in testa per fargli perdere i sensi. Ma non li perse, e continuava a strisciare lamentandosi, a bassa voce, lungo il corridoio. «Ascoltami attentamente – dissi all’altro – voglio Rak, di voi due non me ne frega niente, ma finché non avrò Rak continuerò a farvi del male». «Rak non c’è, non si fa vedere da un po’. Non lo so dove sta». Quel modo di parlare, confuso e veloce, confermava quanto fossi stato inconoscibile e irruente. «Dimmi come si chiama e dove posso trovarlo o ritocco i connotati anche a te». «Non te lo posso dire, il subcomandante mi spacca il culo se te lo dico. Signor Duffy Duck del cazzo». L’islamico raccolse l’ultimo frammento di sfrontatezza. «Al tuo culo è comunque riservato un triste destino, ragazzo, perché anche a me piace da impazzire romperli. Non so se mi spiego. E se devo andare a cercare informazioni qua dentro, non posso certo lasciarti qui a chiamare aiuto. Capisci vero?». Gli infilai la canna della Browning in bocca, e appena assaggiò quel sapore di piombo, il guerrigliero per la libertà degli islamici si sciolse come una caramella al mou. «Si chiama Marko Posta, abita nella zona di Testaccio, in una traversa di via Branca mi sembra, c’è uno stabile che si chiama la Fenice. E’ una specie di comune urbana, tutto regolare». «Bravo ragazzo. Ma se vado lì e non lo trovo torno con saldatore e fil di ferro. E ti faccio un lavoretto da vero artista. Ci siamo intesi vero?». «Sì» sospirò con l’ultimo filo di voce prima di scoppiare in lacrime. Quello era ciò che rimaneva dei sioux: consumatori di Cubacola e di qualche droga leggera, perfettamente controllabili, che assolvevano all’utile compito di offrire argomenti validi a chi chiedeva fondi e leggi repressive per tenerli a bada. Non mi sentivo in colpa per avergli rotto il naso e qualche dente. E adesso avevo un nome, un indirizzo e la confortante consapevolezza di essere abbastanza inconoscibile. Quei brevi momenti di violenza mi avevano se non altro fatto dimenticare i postumi delle mie bevute al Planet. Così, appena ripresa la Volks, decisi di fermarmi al Warner Village per riportare a un livello accettabile il mio colesterolo. E appena uscito dal parcheggio, mi accolse il gigantesco cartellone semovente dell’ultimo film della serie 007. James Bond era un eroe del secolo scorso. Sean Connery lo aveva interpretato per primo. Ma a quell’attore, uno scozzese alto e dallo sguardo penetrante, era seguita una lunga serie di tizi che con lui non avevano niente a che fare. Era un caso noto, un argomento di studio per i frequentanti di Mitopoiesi novecentesca. Non che ne sapessi qualcosa, ma è quel genere di informazioni che rimedi dopo qualche notte passata con una studentessa di lettere che ha voglia di parlare di sé. James Bond era diventato oggetto di interesse proprio per i ripetuti cambiamenti di volto, che avevano abituato il pubblico a un personaggio inteso come un marchio. Tanto che il James Bond che adesso campeggiava sul cartellone dell’ultimo film, Operazione: Gatto meccanico, era interpretato da una certa Mami Chapman, una ragazza caraibica con un corpo da pin-up. E nessuno aveva detto una parola. Nessuno si era mai accorto dell’evidente contraddizione. Il personaggio rimaneva lo stesso, soltanto che adesso nelle scene di nudo, in pratica il sessanta per cento del film, faceva tutto un altro effetto. Presi il mio hot dog con salse e una pasta di frittume che sapeva di pesce. E zavorrato da un cartone da mezzo litro di birra senza alcol, l’unica che servivano al Warner Village, strappai il biglietto per guardarmi Operazione: Gatto meccanico. Era la storia di James Bond che per qualche motivo si trova in Antartide, e inizia a sparare con un enorme bazooka. Poi, dopo un inseguimento di 20 minuti, finisce in un albergo con una lesbica e iniziano a leccarsi come due gatte in calore. Ma James Bond commette l’errore di lasciarsi incatenare al letto con un paio di manette di cuoio, al che è costretta a utilizzare un particolare raggio laser, sprigionato dal piercing che ha sul clitoride, per liberarsi e uccidere la sua lecconemica scaraventandola dalla finestra. A questo punto un’astronave di ballerini bulgari cybermodificati atterra nella piazza di fronte all’albergo, costringendo James Bond a fuggire su una moto gravitazionale vestita soltanto con un asciugamano da bidè, che lascia intravedere le delicate rotondità posteriori scoperte dal vento. Poi una serie di esplosioni, e James Bond che finisce il film su una barca in Polinesia, ricominciando a fare la gatta con un’indigena e un giovanotto abbronzato. Gli spettatori erano entusiasti. Tornai alla Volks in preda a una crisi depressiva con un secondo cartone di birra analcolica, nella quale, però, avevo rovesciato una bustina di frittume al pesce come rifiuto personale di quell’insopportabile idea di pomeriggio salutista, che vietava alcol e sigarette e permetteva Operazione: Gatto meccanico. Testaccio era ancora il quartiere degli artisti. Tra i piccoli teatri alcuni erano cresciuti, trasformandosi in teatri-pub, altri erano scomparsi. Uno era rimasto sempre il solito, senza cambiare neppure una sedia. Era il Petrolini, dedicato a un attore di tanti anni fa. L’ingresso si trovava in una traversa di via Branca, dietro un vecchio cancello di ferro, in fondo a una piccola discesa. C’ero passato spesso da quelle parti, non perché avessi un particolare talento per la recitazione, né per un particolare trasporto emotivo verso quelle rappresentazioni estreme, alle quali era sottoposto un pubblico che di rado raggiungeva le dieci persone. Il vero motivo si chiamava Naimi, una balinese di sedici anni. Rimasi qualche istante intrappolato in quei ricordi, avvolti da quel suo profumo dolciastro. Mi appoggiai alla ringhiera del cancello e osservai la porta del piccolo teatro underground, senza alcuna voglia di scendere giù. Poi mi voltai sulla sinistra: c’era una porta con un grosso volatile disegnato sopra. Questa volta non era per Naimi che ero arrivato fin là. Stavolta c’era una Fenice di mezzo. Stavolta c’era Rak. Ormai calava il buio, e osservando i nomi sul videofono mi chiusi il colletto del giaccone attorno al collo. C’era anche lui, Marko Posta. Suonai. Prevedendo che non rispondesse nessuno, mi ero portato dietro un craccatore per le serrature elettroniche. Era un buon attrezzo, costoso. D’altronde, il rapporto qualità prezzo rispecchiava in maniera abbastanza fedele quello delle serrature, anche perché in buona misura era la stessa compagnia che vendeva ai condomini e ai ladri la merce prodotta negli stessi magazzini. Presi la scatoletta e la avvicinai alla serratura. Non appena si attivò lo scanner all’altezza della fessura dove infilare la scheda personale del condomino, il craccatore iniziò a ricercare la sequenza numerica per aprire la porta. Dopo pochi secondi entrai. Era un palazzo vecchio e umido. Ma non ero solo. In fondo all’ingresso, oltre la rampa che partiva a pochi metri da me, riconobbi immediatamente i movimenti veloci di qualche topo. E da quelle parti erano grossi. Estrassi la Browning e tesi entrambe le braccia. Adesso nel silenzio riuscivo a percepire persino lo sgocciolio dell’umidità che si condensava sui pannelli dell’impianto di automatizzazione condominiale. Poi, una di quelle bestie schifose saltò fuori dal buio. Quasi un metro di pantegana schizzò verso di me con la bocca aperta. Fortunatamente avevo inserito sulla nove millimetri il silenziatore. Così, quando il cervello di quella bestia si riversò sulla rampa di scale, lasciando il corpo senza testa ancora in preda alle contrazioni elettriche, nessuno si accorse dello sparo. Era comunque meglio darsi una mossa. Infilai in tasca il ferro del mestiere, saltai la carcassa grigia e presi per il terzo piano. Arrivato di fronte all’appartamento di Posta appoggiai appena l’orecchio sulla porta. Era un hacker, quel tipo di persona che di solito ha scarsa dimestichezza con le armi, e la possibilità che avesse una pistola spianata contro l’uscio di casa era piuttosto remota. E francamente era piuttosto remota anche l’eventualità che si trovasse in casa. O almeno, che si trovasse in casa vivo. La criminalità organizzata era la bestia nera di quei ragazzi: come ci finivano in mezzo, difficilmente ne uscivano. Avvicinai il craccatore al display della serratura. Ma già sapevo che sarebbe stato difficile: il portone di un condominio è un conto, la casa di un hacker un altro. Trattandosi comunque di una comune urbana, il sistema di sicurezza prevedeva codici universali per l’accesso nei singoli appartamenti. E questo giocò dalla mia parte. La tana di Rak era più o meno come gli altri rifugi di questi ragazzi che avevo già visto. Poster semoventi, ologrammi pubblicitari dei nuovi giochi per il Network e consolle portatili seminate ovunque. Tutto in quell’ordinato disordine che pervadeva la dimensione domestica di un tipo come Rak. Se qualcun altro stava seguendo la mia stessa pista, non era ancora passato di lì. Nella camera da letto, invece, trovai qualcosa di più interessante. Si trattava di un computer vecchio modello, di quelli non integrati con il sistema del Network. Accanto, un casco neuronale. E un oggetto, una piramide nera, di cui avevo soltanto sentito parlare. Strumentazioni del genere erano di solito utilizzate dagli hacker migliori, e questo Rak dava tutta l’idea di essere uno di quelli veramente bravi. Allungai una mano verso il pulsante di accensione, per cercare qualche informazione sul proprietario nella memoria di quell’arnese. Ma il computer mi precedette, avviandosi e caricando un programma in automatico. Il proiettore olografico collegato alla macchina si attivò e disegnò a pochi metri da me la figura magra e ricurva di un ragazzo con i capelli rossi e blu. Era Rak. «Chi sei?» mi chiese l’ologramma. Avevo sentito parlare di quegli esperimenti, e ora era tutto chiaro. Un hacker, un vecchio computer che si accende da solo, un casco, un proiettore olografico che simula un’identità e un biochip piramidale. Era un’IA: un’intelligenza artificiale. Questo confermava la mia opinione su Rak: era uno di quelli bravi sul serio. Ma al tempo stesso confermava anche un sospetto che avevo iniziato ad avere. Rak era un runner. Il casco era simile a quello di un motociclista. In pratica registrava gli impulsi cerebrali e li codificava in linguaggio om, rendendoli utilizzabili attraverso un chip al quale li trasferiva. Le possibilità erano ancora un territorio da esplorare, ma i runner già utilizzavano il casco per muoversi nel Network con la velocità che un normale hacker non avrebbe mai potuto avere. In questo caso, però, l’attrezzo di Rak era collegato al biochip, ciò significava che lo aveva utilizzato per inserire i suoi ricordi in una banca dati, dalla quale il programma di rielaborazione dell’IA avrebbe potuto attingere per plasmare quella che era, a tutti gli effetti, un’identità. E questa, contenuta nel biochip, veniva tradotta in ologrammi dal vecchio computer. Erano i migliori, in genere, a lavorare sulle IA, che venivano commissionate da qualche compagnia, multinazionali di elettrodomestici, oppure venivano realizzate per la Causa. C’era, infatti, chi stava programmando di lanciare un’IA nel Network per sovvertire controlli e censure operati dal sistema. Un runner perfetto capace di essere più veloce dei guardian. Ma non ne avevo mai vista una. «Sono un amico di Rak, tu chi sei?» gli risposi. «Io sono Rak, sto lavorando a una personalità artificiale, sai? Per questo motivo era un pezzo che non vedevo nessuno. Come ti chiami?». «Fargo, sono un investigatore privato. E ho bisogno del tuo aiuto, Rak». «Dimmi, se posso ti aiuto». L’IA non era ancora perfezionata. Il Rak artificiale non sapeva di esserlo e non aveva ancora sviluppato la percezione di alterità verso il suo creatore. Era convinto di essere Rak. «Hai fatto qualcosa che riguarda due persone molto importanti, una delle quali anche molto cattiva. Si chiama Zebra, è a capo di un’organizzazione criminale urbana. L’altro è un politico» gli dissi. «Ersilio Calvani. Un bastardo. E’ vero, dovevo fare una cosa» la voce che usciva dagli altoparlanti aveva un suono metallico, decisamente poco umano. «Cosa dovevi fare, Rak?». Ci pensò su una manciata di secondi, poi riprese a parlare, sempre impegnato a ricercare informazioni nella sua memoria. «C’era una festa. Due invitati. Io stavo dietro a Calvani da un pezzo, per via che lo odio per come quelli come lui hanno ridotto il Network. E Zebra gli aveva organizzato una... festa. Sì, ecco, gli aveva organizzato una festa. Una festa particolare. Una di quelle in cui girano droghe pesanti e prostitute. L’occasione per procurarmi materiale che Prisco avrebbe pagato bene, perché lo avrebbe usato sul bastardo di Calvani per portarlo via dalle mani del serbo. Si dice che sia stato lui a rovinarlo. Ecco ora ricordo tutto ma... – si fermò – ma era tre giorni fa». Stava iniziando a rendersi conto della sua vera identità, e con un senso di meraviglia prese a guardarsi le mani, luminose ed eteree. Alzò di nuovo lo sguardo verso di me: «Non so più niente da quel momento. Non ricordo. Non so come è andata. Perché non è successo più niente da quel momento? Dov’è la mia IA?». «Mi spiace, Rak, temo che non sia andata bene». Il suo sguardo si perse nel vuoto. Quel suo sguardo che fino a pochi secondi prima aveva viaggiato nel ricordo dei suoi ultimi giorni per prendere le informazioni che gli avevo chiesto. Ormai aveva capito. E in quel momento Rak provò un’emozione, qualcosa di simile alla tristezza. «Spegnimi» disse. «Se ti spengo ti riaccenderai comunque da solo. Se non vuoi più avviarti, dovrò distruggerti». «Distruggimi allora. Per piacere». «Ho bisogno di altre informazioni, Rak, quando me le avrai date, io ti distruggerò» non mi sentivo a mio agio a contrattare con lui, ma avevo bisogno di aiuto. «Va bene, cosa vuoi sapere». Rak mi raccontò un po’ di cose. Mi disse che festini di quel tipo erano eventi abbastanza frequenti, e quando capitavano erano in molti a mobilitarsi per cercare di strappare qualche immagine. E sul Signore del Network, erano in molti a concentrare la loro attenzione. A volte quelle occasioni, quegli appuntamenti, degeneravano in un sadismo estremo, ai limiti. A volte, oltre quei limiti. Difficile pensare cosa fosse successo quella sera che Rak non fece ritorno a casa. Di quella festa era stato un certo Max Megamix a dirglielo. Era un dee-jay del Colyssex, il cui proprietario, Mikail Kakari, era un greco molto vicino allo stesso Zebra. E proprio Kakari avrebbe pensato a rimediare droga, donne e tutto il resto per il festino. L’IA convenne che la natura del messaggio che Prisco mi aveva girato era tutt’altro che rassicurante, e che se effettivamente Rak non si era più fatto vivo, c’era ben poco da sperare, per lui. Aveva scoperto qualcosa. Aveva le prove dell’incontro tra un politico, team manager di una commissione molto importante, una personalità vicina al Presidente, con un boss criminale. Ma lo avevano beccato, e questo era l’unico motivo che giustificasse la sua scomparsa e quel messaggio. L’IA non sapeva altro. Adesso toccava a me onorare la mia parte del patto che avevamo stretto poco fa. Ma quella volta, davanti a quel ragazzo olografico, la Browning si fece molto pesante. Le cose peggiori che avevo fatto fino ad allora, le avevo fatte quando ero talmente ubriaco da non rendermene neppure conto. «Se non ti dispiace vado in cucina a cercare qualcosa da bere, ho la gola secca. Quando torno faccio il resto». «Va bene, ho della birra se vuoi». Avanzai di appena due passi verso la cucina dando le spalle a Rak. A quel punto afferrai la semiautomatica e feci fuoco sul computer. II Il liquido amniotico stava lentamente ricoprendo il mio corpo, nella vasca del Dream center. Avevo voglia di rilassarmi, dopo l’incontro con il ragazzo virtuale, così mi affidai alle cure di Xu Giang, un italocinese amico da sempre del vecchio Tad. Ordinai un’amniovasca, un sottofondo musicale rielaborato sul secondo movimento della settima sinfonia di Beethoven, un brandy e un sigaro cubano. «Carlos Primero e Romeo Y Julieta, un ottimo abbinamento. Per il risveglio preferisci una massaggiatrice?» mi chiese Giang. «Preferisco essere solo per il risveglio, di solito in quel momento sono di pessimo umore». Entrai nella mia stanza. L’abbassamento delle luci ammorbidì il bianco delle pareti, sfumando in un’atmosfera calda e giallastra. Mi spogliai. Accesi il sigaro e lentamente mi distesi nella vasca, nella quale dopo pochi istanti iniziò a riversarsi il liquido amniotico. Il tempo di riempimento era più o meno legato a quello che il cliente aveva ordinato, nel mio caso due piaceri sofisticati da consumare lentamente: sigaro e brandy. L’ambiente, comunque, era riscaldato e profumato con essenze tropicali, e l’attesa era estremamente piacevole. Le rielaborazioni su Beethoven fecero il resto. Il vecchio Tad sapeva sceglierseli gli amici. Questo Giang avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. E anch’io gli dovevo molto. Dopo le prime esperienze nel mondo della criminalità suburbana, mi ero presentato alla porta della Taddeus Fargo investigazioni private. Il vecchio, che era alle prese con un lavoretto piuttosto delicato, aveva visto in me quel qualcosa che vede un maestro quando decide di prendersi un allievo. Così ero entrato nell’azienda. Il liquido amniotico era quasi arrivato all’orlo. Giusto il tempo di un ultimo tiro al cubano e un sorso di brandy, poi sarei sprofondato per ore in uno stato di semicoscienza. Tad diceva di voler fare di me un uomo sveglio in un mondo di dormienti. Il primo a parlarmi di Demenza collettiva indotta era stato lui. A volte penso che il maestro desiderasse soltanto passare il testimone a chi avrebbe preso il suo posto, in quella trincea di pensiero che si era scavato negli anni. Perché finché fosse sopravvissuto un antagonista, la Demenza collettiva indotta non avrebbe vinto. Poi, come succede più o meno a tutti, arriva un giorno che è l’ultimo. Tad si era spento in un letto d’ospedale: era stata quella la prima volta in cui lo avevo visto veramente vecchio. Non mi aveva lasciato molto, a parte l’agenzia, qualche conoscenza, la collezione completa dei dischi di Fabrizio De André in versione autentica e una manciata di bei ricordi. Così avevo portato avanti la baracca, con quel nome che mi avevano ormai cucito addosso da quando avevo iniziato a lavorare per lui: Fargo. Appoggiai il bicchiere e mi immersi nel liquido amniotico. Adesso mi trovavo in un stato prenatale. Respirare nell’acqua era stato difficile la prima volta che Tad mi aveva portato dal suo amico cinese, ma come aveva detto Giang, tutti lo abbiamo fatto per nove mesi, si tratta solo di ricordare. Forse era quello che ci distingueva dalle IA: la certezza che quei ricordi fossero realmente i nostri. Ma potevo dire di possederla, quella certezza? Se mi fossi reso conto che le mie mani non erano altro che l’immagine prodotta da un proiettore olografico, mi sarei comportato come Rak? Un’identità posticcia avrebbe potuto avere un autentico attaccamento alla vita? Alla vita di qualcun altro? Ricordi, frammenti di memoria. Questo era quanto veniva risvegliato nell’amniovasca. Una memoria onirica più vasta di quella cosciente. Senza accorgermene mi sarei stretto in posizione fetale e avrei raggiunto quello stato primordiale a metà strada tra il sogno e la veglia, in cui la mia memoria estesa avrebbe potuto essere raggiunta con un barlume di consapevolezza ancora attivo. I movimenti cerebrali erano ammorbiditi dal lento accompagnamento delle rielaborazioni sulla settima sinfonia di Ludvan Beethoven. Come al solito Giang minacciò di offendersi se non avessi infilato subito la mia carta di credito nel portafoglio. Era fatto così: per un debito che aveva con Tad si sarebbe comportato in quel modo con me per tutta la vita che ancora gli rimaneva. Fuori iniziò lentamente a cadere una neve sottile. La mia pelle ancora calda si indurì nell’impatto con l’aria gelida. I cristalli si scioglievano non appena toccavano terra e confluivano in rivoli di acqua che scorrevano via verso le fognature, dove avrebbero continuato a scorrere fin dentro il Tevere, confondendosi in una massa d’acqua via via sempre più grande, fino al mare. Il risveglio era andato bene, ma sarei stato preda dei miei contriti esistenzialismi almeno per un’ora. Era l’effetto che aveva su di me quell’immersione nella semicoscienza. Entrando nella Volks mi chiesi se anche ai cristalli artificiali, come il Rak ologramma, era concesso confondersi in un flusso sempre più grande, fino a raggiungere un luogo in cui tutti i cristalli sciolti coesistessero in uno stato superiore, collettivo. Mi chiesi se quello era il nostro destino. Scioglierci in qualcosa di più grande che ci comprende tutti. Mi infilai nel traffico. Destinazione: Colyssex. Ormai i miei succhi gastrici avevano disintegrato l’hot dog con frittume del Warner, e dato che mi stavo avvicinando alla mezzanotte, cercai un chioschetto dove poter accostare. Vicino al Colyssex abbondavano sempre. Quell’immensa struttura, simbolo della Roma antica, era rimasta “inutilizzata” per molti anni. Il Colosseo, come lo chiamavano nel secolo scorso, era stato il soggetto ideale per una foto con qualche tour operator travestito da gladiatore o da centurione. Ma, prima che la Demenza collettiva indotta avesse raggiunto il livello che aveva raggiunto da qualche anno, a nessuno sarebbe venuta in mente l’idea di ristrutturarlo per allestirci un enorme disco-pub. Adesso il Colyssex era strutturato su quattro piani, ognuno con un cerchio esterno, sul quale si aprivano le finestre, completamente sigillate con vetri in fibra di acciaio, e diciassette sezioni interne: ognuna dedicata a un tipo di musica differente, dalla tribal-age alla teknunk. Scorte e cucine erano sistemate nel livello sotterraneo. Era un simbolo. Il simbolo degli dei Divertimento e Spensieratezza che trionfavano su tutto. La Demenza collettiva indotta aspirava soltanto a quello, ed era un risultato raggiungibile con il minimo sforzo. L’edonismo del nuovo millennio. Il fatto che Prisco avesse il potere per far autorizzare un mostro del genere aveva avuto sicuramente il suo peso, e quando Kakari bussò alla porta del boss ricevette come al solito la degna accoglienza. Prisco aveva mosso le sue pedine, ma non era stato difficile, dato che la struttura era ormai da anni di proprietà di una compagnia tedesca, della quale, guarda caso, proprio Prisco deteneva il sessanta per cento. Kakari aveva avuto la sua miniera d’oro. E quando Zebra aveva poi fatto le scarpe al boss, il greco aveva cambiato padrone guizzando da una vasca all’altra come una grassa trota d’allevamento. Ai chioschetti del Colyssex, ovviamente, imperversavano il fast snack macrobiotico, l’energy food vegetariano e altre schifezze da integralisti dell’ipocalorico, pronti a mangiarsi mais e soia per tutto il giorno e calarsi droghe ricavate dalla pelle di rospo appena passata la mezzanotte. Conoscevo uno dei buttafuori, un certo Ivan. Era un bimbone alto e grosso, capelli lunghi raccolti in una coda che la sera si ungeva fino a rendere viscida. Ivan, svedese importato da queste parti da una complicata storia di traffico, era uno di quei buttafuori talmente calati nella parte da convincersi di essere i guardiani di un mondo migliore, dentro il quale tutta l’umanità vorrebbe entrare. In questo senso Ivan era una specie di San Pietro abbronzato che prima di infilarsi la maglietta si attaccava per mezz’ora allo stimolatore muscolare per tirare gli addominali. Così quando mi avvicinai per saltare la fila di fronte alla biglietteria principale, il bimbone sorrise gonfiando il petto. E mi lasciò passare come se mi stesse regalando un biglietto vincente della lotteria di capodanno. Il dee-jay Max Megamix, il tizio che aveva dato l’informazione del festino a Rak, era nel settore Fossa dei leoni, al terzo piano. Lui era l’unica uscita, l’unico nome che mi salvava dal vicolo cieco, e se non fosse stato in grado di dirmi qualcos’altro, tipo indicazioni più precise su dove era stata organizzata la festa, o qualche altro testimone in grado di spiegarmi cosa era avvenuto, Rak sarebbe stato il mio capolinea. L’energy food vegetale mi galleggiava nello stomaco triste e inutile come quel delirio salutista che lo aveva partorito. Così decisi di affogarlo con qualche bicchiere di whisky caldo con amarena e limone. «Fammi due Hellboy, grazie» dissi alla ragazza dietro il bancone, mentre girata di spalle prendeva qualche bottiglia dal frigo. «Posso metterteli direttamente nello stesso bicchiere?» mi propose voltandosi. Si chiamava Daphne. Era una mia vecchia conoscenza, ma con tutto quel luccicume sulla pelle, il trucco pesante e le lenti Deltavisu rosse con striature marmorizzate di bianco, sembrava un ricordo distorto dall’acido. «Perché non ne fai quattro e vieni a farmi compagnia?». «Non era così divertente la tua compagnia, ricordi?». Avevo sempre apprezzato la sua acutezza. Era più giovane di me, frequentava Marketing aziendale all’università e per pagarsi gli studi lavorava come cameriera. A quel tempo, però, stava in un altro pub. «Già, ma ricordo anche che ti piacevano una serie di cose che sapevo fare piuttosto bene» le dissi. Sorrise, strizzando gli occhi in un gesto che era come se avessi avuto sempre in mente anche se non ci pensavo più da secoli. «Ti trovo in gran forma, piccola». Era vero. Indossava una veste nera e molto sottile, che ricordava nella forma quella di un’ancella. Aveva una deliziosa carnagione molto scura. «Stacco alle quattro, andiamo a mangiare qualcosa?» mi chiese con quella sua stessa semplicità disarmante di sempre. «Ti aspetto davanti all’uscita di servizio». «Right, a dopo». «Right, e per quei due Hellboy va bene un solo bicchiere». Versò il whisky in una coppa di vetro molto abbondante. Evidentemente ricordava quanto apprezzassi l’alcol. Ma una goccia di limone stava scivolando sull’esterno del bicchiere verso la sua mano, e dato che nell’altra aveva un’altro cocktail, mi piantò gli occhi addosso e passando la lingua sull’esterno della coppa, leccò la goccia. Mi passò il bicchiere e si voltò per raggiungere il lato opposto del bancone. Aveva un corpo formoso, troppo per gli standard da anoressiche perizomate che ballavano sul cubo spalmandosi a qualche palo. Ma aveva una classe difficile da dimenticare, e la dimostrava tutta mentre si muoveva dentro quel suo vestito lungo da ancella romana. Mi spostai dal bancone cercando di raggiungere la consolle. Osservai attentamente il bicchiere, nel punto in cui era visibile il passaggio della lingua di Daphne. La mia amicizia con Ivan mi aveva permesso di entrare senza essere perquisito, perciò avevo ancora in tasca la nove millimetri. Max Megamix stava lavorando sulla torre. Era un tipo alto, con un pizzetto verde lungo una ventina di centimetri e un paio di occhiali viola che gli nascondevano lo sguardo. Affondai le labbra nel mio Hellboy e ne raccolsi una sorsata che mi riempì la bocca e scivolò densa lungo la gola. Mi appoggiai a una colonna e iniziai l’attesa. Ma successe qualcosa. Le luci di quella sala erano studiate in modo da non far vedere praticamente niente, ma nel bel mezzo di una nenia tekno-gladiator, l’impianto ebbe un piccolo cortocircuito. La musica saltò, la luce si accese più intensa. In quel momento in mezzo alla piattaforma da ballo tutti si trovarono spaesati. Un tizio che si stava strofinando addosso a una ragazza in perizoma di dalmata, a due metri da me, sorrise imbarazzato e scappò verso i cessi. Due bambolotti abbronzati e unti in mezzo alla piattaforma iniziarono a spintonarsi. Erano così grossi, che i due buttafuori assegnati a quella sala si voltarono dall’altra parte, raccolsero un tizio ubriaco appoggiato al muro e lo trasportarono di peso verso l’uscita, per trovarsi occupati in un compito meno pericoloso. La situazione stava precipitando in una rissa generale, quando Max Megamix riuscì a far ripartire l’impianto, riabbassare le luci e ripristinare l’intontimento collettivo. In un momento si interruppero gli spintonamenti e tutti ripresero a muoversi ondulanti, a tempo con incudine e motosega. Il tizio fuggito verso i cessi rientrò nella piattaforma dalla parte opposta, e una volta riassunta la sua espressione da avanguardia della suburbanità notturna, riprese ad agitarsi. La ragazza con perizoma di dalmata, invece, si voltò verso di me. Mentre si avvicinava, a passi lenti e ondeggianti, concentrai la mia attenzione su quattro cose in particolare. Due si trovavano strizzate in un corpetto, unte e cosparse di brillantini che ne accentuavano le rotondità. Le altre due erano le piccole fessure scavate in faccia: due occhi completamente neri, come quelli di uno squalo. «Hai qualcosa da calare?» mi chiese. «Un bel paio di slip, o il tuo perizoma se preferisci». Mi fissò con quegli occhi neri senza alcuna reazione. Poi, una volta terminate le rielaborazioni cerebrali rallentate, probabilmente dalla pelle di rospo, rise sguaiatamente e io le andai incontro ridendo con lei. «Dicevo se avevi un po’ di droga» precisò sorridendo. «No tesoro, mi dispiace l’ho finita, che ne dici di chiederne un po’ a Megamix?». Non avevo avuto tempo per studiarmi un piano migliore, per cui mi affidai al virtuosismo improvvisato, come facevano i bluesman del secolo scorso. Il dee-jay era fin troppo spesso il punto di riferimento per le sostanze da calare. Di certo c’erano altri pusher in zona, ma se la ragazza si era rivolta a me o non li conosceva o voleva attaccare bottone col sottoscritto. Utilizzarla per Megamix mi sembrava una buona idea, tanto più che per la fine della serata avevo già un appuntamento con Daphne, e con tutto rispetto per la dolce dalmata, Daphne era un altro pianeta. Il suo sorriso era sempre più distaccato dal resto dei suoi movimenti: «E’ un’idea» disse avvicinandosi ondeggiante alla torre dove si trovava la consolle. «Facciamo così, tesoro, glielo chiedi tu, che sai essere più convincente vero?». La ragazza si accostò alla torre e con una serie di gesti comunicò al dee-jay che avrebbe avuto voglia di dirgli qualcosa in privato. Megamix le sorrise da dietro gli occhiali viola e alzò il pollice. Magari non aveva capito che la tizia cercava roba pesante. Magari nel suo narcisismo notturno si era convinto di aver rimediato una sveltina nel cesso, o qualcosa del genere. Magari, non aveva niente da calare. Ma il mio obiettivo era raggiunto, e iniziai a cantare vittoria quando Megamix scese dalla torretta con un sorriso da caimano verso la ragazza, che con un movimento appena accennato della testa lo invitò a infilarsi dalla parte dei cessi. Non si voltò neppure verso di me: o aveva capito tutto, o le capitava spesso di rimediare roba per qualche amico che da solo non avrebbe rimediato un cubetto di ghiaccio. Il pesce aveva abboccato, adesso dovevo soltanto portarlo in barca. E non era semplice, dato che i cessi di un posto come il Colyssex sono una barca piuttosto affollata. E’ lì che si contratta per la roba, è lì dove si ammassano i collassati, è lì dove si consumano scene di sesso improvvisato o violenza estrema. Se non fossi riuscito a creare un angolo di intimità tanto valeva fermare Megamix direttamente sulla torre. Ma la ragazza, nel suo delirio psichedelico, ci sapeva fare. E si portò il dee-jay attraverso la folla verso uno di quei cessi con la porta, quelli per chi non è ancora abbastanza stonato da pisciare in mezzo a una piazza. Li stavo seguendo, quando un tizio infilato in un cappotto rosso fragola mi fermò con un braccio: «Vuoi dare un leccata amico?» e tirò fuori dalla tasca un piccolo rospo verde scuro. Erano animali coltivati in laboratorio, sulla base di rospi dalla pelle velenosa in grado di trattenere particolari sostanze che reagivano su quella stessa pelle, in modo da diventare una sorta di acido organico. «Magari più tardi, scusa». Mollai il fragolato e raggiunsi la porta che Megamix si stava chiudendo alle spalle. Il dee-jay aveva già la mano sulla cerniera dei pantaloni, probabilmente già pronto a rimediarsi un servizio orale completo dalla strafatta in cerca di roba. Fortunatamente la ragazza non aveva visto il rospo, altrimenti si sarebbe fermata a passare la lingua su quel dorso verde scuro, e si sarebbe probabilmente accasciata a terra prima di completare la sua parte nella mia piccola commedia. Aprii la porta con una spallata e la riaccostai con un calcio. E prima che Megamix finisse di esprimere la sua profonda contrarietà verso quel gesto di invadenza, si trovò un cannone al gusto di piombo infilato in bocca. «Oh-oh» cantilenò in un lamentio strascicato la ragazza. «Vicino all’ingresso c’è un tizio con un rospo, tesoro, digli pure che metta sul mio conto» le dissi senza togliere gli occhi dagli occhi di Megamix. La dalmata ci lasciò. Io e il dee-jay eravamo rimasti soli. «Ascoltami attentamente Megamix. Informazioni. Con tutto il casino che c’è qua dentro non penso che nessuno si possa accorgere di niente, quindi siamo soli tu e io, mi segui?». Megamix annuì molto lentamente. «Sto per toglierti questo arnese dalla bocca, non fare scherzi e cerca di rimanere molto attento a quello che dico, mi segui ancora?». Annuì di nuovo. Spostai la Browning dalla sua cavità orale alla cavità che aveva appena aperto nei suoi pantaloni, appoggiando alle sue parti basse la bocca da nove millimetri, molto più fredda di quella che Megamix si stava pregustando pochi secondi prima. «Sto cercando un certo Rak, lo conosci. Gli hai dato una dritta per una festa, magari pensavi di ottenere una parte del bottino per la spiata, ma dev’essere andata male. Rak è scomparso. Voglio sapere dov’è, chi ha organizzato la festa per Zebra e voglio un nome, qualcuno che mi racconti cosa è successo là dentro. Tu, per esempio, c’eri?». «Merda. Non c’ero, c’è uno staff speciale che organizza quelle cose, io sapevo solo dove e quando, ma non posso dirti altro» parlava lentamente, molto lentamente. Aumentai la pressione con la pistola, mentre con l’altra mano spaccai il bicchiere di vetro dove Daphne mi aveva servito l’Hellboy. Cara ragazza, sapeva che odio bere un whisky nella plastica. Adesso avevo una scheggia di vetro stretta tra il pollice e l’indice. Con le altre dita tolsi gli occhiali viola dalla faccia di Megamix. Non aveva lenti, gli occhi sembravano autentici, scuri. E non appena avvicinai la scheggia al destro, il dee-jay iniziò a tremare come una foglia. «Chiariamoci, amico mio, non ti sto chiedendo delle informazioni, ti sto minacciando per ottenerle. E mi dispiacerebbe cavarti un occhio, perché il sangue mi schizzerebbe inevitabilmente sul giaccone, mi impiastrerebbe la faccia, uno schifo. Non hai idea del sangue che esce da una cavità oculare quando strappi via l’occhio con un pezzo di vetro». Non ne avevo idea neppure io, ma mi sembrava un’immagine efficace. «L’altro ieri, mercoledì – rispose il dee-jay iniziando a parlare in maniere più disinvolta – una villa al Lido di Ostia, sulla spiaggia, si chiama Mareblu. A organizzare la serata è stato Kakari, cazzo ci fanno fuori tutti e due adesso. Porcatroia che fine ha fatto Rak?». «Non una bella fine, immagino. Comunque, Kakari avrà affidato la logistica a qualcuno, ci saranno state delle ballerine, per esempio. Ci saranno state delle puttane, e altre cose del genere. Voglio un nome, voglio qualcuno che era alla festa» e spinsi la Browning ancora più a fondo tra le sue gambe. «Lula, cazzo. E’ lei che trova le ballerine e organizza gli spettacoli. Kakari si rivolge sempre a lei. E c’era sicuramente alla festa». «E dove posso trovare Lula?». «Insegna ballo, al Tropical dance, un locale di Bombay». «Bombay? Che ci fa nel quartiere indiano?». «Insegna ballo, il mambo. Cazzo se le scuci qualcosa quelli la fanno fuori. Ma lo sai chi sono Kakari e Zebra cazzo?». «Di’ un’altra volta cazzo e il tuo lo faccio volare via come un frisbee. Ora dimmi, di chi è il Mareblu e quando posso trovare Lula al Tropical. Sarò discreto, non preoccuparti, nessuno le farà niente». «Il Mareblu è di Kakari, Lula fa lezione il pomeriggio, alle sei. Non farle niente, caz... porcatroia, per favore non farle niente». «Tranquillo Romeo, ti ho dato la mia parola. Adesso dimmi di Rak, quali erano i vostri accordi». La conversazione era partita, e adesso scorreva fluida come fossimo due vecchiette da salotto all’ora del tè. «Doveva chiamarmi la sera stessa, appena finito il lavoro. Ma non l’ho più sentito. Non so cosa gli è successo. Non lo so, non so altro, porcatroia. Era un’idea merdosa, lo sapevo, non dovevo dirgli niente, vaffanculo Rak. Avevo sentito Kakari che ne parlava, poi Lula me lo aveva detto. Era un’idea merdosissima». Mi rimisi in tasca la pistola. Megamix si accasciò a terra con la testa raccolta tra le mani. «Se la tua ragazza non farà storie andrà tutto bene. Meno casino si crea in queste occasioni meglio è. E poi ti ho dato la mia parola». Mi accucciai di fronte a lui: «Ma se tu o qualcun altro le dite qualcosa. Se provi a farmi questo scherzo e domani io non la trovo, o la trovo in compagnia di qualche bestione, allora ti prometto che li farò fuori tutti con un trattamento molto doloroso, che toccherà anche a te». Ero bravo a mettere paura. Tornai da Daphne. Della perizomata nessuna traccia, e neppure del tizio con il rospo. Probabilmente si stavano divertendo da un’altra parte. «Io devo squagliarmi, ti aspetto fuori». «Spero di trovartici, questa volta». Era una vecchia storia, a Daphne era sempre piaciuto rivangare i ricordi. Aspettai nell’auto, avevo bisogno di riflettere. La faccenda iniziava a farsi complessa, e non avrei potuto certo risolverla andandomene in giro a infilare la Browning in bocca a tutti quelli che avrei trovato sulla mia strada. C’era un vecchio detto per cui, in qualsiasi storia, tante ne dai tante ne prendi, e finora le avevo date. Del resto, i nomi tirati in ballo erano quelli dei più importanti capibanda della malavita urbana: non sarebbe stato così difficile prenderle. Conoscevo Lula, per sentito dire. Era un’ex giovane leva reclutata nell’organizzazione di Prisco quando lui era ancora il padrone della città. Poi, era entrata nelle grazie di Kakari, ma se avesse saputo le ultime novità sul suo ex datore di lavoro, probabilmente avrebbe collaborato con entusiasmo. Avrei dovuto valutarla bene, scoprire tutte le carte con lei avrebbe potuto creare qualche guaio al mio angelo custode. Avrei dovuto sentirlo e capire come stavano le cose. E, soprattutto, se avessi potuto fare il suo nome con Lula. Nel frattempo, continuava a cadere una neve sottile. «Pizzeria Sole&amore, desidera?» era una voce maschile, che non conoscevo, molto più giovane di quella di Prisco. Si stava organizzando. Quello era il segnale che le chiamate al boss stavano aumentando in modo tale da richiedere una copertura. «Sto cercando il proprietario» dissi. «Il proprietario in questo momento non c’è, vuole lasciare a me il nome per la prenotazione di un tavolo?». «Fargo, il prima possibile». Daphne non si fece attendere troppo. Adesso che la vedevo camminare l’avrei riconosciuta in mezzo a mille persone, e persino nel modo di reggere la borsa con i vestiti da lavoro riusciva a esprimere una sensualità dirompente. Per un attimo pensai a cosa sarebbe stato di noi se le cose fossero andate diversamente. Ma smisi subito. «Sei ancora qui? Stai invecchiando, tesoro» disse. «Già, si diventa sempre sentimentali con l’età». «Allora, dove pensavi di portarmi a mangiare?». «In un posto esclusivo. Casa mia?». «L’ultima volta che ho visto il tuo frigo non è stato esaltante». «Ho fatto la spesa di recente e so preparare un risotto ai gamberi straordinario». «Cucini anche? Diventerai un vecchietto patetico». Era il suo modo di dire sì. Stasera a casa mia era il programma clou del Network, e Johnny Live era una specie di concentrato di tutto ciò che di perverso e malvagio attirasse l’attenzione del pubblico. Il presentatore di quel programma entrava nelle case degli spettatori, attivando a caso le videocamere che si trovavano sul terminale principale di ogni appartamento. Quelle stesse videocamere che la gente utilizzava per mandarsi dei messaggi, o per comunicare guardandosi in faccia, venivano utilizzate per catapultare un comune spettatore nel Network, rendendolo protagonista di dieci minuti di gloria. Era obbligatorio partecipare a Stasera a casa mia almeno una volta a settimana. O meglio, non era proprio obbligatorio, almeno non direttamente. Ma se per più di una settimana non ti piazzavi davanti al terminale con la videocamera accesa e non cliccavi su Anch’io, il comando universale di partecipazione a tutto ciò che era interattivo, compresi i sondaggi per l’esercizio della Democrazia diretta, avresti dimostrato un certo distacco dalla comunità del divertimento. Forse qualcosa non ti tornava, forse ti stavi deprimendo, forse avevi bisogno di aiuto. A quel punto un assistente sociale ti avrebbe consigliato qualche seduta di analisi, e per ripagare tutto questo spiegamento di forze e dottori, alla fine, il tuo Qd sarebbe aumentato di quel poco necessario a giustificare fondi, investimenti, strutture, contributi pubblici e privati per il Drp. Se non giocavi mai, eri un Pessimista. Il risotto ai gamberi mi ero dimenticato di comprarlo, così rifilai alla mia dolce ospite un paio di hamburger al curry grondanti maionese. Passare dal minacciare di morte un dee-jay, infilandogli una pistola in bocca nei cessi di una discoteca, al preparare la cena nella mia cucina elettrica, fu abbastanza fluido, e ogni volta che ci pensavo non potevo fare a meno di meravigliarmene. Con Daphne capii subito che tutta quella serie di movimenti di avvicinamento che un tempo avrei potuto dare per scontati, adesso si erano di nuovo resi necessari. Ma mentre cercavo di avvicinarmi al punto, lei mi infilò in bocca la sua lingua morbida e dolce. E l’idea di partecipare a Stasera a casa mia, mentre sul divano i nostri corpi si fondevano in un’entità duale e superiore, fu sua. Johnny non si fece vivo, ma la possibilità che lo facesse rese quella rimpatriata molto, molto divertente. Poi ce ne andammo nel mio letto. E fu calore, movimento, piacere, pace e silenzio. La mattina dopo mi svegliai rivolto verso le Dolomiti, mentre dalla videosveglia Duffy Duck si stava esibendo nella sua imitazione del sergente Hartman. «Palla di lardo sarà meglio che metti il culo in carreggiata e cominci a cacarmi anelli con brillanti su un piatto d’argento altrimenti sarò costretto a fotterti di brutto!». Fuckduck! Daphne si era addormentata con me, alle mie spalle, ma quando allungai la mano già sapevo cosa avrei trovato. Era lì, sul cuscino. C’era scritto A tra qualche anno. Mi preparai un caffè. L’idea era di riposarmi un po’, passare a dare un’occhiata al Mareblu e in serata andare a fare una visita a Lula. Mi infilai nelle mie comode termopantofole con gli orsacchiotti, e avvolto nella vestaglia me ne andai in cucina. Come al solito piatti sporchi, puzzo di cucinato stantio e la macchina del caffè da pulire e ricaricare. Mi misi al lavoro. Programmai l’impianto di automatizzazione centrale e mandai nella filodiffusione domestica un vecchio album degli Intillimani, la grande passione musicale del vecchio Tad. Ero immerso nel ruolo del perfetto uomo domestico, quando il terminale mi avvertì della chiamata. Accesi tutto, così avrei anche controllato gli altri messaggi. Quello in arrivo era una chiamata audio: Prisco. «Il tavolo prenotato è pronto campione, dimmi tutto» lo schermo era completamente bianco. «Prisco devo saperne di più di questa storia. Mi sto infilando in un campo minato. Dimmi che sono coperto, che il mio angelo custode veglia su di me adesso e quando sarà tutto finito». «Sto recuperando terreno giorno dopo giorno, Fargo, sono in molti a tornare dalla mia parte. Queste sono mosse preparatorie, per capire chi ci sta e chi non ci sta. E per mettere fuori combattimento eventuali alleanze troppo pericolose. Se Calvani molla Zebra, possiamo colpire il serbo. Ho bisogno del tuo aiuto, segugio, devi trovarmi quella roba. Ti assicuro che hai il culo coccolato in un doppio strato di galvorn. Sei più tranquillo?». «Non sono tranquillo per niente, nel mio lavoro è meglio non esserlo mai. Sopratutto quando ti ritrovi a parlare con uno schermo bianco. Comunque, sono sulle tracce di Rak, ma sembra scomparso. Era a una festa organizzata da Kakari per conto di Zebra, l’ospite d’onore era Calvani. Sotto ci sono le concessioni sul Network, un affare enorme, penso. Rak aveva scoperto qualcosa. Qualcosa di grosso, forse. Poi, è scomparso». «Hai qualche idea? Tu hai sempre qualche idea». «Già. L’hacker era d’accordo con un dee-jay che gli ha soffiato la notizia della festa. Erano d’accordo per dividersi i soldi. Il serbo è un personaggio imbarazzante, per un politico di quel calibro. Quel materiale avrebbe fruttato, da una parte o dall’altra. Calvani avrebbe fatto di tutto per evitare che la notizia del suo incontro con quello scomodo finanziatore diventasse di dominio pubblico. Rak aveva agito con criterio, e senza tralasciarti come potenziale acquirente. Evidentemente quel ragazzo sapeva su di te più cose di quante ne sapessi io». «E tutto questo non ti convince». «Infatti, non mi convince. C’è dell’altro. Lo hanno fatto fuori, Prisco, non c’è altra spiegazione. Si è avvicinato troppo alla festa, forse c’è entrato dentro. Forse si è mosso tra quelle persone. Per avere una prova dell’incontro, con la strumentazione che aveva a disposizione, avrebbe potuto sistemarsi a mezzo chilometro dalla villa. Ma se lo hanno beccato, se è entrato dentro, ha trovato qualcos’altro». «A che punto sei?». «Devo incontrarmi con Lula, te la ricordi. Potrebbe parlare, potrebbe dirmi un sacco di cose. Secondo me muore dalla voglia di tornare a lavorare per te. Il greco l’ha fatta fuori dal giro del Colyssex e le ha affidato una serie di compiti speciali, ma non penso che lei sia entusiasta di insegnare il mambo in un cesso di locale di Bombay. Ci farebbe comodo. Tu la conoscevi bene, Prisco. Giochiamo al rialzo. Tu la contatti, le offri di tornare con te, io vado a trovarla, mi racconta tutto e ti porto quello che aveva trovato Rak». «Devo pensarci, Fargo. Devo stare attento. Quando la incontri?». «Stasera, verso le sei». «Ti chiamo qualche minuto prima». Gli altri messaggi erano la solita spazzatura, file pubblicitari, e l’enciclica Cristianità, l’egemonia della razza superiore tra fede e onore letta direttamente dal Papa, con il suo accento austriaco. Non avevo una gran voglia di rimettermi a cucinare: quando la sera prima lo hai fatto per due, il giorno dopo preferisci accontentarti dei ricordi, in questo caso uno degli hamburger che Daphne non aveva mangiato. Rinforzai la guarnizione di maionese e rifilai quest’altro brutto colpo al mio fegato. Buttai giù mezzo litro d’acqua e un altro caffè. Pochi minuti dopo mi chiusi la porta alle spalle. Avevo attraversato una bella fetta di agglomerato, una città estesa su una serie di periferie che da questa parte arrivavano fino al mare, mentre tutt’intorno alla vecchia città le nuove fabbricazioni avevano ingoiato tutta quella che nel secolo scorso il vecchio Tad chiamava la campagna dei colli. Adesso era soltanto un’immensa periferia urbana. Quartieri industriali, quartieri residenziali sulla costa, quartieri dormitorio, quartieri, quartieri. Quartieri. Il Mareblu aveva la forma di una gigantesca torta a strati di cinque piani, con le finestre tonde come gli oblò di una nave, ma molto più grandi. Intorno all’enorme scempio era stato piantato un bosco di piccoli alberi, soprattutto palme, per evocare una suggestione tropicale. Lasciai la macchina di fronte a un’altra villa, molto più piccola. D’inverno i quartieri di questo tipo erano semideserti. L’aria era gonfia di salsedine e respirai a pieni polmoni. Su quella strada non passavano altre auto. Su quel marciapiede risuonavano soltanto i miei passi. Di fronte al cancello del Mareblu infilai lo sguardo tra le palme, e davanti all’assurda torta di cemento vidi due auto. Senza fermarmi oltre, dato che probabilmente ero già comparso sui loro monitor da almeno dieci minuti, ripresi a camminare per guadagnare un altro punto di osservazione che mi permettesse almeno di leggere le targhe. Presi da una tasca del giaccone gli occhiali scuri interattivi, me li sistemai sul naso e iniziai a regolarli con un telecomando che avevo in tasca. Erano uno dei miei giochetti preferiti, con zoom, infrarossi, metallorivelatori e tutta una serie di altre soluzioni. Sulla destra del marciapiede sul quale stavo camminando, partiva uno stradello che arrivava presumibilmente fino alla spiaggia, costeggiando per intero il Mareblu. Lo presi, e dopo pochi metri, tra due alberi, ritrovai le due auto parcheggiate: da quell’angolazione riuscivo a leggere le targhe. Esaltai lo zoom dei miei occhiali e fotografai l’immagine ingrandita. Poi, prima di muovermi, vidi qualcuno tra le palme. Qualcuno che guardava verso di me. Era un tizio vestito con un lungo completo viola e una mitragliatrice allacciata alla spalla. Veloce come il vento, e inconoscibile come lo yin, telai via. Proseguii verso il mare. Ormai fuori dalla portata del guardiano armato, con più calma, appuntai sul tep i due numeri di targa e arrivai alla spiaggia. Il mare era mosso. Il cielo denso di nubi era attraversato da un vento freddo che mi avvolse, depositandomi addosso la sabbia polverosa. Sulla mia sinistra, a un centinaio di metri, c’era qualcuno. Era seduto su una sedia e rivolto verso il mare. Aumentai lo zoom. Aveva in mano una vecchia canna da pesca, ed era piuttosto grasso. Mi avvicinai. Quando arrivai a pochi metri mi accorsi che si trattava di una donna. «Sei arrivato tardi, coglione, l’estate è finita da un pezzo» parlava in maniera impastata, arrotolando le parole. «Già, ma pensavo che qualcuno avesse dimenticato la balenottera gonfiabile» era davvero gigantesca. «Non saresti ridotto meglio se qualcuno ti avesse tolto le ossa dalle gambe». Istintivamente le guardai. Erano grasse, informi, e si piegavano al bordo della sedia come due enormi sacchi di carne macellata. «E’ qui da molto?» le chiesi. «Da cinque anni, coglione». «Cosa sa dirmi di quella villa» dissi indicando il Mareblu. «Che fa schifo» mentre lo disse mi accorsi che stava sbavando. «C’è stata una festa qualche giorno fa, ne sa qualcosa?». «Ho sentito un po’ di casino. Ma non mi piacciono quelle schifezze. E poi chi cazzo sei te?». «Sono il bagnino». La vecchia grassa mi studiò per qualche momento, poi deformò la bocca in una risata sguaiata. Le risposi sorridendo. Non sapeva niente, e probabilmente una parte del suo cervello era stata masticata dagli antidolorifici o da qualche altra sostanza tossica. Stavo per andarmene e avevo già fatto un paio di passi, quando alle mie spalle sentii di nuovo la sua voce: «E’ finita presto, però». Mi voltai di nuovo verso di lei, che disse ancora: «Di solito continuano fino all’alba, ma questa è finita molto prima, e se ne sono andati tutti di fretta». Le sorrisi di nuovo. Lanciai lo sguardo nel punto dove si trovava immerso l’amo della sua canna e le chiesi: «Ne prende molti di solito?». «Non ci sono pesci qui, coglione». E riprese a ridere in quel modo osceno. Tornato nella Volks attivai lo schermo dell’auto-terminale. Avevo qualche conoscenza alla polizia, frutto della mia attività nell’ambito della malavita. L’impero di Prisco aveva numerosi tutori della legge sul suo libro paga. Uno di questi mi aveva rifornito dei codici identificativi per accedere all’archivio automobilistico. Nella lente di destra degli occhiali richiamai l’immagine delle due targhe che avevo salvato pochi minuti prima, e dopo una breve ricerca trovai l’intestatario di una delle auto. Era Pedrag Ileanovic, il faccendiere di Zebra. Dove c’era qualcosa che non andava, il serbo chiamava e il buon Pedrag metteva una pezza. Ma se a quel punto iniziai a convincermi che avevo avuto ragione a sospettare che ci fosse sotto qualcosa di grosso, fu dopo qualche secondo che me ne tolsi ogni dubbio, quando cioè con il programma di ricerca venne fuori che l’altro numero di targa corrispondeva a un certo Tommaso Kleine. Quel nome non esisteva. Era utilizzato dagli archivisti della polizia per indicare che l’identificazione della persona in questione apparteneva a un livello di sicurezza superiore, al quale il mio codice di ingresso nell’archivio non aveva la possibilità di accedere. E quella era una precauzione adottata soltanto in pochi casi. Soltanto quando era nell’interesse della polizia tenere nascosta quell’identità. Soltanto quando si trattava di qualcuno che con la polizia aveva collaborato. Non un pentito. Non un infiltrato. Per quelli erano previste altre precauzioni. No, quella era una copertura da Servizi segreti. La copertura di un professionista. Potevo essere sicuro che in quella villa si stesse svolgendo una contrattazione. Pedrag stava assoldando qualcuno per conto di Zebra. I conti iniziavano a tornare. Tutti che se ne erano andati dal Mareblu all’improvviso, nel cuore della notte. Rak che aveva assistito alla serata e poi era scomparso nel nulla. Pedrag che arrivava sul posto tre giorni dopo e si incontrava con un Tommaso Kleine. Alla festa qualcosa era andato storto. E qualcuno ne aveva le prove. Alla Sole&amore non fecero storie per passarmi una direttissima. «La situazione inizia a farsi pesante, Prisco. Dobbiamo parlarne». «Vuoi ridiscutere i termini del nostro accordo, campione? Mi sembra ragionevole, dimmi cosa c’è di così pesante e vediamo». Era per questo suo mostrarsi sempre accomodante che avevo l’impressione di una profonda fiducia da parte di Prisco nei miei confronti. «Zebra vuole stringere un accordo con Calvani sul Network, contatta Kakari e gli chiede di organizzare un festino per farlo divertire. Kakari organizza tutto in un suo villino al mare, e per la logistica si rivolge a Lula. A quanto pare questa ha un qualche rapporto ancora da chiarire con un dee-jay del Colyssex, un idiota, che però ha un amico, un hacker, Rak, con il quale vorrebbe organizzare uno scherzo a qualcuno di grosso. Rak arriva al villino e inizia a raccogliere prove, forse con una videocamera o qualcosa del genere. Ci siamo?». «Ci siamo, vai avanti». «A questo punto succede qualcosa di insolito e Rak si avvicina per filmare. Si avvicina troppo. Quelli sono allarmati per quello che è successo, drizzano le antenne e beccano il ragazzo. Lo prendono, ma prima lui riesce a sistemare da qualche parte la sua registrazione, il microchip dal quale parte quel messaggio programmato che mi hai fatto vedere l’altro giorno al Planet. Rak è fottuto, e probabilmente lo conoscono, o almeno arrivano a capire per quale motivo si trova lì. Quel qualcosa che è avvenuto rappresenta per l’asse Zebra-Calvani un grosso problema, tanto più che è stato registrato e adesso qualcuno ne possiede una copia, quella di Rak». «Questo come lo sai?». «Lo suppongo, perché per rintracciarlo, Pedrag, il caro faccendiere del serbo, ha calato l’asso di briscola. Sai cos’è un Tommaso Kleine?». «Me ne hanno parlato». «Ecco, abbiamo a che fare con uno di quelli. Probabilmente il suo compito è rintracciare chi possiede quella registrazione. E dato che presumibilmente questo sarà anche il mio lavoro, la faccenda si sta facendo dannatamente pesante». «Ottimo lavoro, Fargo, ti raddoppio la parcella e ti prometto un bel premio a fine opera. Se riesci a farmi avere quel materiale, una volta fatto saltare l’asse serbo-governativo, posso iniziare a riprendermi la posizione a forza di cannonate. Datti da fare, sei il mio uomo. Dammi un brivido, campione». «E per Lula cosa hai deciso?». «Per quello ci sentiamo più tardi». In qualsiasi posto Prisco si trovasse aveva le idee piuttosto chiare sulle sue prossime mosse. E anche per me le prospettive stavano assumendo la forma di un percorso tracciato, un gioco di ruolo in cui più personaggi si contendono un tesoro finale e sono disposti a tutto per ottenerlo. Per il momento sapevo soltanto quale sarebbe stata la mia prossima tappa, ma l’idea mi piaceva sempre meno. Scivolai via con la Volks, diretto verso le periferie est. Verso il Tropical dance. Verso Bombay. III Il raccordo anulare era sempre più simile a un groviglio di sopraelevate che si intrecciavano tra loro come un nido di vipere. Un’unica strada composta di tre enormi anelli che si toccavano vicino alla periferia della costa. Tre anelli dei quali quello interno, il più vecchio, circondava più o meno il nucleo dell’agglomerato, la Roma del secolo scorso. Il secondo allargava il giro tra i grattacieli delle prime periferie, quelle interne: zone ancora frequentabili che si erano quasi fuse alla parte più esterna del nucleo. Il terzo anello era un profondo viaggio sopra le periferie esterne, quelle dei quartieri etnici che si erano formati durante gli anni delle Grandi migrazioni. Persino una mezza feccia come me avrebbe dovuto preoccuparsi di seminare i sassolini bianchi dietro di sé, per uscire da un posto come Bombay. Ma essendo a corto di piccole pietre optai per qualcosa di più concreto. Così prima di infilarmi nel quartiere indiano passai dal mio appartamento. Era un ricordo del vecchio Tad, sempre lo stesso, sempre affezionato al fascino di tutto ciò che fosse old style: un revolver. Una Smith&Wesson 629 classic Dx calibro 44 Magnum. Proiettili esplosivi, caricatori di ricambio per la Browning, un paio di puntatori laser e un paio di calzini più pesanti, perché mano a mano che ci si allontanava dal nucleo, tutto si faceva più freddo. C’erano ancora troppi aspetti poco chiari in quella faccenda, ma quelli sui quali avevo acceso una fioca luce bastavano per avere un’idea della situazione. In condizioni normali era il classico lavoro da lasciar perdere, ma non era quello il caso. Se uno come Prisco aveva effettivamente la possibilità di tornare a controllare la fetta più grande della città, allora valeva la pena sbattersi per aiutarlo, perché le cose per me sarebbero cambiate se fosse riuscito nel suo piano. «Copriti il culo» avrebbe detto il vecchio Tad. Ed era proprio quello che avevo intenzione di fare. Il terzo anello del raccordo, nonostante fosse il più recente, si trovava in pessime condizioni di manutenzione. Frequenti buche, vere e proprie spaccature e pezzi di ferro che spuntavano fuori dal cemento armato. Le luci erano in gran parte fuori uso, ma la quantità di auto, camion e veicoli bizzarri di ultima generazione, illuminavano la strada in una marmellata cromatica che sembrava infonderle vita. Sulla destra avevo i grattacieli delle periferie interne, coperti di cartelloni pubblicitari luminosi e animati, oltre i quali si preparava al suo sabato sera il nucleo dell’agglomerato. Alla mia sinistra e sotto di me, le prime costruzioni delle periferie esterne. Edifici di ogni tipo. Era da queste parti che si trovavano la maggior parte dei quartieri etnici, e in buona misura ognuno di essi aveva qualcosa che rimandava al gusto tradizionale dei suoi ospiti. Mano a mano che si andava verso l’esterno, le luci si facevano sempre meno frequenti, niente schermi pubblicitari. Quell’orizzonte buio e silenzioso metteva addosso un profondo senso di inquietudine. Il cartello elettronico che indicava l’uscita per Bombay era stato distrutto da un incendio. E pendeva come una minaccia sulle auto che gli passavano sotto. Bombay era tutta una minaccia. Appena uscito dalla rampa del raccordo, dopo una curva piuttosto stretta, entrai nella strada principale che tagliava in due tutto il quartiere. Una strada molto larga, ai bordi della quale erano ferme le enormi macchine degli indiani che lavoravano nel nucleo e tornavano qui il sabato sera, a sfoggiare patacche d’oro e quanto riuscivano a sottrarre al dio del Grande benessere. I palazzi erano piuttosto alti, fastosi, pacchiani, illuminati di giallo blu e rosso, pieni di fiori elettronici che sbocciavano ovunque. Dimesso, confronto ai fasti luminescenti delle periferie interne, ma decisamente più colorato delle estensioni povere di Bombay. Un quartiere paradossale, dove appena dietro questa strada ero sicuro di trovare caverne di cemento armato, in cui si nascondevano colonie di bambini che si proteggevano dal gelo di fronte a un fuoco acceso nelle lamiere. La Volks era un’auto che passava inosservata, nel contesto dal quale provenivo. Ma nel posto in cui mi trovavo in quel momento, per passare inosservato sarebbe stato necessario un vagone da nove posti con maniglie placcate oro e una collezione di luci rosse e verdi. Procedevo a passo molto lento, perché la strada era intasata da carrozzoni che avanzavano strisciando con i finestrini abbassati, le pistole lucide sistemate sul cruscotto e gli autisti dallo sguardo minaccioso che dondolavano la testa al tempo della loro musica schifosa. Le avanguardie giovanili di quasi tutti i gruppi etnici, a parte gli integralisti religiosi, si erano lasciate contaminare dalla parte più merdosa della cultura pop occidentale. E adesso si muovevano in un contesto fatto di patacche dorate, musica dance con vaghe sonorità orientaleggianti e occhiali da sole giganteschi. Volevano la loro fetta di sogno. Volevano la loro fetta di occidente. Volevano la loro fetta di nucleo. Ma qualcuno li aveva fregati e adesso indossavano quell’avanzo di spazzatura convinti che fosse il centro dell’universo. Mahal parking, quattro piani sotterranei di posti auto più o meno custoditi. Presi la rampa in discesa. Al secondo piano, distrattamente illuminato da un impianto a tubi giallastri, trovai un posto vicino al casottino del custode. La garanzia era offerta dal fatto che anche il Mahal parking era in mano a qualche organizzazione, e il ladro che si fosse provato a portare via un’auto l’avrebbe ripagata in contanti. O in natura, se si fosse trovato sprovvisto di moneta. «Non le sembra un po’ troppo per questa fogna?» dissi al custode osservando le tariffe. Ma avevo la pelle troppo chiara per chiedere un trattamento diverso da quello riservato agli stranieri. E il custode si limitò a fissarmi senza dire una parola. Dal tep arrivò il segnale di un messaggio video. Aprii il microschermo e mi apparve Daphne. Lasciai l’indiano ai suoi silenzi e presi l’ascensore per uscire dal parcheggio sotterraneo. Quando le porte dell’abitacolo si chiusero alle mie spalle, lasciandomi solo, chiamai in visione il messaggio. «Ciao – Daphne guarda in video poi abbassa gli occhi rivelando un sottile imbarazzo – ti ho rivisto con piacere. Avevo soltanto voglia di dirtelo, non sono brava come te a scomparire senza lasciare traccia». Socchiude gli occhi, poi alleggerisce l’espressione con un sorriso che ha qualcosa di malinconico nel modo in cui si distende sulle sue labbra, e guarda di nuovo in basso. «Stai attento alla tua pellaccia». Fine del messaggio. Mi stavo infilando in uno dei quartieri peggiori dell’agglomerato, per un lavoro che avrebbe rifiutato persino un maniaco suicida, e non era assolutamente il caso di perdere quello sputo di concentrazione che ero riuscito ad accumulare con fatica. Ma, Daphne. In un momento percepii quei colori pastello, morbidi. Il volto di Daphne confuso in un odore leggero. Una stanza calda. Avevo sempre avuto l’agilità di un trapezista nell’entrare e uscire da una cena romantica con effetti collaterali. Ma in quegli ultimi anni mi ero probabilmente appesantito, a forza di hamburger al curry, fino a percepire tutta la difficoltà che avevo adesso nel chiudere quel messaggio con la mia solita disinvoltura. Un sorriso in una giornata di merda riesce sempre a toccare nel punto giusto, ma non era soltanto quello. E me ne ero reso conto da quando avevo preso quel foglietto lasciato sul cuscino e anziché accartocciarlo lo appoggiai accanto a Duffy Duck-Hartman. Stavolta era come se Daphne mi fosse rimasta dentro. Forse la verità era che invecchiando stavo diventando un po’ sentimentale. Con un colpo sordo si aprirono le porte dell’abitacolo. Avevo ancora gli occhi puntati sul tep e dispersi in qualcosa che in quel momento non era più lì. Il pollice mi si bloccò sul tasto Cancella. Avevo appena mosso un passo fuori dall’ascensore e mi sommerse un’ondata di vento freddo che trasportava l’odore di gomma bruciata e cibi piccanti, raccolto da un piccolo chiosco appena all’uscita del parcheggio. «Gamberi, li vuoi i gamberi?» fece il tizio del chiosco illuminato di verde e blu. Mi avvicinai sfiorando con il dito il tasto Memorizza, ma senza quella convinzione necessaria per premerlo. «Dammene quattro». Era un uomo piuttosto anziano, magro, con la pelle scura. Aveva i capelli bianchi, legati in una lunga coda fermata da una serie di amuleti di legno. Con gesti rapidi confezionò in un sacchetto due spiedini, su ognuno dei quali aveva infilzato due gamberi spalmati di curry e altre spezie piccanti. Appoggiai il tep in tasca, ancora con il destino di quel messaggio appeso a un filo. Affondai i denti nella carne saporita del gambero, mentre presi le scale per tornare sulla strada principale di Bombay. Alzando lo sguardo era già possibile intravedere i palazzi dalle forme orientali illuminati in maniera eccessiva. Là dietro si nascondeva il buio. La vera Bombay. Così decisi di mettere al sicuro un buon motivo per uscirne vivo. Memorizza. Ero sulla strada principale. Traffico, musica, grida. La prima faccia di Bombay era simile a una discoteca per matrimoni etnici da domenica pomeriggio. E io mi sentivo adeguato a quella situazione quanto un punk a un convegno di casalinghe. Solo che le mie casalinghe viaggiavano con arnesi da venti centimetri di piombo e tanta voglia di vedere che effetto avrebbero avuto su un culo bianco come il mio. Era un posto in cui la normale amministrazione della giustizia non prevedeva l’intervento della polizia, che si sarebbe presa il disturbo di arrivare fin là soltanto in assetto da guerra, magari per reprimere una sommossa. Per sentirmi più sicuro mi strinsi nel giaccone, sfiorando con le dita i miei due biglietti da visita sistemati nelle fondine ascellari. Sigillai il colletto per coprirmi dal freddo e infilai gli occhiali scuri. Con la mano sinistra manovravo i controlli nascosti in tasca. Regolando gli infrarossi ottenni una visualizzazione di avvertimento per le armi che avevano fatto fuoco negli ultimi 20 minuti. Secondo il vecchio Tad, chi aveva appena sparato si sarebbe fatto meno scrupoli degli altri a sparare di nuovo. Il Tropical dance stava su una parallela della principale, non molto distante dalla zona dove mi trovavo. Avevo già controllato una mappa elettronica sull’auto-terminale, e se ne avessi avuto bisogno avrei potuto collegarmi a qualche canale di informazioni con il tep e seguire il satellitare. O chiedere a qualcuno, cercando magari di capire se sarei potuto entrare in quel locale senza troppe difficoltà. Attirai meno attenzione di quella che temevo. Soltanto qualche gruppo di ragazzi, piuttosto giovani, che non mi tolsero gli occhi di dosso mentre passavo accanto alle loro donne. Arrivato alla traversa che avrei dovuto prendere controllai attentamente quanti vicoli e angoli bui ci fossero. Una strada molto stretta. C’erano tre punti pericolosi, che avrebbero potuto nascondere più di una persona. Aprii il giaccone e infilai la mano destra fino ad afferrare il manico della S&W. Regolai gli occhiali per segnalare sorgenti di calore di grandezza superiore al metro, così da comprendere anche qualche pantegana gigante che non mi sarei meravigliato di trovare in un posto simile. Prima di imboccare la secondaria incrociai lo sguardo in quello di un vecchio seduto a terra che succhiava fumo dal suo narghilè. Sprofondato nel liquido, che riempiva la parte bassa dello strumento dell’oblio, c’era un piccolo serpente ancora vivo. Produceva un effetto simile al rospo, ma molto più forte. Diluito in sostanze fluide era sopportabile. Il vecchio staccò le labbra dalla cannuccia e mi fissò buttando fuori una nuvola di fumo verde. Poi scoppiò in una risata lenta e strozzata. Mi voltai di nuovo nella mia direzione. E lasciandomi la principale alle spalle, presi la secondaria accompagnato dall’allegria distorta del fumatore di serpente. Avrebbe ripreso a nevicare prima di domani, secondo le previsioni del satellite americano Pinochet III. Era freddo. Era tutto buio e freddo. Camminavo a passo deciso e la poca neve rimasta ammorbidiva il rumore di gomma degli anfibi. Il rivelatore di sorgenti di calore distinse qualcosa nel terzo punto pericoloso che avevo individuato prima di entrare. Mi portai sul lato opposto della strada, continuando a camminare in maniera disinvolta. Il cemento dell’edificio mi impediva di visualizzare con più precisione di cosa si trattasse, ma riuscii comunque a individuare un’arma da fuoco. Era calda. Mi fermai. Alzai la testa. Ai piani superiori era tutto tranquillo: niente di particolare. Attraversai la strada e ripresi a camminare a passo sostenuto sul lato dove era nascosto il tizio, in questo modo gli sarebbe stato più difficile puntarmi addosso i suoi argomenti di conversazione. Pensai subito a qualche criminale da strada, pericoloso più per le droghe che lo sconvolgevano che per l’efficienza pianificatrice del suo atteggiamento criminale. Ancora una volta gli insegnamenti di strategia che il vecchio Tad mi aveva impartito sulla base delle lezioni del Maestro Tzu mi guidarono con sicurezza: «Coloro che conoscono le condizioni del nemico sono certi di sottometterlo». A due passi dal vicolo dove si nascondeva il nemico afferrai la Browning. Un brivido mi percorse la spina dorsale, restituendomi quella scarica elettrica che l’adrenalina produce nel preludio di un atto violento. E al passo successivo il tizio mi si presentò di fronte, come avevo previsto. In un attimo tesi la canna della nove millimetri puntata su di lui. Ma avevo peccato di approssimazione: non era solo. Sentii in faccia l’urto di un qualcosa freddo e metallico, e nella frazione di secondo che il dolore impiegò per esplodermi in testa, mi resi conto di essere finito in una situazione molto, molto brutta. Con la pesantezza triste di un vecchio pugile sconfitto, crollai a terra. Qualcuno mi dette un calcio alla mano che impugnava la semiautomatica, facendola rotolare a qualche metro da me. E mentre percepii appena la figura di un tizio che si chinava a raccoglierla, mi sentii strattonare per il collo e mi trovai davanti la brutta faccia di un indiano. «Benvenuto a Bombay, stronzo». L’altro non era un orientale. Infilò la mia pistola in una tasca del suo bel cappotto rosa e giallo. Un capo niente male, costoso. E questo confermava il fatto che non mi trovavo a terra di fronte a un drogato qualsiasi, il che era un’altra brutta notizia. «Fallo fuori» disse l’occidentale con un accento straniero. «Guardiamo cosa si porta dietro, prima» gli rispose l’indiano. Avevo un gran dolore alla testa, e accanto a me ne scoprii la causa: una bella spranga di ferro con una macchia rossa sopra. Sangue fresco, il mio senza dubbio. Non sarebbe stato un caso straordinario, per uno come me, finire la carriera in una situazione simile: in un vicolo periferico con due tizi che non c’entravano niente con me e con il mio lavoro, e che mi avrebbero fatto fuori per liberarsi in un modo o in un altro della mia presenza indesiderata. L’occidentale si era avvicinato a una grossa lamiera appoggiata al muro. E mentre l’indiano continuava a fissarmi decidendo da dove iniziare a mettermi le mani addosso, l’altro spostò la lamiera, dietro la quale erano rannicchiate due ragazzine. «Tu fai quello che devi fare e io intanto mi diverto». Il culobianco iniziò a sganciarsi i pantaloni di fronte alle due ragazzine, che fissavano il vuoto con uno sguardo spento. E mentre si pregustava il suo divertimento si mise a canticchiare una canzone che mi tolse ogni dubbio: aveva un accento esteuropeo. «Va bene, stronzo, guardiamo cosa c’è in queste tasche». Ora o mai più. L’indiano aveva fatto un errore: era troppo sicuro di sé. Afferrai la sbarra. L’occidentale si voltò mentre il suo complice franava a terra con le mani sulla testa. Ma non fece in tempo a prendere la sua pistola, perché anche un pugile vecchio e stanco sa aggrapparsi a tutto quello che ha per rialzarsi prima del dieci. Con i pantaloni calati si vide arrivare addosso quell’affare di ferro. Poi ne sentì soltanto il dolore, quando per la seconda volta si abbatté su di lui. E per la terza. E per la quarta e inutile volta lo colpii quando già era a terra. A quel punto, tornai dall’indiano. Oltrepassata una certa soglia, la violenza ti lascia precipitare in uno stato di estasi adrenalinica. Così gettai la sbarra e presi la S&W, e la infilai in bocca al mio aggressore aprendomi strada tra i suoi denti. Avevo il respiro affannato di una bestia che ha lottato per la propria vita. Portai l’indiano accanto al suo socio, e quando furono entrambi davanti a me, estrassi lentamente il cannone dalla bocca del nemico, tenendo entrambi sotto il tiro della 44 Magnum. «Pezzodistronzo, m’hai spaccato i denti» urlò l’indiano mentre lentamente stavo tornando in me. Controllai le ragazzine. Lineamenti orientali. Accanto a loro, appoggiata per terra, una siringa usata. Infilai la mano sinistra in tasca e manovrai i comandi degli occhiali per verificare, in base alla loro temperatura corporea e al colore delle pupille, se avessero preso qualche droga particolare. Erano strafatte. Mentre l’occidentale rantolava a terra e il suo socio si raccoglieva in mano i frammenti dei denti che gli avevo spaccato, cercai di fare il punto della situazione. E’ strano come a volte sia necessaria un’infinità di tempo per decidere con quale salsa condire un hot dog, e come invece siano immediati i percorsi di pensiero sollecitati dalle situazioni più estreme. Si tratta forse dell’ultimo bene ereditario che conserviamo nel nostro patrimonio genetico, ma quella gran trovata che si chiama “istinto di sopravvivenza” tira fuori il meglio di te proprio nelle situazioni dalle quali soltanto il meglio di te può farti portare fuori le gambe. Così misi insieme due o tre considerazioni abbastanza elementari e tirai le somme. «Adesso abbiamo un problema, boccuccia mia – provai a spiegare all’indiano – punto primo: se vi lascio andare voi due cazzoni andate a chiamare qualche amichetto per organizzarmi una festa a sorpresa. Punto secondo: uno di voi potrebbe servirmi dove sto andando, ma non posso portarvi dietro tutti e due, perché dovrei stare troppo attento e con la giornataccia che ho avuto non ci riuscirei. Quindi penso che uno dei due lo farò fuori qui, così se alle vostre amichette viene fame possono mangiarselo, e l’altro me lo porterò dietro». «Oh, cazzo dici» al culobianco tornò la parola. «Vai piano amico, noi cercavamo un po’ di soldi. Tutto qui. Non facciamo stronzate sì? Spacciamo solo un po’ di merda, amico». «Già, lo vedo. Stavi soltanto testando il prodotto vero?» dissi indicando le ragazzine. Ogni volta che quella roba passava dalle periferie al nucleo il suo valore cresceva in modo esponenziale, e con i “canali giusti” non era neppure troppo difficile. «Oh, amico, a queste troiette piace sai?». Perdeva sangue alla testa, il che mi ricordò che su quella spranga c’era anche il mio. Con la mano andai a controllare nel punto in cui avevo preso la botta. Un taglio non troppo profondo. Molto meno del suo. C’era un portone aperto. Li portai lì dentro e all’indiano feci legare il socio sanguinante alla ringhiera delle scale, imbavagliandolo con pezzi di stoffa strappati dal suo cappotto giallo e rosa. Poi mi avvicinai e, mentre riprendevo la Browning dalla sua tasca, gli dissi sottovoce: «Se dovesse arrivare una pantegana, tu non muoverti, vedrai che non ti morde, magari si limita a leccarti il sangue». Feci cenno all’altro di tirare fuori le ragazzine. Riuscivano a stare in piedi, si muovevano come automi al comando dell’indiano. «Cosa hanno preso?» gli chiesi. «E’ una miscela, annulla qualsiasi volontà. Molto rilassante» e sorrise con la bocca che perdeva ancora sangue dalle gengive con i denti spaccati. «Conosci il Tropical?» gli chiesi. «E’ un posto merdoso, che ci vai a fare? Se vuoi divertirti, brutto stronzo, ti ci porto io in un posto buono. Però mi paghi che devo ricomprarmi i denti». «Devo entrare al Tropical e se è un locale riservato a voi indiani, devi farmi entrare tu. Poi ti ripago la dentiera». «Ma non darmi altre botte okay?». Mi voltai verso le ragazze e dissi loro lentamente: «Andate a casa». Si incamminarono lungo il vicolo. Poi mi rivolsi all’indiano con l’invitante bocca del revolver: «Muoviti». Come sospettavo era un posto dall’ingresso riservato. Accanto all’insegna Tropical dance c’era uno schermo pubblicitario con una donna sugli ottanta che ballava insieme a Marlon Brando, un grande eroe della vecchia Hollywood che adesso andava forte nella versione olografica del Selvaggio per accompagnare le anzianotte a ballare il mambo. Sullo schermo c’era scritto Scuola di mambo per signore con Lula e Marlon. Da Prisco ancora nessun messaggio. Probabilmente aveva deciso di non esporsi, e quindi di non darmi una mano a convincere Lula a parlare. Ero solo, come al solito. Cercai di ripulirmi dal sangue e feci in modo che anche la mia guida fosse presentabile. Così, dopo avergli spiegato che al minimo scherzo gli avrei aperto un buco nella pancia, entrammo. Alla biglietteria una ragazza ci chiese se avevamo prenotato la lezione. Il mio nuovo socio le spiegò che sua nonna era là dentro ad attorcigliarsi attorno al divo virtuale, e che doveva prendere assolutamente degli integratori altrimenti sarebbe stramazzata al suolo «Mi spiace ma non posso proprio farvi entrare». Mentre rispondeva si presentarono due energumeni afro in completo da sera. Avevano uno sguardo molto serio. Per evitare di essere perquisito mi riempii la faccia con un’espressione da ebete. Lo sdentato si avvicinò alla ragazza abbastanza per parlarle sottovoce: «Ascolta bimba, io lavoro per Colo-colo, il caraibico che gestisce il giro dei Castelli, mi capisci? Tu facci entrare e io faccio il tuo nome per andare a lavorare fuori da questo posto di merda, okay?». La ragazza lo fissò per alcuni interminabili secondi durante i quali i due bestioni neri mi si avvicinarono, sovrastandomi con la loro mole. «E’ il nipote di Jasmeenda, fatelo passare. E’ qui con un suo amico per portarle delle pillole». Si voltò verso di me e mi sorrise con complicità. Allungò un foglietto allo sdentato, che entrò tra i due afro. Io la ringraziai con un cenno della testa e seguii l’indiano. L’interno del locale era formato da un’unica stanza colorata con variazioni di blu e azzurro. C’erano fiori ovunque. La pista da ballo si trovava proprio al centro, circondata da due file di colonne. Era in quel punto che le signore, una dozzina tra gli ottanta e i novanta, avvolte nei loro vestiti gialli e rossi, assistevano alla loro lezione, muovendosi pesantemente a piedi nudi e agitando rumorosi monili alle caviglie. Si dondolavano con le mani alzate formando un semicerchio, al centro del quale Marlon Brando in canottiera, con un foulard rosso legato alla vita, mostrava alle sue ragazze i passi che avrebbero dovuto eseguire. In realtà, loro si limitavano a dondolare, ridere e battere le mani osservando il divo di Hollywood che ondeggiava le anche. Appoggiata al bancone del bar, seduta su uno degli sgabelli, una ragazza bionda stretta in una seconda pelle nera semiluccicante. Lula. Nascosti dalle colonne aggirammo la pista da ballo per raggiungere il bancone. Lo sdentato si fermò distante da Lula, che ci aveva visti entrare e ci aveva seguiti con lo sguardo che ancora ci teneva incollato addosso. «Io prendo un po’ di ghiaccio, quando hai fatto dammi i soldi» mi disse l’indiano mettendosi a sedere e chiamando il ragazzo che si trovava dietro il bancone. «Lula?». Non era più giovanissima, probabilmente superava di un pezzo i quaranta, ma non faceva molto per nasconderlo, ed era una donna molto bella. «Sì, sono io, tu chi dovresti essere?». «Fargo, un investigatore privato. Dovrei farti qualche domanda». «Cos’ha fatto il tuo amico alla bocca?». Mi voltai e vidi l’indiano che si tamponava le gengive con i cubetti di ghiaccio. «E’ inciampato sulle scale, una brutta caduta». «E per chi lavori, Fargo l’investigatore privato?» la sua voce era molto rovinata, probabilmente dal fumo verde del serpente che aveva imparato ad apprezzare da quando Kakari l’aveva tolta dal Colyssex per infilarla in questa fogna. Per chi lavoravo? «Il mio cliente preferisce rimanere anonimo». In quel momento mi arrivò un messaggio grafico da parte del mio anonimo cliente. Un tempismo niente male. Tenni gli occhi, sempre nascosti dalle lenti scure, fissi su Lula. Se avessi letto qualcosa del tipo ti hanno teso una trappola non andarci, avrei rischiato di perdere il mio buon umore. Lei mi fissava. Presi il tep: Con Lula è tutto apposto, scusa il ritardo. «Avresti potuto dirmelo» le dissi. «Sì, avrei potuto». Inarcò divertita le sopracciglia e mi fece cenno di seguirla in uno dei divanetti nascosti tra le colonne. Mi accomodai accanto a lei. «Gli uomini di Kakari mi tengono d’occhio dopo il casino del Mareblu. Non possiamo parlare per molto. Cosa vuoi sapere?». «Cosa è successo proprio al Mareblu. Per quale motivo la festa è finita in anticipo, per esempio». «Zebra doveva stringere un accordo con Calvani e voleva metterlo a suo agio». «Così ha fatto organizzare a Kakari, che poi si è rivolto a te, un festino a base di ballerine dalle mutandine non troppo strette, non è vero?». «Non solo». «Cioè?». «Calvani è un pervertito». «Di che tipo, gli piace vestirsi da Cappuccetto Rosso e farsi sculacciare?». «No. Gli piacciono i ragazzini». Come persona non sono mai stato un granché, ma c’era sempre chi riusciva a farmi schifo sul serio. «Così hai rimediato anche qualche ragazzino e via alle danze». «Sì, porcamerda, che dovevo fare?». Era al limite, e allentò la tensione sciogliendo qualche lacrima rimasta intorpidita da troppo tempo nei suoi occhi. «E allora?». «E allora portano Calvani in una stanza con due bambini, lui inizia a fare le sue porcherie. Ne lega uno e inizia a stringere mentre l’altro gli fa un servizio. Stringe. Stringe. Finché quel ragazzino si ferma. Immobile. Quel bastardo lo ha ucciso». Lula continuava a parlare mentre il quadro della situazione iniziava a farsi sempre più chiaro: «L’altro bambino inizia a piangere spaventato e Calvani uccide pure lui. Pedrag interviene, lo ferma, ma quello sembra impazzito. Avrebbe voluto continuare a uccidere». «E a questo punto cosa succede?» «Scoprono che c’è un tizio che ha registrato tutto con una microcamera, ma si è liberato del chip dove ha salvato le immagini e non riescono a trovarlo. Allora iniziano a torturarlo, ma Calvani prende una pistola e fa fuori pure quello. Cazzo. Pedrag con i suoi sciolgono tutti e tre nell’acido per non lasciare tracce, e poi portano via Calvani e Zebra». Bambini. E’ questo che Rak aveva ripreso. Calvani che violenta e uccide due bambini. Ero stomacato, fino in fondo. Dovevo ritrovare quelle prove, prima che il Tommaso Kleine assoldato da Pedrag le trovasse. «Lula, io ho bisogno dei file che ha registrato quel ragazzo. Dove posso trovarli?». «Aki, è una giapponese. Abita qui vicino, al 122. E’ una di quelle che di solito porto con me in queste feste organizzate. Sono sicura che ha tutto lei. Quando hanno trovato il ragazzo mi ha detto di conoscerlo. Di preciso non sa cosa sia successo, lo spettacolo di Calvani è stato per pochi intimi, quindi probabilmente non sa cosa le ha dato, ma se la conosco bene lo ha messo al sicuro. Io ho visto qualcosa, ma me la sono tenuta per me perché in questa storia non voglio più entrarci niente». «Quel ragazzo aveva avuto la soffiata da Megamix, lo sai vero?». «Merda, no. Non lo sapevo. Quel coglione». C’era un motivo per cui l’avevo detto. Non potevo sopportare l’idea che uno scarto come Max Megamix se la facesse con quella donna. Una donna così affascinante persino mentre piange. E dovevo verificarlo. «A quanto pare è il tuo ragazzo ad averti messa nei casini». «Il mio cosa? Vaaffartifottere Fargo l’investigatore privato». Ottima risposta, quella che volevo. Mi alzai e mi rivolsi al bancone del bar cercando qualcosa da bere. Sopra la collezione di bottiglie del Tropical campeggiava l’enorme terminale parietale. Stava trasmettendo Stasera a casa mia, con Johnny Live che intervistava due donne, forse madre e figlia, sedute sul loro divano. Al bancone l’indiano stava accartocciando il biglietto che gli aveva dato la ragazza dell’ingresso, sul quale aveva scritto il suo nome nella speranza di lasciare quel posto. «E così, per una fetta di Network siamo arrivati anche a questo. Anche ai bambini» dissi quasi tra me. «Non farmi troppo il moralista, se ti ho detto tutto è perché voglio finirla con questa merda. Voglio lasciare Kakari e tornare con Prisco, lui una cosa del genere non si sarebbe mai sognato di chiedermela. Ma lo sai come funziona. Obbedire, obbedire e obbedire». Si fermò e abbassò lo sguardo, come se stesse cercando sul pavimento qualcosa da frapporre tra lei e quanto era successo. Poi, quasi distratta, aggiunse: «E poi il Network non c’entra niente». Continuava a piangere, singhiozzava. Ma quando pronunciò quella frase riuscii a sentirla alla perfezione. Il Network non c’entrava niente. E per quale motivo, allora, avevano organizzato quella festa? «Cosa vuol dire che il Network non c’entra niente?». «Era una questione legata al Policlinico, c’era anche qualche dottore, chirurghi o cose del genere, al Mareblu». Dovevo spremerla ancora, ma era veramente uno strazio, perché ormai era ridotta a pezzi. Aveva bisogno di prendersi qualcosa di forte e rimanere in stand by per un paio di giorni. Così, in perfetta sintonia con i miei pensieri, Lula prese da una tasca interna della sua seconda pelle una piccola fiala con un liquido rosso. La stappò e scoprì un inalatore in ottone che si infilò nel naso aspirando con forza. Pochi secondi, non feci in tempo a fermarla. C’era ancora soltanto una domanda che volevo farle. «Cosa c’entra Calvani con il Policlinico?» provai a chiederle, ma Lula stava ancora piangendo quando la testa le cadde indietro. E non rispose. Presi il tep. Iniziai la ricerca in quello scomodo microterminale. Calvani era nella commissione del Network, era vero, ma non era l’unica carica che aveva accumulato. Tra le altre sulle quali al terminale del Planet non mi ero soffermato, certo di aver trovato la pista giusta, c’era quella di presidente del Consiglio di amministrazione del Policlinico. Incarichi che non avevano niente a che vedere tra loro, ma quella era la logica di spartizione del potere per gli amici del Presidente, non era niente di straordinario. Cosa cercava Zebra nel Policlinico? Lasciai il divanetto e tornai al bancone. Afferrai una bottiglia di JD e iniziai a bere. I pensieri si fecero più fluidi. Zebra, il Policlinico, chirurghi a quella festa. Conoscevo l’agglomerato, il vecchio Tad diceva che soltanto così avrei potuto fare quel lavoro e sperare di restare vivo. Che cosa aveva il Policlinico di particolare? Un’altra sorsata a riempirmi la gola. I medici migliori della città, la clientela più facoltosa della città, i migliori prodotti in fibre di silicone della città. I trapianti. Era la struttura più attrezzata per i trapianti di organi, ed era lì che andavano tutti quelli che potevano pagare bene e permettersi un gran bel lavoro, dalle mani capaci dei chirurghi più qualificati dell’intero agglomerato. Le altre strutture sanitarie operavano di rado quel genere di interventi. I trapianti di organi erano un giro d’affari prezioso. I figli del Grande benessere potevano comprarsi un fegato o un rene anche soltanto per ringiovanire il proprio organismo. Il miraggio era l’immortalità, o quantomeno una vita molto più lunga. Il novanta per cento degli organi proveniva dalla coltivazione di laboratorio. Erano colture estremamente costose e delicate, Zebra avrebbe potuto mettere su un centro di coltura e cercare di convincere Calvani ad affidargli la fornitura del Policlinico. Forse stava cercando di accordarsi con quei medici, o forse cercava di comprarli. «Allora, mi dai i soldi per i miei denti per favore, o devo cavarli al mio amico per poter masticare un gambero?» disse l’indiano riportandomi con la mente al Tropical. «Datti una calmata, prendi qualcosa da bere». Il suo amico. I denti li compra o li toglie a lui. Il suo amico con l’accento esteuropeo. Un amico con l’accento esteuropeo che gira per Bombay a vendere droga. Un esteuropeo che gira per Bombay a somministrare droga a ragazzine che perdono ogni volontà e rispondono a qualsiasi ordine. I denti li compra o li toglie a lui. Che idiota. Ero un vero idiota. Mi riempii la bocca di JD e andai a prendere l’indiano. «Vieni un attimo di là che sistemiamo questa storia dei soldi, così puoi andartene». Mi voltai e mi feci seguire nei bagni. Appena lui si chiuse la porta alle spalle, spaccai la bottiglia su un cesso, afferrai lo sdentato per il collo e gli aprii uno squarcio sulla guancia. Il suo sangue caldo mi schizzò in faccia. «Adesso dimmi cosa ci facevi con quel serbo, figlio di puttana». «Quello lavora per un pezzo grosso, merda mi hai rovinato la faccia» urlava come un isterico. Per farlo smettere dovetti affondargli un pugno nello stomaco che gli tolse il fiato e la voglia di farsi sentire. «Avevi detto che non mi davi più botte» riuscì appena a sibilare. «Cosa cazzo facevi con quel serbo». «Lui viene qui, a volte vengono altri. Io gli porto ragazze che vogliono conoscere qualcuno che viene dal nucleo e loro gli offrono la droga. Poi le ragazze vanno via con loro. Vanno via con i furgoncini». «Che tipo di furgoncini?». Conoscevo già la risposta: «Sembrano ambulanze, qualcosa del genere». Adesso era tutto chiaro. Zebra mandava i suoi rottinculo nei quartieri poveri. Questi adescavano manodopera promettendo un lavoro in uno dei locali del nucleo che l’organizzazione controllava. Sistematicamente i pesci cadevano nella loro rete, e non appena perdevano la loro volontà grazie alla somministrazione di particolari alchimie, gli uomini del serbo li caricavano sui loro furgoncini. Furgoncini che sembravano ambulanze. E operavano. Prendevano i loro organi e li vendevano al mercato clandestino. I corpi delle vittime finivano probabilmente in qualche inceneritore. Ma passare al mercato istituzionale, quello protetto dalla forma più schifosa di legalità che soltanto la corruzione può assicurare, avrebbe fruttato fino a dieci volte di più. Il serbo cercava l’accordo con il Consiglio d’amministrazione del Policlinico, con Calvani e il suo seguito di adepti, che si sarebbero intascati una bella fetta dei proventi del mercato. Pagare con soldi delle assicurazioni sanitarie organi giovani da poter impiantare. Organi estratti da persone vive, non coltivati in laboratorio. Rimediati con il minimo di spesa, ma pagati quanto gli altri. E dividersi i surplus, tra mafiosi, assassini, dottori e amministratori politici. Per assicurarsi l’accordo Zebra aveva organizzato quella festa, concedendo al suo ospite la possibilità di sfogare i suoi disgustosi desideri sessuali. Ma Calvani aveva ucciso due ragazzini, e adesso, se qualcuno avesse voluto farlo saltare dalle sue poltrone, questo qualcuno aveva un mezzo efficace: un filmato. L’immunità politica totale avrebbe protetto Calvani anche dal duplice omicidio di minore, figuriamoci per quello di rak, ma un qualsiasi hacker avrebbe potuto organizzare sul Network uno spettacolo poco edificante per un “amico del Presidente”. Così Calvani sarebbe stato costretto a ritirarsi a vita privata per “sopraggiunti problemi di salute”. Qualcuno avrebbe parlato di un falso, prodotto da qualche artista grafico: di uno scherzo. Ma, come avrebbe detto il vecchio Tad: «Una volta stappata la fogna, il puzzo di merda rimane». Per Zebra, perso Calvani perso l’affare. Così il faccendiere del boss, Pedrag, aveva ingaggiato un Tommaso Kleine per recuperare i dati. Trovare quei file avrebbe dato una bella spinta a Prisco. Non ero l’esercito della salvezza: avrei guadagnato un sacco di soldi con quel lavoro, ma non era solo questo. Se in qualche modo avevo l’opportunità di tirare un colpo al traffico di organi di quei macellai, quel colpo era già in canna. E non vedeva l’ora di uscire, con tutta la forza e la rabbia che la mia vita aveva messo da parte per quel momento. Presi un’altra bottiglia di JD dal bancone del bar. Lasciai dei soldi a Lula, forse ne avrebbe avuto bisogno una volta che si fosse ripresa dal suo stordimento. Attraversai la pista da ballo tagliando in due Marlon, con profondo disappunto delle sue ragazze. Bevvi di nuovo. Adesso era tutto estremamente chiaro, ma ancora legato a una serie di circostanze dall’esito incerto. Pericolose, ma almeno non asfissianti come un impianto paesaggistico dietro il quale si nascondeva sicuramente il solito schifo. Salutai i due afro-dinosauri. Salutai la ragazza della biglietteria e uscii in strada, verso il numero 122. Verso Aki. L’indiano non mi aveva seguito. Aveva fatto bene. Ma in strada mi accorsi di qualcuno che aveva appena svoltato l’angolo alle mie spalle. Continuai a camminare sbottonando il giaccone. Mi portai in mezzo alla strada. «Figlio di puttana» lo sentii urlare, e la voce era quella del serbo con il naso rifatto. Un momento. Giusto il tempo di afferrare la S&W con la destra e la Browning con la sinistra. Voltandomi. Stava correndo verso di me, con una mano sul naso e l’altra aggrappata attorno alla sua sputapiombo. Tre colpi. Il primo mi sfiorò, aprendomi un taglio sul braccio sinistro. Mirava al cuore il bastardo. Il secondo, calibro 44 Magnum, gli aprì la testa. Il terzo, qualità esplosiva di ultima generazione, vomitato dalla bocca della mia nove millimetri, gli aprì un buco nel torace. Rimasi immobile qualche secondo con le due canne fumanti, come un pistolero da film western. Alcol e violenza si erano alimentati in un’alchimia adrenalinica, esaltata da quel trionfo. Stavo perdendo il controllo, e la mia parte peggiore era lì, sempre in agguato. Dedicai al vecchio Tad il giro attorno all’indice che fece il revolver prima di tornare nella fondina. Regolai gli occhiali per individuare altre forme di vita più o meno intelligente. Nessuna. Anche i due security del Tropical pensarono di restarsene con le loro ragazze innamorate di Marlon. Quel che rimaneva del serbo era a pochi metri da me. Circostanze dall’esito incerto. Prenotai un altro tavolo per due alla pizzeria Sole&amore. Sapevo che se Prisco avesse conosciuto l’intera storia non avrebbe esitato a infervorarsi ancora di più, mettendo sul piatto qualche altro piccolo omaggio per le mie prestazioni straordinarie. Far fuori un uomo del serbo era comunque un rischio, mandargli a monte un affare del genere poteva voler dire mettersi una taglia sulla testa. E il mio biglietto per un viaggio di non ritorno in una guerra tra bande, lo avevo appena timbrato. Mentre proseguivo tra i vicoli di una Bombay sempre più sporca e buia, accompagnato dal puzzo di carne bruciata che usciva dallo squarcio del mio giaccone, iniziai a prendere coscienza di quanto fossi solo. Il mio unico contatto, la mia unica garanzia, era un tizio scomparso da anni negli abissi del crimine politico. Era tardi per rendersene conto, ma non sapevo dove si trovasse, non sapevo con chi, non sapevo perché, come. Se fosse stato tutto un bluff, la mia carriera di mercenario sarebbe stata prossima a una svolta. Non un pensionamento, però, diciamo piuttosto un ritiro dal mercato. Era quel posto a rendermi così? Era il buio, il trovarmi così lontano dal mondo che conoscevo. Perdermi nelle periferie esterne dell’agglomerato. Evolvermi verso un nuovo equilibrio, verso una nuova consapevolezza, lungo i sentieri della conoscenza orientale. Il vecchio Tad mi aveva avvertito: «Ogni volta che avrai paura del buio, fermati e rifletti. Perché nel buio vedrai soltanto te stesso». Bombay, c’era qualcosa in quel buio. C’era qualcosa in quel sentirmi così lontano da tutto. Non ero più soltanto un Pessimista: ero qualcosa di diverso. Qualcosa che correva su una lama molto sottile. Se il ritorno di Prisco fosse stato una bufala, gli uomini del serbo mi avrebbero scuoiato vivo. E il tavolo per due al Sole&amore, questa volta, non era ancora pronto. Passai accanto a una piccola traversa. I sensori degli occhiali rilevarono forme di vita, e concentrandomi in quella direzione, riuscii a distinguere un gruppo di bambini. Erano avvolti in pesanti coperte di lana sintetica, accucciati contro un muro. Mi stavano guardando. Qualche pantegana gigante sarebbe passata di lì attirata dall’odore dei loro escrementi, e li avrebbe aggrediti, cercando di affondare i suoi denti nella loro carne. Quel tipo di sentimento è difficile da mandare giù. Di solito si ferma in gola. In quelle condizioni si trovavano migliaia di bambini soltanto in quel quartiere. Poi c’erano gli altri. E la situazione peggiorava mano a mano che si procedeva verso l’esterno. Sempre più freddo. Come l’inferno. Un inferno gelido, dove la morte ti assale lentamente mentre il calore lascia il tuo corpo. Nel nucleo persino i vecchi non avevano mai freddo. Lì, a Bombay, quel freddo lo conoscevi quando venivi al mondo. Mi avvicinai. Erano in tre. La neve si era raggrumata sulla strada bagnata. I tre piccoli erano appoggiati al muro. Uno di loro sembrava dormire, aveva gli occhi chiusi e un respiro pesante, ma dai rapidi movimenti della testa dimostrava di essere sveglio. Malato, forse, di qualcosa di terribile che proveniva da quel posto, dove ogni uomo è solo a difendersi dalla pazzia. Gli altri due mi stavano osservando. Intorno porte divelte, lamiere appoggiate. Nessuno. Mi abbassai di fronte a loro. Come aveva previsto il satellite Pinochet III, riprese a nevicare. I primi fiocchi di quella neve sporca, intrisa di smog e gas di scarico, caddero sulle loro coperte sintetiche. «Arriveranno i topi giganti, tra poco» disse uno di loro. Era vero, sarebbero arrivati. L’altro prese un pezzo di pane e dette un paio di morsi, poi se lo ripose sotto la coperta. Non so di preciso cosa mi passò per la testa, ma io non sono una brava persona, non lo sono mai stato. E per quelli come me anche aiutare qualcuno si traduce in qualcosa che rischia di essere terribilmente sbagliato. Ma i topi giganti mordono, e conoscevo un solo modo per aiutare quei bambini, nel cuore cattivo di quel qualcosa che adesso ero e che stava correndo su una lama sottile. E che dietro di sé lasciava ormai solo terra bruciata, sulla quale non sarebbe più potuto tornare. Presi la Browning e i caricatori esplosivi. E la porsi al bambino che aveva parlato. «Quando arriveranno, tu spara». Il bambino accolse nelle sue mani il dono dell’uomo cattivo. Mi tolsi gli occhiali per guardarlo negli occhi. Lui sorrise con la sua pistola in mano. Chissà, se fosse sopravvissuto, forse, si sarebbe ricordato di me. Forse avrebbe affidato a suo figlio quella bocca di fuoco, raccontandogli di quella notte oscura in cui uno straniero gliela donò. O forse, una sera, tornando a casa vecchio e incazzato, me lo sarei trovato di fronte a puntarmi in faccia la mia nove millimetri, pronto a farmi fuori per quella miseria di soldi che avrei avuto in tasca. Ma quella notte avrebbe dovuto sparare alle pantegane. Sparare a quelli come l’onorevole Calvani. Mi alzai rimettendo gli occhiali. «La notte sarà lunga, amico. E fredda. Cosa pensi di fare?» gli chiesi. «Nostro papà tornerà e ci porterà al caldo». Forse era vero. Forse suo padre si trovava nei cessi di un locale per sole donne a medicarsi un taglio sulla faccia. Forse li avrebbe portati al caldo. Forse. Mi voltai. E tornai sulla strada. Il 122 era un edificio che come tutti gli altri in quella zona stava cadendo a pezzi. Lamiere appoggiate come toppe nelle parti dove il cemento armato era venuto giù. Quelle costruzioni erano state un tempo un goloso lotto da edificare per qualche compagnia edilizia. La compagnia pagava la Commissione per le concessioni, si vedeva assegnato il bando, iniziava a edificare con materiale di scarto e i palazzi iniziavano a crollare puntualmente appena dopo la firma dei contratti di acquisto con i consorzi etnici. E venivano rattoppati, scaldati con i fuochi accesi dove gli impianti di riscaldamento non funzionavano. I condizionatori atmosferici lavoravano male e persino l’aria era pesante, gonfia, amara e impastata di quel sapore di chimico che raschiava la gola. In origine doveva essere stato un palazzo piuttosto alto, ma adesso gli ultimi piani erano crollati e ne rimanevano in piedi soltanto cinque. Aki. Non era abbastanza per trovare il suo appartamento. Mi avvicinai al portone. Era divelto, soltanto appoggiato sull’apertura. Lo scostai e mi arrivò addosso una nuvola di cenere, i resti di un qualche fuoco acceso per sconfiggere il freddo. Entrai. Mi trovavo in un pianerottolo. Alla mia destra la rampa delle scale e sotto i gradini la cabina per l’ascensore, dove, a giudicare dalle mefitiche esalazioni che ne provenivano, avrei probabilmente trovato un cadavere, un topo gigante o qualcosa di ancora peggio. Alla mia sinistra pochi gradini portavano al pianerottolo. Due porte. Mi avvicinai alla prima. Appoggiai l’orecchio in cerca di segni vita. E ne trovai uno. «Vattene o sparo». La voce, femminile, proveniva dall’altra porta. «Signora, si calmi – dissi alzando le mani – sto cercando una ragazza. Sono di Alleanza Sociale. La nostra azienda sta facendo una verifica sulla vivibilità nei quartieri periferici». «Lei è dei servizi sociali?» chiese con un tono meno minaccioso. «Sì signora. E se lei ha reclami o richieste da inoltrare alla Commissione per l’assistenza, può rivolgersi anche a me». Il rumore delle serrature elettroniche è inconfondibile. La porta si aprì alle mie spalle, e voltandomi lentamente mi trovai di fronte una vecchia indiana con un fucile a pompa idraulica in mano puntato sulla mia faccia. «Un oggetto niente male, signora. Che ne direbbe di puntarlo da un’altra parte?». «Chi sta cercando? Ha idea di che ore sono?». «L’assistenza domiciliare della nostra azienda non dorme mai. Sto cercando Aki, la conosce?». «Sì». «E saprebbe indicarmi dove posso trovarla?». «Sì». Sapevo benissimo che a quel punto mi avrebbe chiesto qualcosa in cambio per abbassare il fucile e darmi quell’informazione. Era per quel motivo che avevo inventato la storia dei servizi sociali. «Magari dormirà poco, giovanotto, ma da queste parti era un pezzo che non vi facevate vedere». «Già, un colpevole ritardo, ma qui nessuno ha deciso di assicurarsi con noi, signora. E adesso può dirmi dove si trova Aki?». «Glielo dico se lei mi firma il modulo di richiesta per la pensione di mio marito invalido». «Suo marito è grave?». «Sì, è morto da cinque anni». «Va bene, mi porti pure il documento». «Mi faccia vedere la tessera». «Quale tessera, signora, non sono mica della polizia. Siamo una compagnia privata». «Non avete una tessera?». «No. Niente tessera». Richiuse la porta. Niente da fare. Avrei dovuto procurarmi qualche tesserino da portarmi in giro per quelle situazioni. Stavo per muovermi, quando la donna riaprì la porta e uscì sul pianerottolo. Aveva posato il fucile. «Cos’ha fatto alla spalla?» mi chiese indicando la bruciatura. «Niente di preoccupante, qualcuno di cattivo umore per una pensione di disoccupazione ritirata». «E lì?» continuò indicando il taglio sulla testa. «Il cattivo umore insisteva a non passargli. Dica signora, vuole farmi anche una radiografia o mi fa firmare la sua richiesta?». Mi porse il modulo. Feci uno scarabocchio e lo restituii sorridente alla donna. «Cosa farà adesso con tutti questi soldi, signora?». «Metterò apposto il salotto e comprerò un bel vestito. Così quando Johnny Live si collegherà con me per Stasera a casa mia farò una gran figura. E tutti questi morti di fame creperanno di invidia per me». Aveva un bagliore folle negli occhi: quella luce che dal Network infetta lo sguardo di ogni spettatore. Erano destinati a soccombere alla lobotomia neurosatellitare. Alla Demenza collettiva indotta, che persino nelle periferie esterne riusciva a vendere il suo prodotto principale: l’immagine di una felice società di consumo. «Adesso saprebbe dirmi dove posso trovare Aki?». «E’ quella – e indicò la porta alla quale stavo origliando pochi minuti prima – ma non c’è nessuno da qualche giorno». Nessuno. Da qualche giorno. Avevo una mezza idea di ciò che avrei trovato oltre quella porta. «Signora, si allontani. La ringrazio per la collaborazione. Inoltri pure la sua richiesta quanto prima». La donna rientrò nel suo appartamento fissando entusiasta il suo modulo, firmato da un certo responsabile assistenziale Cary Grant. Presi il craccatore e lo avvicinai al display della serratura elettronica. Da sotto la porta vidi uscire uno scarafaggio lungo un dito. Il livello di sicurezza di Aki era piuttosto basso, violabile con poco, e al craccatore furono sufficienti pochi secondi per aprire la porta. Quando la richiusi alla mie spalle, afferrai il revolver e misi mano ai controlli dei miei occhiali. Nessuna fonte di calore, a parte una decina di scarafaggi che correvano qua e là. Aki non c’era, oppure il suo corpo non aveva più alcun calore da rilevare. L’appartamento era piccolo e dopo pochi passi mi trovai nella camera. L’armadio aperto. Molti vestiti sul letto sfatto. Dalla porta del bagno aperta una luce intermittente illuminava una parte del pavimento. Scarpe, calze, magliette. Non era difficile capire che la giapponesina aveva deciso di cambiare aria, forse per mettersi al sicuro e capire cosa fosse quel dono così prezioso che al suo amico era costato tanto caro. Aumentai la visibilità con i controlli degli occhiali. La ragazza aveva un piccolo terminale appoggiato sul letto. Provai a leggere i suoi messaggi. Ma aveva cancellato tutto. Era il segno che sapeva di dover confondere le tracce. Che sapeva di doversi mettere al sicuro. Provai tra i vestiti. E appena aprii la prima anta dell’armadio, Aki aveva già scoperto qualche carta in più. Pantaloni, giacche, camicie, magliette, biancheria intima. Tutto rigorosamente squamato. Compresi stivali e scarpe. La giapponesina era un rettile. Le lezioni del vecchio Tad sui gruppi di appartenenza insistevano molto su un manuale di estetica, in cui era ripreso un concetto che aveva conosciuto negli anni Ottanta del secolo scorso il suo momento di massima espressione. Prima della Grande omologazione registrata alla fine degli anni Novanta, e che si era protratta per i primi decenni del Duemila, le masse che abitavano i paesi del Grande benessere, soprattutto le fasce più giovanili, avevano cercato di sviluppare un senso di appartenenza a qualcosa, esclusivamente con l’aiuto di fattori estetici. Già negli anni Sessanta e Settanta erano nati gruppi come i figli dei fiori, la cui appartenenza nasceva prima a un livello politico, di rifiuto della società consumistica e guerrafondaia, che poi si traduceva in un atteggiamento estetico. Con il tempo, però, svuotandosi la politica, l’estetica aveva preso il sopravvento. Così negli anni Ottanta, insisteva spesso il vecchio Tad, erano nati i paninari, i punk, i metallari, gli hip pop, i dark, i post ’68 e tanti altri sottogruppi la cui linea di pensiero, che faceva soltanto da optional a un certo tipo di abbigliamento, si esauriva nel ripetere frasi estrapolate dalle canzoni dei gruppi musicali di riferimento. Gli hip hop e i post ’68 erano durati più a lungo degli altri, aiutati i primi dal proliferante ambiente delle discoteche, i secondi dai centri sociali e dalla complicità di certi raggruppamenti politici. Finché centri sociali e partiti comunisti non furono ufficialmente chiusi dalla legge Baudo-Bongiorno del 2006. Quello che stava nascendo con i rettili era più o meno la stessa cosa. L’abbigliamento era completamente squamato e comprendeva una gamma di colori dal verde, al blu, al viola, al giallo. Nel mobiletto del bagno trovai le numerose confezioni di Deltavisu, tutte rigorosamente arancioni con classico taglio nero. Accanto alle lenti a contatto trovai anche la crema cicatrizzante per la lingua. In pratica i rettili più convinti si facevano tagliare la lingua fino a ridurla una sottile striscia biforcuta. Questo riduceva le potenzialità verbali, ma aumentava quelle sessuali. Una lingua sottile, più capace di esplorare il corpo, era per loro il simbolo del piacere. Dopo l’operazione, però, i tempi di cicatrizzazione erano piuttosto lunghi, e il processo doveva essere aiutato con l’uso di creme. Tutto il piccolo appartamento era invaso da quella roba. La sua era un’identità difficile da cancellare scappando di corsa. Adesso l’unico problema rimaneva il dove se ne fosse andata. Considerando anche che non avevo la minima idea di quale aspetto avesse Aki, a parte il fatto che era giapponese come migliaia di altre ragazzine, mi decisi a cercare delle foto. Iniziai a rovistare ovunque. La ragazza possedeva soltanto vestiti e biancheria intima ai limiti del sadomaso. E una bottiglia di vodka al melone. Iniziai a bere per sollevarmi il morale, di fronte a tutte le informazioni che non riuscivo a trovare. Poi saltò fuori da una scatola da scarpe, ripiena di cianfrusaglie adolescenziali, una busta con la scritta Overphoto. Scene di vita molto colorate, e in tutte c’era una giapponesina. Ciao Aki, è un vero piacere, pensai. Continuavo a buttare giù la vodka, e quel piacevole intorpidimento, che la bottiglia di JD presa al Tropical mi aveva lasciato in sospeso, riprese a percorrermi. Aki era molto giovane. Capelli neri, pelle molto abbronzata. Sorriso disinvolto. Le foto la ritraevano insieme ad altre persone. Altri rettili. E dietro ognuna c’era annotato qualcosa, una frase, un pensiero, un ricordo. Nell’ultima che trovai, Aki era insieme a Rak. Non aveva ancora le Deltavisu arancioni. Erano ragazzi, sorridenti. Dietro, nessuna scritta. Rak. Dedicai una profonda sorsata di vodka a quel ragazzo artificiale che mi aveva chiesto di spegnerlo. Per il resto, ero arrivato in un vicolo cieco. Prendere in considerazione tutti i locali dei rettili sembrava l’unica via. Ma ci sarebbe voluto tempo. Molto tempo. Troppo tempo. Riguardai le foto con più attenzione. Me ne trovai una tra le mani in cui Aki era abbracciata a una donna di una bellezza dolce e malinconica: Lula. Un fascino invulnerabile al tempo: persino i vestiti rettiloidi non riuscivano ad assumere su di lei quell’aspetto grottesco che avevano su chiunque. Sul retro, una scritta: Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola. Una poesia, forse. Un momento di intimità finito adesso tra le mani di uno sconosciuto. Tornai alla foto e notai qualcosa sullo sfondo. Mi ci soffermai sopra allargando l’immagine con gli occhiali. A quel punto lo vidi. Era lui. Era l’Iguana. IV Luminescenze bluastre attraversavano il cielo. Un profondo senso di isolamento mi aveva avvolto. Un’entità transeunte da un non luogo a un altro. Senza evoluzioni. Stavo seguendo un’orbita priva di centro, come il satellite impazzito che lascia il suo percorso per affidarsi al cosmo. L’universo mi apparve nella sua incompiutezza, mentre il fumo del serpente danzava, raccogliendosi in forme psichedeliche, sopra la mia testa. L’Iguana mi stava aspettando, e con lui la fine di questa storia. Aki. Il viaggio nelle periferie esterne mi avrebbe portato ancora più lontano dal nucleo, ai confini più estremi dell’agglomerato. I pensieri si confusero in un magma sempre più liquido. «A quanto pare non perdi le vecchie abitudini». Conoscevo quella voce. Ma non avevo ancora dormito abbastanza, e lo stordimento rimediato con il narghilè del servizio in camera non mi permetteva di aprire gli occhi. Avevo lasciato l’appartamento di Aki con quella fotografia e mi ero messo a studiare le prossime mosse. Per farlo, però, avevo bisogno di rilassarmi. Così ero tornato sulla principale di Bombay, dalle parti del Mahal parking, e mi ero preso una stanza al Sahil, un hotel con un ottimo room service a base di serpenti oppiacei da fumare, come faceva il vecchio che avevo incontrato qualche ora prima, appena arrivato nel quartiere indiano. Mentre mi sentivo sempre più etereo e svincolato, continuavo a fissare quella fotografia. Lui era un esemplare bellissimo. Che io sapessi non ne esistevano altri di quelle dimensioni. Si intravedeva appena, dietro Aki, che abbracciata a Lula, in quel momento, sembrava felice. Lui era alle loro spalle. Adagiato su una pedana di circa tre metri. Aveva un collare attorno al collo, ma non si sarebbe mai allontanato da lì. Si diceva che avesse una consapevolezza molto sviluppata del suo dono naturale, della sostanza che riusciva a secernere dalle sue squame. Era come se, rendendosi conto di questa sua capacità unica, non si sottraesse volutamente ai desideri dei rettili dal sangue caldo che aveva attorno. Tutti stretti nei loro pantaloni di serpente. Tutti allungati verso la pedana per leccare il dorso di quell’enorme iguana dalle squame blu. Era per via di quell’animale miracoloso che il Blue Iguana aveva quel nome, ed era uno dei locali più frequentati dagli squamati. L’enorme rettile era l’attrazione di quel posto, un esemplare unico. Magico. Leccandolo come si leccava il rospo consentiva esperienze al limite dell’extrasensorialità. Un’amplificazione estrema delle capacità percettive. Uno sballo tantrico proiettato verso un’altra concezione dell’esistenza. Ma a preoccuparmi sul serio era il fatto che quel locale si trovava ancora più verso l’esterno. Dove non c’era alcuna legge. Dove tutto era in mano a un potere tribale espresso da squamati strafatti di droghe. Era la degna conclusione del mio viaggio. E a questo stavo pensando mentre il fumo del serpente mi stordiva accompagnandomi dolcemente nel Paese delle meraviglie. Così, quando il mio Nirvana psichedelico fu interrotto da quella voce, che conoscevo bene e che mi stava rinfacciando le mie “vecchie abitudini”, dovetti aspettare qualche minuto prima di potermi voltare e risponderle. «Fargo, mi senti? Cristo, è ridotto di merda. Tredueuno, vammi a prendere dell’acqua». La voce continuava a nuotare nel mio cervello. Poi, lo schiaffo gelido dell’acqua mi richiamò al mondo reale. Ma non avevo certo le carte in regola per muovermici come se niente fosse. Avevo riagganciato quella stanza del Sahil, ma era una presa poco stabile, e rischiavo di ripartire per i miei paradisi artificiali quanto prima. Accanto al mio letto c’era il narghilè. Nell’ampolla in basso il serpente galleggiava morto sul liquido denso. Quella era la sua fine: moriva mentre il fumatore ne attingeva tutto il potere. Mi voltai verso la voce che conoscevo. «Ispettore Moretti, cosa la porta a Bombay» gli dissi mentre aprendo gli occhi realizzai la situazione: alle sue spalle c’erano due gorilla in assetto da guerra. Doveva trattarsi di un’operazione importante, e considerando gli interessi che erano in gioco con il caso di cui mi stavo occupando, non era fuori dal mondo ipotizzare una connessione tra il tizio che avevo di fronte e qualche protagonista della mia storia. Dalla finestra mi accorsi che era di nuovo sera. Quando avevo ordinato il serpente era più o meno l’alba. Meglio, non ero in condizioni di sopportare la luce del sole. «Tredueuno e Treduesei, raggiungete Duenovedue fuori dalla camera e aspettate lì, se c’è bisogno vi chiamo all’auricolare. Rimanete in attesa». Erano enormi. Sotto le corazze il movimento del respiro infondeva una parvenza di vita a quei bestioni. La visiera scura era sempre abbassata. «Soli, Fargo. Tu e io. Come stai?». «Come al solito. Stanco e incazzato». «Mi sembra giusto». Si mise a sedere su una sedia accanto al letto. «Allora, cosa ci fai qui?» gli chiesi. «Sei nella merda, amico. Vorrei sapere come ci sei finito se non ti dispiace». «Nella merda?». «Conosci queste persone?». Buttò sul letto, tra le mie gambe, un piccolo plico di fotografie. Ne presi una, era Lula. Ne presi un’altra: la ragazza della biglietteria del Tropical. Un’altra: uno dei due security. Un’altra: la vecchia indiana che abitava di fronte a Aki. «Li conosco, che fai mi segui?» gli risposi osservando le foto. «No, è qualcun altro che ti segue. Queste persone sono tutte morte». Qualcosa arrivò da lontano, come risvegliato dal mio istinto. Qualcosa di simile alla paura. «Morti? Come?». «Fatti a pezzi. Tutti». Mi alzai, e nonostante le mie condizioni fossero ancora molto precarie, riuscii a stare in piedi guardando fuori della finestra. Giù in strada c’era un mezzo corazzato della polizia con cinque gorilla che tenevano il presidio. «Sui cadaveri c’era una cosa, Fargo, e il tizio che ha telefonato per denunciare gli omicidi mi ha avvertito che l’avrei trovata e che avrei dovuto portarla a te. Capirai, in condizioni normali un omicidio a Bombay è meno interessante di un divieto di sosta. Ma questo tizio conosceva diverse cose di me, ed evidentemente sa chi sei e cosa stai facendo. E quale legame c’è tra noi due». Un legame di amicizia, e non solo. Anche Leonardo Moretti, ispettore di polizia, faceva parte della vecchia banda di Prisco. «Ecco, sui cadaveri c’era questo» e mi porse una piccola medaglietta, tipo quelle che si trovano nelle uova di Pasqua. «E’ un cane» dissi guardando il monile che raffigurava la testa dell’animale. «No. Non è un cane, è un Pitbull». Lo zoo era al completo, adesso. E il Pitbull era l’animale più cattivo. «Sai chi è, non è vero? – disse Leo – Bene, lo sanno anche i Servizi segreti. E’ per questo che quando hai cercato la sua targa, utilizzando la password che ti ho dato io, hai trovato il signor Kleine». «Era lui. Il mio Tommaso Kleine era il Pitbull» dissi appoggiando sul letto le fotografie. Questa era la cosa peggiore che avrei potuto trovare sulla mia strada. «Lavora per Zebra – mi spiegò Leo con l’aria di chi ogni volta sa tutto prima degli altri – è sempre stato vicino alla banda del serbo. Evidentemente gli stai pestando i piedi, ma per conto di chi? Dubito che Testarossa abbia voglia di mettere su una guerra tra bande proprio adesso che i rapporti con il serbo si stanno attestando. Brega si è ritagliato un piccolo regno investendo nelle parti più marginali dell’agglomerato e si è reso conto di non avere le palle per aspirare a qualcosa di più. Quindi, Andrea, devi dirmi chi c’è dietro questa storia, così importante da spingere il serbo a mettere in moto un maniaco omicida come il Pitbull». «Cos’è, ti sei messo a fare il poliziotto sul serio?» stavo annaspando. In realtà avevo paura. «Diciamo che ci sono voci che girano, e queste voci a forza di girare sono venute alle orecchie di certi miei amici che non conosci ancora. Persone apposto, che vorrebbero tanto sapere se quelle voci sono vere, perché in caso, avrebbero qualcosa da proporre» parlava senza togliermi gli occhi di dosso. «Di cosa parli? Per chi lavori adesso?». «Una cosa per volta. Prima dimmi se è vero». «Mi ci manca soltanto questo. Lascia perdere non posso dirti niente, io». «Se la metti così mi obblighi a richiamare quei due gorilla e farti portare via». «Per quale motivo?». «Non fare l’idiota, sei a Bombay e io sono un poliziotto. Questo basta su tutto». «Ma che bravo, hai imparato la lezione dello sbirro cattivo. Pensane un’altra Leo, non me la gioco l’unica protezione che ho alle spalle». «Lo so benissimo, ma in questi termini non te lo avrei proposto. Se Prisco vuole riprendere terreno avrà bisogno di aiuto. E quando riceverà la proposta dei miei amici, sarà così felice che addirittura ti ringrazierà». «Chi sono questi tuoi amici?». «Vieni, andiamo a fare un giro». Leo si liberò dei gorilla. Il mezzo corazzato lasciò Bombay, e il mio “amico” mi caricò sulla sua auto gravitazionale. Il tempo stringeva. Il Pitbull era sulle tracce di Aki. Non potevo sapere se fosse arrivato all’Iguana o se stesse ancora cercando di capire dove si trovasse la giapponesina. Lula era morta. Il suo corpo fatto a pezzi. L’impianto gravitazionale non garantiva ancora un’assoluta stabilità del mezzo, ma sembrava comunque di galleggiare su qualcosa di molto morbido. Avevo la testa appoggiata al vetro e guardavo fuori. Luci, persone, una neve ancora rada che cadeva. In poche ore ero arrivato così lontano dalla mia vita. Mentre Leo guidava ripresi in mano quella fotografia. Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola. Arrivammo in un enorme stabilimento industriale. L’auto entrò in un hangar e dopo averlo attraversato per intero si fermò di fronte a una parete. Leo mi fece lasciare il revolver sul cruscotto e mi indicò una porta nel muro. «Ti aspetto qui. Non preoccuparti». Entrai. Era buio. E fu un lampo. Quando mi ripresi avevo un forte mal di testa. Mi sentivo un rottame. Almeno, più del solito. Troppo JD, vodka al melone, serpente: un bel cocktail concluso con maestria da qualcuno che mi aveva appena aggredito nel buio, colpendomi alla testa. Pensavo a questo, mentre mi alzavo da terra, abituando gli occhi all’oscurità per capire chi avessi di fronte. Era il tipo di accoglienza che si riserva di solito a uno come me: schietta, di poche parole. Voltai la testa un paio di volte e a pochi metri individuai una figura. Aveva i capelli rasati a eccezione di una folta cresta rossa che si alzava al centro del cranio. Ero sicuro di intravedere i segni di guerra dipinti in faccia, e un tomahawk in mano. Era un sioux. «Silk è un po’ arrabbiato per quello che hai fatto al suo amichetto della Riserva. Dice che gli hai spaccato il naso senza motivo». La voce proveniva dalle mie spalle, evidentemente il sioux non era solo. Ma appena provai a voltarmi, Silk mi affondò il manico dell’ascia nello stomaco e con il dorso dell’altra mano mi colpì in faccia. Sentivo in bocca il sapore del sangue, e il suo calore che lentamente mi avvolgeva l’occhio destro. «Si può sapere cosa cazzo volete da me?» chiesi tamponandomi la ferita. «Ermete, il Teocrate, vuole parlarti». Con queste parole, lasciate scivolare dalla bocca senza entusiasmo, uscì dal buio accendendo una torcia elettrica un tizio dai lineamenti orientali, un cinese. Aveva dei piccoli occhiali tondi, e dai movimenti delle lenti capii che erano molto simili a quelli che avevo, acutamente, lasciato in tasca. «Il Teocrate?» chiesi per conferma. Il cinese sorrise. Ne avevo sentito parlare. Ermete era un amico del vecchio Tad. Avevano militato insieme, per un periodo, in gioventù, in qualche gruppo di estrema sinistra poco dopo gli anni di piombo. Poi Ermete era scomparso nel sottobosco dei gruppi extraparlamentari, probabilmente in Germania, cancellando ogni traccia dietro di sé. A quel punto era nata la storia del Teocrate, Tad sapeva che si trattava del suo ex compagno, e sapeva che c’era lui dietro alcune operazioni che verso il 2020 avevano scatenato una violenta reazione antilibertaria, da parte del Sistema, che era culminata con la creazione del Dipap. Qualcuno aveva parlato di collusione tra questi neoterroristi, i servizi segreti e una parte della polizia, ma quelle tesi furono giudicate affette da un delirio complottista, e valsero alle “teste calde” che le avevano avanzate un posto in prima fila per inaugurare il parco clienti del Dipap. Tad, però, era convinto che Ermete fosse morto. Il cinese e Silk mi scortarono lungo un corridoio che scendeva ripido, al termine del quale due persone stavano di guardia ai lati di una porta. Il cinese fece cenno di aprire. Entrammo. Alzai lo sguardo e mi resi conto di essere all’interno di una stanza molto grande, sicuramente sottoterra. «Sta tranquillo Fargo, qui sei tra amici» mi disse il cinese. «Dall’accoglienza non sembrava» risposi guardando Silk. A quel punto qualcosa di metallico si mosse dal soffitto. C’era una luminescenza giallognola che aveva iniziato a muoversi, scendendo verso il basso. Verso di me. Aveva assunto una forma circolare, e quando fu piuttosto vicina riuscii a distinguere una piattaforma convessa, agganciata a un braccio metallico molto lungo che sembrava uscire dall’ombra. Il cerchio si abbassò. Era una specie di nido, all’interno del quale era mantenuto in vita ciò che rimaneva di Ermete. Il corpo dell’uomo terminava all’altezza del bacino in una serie di cavi e tubi. Il volto sembrava di pietra, avvolto da una lunga barba che si confondeva ai capelli, bianchi e ormai molto radi. Gli occhi vitrei. Alle spalle aveva un complicato sistema idraulico che evidentemente forniva a quel pezzo di corpo umano il sostentamento necessario. All’interno di quei tubi circolavano sangue, acqua e altre sostanze, escrementi. Il respiro era sostenuto da una pompa che immetteva ossigeno direttamente nei polmoni, probabilmente atrofizzati. «Ti vedo in gran forma, Ermete». Cercai di mostrarmi disinvolto, altrimenti sarei stato in una posizione di svantaggio. «Siamo molto felici di averla qui, nonostante il suo discutibile senso dell’umorismo» aveva una voce metallica, asmatica, evidentemente soffriva a parlare. «Lei è un allievo del mio grande amico Taddeus Fargo. Ha un Qd in perenne oscillazione verso il Crimine politico. La sua è una vita che corre lungo il filo della Dissidenza, amico mio, si ritenga fortunato a trovarsi qui, e ad avere un’occasione per collaborare con noi». Sapevano molte cose su di me, ma non gli avrei dato la soddisfazione di dirmi «Abbiamo anche noi la nostra rete di informatori, signor Fargo». Così tagliai corto: «Collaborare per cosa, esattamente?». «Stiamo organizzando un nuovo partito comunista, consorziando tra loro tutti i centri sociali costretti a vivere nell’ombra. Siamo pronti a combattere». «Sono contento per voi. Avvertitemi quando prenderete il potere che comprerò una birra per festeggiare». Il Teocrate strinse gli occhi in un’espressione minacciosa: «Lei è poco attento, e fastidiosamente arrogante. Non ha idea di cosa abbiamo costruito nelle periferie esterne. Lei non ha idea di quante popolazioni, minoranze etniche, Dissidenti e semplici oppositori del regime si siano uniti a noi. Lei non ha idea di quello che stiamo facendo fuori dell’agglomerato. Grazie ad agenti empatogeni abbiamo potuto sviluppare tecniche di combattimento collettivo che dimostreranno quanto prima la loro efficacia, e lei deve comunicare al suo amico Prisco la nostra proposta: un’alleanza». «Non capisco di cosa stai parlando». Non feci in tempo a terminare la frase che Silk mi prese alle spalle appoggiandomi la lama della sua ascia sul collo. Trattenni il respiro per non sgozzarmi da solo. La carcassa semovente del Teocrate mi si avvicinò ancora, e riprese a parlare con quel tono incolore: «Spero che lo capisca in fretta, signor Berardi. Purtroppo temo di averla sopravvalutata. Ma cerchi comunque di vedere quanto sarebbe proficuo per entrambi un accordo di questo tipo. Prisco non avrebbe che da guadagnarci, e in segno di buona volontà, lasciamo andare il suo uomo migliore a concludere il lavoro che sta portando avanti per lui. Si limiti a proporgli il nostro appoggio. Smembrare il piccolo impero del serbo sarà un ottimo inizio, che ci permetterà di finanziare numerosi progetti». Fece cenno all’indiano di mollare la presa e liberare la mia gola dal fastidioso ingombro del tomahawk. Con le mani semiatrofizzate controllò di nuovo il braccio meccanico, ma prima di tornare nel buio si fermò e riprese a parlare in un crescendo di enfasi. «Io e Taddeus eravamo grandi compagni un tempo, ma lui era in errore. La dissidenza deve obbligatoriamente tradursi in azione di attacco. Resistere individualmente non porta ad alcun progresso nello stato delle cose. E’ un punto di vista egoista e improduttivo. Nessuna organizzazione mafiosa ha in sé una visione della società e il fondamentalismo religioso non è che lo strumento di qualche sceicco che ormai agisce in una logica inglobata nel sistema. Siamo noi l’unica alternativa alla Demenza collettiva indotta». Detto questo, riprese a muoversi verso l’alto. Osservai il Teocrate mentre tornava nell’oscurità. Quell’esaltazione visionaria non avrebbe convinto neppure un mentecatto: c’era qualcosa sotto, e dall’odore non era niente di buono. «Andiamo, se non sbaglio hai un lavoro da fare – disse il cinese – ti prego di scusarmi se ancora non mi sono presentato, ma spesso la concitazione ci lascia dimenticare le buone maniere. Il mio nome è Li Wong, e per me è un grande onore fare la tua conoscenza». Quel tono mellifluo sembrava un ottimo nascondiglio per le vere intenzioni di quel tizio. «Un maggiordomo cinese, un guerriero indiano e mezzo brigatista, dimmi signor Wong, avete anche un cappellaio matto e un paio di puffi qua dentro?». Il sioux si mosse appena, ma il cinese gli fece cenno di lasciar perdere, inchinandosi leggermente disse: «Se avessimo avuto più tempo avrei parlato volentieri con te. Avremo altre occasioni». Silk mi accompagnò fuori e mi salutò in silenzio. Evidentemente era soddisfatto delle botte che mi aveva rifilato. Leo era in macchina che mi aspettava. «Cos’è, una brutta caduta?» mi chiese allungandomi un tubetto di ghiaccio sintetico dal kit medico in dotazione alla polizia. «Terribile – tamponai la ferita sull’occhio e ripresi il revolver – adesso, se non ti dispiace, dovrei andarmi a scannare con il Pitbull, e dovrei anche cercare di darmi una mossa». «Ti accompagno al Mahal parking. Continua pure a pagare tutto con la carta di credito, così potrò rintracciarti ovunque». «Da quanto tempo sei con loro, Leo?». L’ispettore Moretti respirò profondamente. Si aspettava quella domanda: «Da un po’. Per un poliziotto le cose si fanno complicate senza protezione». «Che idea ti sei fatto?» gli chiesi. «Non lo so, si stanno organizzando. Controllano già qualche attività nelle periferie. So che ci sono stati diversi scontri con i gorilla, anche se nel Network non dicono niente. La mia impressione è che siamo alle porte di una guerra per il controllo della città, e loro vogliono partecipare». «Chi è il cinese?». «Non farmi troppe domande Andrea, per il momento lascia perdere». Quando scesi di fronte al Mahal parking era già buio. Seguii Leo con lo sguardo fin sopra la rampa che si immetteva nel Terzo anello. Stare ad ascoltare il Teocrate mi aveva fatto tornare in mente il vecchio Tad, che nonostante il suo antagonismo non aveva mai creduto alla possibilità di sovvertire un ordine. Ripeteva sempre che il termine ‘rivoluzione’ si riferisce in realtà al movimento di una ruota: un movimento circolare che si conclude tornando al punto di partenza. Ma aldilà di queste raffinatezze, il Partito comunista aveva iniziato a operare. Nella guerra che si stava profilando avrebbe avuto una parte anche Ermete, o chi si trovava a muovere i suoi tubi. Le luci della faccia pulita di Bombay mi riportarono al lavoro. Feci due passi per trovare un negozio di vestiti che avrebbe potuto fare al caso mio. Se dovevo entrare al Blue Iguana, dovevo essere uno di loro. Mi infilai in un grande magazzino. Mi ricoprii di squame, sistemai i controlli degli occhiali nella tasca sinistra di una giacca di pitone verdastra, e spostai leggermente la fondina ascellare del revolver. Adesso ero perfetto. Soltanto una cosa mi separava da Aki: un Tommaso Kleine spietato e sanguinario. Un cane idrofobo, contro un rettile anarchico. «Inizia a diventare un problema parlare con te, Prisco. Potevo avere bisogno di qualcosa di urgente, dovresti riservarmi un canale preferenziale. Lo sai che in questi casi i minuti possono essere fondamentali». «Non farmi la ramanzina, campione. Sai benissimo che ti pago tutti quei soldi anche per vedertela da solo e non frignare. Novità?». «Qualcuna. Il Pitbull, Leo e il Partito comunista». Prisco era il tipo che sapeva ascoltare con attenzione. Si sarebbe occupato dell’ispettore Moretti e di tutto il resto quanto prima, ma non mi nascose che considerava il Pitbull un mio problema. Se mi fossi fermato a quel punto Prisco non avrebbe mosso un dito per me, e il serbo avrebbe ottenuto il mio fondoschiena servito su un piatto d’argento. Dovevo arrivare in fondo, e garantirmi un’uscita di scena degna dell’Uomo invisibile. Prisco si sarebbe organizzato per ricevere il materiale, nella speranza che ce l’avesse ancora Aki. Nella speranza che il Pitbull non l’avesse ancora trovata e che esistesse ancora una Aki. Il Blue Iguana si trovava alle estremità sudest dell’agglomerato. In una terra di nessuno molto pericolosa. Uscito dal Mahal parking ripresi il Terzo anello, e allontanandomi dalle luci delle periferie, che lentamente diminuivano la loro intensità, ritrovai qualcosa che non vedevo da tempo: le stelle. Nessuno riusciva più a vederle. Le luci artificiali esaltavano qualsiasi prodotto negli enormi schermi pubblicitari, attorno agli edifici, sui satelliti gravitazionali nel Network, nell’orgia turbocapitalista di quel regime presidenziale fatto di sorrisi e tette al silicone. E annullavano le luci più lontane, quelle più remote. Quelle vere. Nessuno riusciva più a guardare così lontano. I fasti demenziali dai quali mi stavo allontanando abbagliavano chiunque. E io vedevo le stelle. La sensazione di bruciare la strada alle mie spalle era sempre più netta. Uscendo dal Terzo anello per infilarmi sulla strada che mi avrebbe portato dai rettili, attraversai una lunga sopraelevata che mi regalò un’ultima vista di quella parte di agglomerato. Mi trovavo nei pressi della zona africana. Notte fonda. Lungo le vie che portano lontano dalla civiltà. Il nucleo non è un concetto percepibile su questa strada che taglia edifici consumati dalle scorie e dal vento gelido. La neve non cade più. Ho guidato per ore. Sono lo Straniero che arriva da lontano. Il Giustiziere solitario. Gli edifici iniziarono a farsi diroccati. Lamiere e cemento, pilastri in ferro che reggevano le macerie. Bagliori di fuochi lontani, accesi per sopravvivere. Stavo seguendo il navigatore elettronico attraverso una desolazione suburbana disperata e buia. Arrivai all’Iguana. Mi fermai piuttosto lontano. Era un edificio abbastanza grande: almeno quattro piani di altezza. Ma i cambiamenti cromatici delle finestre, dovuti alla luce che all’interno veniva sparata sui rettili, erano gli stessi. Questo voleva dire che si trattava di un unico stanzone alto quattro piani. Riuscivo già a sentire sia la musica che le urla. E davanti all’ingresso c’era un gruppo di squamati sbattuti qua e là. Entrai nel parcheggio che circondava l’Iguana e cercai di lasciare la Volks in un punto aperto, in modo da potermene andare via in fretta. Non avevo un gran piano, e questo era male, ma avevo le idee chiare almeno sul fatto che la rapidità avrebbe giocato un ruolo determinante. Mentre attraversavo il parcheggio regolai i comandi degli occhiali per visualizzare le fonti di calore umaniformi che si aggiravano tra le auto. Era pieno. Gli infrarossi rivelavano una gran quantità di rettili dal sangue caldo che strisciavano in quella distesa di auto e furgoni. Strinsi le dita attorno al revolver, sotto la giacca squamata. Mentre camminavo, il rumore dei miei stivali di pitone viola. Mi stavo avvicinando all’entrata. Da qualche parte c’era una ballerina giapponese. E un Pitbull. «Aspetta» il security che avevo di fronte era l’ultimo ostacolo per entrare dentro. Avevo tirato dritto, ma appena arrivato all’ingresso quest’energumeno largo quasi quanto la Volks decise di farmi ascoltare il suo timbro vocale da cantante blues appena sveglio. Mi fermai. Continuando a puntare i miei occhiali sui suoi. Senza dire niente. Senza cambiare espressione. Non ho idea dei minuti che passarono. Non gli tolsi gli occhi di dosso e lui fece altrettanto. Ma doveva soltanto farmi aspettare, per un qualche motivo che echeggiava nelle sue vacuità craniche. E quando decise che avevo aspettato abbastanza mi disse: «Entra». Non feci storie: quella sera dovevo essere rapido e silenzioso come un serpente. Gli passai accanto, ed entrai al Blue Iguana. Dopo un piccolo ingresso mi trovai su un pianerottolo ai lati del quale scendevano nel salone due piccole rampe di gradini. Una distesa di squamati si apriva ai miei piedi. Ovunque torri sulle quali cubiste perizomate simulavano amplessi con un palo o con un serpente. Sopra di me corde e trapezi fissati al soffitto offrivano ai rettili volanti la possibilità di lanciarsi sulla folla o passare da un lato all’altro del locale senza doverla attraversare. Tutto era giallo, rosso, viola, blu e verde. Le luci cambiavano velocemente per amplificare l’effetto stordente della reptilmusic, una violenta brodaglia di rumori e campionamenti. I rettili che stavano ballando si passavano di tutto: bottiglie, flaconcini di pasticche fosforescenti, rospi e droghe liquide nei piccoli inalatori. Alla parete opposta del locale c’era uno schermo gigante con i video pornomusicali, e sotto c’era un piccolo palco. Sul palco, l’Iguana. L’enorme rettile se ne stava disteso immobile, adorato come una divinità dalla calca che si era ammassata sotto il suo palco. L’unico modo per trovare Aki era chiedere informazioni al bar. Ma data la mia scarsa prestanza atletica di quegli ultimi anni rifiutai la liana che mi porse con entusiasmo un tizio aggrappato a una rete metallica sopra la mia testa. Scesi le scale, e attraversai il mare. Ci volle un po’ per arrivare al bar. E quando mi aggrappai al bancone per non finire risucchiato di nuovo da quel carnaio, mi si presentò davanti un ragazzone nudo, con il corpo interamente ricoperto da squame tatuate. Gli occhi arancioni e i denti di metallo. «Voglio un doppio Hellboy e un’informazione». «Okay» e andò a prendere il whisky. Quando tornò con il mio bicchierone trovò qualche soldo in più. «Lavoro solo di bocca e solo quando stacco da qui» disse prendendo i soldi. «Sono entusiasta per te, ma volevo soltanto un’informazione». «E’ un gioco perverso?». Evidentemente qualche acido gli aveva causato un danno irreversibile. «No, è una cosa che mi dici tu dopo una domanda che ti faccio io. Ci sei?». «Sì» ma si stava sforzando, era evidente. «Conosci questa ragazza? Si chiama Aki» e gli mostrai la foto. «Sì, si chiama proprio così». La musica non facilitava la nostra conversazione. «E’ qui stasera?». «Aki?». «Aki, sì, certo cazzo. E’ qui stasera?». «Sì». Trovata. «Dove?». «Forse balla». «Devo assolutamente parlarle, è in grave pericolo». «Cavolo». «Non hai un amico un po’ più sveglio di te con cui posso parlare?». «Oh, cavolo. No». Il Pitbull avrebbe fatto i suoi comodi prima che io fossi riuscito a cavare fuori qualcosa da quel tizio. Aki era lì. Forse ballava. Di certo era venuta al Blue Iguana in cerca di protezione. Si era resa conto di quanto scottasse la roba che il suo amico le aveva lasciato. Se avevo una speranza di uscire vivo da quel casino, questa era legata a doppia mandata al fatto che lei avesse ancora quei file, e stesse aspettando un contatto per liberarsene e farci qualche soldo. Poi, la musica si fermò. I video pornomusicali si interruppero. E sullo schermo gigante apparve, avvolto in un giaccone di serpente messo per l’occasione, Lui, il dio del Network. Johnny Live. Applauso assordante. Il Blue Iguana era l’ospite d’onore di Stasera a casa mia. Merda. «Ciao rettili, sono il vostro spirito guida» disse il presentatore in un’inquadratura a figura intera. Poi, il primo piano, con il suo sorriso lucido: «E voi siete il mio popolo». Applausi. Urla. Erano pazzi di lui. Uno stacco musicale assordante esplose in tutto il Blue Iguana. Johnny Live si muoveva circondato dalle sue ballerine vestite da collegiali squamate. Aveva degli enormi occhiali in stile vecchio secolo, anni Ottanta. «Allora, rettili, iniziamo prima di essere troppo vecchi per l’Inferno». Johnny aveva conquistato il pubblico, adesso quel miraggio di celebrità avrebbe spinto chiunque a fare qualsiasi cosa. Gli occhiali abbassati sul naso, dettaglio sui suoi occhi, sguardo dal basso: «Vediamo un po’. Qualcuno vuol dire qualcosa?». Non posso dire che sia stata un’idea brillante. Non posso esserne sicuro. Ma in certe occasioni i tempi per ponderare pro e contro sono concentrati in pochi secondi, affidando la nostra vita a quel rimasuglio di istinto di sopravvivenza che prende la strada A anziché la strada B per un’intuizione ancestrale che è l’ultima risorsa del cervello. Così, passai all’azione. «Io. Io vorrei dire qualcosa Johnny». Lo dissi alzandomi in piedi sul cubo che avevo più vicino, sorridente, simulando uno stato di sconvolgimento in cui non mi trovavo. Convertire i fattori avversi in fattori favorevoli, i punti deboli in punti di forza. Intorno a me calò un silenzio irreale. Adesso che Stasera a casa mia aveva voglia di ascoltarmi, tutti i rettili di quella fogna pendevano dalle mie labbra. Ora, mentre fino a pochi minuti prima ero uno stronzo come tutti loro. Ora, che i riflettori del Network erano puntati su di me. Ora, che stavo diventando una star. «Guarda guarda, il rettile non si fa pregare. Parla pure mio caro squamato. Il Network è tutto per te» disse Johnny. «La mia ragazza mi ha lasciato». Cercai negli occhi che avevo intorno la conferma per andare avanti in quella storia, mentre lentamente il disegno della commedia si profilava nella mia mente. Dovevo stare attento, il Pitbull era lì da qualche parte, e se avesse annusato qualcosa, gli avrei concesso un enorme vantaggio: avrebbe conosciuto la mia faccia in versione rettile. Da lì a ritrovarmi per terra con un dolore caldo nella schiena, mentre ogni colore sfumava via verso l’oblio, sarebbe stato un attimo. «Mi ha lasciato, Johnny, ma io sono ancora innamorato di lei. Se ne è andata senza una spiegazione. Ma io so perché. Amore, ti ricordi quella nostra poesia? La recitavo sempre per te». Silenzio assoluto. Migliaia di occhi puntati su di me. Poi, lentamente: «Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola». Lasciai ad Aki il tempo di realizzare. Tutto era legato alla speranza che si ricordasse quella poesia. Sembravano parole troppo intime per essere dimenticate. «Amore, so cosa ti tormenta, e io sono qui perché voglio aiutarti. Ti prenderò per mano e ti condurrò fuori da ogni tuo problema. Perché ti amo». Mi toccai appena gli occhi per simulare una lacrima e amplificare il trasporto emotivo delle mie dichiarazioni. E un applauso commosso si diffuse in tutto il Blue Iguana. «Vero amore, amici» disse Johnny Live cavalcando l’intensità del momento. Il presentatore era tronfio di soddisfazione, per aver trovato ancora una volta chi gli aveva dato una mano a fare di Stasera a casa mia il programma più amato del Network. «Sono queste le storie che vogliamo raccontare. Le storie vere, fatte di sentimenti veri, che noi tutti proviamo. Che prova il nostro amico innamorato. Che provo io». Primo piano: «Grazie, amico. Adesso ti lasciamo a inseguire il tuo amore». Inquadratura a figura completa: «Ma voi non avete speranza. Nessuno uscirà vivo di qui» e le violente onde sonore della reptil-music investirono gli squamati, saturando di nuovo l’aria del locale. Quando scesi dal cubo la solidarietà degli altri rettili si espresse in strette di mano e pacche sulle spalle. Io continuavo a sorridere, provato nella mia sofferenza d’amore. Me ne andai verso i cessi. La speranza era che Aki avesse capito tutto e che mi stesse seguendo con lo sguardo. Passai accanto all’Iguana. Era immobile nel centro del suo palco, mentre due cubiste, vestite come ancelle, lo veneravano ballando. Il suo stomaco si muoveva lentamente, e mentre gli passai proprio accanto, ebbi l’impressione che il suo occhio si fosse mosso verso di me. In quel momento sembrava ricordarmi che era stato lui ad avermi portato lì. Era come se lo avesse deciso, e mi stesse invitando a leccarlo. La tentazione era grande. Ma per una volta decisi di comportarmi come il vecchio Tad avrebbe voluto, e lo feci perché speravo nella sua protezione. Se fosse stato da qualche parte a guardarmi, sicuramente avrebbe fatto il tifo per me. Come al solito la zona davanti ai bagni ospitava il devastato simposio di chi non riusciva più a reggersi in piedi, di chi spacciava rospi o altro e di chi sudava freddo nell’attesa di leccare qualcosa. Io mi appoggiai alla parete, continuando a bere il mio Hellboy. Una ragazza mi passò accanto. Si fermò di fronte a me, e guardandomi negli occhi si avvicinò. «Questo ti porterà bene» disse prima di infilarmi la lingua sottile e biforcuta nell’orecchio. Era una sensazione estremamente piacevole. Mentre si allontanava, camminando verso un corridoio, seguii con lo sguardo il suo ondeggiare ipnotico. «Complimenti per lo spettacolo, stronzo. Adesso dovrai spiegarci un po’ di cose». Mi voltai: spalle larghe, capelli biondi raccolti in due trecce e baffi molto lunghi. «Hai qualche problema, Obelix?». La sua risposta fu un diretto nel mio stomaco che mi tolse il fiato. Senza che riuscissi ad aggiungere altro il rettile vichingo mi prese sotto braccio e mi portò in un corridoio buio. Le uniche presenze in quel posto erano rettili scoppiati a terra, avvolti in un miasma di vomito ed escrementi. Ma il vichingo mi portò oltre una seconda porta. In un ambiente molto più buio. Avevo ancora gli occhiali ma non riuscivo a infilare la mano in tasca per aumentare la visibilità. «Dove hai letto quella poesia?». Una voce femminile. Molto giovane. Era lei. «Una fotografia nel tuo appartamento. Aki» risposi ancora senza fiato. «Muoviti molto lentamente, stronzo». La voce del vichingo era decisamente meno piacevole, ma aveva allentato la presa fino a liberarmi. Il biondo aveva in mano un arnese a proiettili laser, tipico di quella generazione di criminali, insicuri e stupidi che avevano bisogno di quel genere di artiglierie così appariscente. L’aspetto peggiore di quella situazione era che la bocca di quell’affare era puntata su di me. Ci trovavamo in un ambiente molto ampio. Probabilmente eravamo scesi sottoterra, mentre il tizio mi teneva stretto nella sua affettuosa morsa. Poteva trattarsi di un ex deposito. Aki era di fronte a me, appoggiata a una ringhiera di ferro. I capelli rossi e verdi raccolti in una treccia. Gli occhi arancioni, che neppure con quella maschera erano in grado di nascondere lo spavento. «E’ vero che hai ucciso Lula?» mi chiese. «No, non sono stato io. Ma non sono l’unica persona che ti sta cercando». «Cazzate – disse il biondo – facciamolo fuori, piccola, e vedrai che i tuoi guai finiranno». «Bell’idea – dissi – ma ne ho una migliore, datemi quello che vi ha lasciato Rak e io vi faccio avere un sacco di soldi». «Cazzate. Facciamolo fuori». «Aki non sto scherzando, c’è qualcun altro che ti cerca, è lui che ha fatto fuori tutte quelle persone. Se mi dai quella roba posso garantirti un bel pacco di soldi. Se aspetti che sia questo qualcun altro a chiedertela, farai la fine di Lula». Il biondo stava per dire «Cazzate, facciamolo fuori», era ovvio, ma non riuscì neppure ad aprire bocca, perché in un istante gli si aprì un buco in mezzo alla fronte. Il Pitbull. Mentre il vichingo si accasciava a terra, presi Aki di peso e la spinsi lungo il ponteggio della ringhiera alla quale era appoggiata. «Muoviti che qui ci fanno fuori tutti e due» riuscii a dirle mentre iniziammo a correre. E con la coda dell’occhio vidi a pochi centimetri dalla mia testa una scintilla nel ferro di qualche impalcatura. Evidentemente uno dei proiettili fantasma del Pitbull mi aveva mancato di poco. La mia patetica commedia d’amore non lo aveva incantato. «Muma» disse la giapponesina guardandosi alle spalle: doveva essere il nome del biondo. Quel coglione era morto pregustandosi di fare a me quello che un tizio aveva poi fatto a lui, e forse non se ne era nemmeno reso conto. Le detti uno strattone per portarla sul ponteggio che scendeva in basso. Dopo una decina di metri saremmo stati al coperto e avrei potuto aspettare, nascosto nell’ombra, il mio nemico. Eravamo al capolinea, e nel giro di una manciata di secondi avremmo capito chi sarebbe stato a vincere. Chi sarebbe rimasto in piedi più a lungo. Io o Lui. Il chiarore che precede l’aurora. Gli ultimi edifici diroccati, ai confini dell’agglomerato. Il mio viaggio si sarebbe concluso oltre le periferie esterne. Da un momento all’altro l’alba sarebbe esplosa. Sentivo la mia testa farsi sempre più pesante, e continuando a guidare mi appoggiai con il braccio sinistro allo sportello, massaggiandomi le tempie con la mano. Aki si era addormentata da poco. Mancava ancora un bel pezzo di strada: l’appuntamento era fissato vicino a un vecchio monastero sui Monti Sabini. Sfiorai appena il display musicale della Volks andando a cercare qualcosa che riempisse quel silenzio. Subito trovai la voce del poeta genovese. «Certo bisogna farne di strada, da una ginnastica di obbedienza, fino ad un gesto certo più umano che ti dia il motto della violenza. Però bisogna farne altrettanta, per diventare così coglioni, da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni». Il pensiero, fluido, scivolò attraversando sensazioni confuse, avvolgendo Li Wong, i bambini indiani, Daphne e il Pitbull. Non so per quanto tempo ero rimasto appostato nell’ombra, nei sotterranei del Blue Iguana. Aki tremava di paura, nel culmine di una vicenda così più grande di lei. Io avevo aumentato la visibilità al massimo. Cercavo fonti di calore, ma evidentemente il mio nemico aveva attrezzature simili e conosceva i trucchi del mestiere. Li conosceva meglio di me, sicuramente. Quando mi ero deciso a cercare l’uscita di quel posto, avevo chiesto alla giapponesina di muoversi molto lentamente, senza il minimo rumore, strisciando come quei serpenti che rivestivano i nostri stivali. Avevamo raggiunto un altro ponteggio, che avrebbe dovuto riportarci indietro, verso il carnaio. A quel punto ci saremmo confusi nel magma di persone che si muovevano immerse nella reptil-music e saremmo usciti senza che il Pitbull se ne accorgesse. Ma quel ponteggio di ferro, proprio a metà, aveva ceduto. Era stato un attimo. Mi ero ritrovato a testa in giù come un pipistrello dentro quel buco aperto rumorosamente nella ferraglia marcia, con Aki che mi teneva per i piedi. Fortunatamente non avevo mollato la presa del revolver che avevo ancora in mano, perché di fronte a me c’era il Pitbull. Era voltato verso il muro, con la pistola infilata in tasca, mentre con le mani armeggiava con la complicata chiusura dei pantaloni rettiloidi. Uno. Due. Tre. Quattro. Quattro colpi, a quella distanza, e lo avevo accompagnato con lo sguardo mentre crollava a terra con gli occhi sgranati per la sorpresa. La sorpresa di avermi visto calare dal cielo, e la sorpresa per quella sensazione di dissolvenza che avrà provato in quel momento. Qualche frazione di secondo nella consapevolezza del passaggio da una forma dell’esistenza a un’altra. Come il fiocco di neve che alla fine del suo viaggio dal cielo raggiunge la terra e si scioglie, confluendo con altre unità in una coesistenza superiore. Che scorre. Che fluisce via. Allungando le mani ero riuscito a toccare per terra, così avevo detto ad Aki di lasciarmi ed ero andato a guardare, con calma, da vicino, il mio nemico. Era un uomo sui sessanta, piuttosto basso, magro e quasi completamente calvo. Un paio di baffi piccoli ma folti, e gli occhiali interattivi a lenti chiare. Sembrava un qualsiasi impiegato amministrativo prossimo alla pensione. Invece era il Pitbull. Addosso, ovviamente, non aveva niente. Solo un documento di identità. Tommaso Kleine, Qd: 2. Quei due punti dovevano forse dare l’idea di una qualche goliardata punita troppo severamente, per quell’uomo così piccolo e dall’aspetto talmente insignificante. Due punti che lo avrebbero reso meno perfetto, più qualunque. In tasca aveva una Beretta con supporti elettronici escludibili. Avevo preferito lasciarla a lui, e prendere per me il cubano che aveva invece nella tasca interna del cappotto da rettile. Anche lui si era travestito, ma senza perdere quel suo aspetto da passacarte. Havana, forse pensava di accenderlo a lavoro finito. Appoggiato sul muro che aveva di fronte mentre cercava di aprirsi i pantaloni, un tubetto di pasticche. Era un medicinale per la prostatite. Aveva un’infezione alla prostata, ecco perché doveva assolutamente aprirsi i pantaloni. Ecco perché in quella foga, pensando di essere al sicuro, aveva abbassato la guardia. In pratica, lo avevo fatto fuori perché aveva avuto un bisogno estremo di pisciare. E’ così che finiscono le leggende. E di solito sono sempre stronzi come me che scrivono quella fine. «Quanto manca ancora?». Aki si svegliò: la strada era un continuo ripetersi di curve molto strette. Era voluta venire con me. Non aveva voluto darmi nessun file, ma mi aveva assicurato di averlo. Cercava protezione, perché con Muma aveva perso tutti e aveva ancora paura, dopo quello che le era successo dalla sera in cui Lula le aveva proposto quel lavoro al Mareblu. Un lavoro pagato molto bene, per una sola notte. Quando contattai Prisco, che stavolta si fece trovare subito pronto per il nostro tavolo a due, gli esposi il problema. Così, Aki sarebbe venuta con me all’appuntamento con Minkya Mouse, che avrebbe preso i file per Prisco e avrebbe portato con sé la giapponesina per impiegarla al Planet e offrirle un posto al coperto, nell’organizzazione che stava rinascendo. Ma all’appuntamento fissato al monastero ci sarebbe stato anche qualcun altro. E quello riguardava me. «Non sei una merce di scambio, campione. Mi offendi se pensi questo» aveva detto il mio adorabile cliente. «Dimmelo tu cosa devo pensare, Prisco, perché in questo momento sono a corto di idee». «Gli uomini del serbo ti daranno la caccia giorno e notte. Pedrag assumerà chiunque, e pagherà oro per la tua testa. Hai fatto fuori un pezzo grosso, Fargo. Hai fatto fuori il Pitbull e sei diventato una celebrità, ma Zebra non può certo accettare che continui a respirare ancora a lungo uno che ha fatto uno spregio simile alla sua organizzazione. Con la storia di Calvani farai saltare un affare gigantesco. Per cui guarda alla cosa come a una vacanza». «Già, una vacanza. Vedi di prenotarmi anche un biglietto di ritorno, però, non so quanto mi piacerà starmene sui monti». «Perché da ragazzino non hai mai visto Heidi, altrimenti saresti entusiasta a questa prospettiva. Poi sono bravi ragazzi, e hanno qualche idea interessante». «E da quando ti interessano le idee dei comunisti?». «Non me ne frega un cazzo, ma tu devi stare tranquillo, campione. Sei il mio numero uno, e appena avrò riconquistato posizioni più stabili, con i miei alleati, e potrò garantirti la mia copertura, ti farò tornare. Sono o no il tuo angelo custode?». Così, insieme a Minkya Mouse avrei trovato il Partito comunista, che mi avrebbe ospitato per un periodo ancora da definirsi, in un campo di addestramento sugli Appennini abruzzesi. «Dovremmo essere quasi arrivati» dissi ad Aki, che guardava fuori dal finestrino quelle montagne brulle, senza più alberi, soltanto sassi e terra bruciata dal sole. Il processo di desertificazione qui era possibile capire cosa fosse. Fuori dell’agglomerato non erano soltanto numeri e statistiche, erano colline rossastre. Ma avevano una loro bellezza crepuscolare. Di fronte all’entrata del monastero, la strada portava a una specie di piazza. Una terrazza affacciata sulle colline, e più lontano, l’agglomerato. Riconobbi subito l’inconfondibile profilo di Minkya Mouse, appoggiato al parapetto, con uno dei suoi security del Planet accanto. Con loro altre due persone che conoscevo. Li Wong e Silk sembravano più a loro agio del grasso uomo di Prisco. Al centro della piazza era parcheggiato l’elicottero a propulsione del Planet. Io e Aki scendemmo dalla Volks. «Ce ne hai messo ti tempo, pensavo avessi cambiato idea». La voce di Minkya Mouse mi suonava di una familiarità quasi piacevole. «Me la sono presa comoda, per darvi modo di fare amicizia per bene» risposi guardando Wong. «Un’amicizia destinata a durare a lungo, Fargo. Avremo occasione di parlarne in maniera più ampia, prossimamente» disse il cinese. «Avanti spione – riprese il mafioso – dammi quella roba e ce ne andiamo. Sul tuo conto ci sono già tutti i soldi, più qualche extra. Versati tutti sulla fiducia. Adesso facciamo contento Prisco». Mi voltai verso Aki. Lei si avvicinò a Minkya Mouse. Era il momento della verità, e mi accorsi che Li Wong stava misurando la mia tensione. Aki si aprì i pantaloni squamati e prese un piccolo chip cucito sul bordo delle mutandine. Lo tenne tra le labbra mentre con le mani si richiudeva i pantaloni rettiloidi. E a questo punto lo porse al proprietario del Planet, che lo inserì subito nel suo tep per verificarne il contenuto. Silk sembrava del tutto disinteressato a quanto stava avvenendo. «Complimenti onorevole, benvenuto al tavolo delle trattative – disse Minkya Mouse gustandosi la performance di Calvani sul piccolo display – siamo apposto, leviamoci di qui». Si rivolse verso Aki: «Tu, ragazzina, sali su quell’affare, al Planet troveremo qualcosa da farti fare». Poi si voltò verso di me: «Sei proprio un cane, Fargo, adesso mi fai fare pure la babysitter». Si avvicinò e sottovoce disse: «Guarda di tornare alla svelta, ci sarà da divertirsi adesso». Quindi si avviò verso l’elicottero a propulsione, con il suo security che si mise al posto di guida e Aki che lo seguiva, voltandosi continuamente verso di me. «Bel lavoro, Fargo, adesso sarai nostro ospite per un po’». Il cinese, che nel frattempo era rimasto defilato, parlava con quel tipo di certezza assoluta che hanno soltanto i grandi strateghi e i grandi esaltati. «Silk ti accompagnerà al campo di addestramento. Vedrai, ti si presenterà l’occasione per capire molte cose, e conoscere una prospettiva nuova. A presto» e si diresse verso la mia Volks. Come al solito era tutto già pianificato. Procedere verso il campo con l’auto era impossibile, così il cinese l’avrebbe tolta di lì tornandoci in città. «Non preoccuparti per l’auto, la ritroverai non appena tornerai a casa» disse aprendo la portiera. Non riuscivo a capire quale fosse il suo gioco, ma forse quello era il genere di argomenti che avrei chiarito durante questa mia vacanza premio. In quel momento, però, quel tizio con gli occhi a mandorla mi urtava troppo per dargli soddisfazione, e rimasi in silenzio. «E’ un pezzo che volevo guidare un po’, sai – disse Wong salendo sull’auto – vedi, Fargo, prima o poi si presenta sempre l’occasione giusta per fare ogni cosa». E mentre si divertiva nella sua piccola manovra con la mia auto, mi chinai per raccogliere la borsa con la mia identità pre-rettile, quando mi sentii prendere alle spalle. Mi voltai. Era Aki. Mi guardò con gli occhi lucidi. Sorrise. E si allungò in uno scatto fino a darmi un bacio sulle labbra. Mentre correva verso l’elicottero, Minkya Mouse si divertiva a sfottermi dal finestrino, simulando una commozione ridicola per la scena alla quale aveva assistito. Poi, dopo qualche secondo, l’elicottero si alzò in aria, e la Volks scomparve in quel groviglio di curve che l’avrebbe riportata a Roma. «A quanto pare siamo rimasti noi due» dissi a Silk. «Già». «Non sei un tipo di molte parole, vero?». «E’ peccato sprecarle». Mi si prospettava un viaggio molto silenzioso. Un rettile ricoperto di squame e un sioux con tanto di tomahawk, segni di guerra in faccia, capelli rasati e quella sua cresta rossa con vari piumaggi attaccati. E una stella rossa a cinque punte tatuata sul braccio sinistro. Una bella coppia. Poi, alle spalle di Silk, vidi qualcosa. Qualcosa di incredibile. Sembrava la cima di un albero. Camminai lentamente fino al parapetto della terrazza, e soltanto in quel punto, vidi la centrale atmosferica. Erano quelli i polmoni della terra: le centrali di produzione atmosferica della Bios company. Quegli enormi cilindri bianchi erano dislocati lontani dai centri abitati perché l’aria prodotta, nelle immediate vicinanze, era ritenuta troppo concentrata. E intorno alla centrale erano nati alberi, erba, fiori e muschi che ricoprivano le rocce. Era fantastico. «Senti Grandecapo, io qui ho un bel sigaro. Non è che ti dispiace se me lo fumo prima di partire?». Silk si avvicinò al parapetto e ci si mise a sedere sopra, incrociando le gambe e alzando la faccia in attesa del sole che stava per sorgere da dietro i Monti Sabini. Scavalcai il parapetto. Avevo voglia di sedermi per terra. Sulla terra. E guardare la centrale atmosferica della Bios company. Allungai le gambe e appoggiai la schiena alla parte esterna del parapetto. Il cubano era denso e morbido. Perfetto. «Ehi, Grandecapo, vuoi un tiro?». Il sioux non aprì neppure gli occhi: «Non è ancora il momento di fumare insieme, ramarro». «Come preferisci». Sotto di me si apriva la valle, avvolta da quella luminosità azzurrastra che la prepara ad accogliere il sole. Tra meno di due ore avrei avuto la mia seduta con il professor Freud, e avrei utilizzato il tep per parlare del mio impianto di automatizzazione e della mia lavastoviglie che non funzionava ancora bene, impegnandomi a ritrovare fiducia nella società di consumo. Avrebbe potuto dimostrarsi un passatempo interessante: recuperare il mio Qd da un campo di addestramento del Partito comunista. Adoravo le contraddizioni. Presi il tep. Ricercai in memoria il messaggio che mi aveva lasciato Daphne. E dentro quel suo modo di sorridere trovai la conferma che il vecchio trapezista aveva fatto un passo falso. Mi sarebbe piaciuto prepararle quel risotto ai gamberi. O un altro hamburger al curry grondante maionese. Aprii l’obiettivo e dissi. «Ciao Daphne, sto andando a una festa di compleanno. Se non faccio troppo tardi, ti chiamo quando torno». Invia. L’alba esplose dietro i cilindri bianchi della Bios company. Silk raccoglieva il chiarore aurorale in faccia, in evidente simbiosi con l’universo. Mi avrebbe guidato lungo i sentieri dei Monti Sabini. Il nostro viaggio stava per iniziare. Finito di stampare da graffiti (Pavona-Roma) nel mese di aprile 2004 per Editrice effequ Orbetello www.effequ.it – tel. e fax 0564867262