François, Jean-Luc e (affettuosamente)

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François, Jean-Luc e (affettuosamente)
i quaderni del cineforum
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F R A N Ç O I S , J E A N -LL U C
E (AFFETTUOSAMENTE)
GLI ALTRI
a 50 anni dalla Nouvelle vague
I protagonisti, le loro idee, la loro evoluzione, i loro maestri. Piccola storia di
una stagione breve ma intensa che ha cambiato il modo di intendere il cinema
di MARCELLO PERUCCA
Circolo Familiare di Unità proletaria
FRANÇOIS, JEAN-LUC E
(AFFETTUOSAMENTE)
GLI ALTRI
a 50 anni dalla Nouvelle vague
I protagonisti, le loro idee, la loro evoluzione, i loro maestri. Piccola storia di
una stagione breve ma intensa che ha cambiato il modo di intendere il cinema
a cura di MARCELLO PERUCCA
Settembre - Ottobre 2009
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
Viale Monza, 140 - 20127 Milano
www.cineforumdelcircolo.it
[email protected]
U
n nuovo modo di fare il cinema e di vedere il cinema. Ecco come si potrebbe sintetizzare,
in maniera magari un poco esasperata, la risposta alla domanda: “che cos’è la Nouvelle
vague?”.
Il movimento così chiamato (letteralmente tradotto in “nuova onda”) nasce in Francia verso la fine
degli anni Cinquanta grazie all’entusiasmo di un gruppo di giovani ventenni, appassionati cinefili,
assidui frequentatori di cineclub e feroci fustigatori di tutto ciò che il cinema a quel tempo proponeva, ma con uno sguardo sempre attento al cinema del passato.
Chi non ha mai visto nella propria “carriera cinefila” un film di François Truffaut, Jean-Luc Godard
o Claude Chabrol? Chi non ha sentito parlare di Eric Rohmer e Jacques Rivette? Oggi i nomi dei
protagonisti di quella stagione del cinema francese sono noti. Una stagione che può essere definita
senza ombra di dubbio rivoluzionaria, tanto che ebbe notevoli influenze sulle cinematografie di altri
paesi d’Europa (Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, ecc.), nelle Americhe (Stati uniti e
Brasile innanzi tutti) e in Giappone dove i film del giovane Nagisa Oshima obbligheranno la critica
giapponese e non a riconsiderare radicalmente il modo di concepire il cinema del Sol Levante.
Forse, però, non tutti sanno che i nuovi protagonisti del cinema francese mossero i primi passi in
veste di critici cinematografici, scrivendo i loro pezzi, feroci e provocatori, su quella che era ed è
considerata a tutt’oggi una delle più autorevoli riviste di settore: i Cahiers du Cinéma.
Questa rivista, infatti, fu la palestra nella quale si formarono Truffaut e soci, nonché il mezzo che
questi giovani intraprendenti (venivano chiamati con l’appellativo di “giovani turchi”) utilizzarono
per imporre la loro idea di cinema, slegata dai vecchi cliché, rivalutando alcuni autori del passato
che vennero eletti a maestri e disprezzandone altri, soprattutto francesi, considerati la parte più deleteria di un modo vecchio, superato, di fare cinema. Quel cinema che chiamavano, sprezzantemente,
le cinéma de papà.
I CAHIERS DU CINÉMA
La rivista nacque in Francia nel 1951; aveva gli
uffici al numero 146 degli Champs-Elysé, nel
cuore di Parigi e, soprattutto, nel cuore del
mondo cinematografico francese. Venne fondata
da André Bazin, critico cinematografico che,
seppur di giovane età, era già affermato e attivo
da diversi anni su varie riviste di settore, in collaborazione con un’altra figura di spicco dell’ambiente cinematografico dell’epoca: Jacques
Doniol-Valcroze, che divenne a sua volta cineasta realizzando alcuni film sull’onda trascinante
della Nouvelle vague.
Il successo arrise da subito alla rivista e fu dalle
sue pagine che, pochi anni dopo, nel 1954, il giovane François Truffaut, considerato da Bazin un
po’ come un figlioccio, si fece notare con un
pezzo che ebbe un’eco dirompente in tutto il
mondo del cinema francese. L’articolo, dal titolo Un certain tendence du cinéma français, rappresentò una vera e propria requisitoria contro il
cinema francese del momento. Truffaut si
scagliò con veemenza contro i più affermati registi attivi allora in Francia. Cineasti di fama
internazionale quali Claude Autant-Lara, Yves
Allegret, Jean Delannoy, René Clément venivano “fustigati” dal giovane critico che li contrapponeva ad altri registi considerati veri e propri “autori” di cinema: Jean Cocteau, Abel
Gance, Max Ophüls, Robert Bresson, Jacques
Becker, Jean Renoir.
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A sinistra: la prima copertina dei Cahiers du Cinéma, aprile 1951.
Sopra: André Bazin, fondatore dei Cahiers du Cinéma.
L’articolo, come ben si può immaginare, fece
scalpore, suscitando numerose polemiche nell’ambiente. Pare che lo stesso Bazin, rendendosi
conto del putiferio che avrebbe scatenato la sua
pubblicazione, ne ritardò di quasi un anno la
pubblicazione.
Ciò che auspicavano Truffaut e i suoi amici era,
in poche parole, un cinema di qualità slegato dal
sistema, realizzato con budget limitati (le grosse
produzioni imbavagliavano la libertà di espressione), unendo di fatto l’etica all’estetica. Un
cinema in cui doveva emergere la politica degli
autori: il regista, cioè, doveva esprimere una propria personale visione del mondo non solo attraverso la sceneggiatura, bensì anche e soprattutto
con lo stile. I registi diventavano così i veri
autori del loro film.
Truffaut, Godard e gli altri propugnavano,
riprendendolo, il concetto di camera-stylo,
introdotto nel 1948 dal critico Alexandre Astruc
che, dalle pagine della rivista Ecran Français,
rivendicava al cinema “il suo carattere di linguaggio capace di esprimersi in qualunque settore del pensiero” e auspicava “un’emancipazione dalla letteratura e dal teatro poiché è
giunto il momento in cui il cineasta si serva della
camera così come lo scrittore si serve della
penna” (Angelo Moscariello, Nouvelle Vague,
Audino ed., 2008). Quindi la macchina da presa
doveva essere utilizzata dal regista nello stesso
modo con cui lo scrittore utilizza la sua penna
stilografica.
Secondo i giovani turchi, il cinema doveva scendere nelle strade (concetto per altro già applicato
in Italia nell’immediato dopoguerra dal
Neorealismo. E non fu un caso che i registi neorealisti – Rossellini sopra tutti – furono considerati come dei maestri dai giovani della
Nouvelle vague), facendo uso di attrezzature leggere, attori poco noti e troupe composte da pochi
elementi.
In un articolo del 1958 dal titolo profetico: Seule
la crise sauvera le cinéma français, Truffaut,
facendo riferimento anche al film di Roger
Vadim Piace a troppi (Et Dieu crea la femme,
1956) che rivelò al mondo una giovane attrice
bellissima e sensuale: Brigitte Bardot, stilò una
sorta di decalogo del giovane cineasta. Scriveva
Truffaut: “Bisogna filmare altro, con altro spirito. Bisogna abbandonare gli studi troppo costosi
per invadere i posti al sole dove nessuno (tranne
Vadim) ha osato piantare la sua macchina da
presa (…) Bisogna girare per le strade e anche in
veri appartamenti (…) Bisogna essere follemente ambiziosi e follemente sinceri perché
l’entusiasmo delle riprese si comunichi alla
proiezione e conquisti il pubblico (…)”. Truffaut
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scrisse l’articolo, che continua sul medesimo
tono, al mondo del cinema ma anche a se stesso:
di lì a poco avrebbe iniziato le riprese del suo
primo lungometraggio I quattrocento colpi (Le
400 coups, 1959), facendo così il grande salto
(sino ad allora aveva realizzato alcuni cortome-
traggi) lasciando la scrivania dei Cahiers e passando dietro la macchina da presa per intraprendere una carriera che l’avrebbe reso uno dei più
interessanti registi degli anni Sessanta-Settanta e
che fu stroncata dalla morte avvenuta all’ètà di
soli 51 anni, nel 1984, per un tumore inguaribile.
LA NOUVELLE VAGUE
Il termine Nouvelle vague, utilizzato per indicare il movimento di cineasti sorto intorno ai
Cahiers, in realtà fu preso a prestito da un’inchiesta sulla gioventù francese compresa fra i 18
e i 30 anni condotta, nel 1957, dal settimanale
L’Express e che aveva come titolo La Nouvelle
vague arrive!
Si trattava di un’inchiesta ad ampio respiro sulle
abitudini, sui comportamenti, sul modo di pensare dei giovani i quali, probabilmente per la prima
volta, venivano considerati come entità sociologicamente ben definita. Con i loro problemi, le
loro speranze, le loro insoddisfazioni. Sino ad
allora i giovani non erano considerati in quanto
tali, bensì, semplicemente, come persone di giovane età, senza tener conto del fatto che, in quanto giovani, essi potessero nutrire esigenze particolari, diverse da quelle del mondo adulto, del
mondo dei loro genitori. I giovani, in quegli
anni, cominciarono lentamente a prendere
coscienza del loro essere, sino ad arrivare qualche anno più tardi, nel 1968, a urlare al mondo la
loro rabbia e il loro essere diversi da un mondo e
da un modo di vivere che non li rappresentava.
Il cinema – un certo modo di fare cinema –
diventava, sotto questo punto di vista, uno strumento estremamente importante per i giovani per
affrancarsi dal mondo dei padri e per affermare il
loro modo di essere. Fu soprattutto il movimento della Nouvelle vague, proprio perché
formato da loro coetanei, che seppe raccogliere
e convogliare le aspettative e la voglia di cambiamento dei ragazzi nella Francia di quegli
anni.
I primi tentativi registici dei giovani turchi iniziarono verso la metà degli anni Cinquanta.
Vennero realizzati alcuni cortometraggi con esiti
discordanti, primi tentativi di porre in pratica le
loro teorie.
Truffaut, ad esempio, realizzerà, nel 1954 Une
visite e nel 1958 Histoire d’eau insieme a
Godard. Sempre nel 1958 gira Les Mistons,
primo vero film anche se di breve durata.
Due scene di A bout de souffle, primo lungometraggio
di Jean-Luc Godard, con Jean-Paul Belmondo e Jean
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Godard realizza nel 1957 Une femme coquette e
l’anno successivo Tous le garçon s’appelent
Patrick, con un giovane Jean-Paul Belmondo
come protagonista. Sempre Belmondo sarà il
protagonista di un altro cortometraggio del regista di origine svizzera, dal titolo Charlotte et
son Jules (1958).
Del 1956 è, invece, il cortometraggio di Rivette
Le coup du berger, che si avvale, nel cast, degli
amici Godard, Truffaut e Chabrol.
Anche Rohmer, il più vecchio del gruppo, prima
di arrivare a realizzare il suo primo lungometraggio, realizza alcuni corti fra i quali, il più
famoso, è Veronique et son cancre (1958).
Rifacendosi alla teoria sul linguaggio cinematografico elaborata da André Bazin, i giovani registi della Nouvelle vague portarono nel cinema
francese una ventata di novità. Il linguaggio del
film non era più basato sul montaggio classico,
bensì su un montaggio frammentario e discontinuo. Godard in Fino all’ultimo respiro,
suo primo lungometraggio del 1960, estremizza
le teorie di Bazin: “frantuma le regole fondamentali del montaggio contiguo arrivando al
jump cut, al taglio di alcuni fotogrammi all’interno di una sequenza che viene così punteggiata da stridenti “salti” (David Bordwell, Kristine
Thompson, Storia del cinema e dei film, Il
Castoro ed., 1998). Fanno ampio uso del “piano
sequenza” grazie anche all’utilizzo di macchine
da presa leggere e maneggevoli. Intervengono in
maniera spregiudicata sulla profondità di campo,
sul sonoro, sui tagli delle immagini.
Sintomatiche della filosofia della Nouvelle
vague furono le parole che Godard scrisse in un
articolo dal significativo titolo Le jeune cinéma
a gagné (Il giovane cinema ha vinto). Scrive
Godard: “(…) Noi non possiamo perdonarvi di
non aver mai filmato le ragazze che amiamo, i
giovani che incontriamo tutti i giorni, i genitori
che disprezziamo o che ammiriamo, i bambini
che ci stupiscono o che ci lasciano indifferenti,
insomma, le cose così come sono”.
Lo stile documentaristico sarà, in alcuni casi,
una caratteristica pregnante del cinema della
Nouvelle vague. Basti pensare all’inizio de I
quattrocento colpi, con la descrizione della classe e del maestro, o a Questa è la mia vita, (Vivre
sa vie, 1962) di Godard dove, in 12 capitoli,
viene descritta la vita di una donna che diventa
prostituta.
La Nouvelle vague fu quindi un movimento rivoluzionario sotto tutti i punti di vista: stilistico
ma non solo. Permise ai giovani di “impadronirsi” della macchina da presa, sino a quel momento appannaggio dei vecchi registi. Prima della
Nouvelle vague era, infatti, quasi impensabile
che un giovane sotto i quarant’anni potesse realizzare un film come regista. Lungo era il periodo di praticantato, prima come assistente, poi
come aiuto regista. Con la “nuova onda” invece
tutti potevano avvicinarsi, già in giovane età,
alla macchina da presa e realizzare il proprio
film, bello o brutto che fosse non aveva importanza. Furono centinaia i giovani che nei primi
anni Sessanta realizzarono almeno un film, grazie anche alla politica dei budget ridotti all’osso.
Certo, molti di questi si fermarono lì e la loro
opera finì nel dimenticatoio; solo in pochi continuarono. Ma ciò che veramente importava era
che, con la Nouvelle vague, ma sarebbe meglio
parlare al plurale, considerate le influenze che il
movimento ebbe sulle cinematografie di altri
paesi, si era oltrepassato il punto di non ritorno.
Il cinema, da quel momento, non sarebbe stato
più lo stesso.
Il giovane Jean-Pierre Leaud ne I quattrocento colpi
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CANNES 1959
Il primo esponente della Nouvelle vague a realizzare un lungometraggio fu Claude Chabrol
che girò, nel 1958, Le beau Serge, storia di una
tormentata amicizia fra due giovani e I cugini
(Les cousins) che, analizzando il rapporto di
rivalità fra due cugini, uno timido e studioso,
l’altro smaliziato e amante della bella vita, disegna un ritratto della gioventù dell’epoca assai
vicino a quanto rilevato dal sondaggio de
L’Express.
Sarà però solo l’anno successivo che la Nouvelle
vague salirà alla ribalta delle cronache, con un
successo di pubblico e di critica assolutamente
inaspettato. È quindi il 1959 che viene normalmente assunto come anno di inizio del fenomeno Nouvelle vague.
In quell’anno, infatti, uscirono sugli schermi
alcuni film fondamentali. Al Festival del Cinema
di Cannes, nel mese di maggio, furono presentati I quattrocento colpi di François Truffaut e
Hiroshima mon amour di Alain Resnais, un regista che, come vedremo meglio più avanti, non
faceva formalmente parte del gruppo dei
Cahiers, ma che contribuì in maniera fondamentale al rinnovamento e allo svecchiamento del
cinema francese.
Purtroppo la lavorazione de I quattrocento colpi
venne funestata da un evento luttuoso che colpì i
giovani registi dei Cahiers e, in modo particolare, Truffaut. Alle tre del mattino dell’11 novembre 1958 André Bazin, da tempo malato di leucemia, muore, lasciando un vuoto immenso
intorno a sé. Truffaut perde l’uomo da lui considerato come un padre. I Cahiers perdono la loro
guida e il loro punto di riferimento.
Possiamo quindi immaginare con quale stato
d’animo il giovane François, la sera della prima
del suo film al Festival, entra nella sala accompagnato da un’eminenza della letteratura, del
teatro e del cinema francese: Jean Cocteau. Non
è difficile pensare alle contrastanti sensazioni del
giovane regista, visto da molti come un fanatico,
con il pensiero rivolto al suo mentore Bazin e
con la tensione per la proiezione di un film chiaramente autobiografico che raccontava, senza
molti giri di parole, l’infanzia e l’adolescenza
tormentate del regista stesso.
L’entusiasmo della critica e del pubblico per i
film di Truffaut e di Resnais è grande.
Nonostante questo a vincere quell’edizione del
Festival fu un film che, visto oggi ci appare piuttosto convenzionale e di maniera: Orfeo negro di
Marcel Camus, tratto da un racconto di Vinicius
de Moraes.
Ma poco importò ai giovani dei Cahiers di non
aver vinto ufficialmente a Cannes. Fu comunque
una vittoria, considerato il successo ottenuto,
senza contare che i giovani turchi avevano già
vinto la loro battaglia il giorno stesso della selezione dei loro film alla rassegna, come trionfalmente scrisse Jean-Luc Godard, che aveva collaborato alla realizzazione del film di Truffaut,
proclamando la vittoria in un articolo apparso sul
settimanale Arts.
Una vittoria che si consolidò l’anno successivo,
il 1960, quando Godard, a sua volta, realizzò il
suo primo lungometraggio, Fino all’ultimo
respiro (A bout de souffle).
Film di estrema rottura, soprattutto dal punto di
vista stilistico, l’opera prima di Godard richiama
nelle sale 259.000 spettatori, circa duemila in
meno de I quattrocento colpi dell’amico
Truffaut. Tuttavia è con questo film che la
Nouvelle vague ottiene una definitiva consacrazione.
Il 1960 è anche l’anno di realizzazione de Il
segno del leone (Le signe du lion), il primo lungometraggio di Eric Rohmer, che però uscirà
sugli schermi solamente due anni dopo. Prodotto
dalla casa di produzione fondata da Chabrol, la
A.J.Y.M. (dalle iniziali della moglie e dei suoi
primi due figli), il film di Rohmer si rivelò un
fiasco al botteghino. L’entusiasmo per la
Nouvelle vague si stava già affievolendo? Certo
è che, dopo il successo iniziale, gli autori iniziarono ad avere problemi con la distribuzione,
come afferma lo stesso Truffaut quando scrive:
“Non sono certo un perseguitato e non voglio
parlare di complotto, ma diventa evidente che i
film dei giovani, di coloro che prendono un po’
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le distanze dalla norma, in questo momento si
scontrano con uno sbarramento opposto dagli
esercenti” (François Truffaut, Autoritratto,
Einaudi, 1989).
Gli anni immediatamente successivi al 1960
vedranno l’insuccesso di pubblico di molti dei
film dei giovani registi. Tirate sul pianista (Tirez
sur le pianiste,1961) di Truffaut, interpretato
dallo chansonnier-attore di origine armena
Charles Aznavour; La donna è donna (Une
femme est une femme, 1962) di Godard; Le godelureux (1960), L’oeil du matin (1961) e Ophelia
(1962), tutti di Chabrol; il primo lungometraggio
di Jacques Rivette Paris nous appartient (1960);
La morta stagione dell’amore (1960), di Pierre
Kast si riveleranno tutti dei sonori fiaschi al botteghino.
La crisi in cui, in così breve tempo, sprofonda la
Nouvelle vague pare irreversibile; messa all’angolo dallo spirito di sopravvivenza del cinema
tradizionale francese, pare, ormai, un fenomeno
in via di estinzione. Alcuni film costano uno
sproposito e rappresentano un discreto flop al
botteghino; è il caso, ad esempio, di Desideri nel
sole (Adieu Philippine, 1963) di Jacques Rozier.
Realizzare film, per i giovani registi, tornò a
essere difficoltoso quasi come prima dell’avvento della Nouvelle vague.
Tuttavia, anche se la spinta del movimento si
stava affievolendo, non per questo i vari
Truffaut, Godard, Chabrol e gli altri smetteranno di fare film. Ognuno continuerà nella sua attività, affinando, col tempo, la propria cifra stilistica e diventando, a sua volta, un classico.
Truffaut nel 1962 realizza uno dei film più belli
e appassionati del cinema francese di tutti i tempi
Jules e Jim (1962), un’opera tratta dal romanzo
di Henry Roché, uno scrittore esordiente di… 74
anni! Godard col tempo diventerà sempre più
sperimentatore avviandosi verso una carriera
decisamente fuori dal coro e realizzando, fra gli
altri, due ottimi lungometraggi, entrambi del
1965: Il bandito delle 11 (Pierrot le fou) e
Agente Lemmy Caution: missione Alphaville
(Alphaville, une étrange aventure de Lemmy
Caution) per poi dedicarsi sempre più a un cinema politico e di rottura. Chabrol utilizzò il noir
per descrivere, con la passione e la minuzia di
un entomologo, la psicologia dei comportamenti
umani che possono esplodere, improvvisamente,
nella violenza e nella follia. Rohmer, dopo l’insuccesso della sua opera prima, iniziò una serie
di sei film compresi nel ciclo dei “Racconti
morali”, dove uomini e donne vengono colti nell’atto di destreggiarsi fra la razionalità derivante
dall’intelligenza e gli impulsi emotivi ed erotici.
Un’intensa scena di
Hiroshima mon amour,
di Alain resnai, presentato a l Festival del cinema
di Cannes 1959
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I
REGISTI DELLA RIVE GAUCHE
La definizione venne coniata dal critico Richard
Roud. Più anziani di qualche anno rispetto ai
colleghi della Nouvelle vague, meno cinefili di
questi e, in generale, più politicizzati, i registi
cosiddetti della Rive gauche (della Riva sinistra,
in quanto, oltre a ritrovarsi normalmente in quella ben caratterizzata zona parigina, erano politicamente impegnati e avevano, come linea comune di pensiero, la lotta alla censura, il dissenso
verso le guerre coloniali, un certo intellettualismo di sinistra vicino a filosofi quali Sartre,
Alain Robbe-Grillet, ecc.) iniziano la loro attività verso la metà degli anni Cinquanta. Alain
Resnais, Agnès Varda, Jacques Demy e altri,
realizzano un cinema, comunque di impronta
moderna, che tende ad affrancarsi dal vecchio
modo di fare cinema, senza però raggiungere il
furore intransigente dei critici dei Cahiers.
È sicuramente Alain Resnais il principale esponente di questo gruppo di cineasti. Nel 1956 gira
un breve documentario di grande impatto emotivo: Notte e nebbia (Nuit et brouillard).
Commissionato dal Comité d’histoire della seconda guerra mondiale, Resnais realizza un documento sui campi di sterminio unendo vari
spezzoni di filmati tratti dagli archivi storici
delle Forze alleate a sequenze a colori girate sui
luoghi delle deportazioni. È un film che svela al
mondo l’orrore dell’olocausto al quale il regista
farà seguire, nel 1959, il già citato Hiroshima
mon amour, con la sceneggiatura della scrittrice
Marguerite Duras. Un’attrice francese si trova a
Hiroshima per realizzare un film contro la guerra. Intrattiene una relazione con un uomo giapponese e a lui rammenta il proprio passato
durante la guerra, quando venne accusata di collaborazionismo con i tedeschi. Il tutto intrecciato
al doloroso presente di una città e di un popolo
distrutto dalla bomba atomica. Il cinema di
Resnais spesso gioca con salti temporali di questo genere, dove al presente, spesso doloroso, si
intreccia un passato altrettanto doloroso.
Spesso Alain Resnais si affida ai nuovi scrittori
emergenti per la sceneggiatura dei propri film,
stabilendo di fatto un rapporto fra nuovo cinema
e nuova letteratura. Oltre alla Duras, che sceneggiò anche L’inverno ti farà tornare (1961), film
d’esordio del montatore di Resnais Henri Colpi,
ricordiamo Jean Cayrol per Notte e nebbia e per
Muriel, il tempo di un ritorno (1963) (film
messo al bando dalla censura francese, al pari di
Le petit soldat (1960) di Godard per i suoi espliciti riferimenti alla guerra d’Algeria); Raymond
Queneau per Le chant du Styrène (1958); Alain
Robbe-Grillet per L’anno scorso a Marienbad
(L’année dernière à Marienbad, 1961); lo scrittore di origine catalana Jorge Semprun per La
guerra è finita (La guerre est finie, 1966) e per
Stavisky (1974).
Impegnato politicamente, come testimoniano le
sue opere filmiche, Resnais nel 1961 aderisce,
insieme a numerosi altri intellettuali francesi, al
“Manifesto dei 121”, una dichiarazione sul diritto all’insubordinazione dei francesi nei confron-
Agnès Varda e Alain Resnais
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ti della Guerra d’Algeria. Collabora inoltre, con
l’amico regista Chris Marker, altro esponente di
spicco del gruppo della Rive gauche, alla realizzazione del cortometraggio Les statues meurent
aussi (1950-1953) sulla distruzione sistematica
delle statue e, in generale, dell’arte africana da
parte del colonialismo.
Chris Marker (uno dei tanti pseudonimi di
Christian François Bouche-Villeneuve), regista,
fotografo, scrittore, ha sempre rifuggito, al pari
di Resnais, la ribalta. Questo suo essere schivo,
poco incline all’apparire, lo ha un po’ emarginato nei confronti del pubblico e della critica
internazionale che non ha saputo cogliere appieno la potenza delle immagini, come appaiono
ad esempio nel bellissimo La jetée (1963), sorta
di “cineromanzo” fatto con immagini fisse che
raccontano un mondo post-atomico.
Anche Louis Malle è, oggi, un po’ dimenticato
dal grande pubblico. Eppure ha firmato opere
che hanno lasciato il segno. Come poter dimenticare, ad esempio, la camminata nella notte di
una giovane Jeanne Moreau alla ricerca del suo
amante rimasto intrappolato in un ascensore
dopo aver ucciso il marito della donna, in
Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l’échafaud, 1957), con la splendida colonna sonora
realizzata dal trombettista jazz Miles Davis.
Oppure la ragazzina scatenata di Zazie nel metro
(Zazie dans le métro, 1960), film che racconta,
con uno stile “alla Nouvelle vague”, le peripezie
di una bambina a Parigi in una giornata di sciopero della metropolitana. O ancora Jeanne
Moreau in Les amants (1958), dove interpreta
una sensuale e appassionata amante che decide
di abbandonare il marito sfidando ogni convenzione sociale. Fra l’altro, il tema del film di
Malle scatenò le ire dell’Osservatore romano.
Questi e altri registi (Agnès Varda, Claude
Sautet, Jacques Demy, Michel Deville, George
Franju, Alain Cavalier), spesso accomunati alla
Nouvelle vague, ma discostandosi da questa per
ragioni anagrafiche e formali, hanno contribuito
a “rinfrescare” il cinema francese senza per
altro, al contrario dei giovani turchi, rifiutare
completamente la generazione di cineasti che li
aveva preceduti, bensì inserendovi contenuti
innovatori in un percorso di classicità.
IL CINEMA E IL ‘68
Il cinema in Francia fu profondamente coinvolto
nella protesta che sfociò nella rivolta studentesca
del maggio ’68. In qualche modo ne fu l’anticipatore.
L’allora ministro per gli Affari culturali del governo De Gaulle André Malraux, letterato e
intellettuale francese, chiede e ottiene la non
riconferma alla direzione della Cinémathèque
française, storica istituzione nella quale generazioni di cinefili hanno potuto soddisfare la propria passione e conoscere le opere cinematografiche di ogni tempo, del suo direttore Henry
Langlois, apprezzato e stimato da molti registi.
Il 9 febbraio 1968 il consiglio di amministrazione liquida Langlois, da anni alla guida
della Cinémathèque, proponendo al suo posto
Pierre Barbin, direttore dei Festival di Tours e
Annecy. Otto consiglieri, fra i quali Truffaut, per
questo motivo danno le dimissioni.
Subito si scatena la rivolta. Vari registi, fra i
quali lo stesso Truffaut, Rivette, Resnais,
Godard, Bresson, Chabrol coordinano le contestazioni. Il 14 febbraio circa 3000 fra registi,
intellettuali, semplici cittadini marciano in corteo attraverso il giardino del Trocadero verso il
Palais de Chaillot, sede della seconda sala della
Cinémathèque. Davanti allo sbarramento della
polizia il corteo cambia rotta, ma subisce
comunque la carica delle forze dell’ordine che
iniziano a picchiare con i manganelli i dimostranti. Molti, fra cui anche personaggi celebri
come il regista Bertrand Tavernier, restano feriti
negli scontri.
Le cariche della polizia vengono filmate dalla
televisione francese - che, per altro, non le manderà in onda - e dalle televisioni di altri paesi
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europei. L’indignazione è massima. Alla fine,
dopo due mesi di proteste e manifestazioni, il
governo gaullista sarà costretto a fare marcia
indietro e a reintegrare Langlois alla direzione
della Cinémathèque.
Le manifestazioni a favore di Henry Langlois
saranno l’anteprima della protesta studentesca
che si scatenerà nel mese di maggio di quell’anno, dando l’avvio a quello che rimarrà nella
memoria collettiva come il “maggio ‘68”.
Il 3 maggio, il giorno successivo al reinsediamento di Langlois alla direzione della
Cinémathèque, scoppia la rivolta, con la polizia
che entra alla Sorbona e gli scontri nel Quartiere
latino.
Il mondo del cinema non può rimanere indifferente a quanto sta accadendo. La settimana successiva, il 10 maggio, si inaugura il Festival di
Cannes. Godard e Truffaut si schierano a capo di
un tentativo di boicottaggio del Festival. In una
conferenza stampa Truffaut legge un comunicato
con il quale chiede che, a fronte di quanto sta
accadendo nel paese, dove “tutto ciò che è minimamente degno e importante si ferma in
Francia” anche il Festival deve fermarsi.
La Grande Salle viene occupata allo scopo di
impedire la proiezione del film in programma,
Peppermint Frappé di Carlos Saura con
Geraldine Chaplin. Il direttore del Festival,
Robert Fabre-Levret, non accetta e fa partire le
immagini del film ma, a seguito del caos che si
scatena in sala (gli stessi Saura e Geraldine
Chaplin sono favorevoli alla sospensione del
Festival) è costretto a interrompere la proiezione.
Il Festival a quel punto viene sospeso.
L’azione dimostrativa compiuta a Cannes portò
alla creazione degli Stati Generali del Cinema
allo scopo di creare un sistema alternativo di
produzione, distribuzione dei film e gestione
della sale cinematografiche. Si auspicava che
l’industria cinematografica diventasse di
proprietà pubblica e che fossero i lavoratori del
settore a controllare direttamente la produzione.
Furono in molti ad aderire agli Stati Generali.
Ovviamente registi come Truffaut, Godard,
Malle, Resnais e altri importanti figure, ma
anche semplici lavoratori dell’industria cinematografica. Venne creata una cooperativa che iniziò a realizzare opere alternative, secondo la
linea politica decisa collettivamente. Almeno
sino a quando De Gaulle ritornò al potere ristabilendo l’ordine precedente alla protesta.
A sinistra: manifestazione durante il maggio ‘68; a destra: manifesti della rivolta del maggio ‘68
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VEDERE OGGI LA NOUVELLE VAGUE
Come detto la Nouvelle vague ebbe durata effimera, ma pochi anni furono sufficienti per gridare al miracolo. Tuttavia, col tempo, è andata
affermandosi in molti la tendenza a ridimensionare il fenomeno. Molti registi, soprattutto francesi, nel corso degli anni hanno sottolineato
come, tutto sommato, la Nouvelle vague non
abbia introdotto nulla di innovativo, lasciando al
Neorealismo italiano il merito di aver cambiato
radicalmente il modo di fare cinema. Lo pensa,
ad esempio, Georges Franju che, in un’intervista
realizzata in occasione di una ampia retrospettiva
sulla Nouvelle vague tenuta a Firenze nel 2004,
dichiara, in maniera feroce, che: “Della Nouvelle
vague si è fatto un mito, mentre era solo un buffo
scherzo. Il cinema francese del 1930 e il
Neorealismo italiano hanno realmente cambiato
il cinema, la Nouvelle vague è stata il trionfo del
dilettantismo, un fenomeno di costume”. Anche
Michel Deville, nella medesima occasione, sottolineò come “I neorealisti avevano fatto prima e
meglio, quella era una vera rivoluzione, sono i
precursori assoluti della Nouvelle vague”. Sono
parole pesanti, tendenti a demolire un fenomeno
che avrà avuto certamente dei difetti, ma ha
anche avuto molti meriti. Primo fra tutti quello di
tentare di superare lo sbarramento imposto dal sistema ai giovani che volevano cimentarsi nell’arte del cinema. Che poi, dei “160 nuovi cineasti
francesi” inclusi nel dizionario del numero 138
dei Cahiers du cinéma del dicembre 1962, circa i
due terzi non andarono oltre il loro primo film, e
che dei rimanenti furono solo una ventina quelli
definibili in senso stretto “nouvellevaghisti”, non
deve sminuire il senso profondo della “rivoluzione Nouvelle vague”.
Certamente alcune prese di posizione dei giovani
turchi sul cosiddetto cinéma de papà, lette oggi
appaiono inutilmente feroci, come hanno stigmatizzato in molti. Ad esempio Louise Malle disse
che “Contro Clouzot, Autant-Lara (…) i Cahiers
du cinéma hanno scritto cose terribili, li hanno
trascinati davvero nella polvere, è stata una cosa
indegna”. Oppure Cluade Miller: “A me piacevano molto i film di Clouzot e Clément che la
Nouvelle vague ha trattato da vecchi rimbecilliti.
Li hanno trattati come terrroristi”. O CostaGavras che ricorda come “Clair, Clément e soci
erano sconvolti davanti agli insulti ricevuti”.
Parole dure, solo mitigate da altri giudizi meno
tranchant, come quello di Barbet Schroeder che
evidenzia l’impegno morale dei registi del gruppo dei Cahiers, sottolineando il merito di aver
introdotto la “dialettica morale” nel fare cinema.
Aldo Tassone, nel suo saggio dal titolo:
Un’autentica rivoluzione? Identificazione di un
movimento (In La Nouvelle vague 45 anni dopo.
France Cinema 2002. Incontri di Firenze. A cura
di A. Tassone. Ed. Il Castoro), scrive che la
Nouvelle vague è stata “una grande rivoluzione
tecnica e produttiva. Le aspirazioni a diventare
anche una grande rivoluzione “estetica” si sono
avverate forse solo per il trio Godard-ResnaisMarker. La rivoluzione tecnica era però stata preparata da certi fermenti che non si riducono solo
all’attività critico-teorica dei Cahiers: essenziale
si è rivelato l’apporto del “gruppo dei trenta”
documentaristi creato nel 1953 intorno a Resnais
e Franju. La Nouvelle vague inoltre ha largamente approfittato delle conquiste dei neorealisti italiani (non solo di Rossellini). (…)
In ogni caso “il cinema francese anni Sessanta
non si riduce alla sola Nouvelle vague, che ne è
una parte, sostanziale per alcuni, non così importante per altri (…). Quel cinema etichettato “tradizionale” (…) rappresenta una parte sostanziosa
della produzione francese anni Sessanta, più
importante di quanto i Cahiers e alcuni storici
della Vague ci hanno lasciato intendere”.
Resta, in ogni caso, l’idea di fondo di un gruppo
di giovani che volevano fare un cinema “giusto”,
libero e indipendente. Giovani che con il loro cinema, con le loro storie “vere”, volevano guardare negli occhi la società per smascherarla di
ogni ambiguità e falsità, alla ricerca di una libertà
forse inesistente. Un po’ come fa Antoine Doinel,
il giovane protagonista del primo lungometraggio
di Truffaut, quando, nel fermo immagine conclusivo del film, volge lo sguardo verso la macchina
da presa e, di conseguenza, verso di noi, interrogandoci e facendo scattare in noi un profondo
senso di colpa e di disagio.
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I PROTAGONISTI
FRANÇOIS TRUFFAUT
Nasce a Parigi il 6 febbraio 1932. La madre
Janine de Monferrand, di origini aristocratiche,
rimane incinta di François a diciott’anni.
Vorrebbe abortire, ma la famiglia si oppone.
Dopo la nascita del figlio, Janine viene internata
in un convitto per “traviate” e il piccolo François
mandato in campagna a vivere con la nonna.
Non vedrà la madre per cinque anni.
Del padre, François non ha notizie, sino al 1968
quando, girando il suo film Baci rubati, decide
di commissionare una indagine a un detective
privato, il quale viene a scoprire che il padre è un
dentista ebreo divorziato. La colpa della mancata presenza del padre è da imputare alla famiglia
materna, che non aveva voluto un ebreo in casa,
causando, di conseguenza, danni irreparabili alla
crescita del piccolo François.
La madre, che nel frattempo si era legata a
Roland Truffaut - che decide di adottare
François - non sarà tenera con il figlio. François
la descrive come una donna acida, egoista, che
avrebbe desiderato una vita più brillante. Il bambino cresce con la nonna materna sino alla
morte di questa; sarà lei ad appassionarlo alla
letteratura, passione che Truffaut coltiverà per
tutta la vita.
Il rapporto del ragazzo con la scuola è pessimo.
Espulso da vari istituti per comportamento indisciplinato, avrà un rendimento estremamente
scarso e tutto ciò contribuirà a peggiorare i rapporti familiari, già pessimi. Come racconta
Robert Lachenay, suo miglior amico sin dai
tempi della scuola, a salvarlo da una vita balorda sarà l’amore per i libri e per il cinema.
L’infanzia difficile caratterizzerà profondamente
i suoi film, a partire dal primo lungometraggio I
quattrocento colpi, profondamente autobiografico.
L’incontro con il cinema avviene per Truffaut
nella Parigi occupata dai tedeschi. Vede ogni
sorta di film, limitatamente, considerato il periodo, alle pellicole francesi e tedesche. Il cinema
americano lo scoprirà a guerra finita e sarà un
colpo di fulmine. Scopre i principali registi d’oltre oceano, da John Ford a Orson Welles, da
Mankiewitz a Cukor. Conosce soprattutto
Hitchcock, che diventerà un suo idolo per tutta la
vita. Arriverà anche a intervistarlo nel corso
della sua carriera di critico cinematografico.
Impara ad amare attori come Humphrey Bogart
e Cary Grant, James Stewart e Spencer Tracy.
Scopre anche i grandi francesi censurati durante
il periodo dell’occupazione; si innamorerà di
Jean Vigo e Renoir.
La vita del giovane Truffaut trascorrre tra le
fughe dalla scuola e i piccoli furti compiuti
insieme all’amico Lachenay. Tutto ciò lo condurrà a trascorrere parte della sua adolescenza
rinchiuso in riformatorio. Da questo luogo di
reclusione uscirà grazie all’interessamento di
André Bazinche François aveva conosciuto tempo prima e con il quale aveva stretto amicizia.
I rapporti fra Truffaut e Bazin diverranno sempre
più stretti, tanto che Bazin considererà il futuro
regista un po’ come il suo figlioccio. Finalmente
François può colmare il vuoto derivante dalla
mancanza della figura paterna.
Sarà Bazin a credere nelle potenzialità di quel
giovane, dandogli credito come opinionista nei
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Cahiers du Cinéma.
Come critico cinematografico Truffaut sarà ferocissimo, prendendo di mira un certo cinema
francese che lui considera vecchio e asservito al
potere delle case di produzione, e intraprendendo una battaglia a favore di un nuovo cinema
d’autore. Nei suoi scritti Truffaut sparerà a zero
soprattutto su alcuni registi di fama quali
Henry-Georges Clouzot, Yves Allegret, Jean
Delannoy, René Clément, Claude Autant-Lara;
su alcuni sceneggiatori, in particolare l’accoppiata Aurenche e Bost, esaltando, per contro,
altri personaggi che considererà come maestri:
Jean Renoir, Robert Bresson, Jean Cocteau, Abel
Gance, Jean Vigo, Max Ophüls, Jacques Becker
per quanto riguarda i francesi; Rossellini (e in
generale tutto il Neorealismo italiano); Orson
Welles, William Wyler, Alfred Hitchcok per
quanto riguarda i registi di altri paesi.
In particolare Hitchock sarà oggetto di una vera
e propria venerazione da parte di Truffaut e degli
altri giovani critici dei Cahiers che, analogamente al giovane François, diventeranno a loro
volta cineasti di fama: Claude Chabrol, Jean-Luc
Godard, Jacques Rivette, Eric Rohmer (quest’ultimo di qualche anno più vecchio rispetto ai colleghi). Considerato sino ad allora un regista
esclusivamente commerciale, Hitchock viene
elevato ad autore a tutto tondo dai giovani dei
Cahiers.
Sarà in particolare l’articolo comparso nel primo
numero dei Cahiers del 1954, dal titolo Une certain tendence du cinéma français a rivelare il talento e la ferocia critica di François Truffaut.
L’articolo, del quale Bazin aveva ritardato in
tutti i modi la pubblicazione rendendosi conto
dello scalpore che avrebbe suscitato nell’ambiente, fu un vero e proprio atto di accusa nei
confronti di coloro che Truffaut considerava i
“nemici” del cinema francese, che venivano
accusati in maniera sistematica dei peggiori
“misfatti”.
Ovviamente chi venne così profondamente
attaccato da Truffaut reagì. Autant-Lara accuserà
Truffaut definendolo « giovane canaglia del cinema francese », trascinandolo in tribunale. Il
risentimento del vecchio regista non si placherà
neanche dopo la morte di Truffaut, avvenuta a
soli 51 anni a causa di un tumore.
Dopo tanto scrivere di cinema, l’esigenza di pas-
sare dietro la macchina da presa per il giovane
Truffaut – così come per gli altri giovani critici sarà una cosa naturale.
Truffaut, dopo i primi cortometraggi (Une visite,
1954; Historie d’eau, 1958; Les Mistons, 1958),
realizzerà, insieme a Jean-Luc Godard, il suo
lungometraggio d’esordio, I quattrocento colpi
(Les 400 coups) nel 1959. Considerato a tutti gli
effetti il punto di partenza della Nouvelle vague
(anche se l’anno prima Chabrol aveva già realizzato il suo primo film), I quattrocento colpi è
chiaramente un film autobiografico; sarà il
primo di una serie di episodi con protagonista
Antoine Doinel, alter ego del regista.
Truffaut, nel corso della sua carriera, ha realizzato in totale, 21 lungometraggi, 3 cortometraggi e un episodio di un film realizzato da più registi. Ha inoltre partecipato come attore a una
decina di film e prodotto numerose opere con la
casa di produzione da lui fondata e denominata
Les films du Carrosse, in omaggio al film di Jean
Renoir La carrozza d’oro, interpretato da Anna
Magnani.
Molti dei film che Truffaut ha realizzato sono
tratti da opere letterarie, a testimonianza del suo
amore sconfinato per la letteratura, sin da Jules e
Jim (Jules et Jim, 1962), film con il quale riesce
a emergere dal clima di riflusso e di crisi in cui
sembrava essere sprofondata la Nouvelle vague
a pochi anni dalla nascita. Jules e Jim, che ebbe
un buon successo di pubblico, è uno dei più bei
film della Nouvelle vague e, in generale, della
cinematografia francese di tutti i tempi, tratto
dall’omonimo romanzo di Henri-Pierre Roché.
Degna di nota è anche la serie con protagonista
Antoine Doinel, ispirata alla vita del regista stesso. Sono quattro, più l’episodio del film collettivo cui si accennava prima, i film in cui compare
la figura di Doinel, sempre interpretato da JeanPierre Léaud, che divenne l’attore feticcio del
regista.
La carriera di Truffaut continuerà anche oltre la
fine della Nouvelle vague. Molti sono i film di
successo realizzati con attori di fama: Jeanne
Moreau (Jules e Jim; La sposa in nero, 1968),
Catherine Deneuve (La mia droga si chiama
Julie, 1969;), Gérard Depardieu, con il quale
strinse una profonda amicizia che durò sino alla
morte del regista (L’ultimo metro, 1980; La
signora della porta accanto, 1981); Fanny
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Ardant, che divenne la sua compagna negli ultimi anni di vita (La signora della porta accanto,
1981; Finalmente domenica!, 1983).
Il 15 agosto 1983, a pochi giorni dall’uscita nelle
sale di Finalmente domenica!, con Jean-Luis
Trintignant e la Ardant, Truffaut viene colpito da
un’emorragia cerebrale mentre si trova nella sua
casa di Honfleur, in Normandia. Ben presto gli
verrà diagnosticato un tumore che lo ucciderà
l’anno successivo, il 21 ottobre 1984.
Omaggiato da Wim Wenders ne Il cielo sopra
Berlino, Truffaut sarà, insieme a Tarkovskij e
Ozu, uno dei tre “angeli” a cui il regista tedesco
dedicherà il suo film.
Filmografia di F. Truffaut
Une visite (1954) (cortometraggio)
Historie d’eau (1958) (cortometraggio)
Les Mistons (1958) (cortometraggio)
I quattrocento colpi (Les 400 coups, 1959)
Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, 1960)
Jules e Jim (Jules et Jim, 1962)
Antoine e Colette (Antoine et Colette, 1962) (Episodio di L’amour à vingt ans, film collettivo realizzato da Truffaut,
Renzo Rossellini, Marcel Ophuls, Andrzej Wajda, Shintaro Ishishara)
La calda amante (La peau douce, 1964)
Fahrenheit 451 (id., 1966)
La sposa in nero (La mariée était en noir, 1967)
Baci rubati (Baisers volés, 1968)
La mia droga si chiama Julie (La Syrène du Mississippi, 1969)
Il ragazzo selvaggio (L’Enfant sauvage, 1970)
Non drammatizziamo… è solo questione di corna (Domicile conjugal, 1970)
Le due inglesi (Les deux Anglaises et le Continent, 1971)
Mica scema la ragazza! (Une belle fille comme moi, 1972)
Effetto notte (La nuit américaine, 1973)
Adele H. – Una storia d’amore (L’Historie d’Adèle H., 1975)
Gli anni in tasca (L’argent de poche, 1976)
L’uomo che amava le donne (L’homme qui amait les femmes, 1977)
La camera verde (La chambre verte, 1978)
L’amore fugge (L’amour en fuite, 1979)
L’ultimo metrò (Le dernier métro, 1980)
La signora della porta accanto (La Femme d’à côté, 1981)
Finalmente domenica (Vivement dimanche!, 1983)
I FILM DELLA RASSEGNA:
Les Mistons
I quattrocento colpi
Tirate sul pianista
Antoine e Colette
Da vedere, inoltre:
Jules e Jim
La sposa in nero
Baci rubati
Il ragazzo selvaggio
Effetto notte
L'uomo che amava le donne
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I QUATTROCENTO COLPI
(Les 400 coups, 1959)
Regia: François Truffaut
Sceneggiatura: François Truffaut
Musica : Jean Constantin
Direttore fotografia : Henry Decaë
Durata: 93'
Interpreti: Jean-Pierre Léaud, Albert Rémy, Claire Maurier,
Patrick Auffay, Georges Flamant
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Parigi. In una scuola di Pigalle, durante una lezione di francese, gli scolari tra i dodici e i tredici anni si passano la
fotografia di una pin-up in costune da bagno: il professore pizzica Antoine Doinel e lo mette in castigo dietro la lavagna.
Antoine scrive sul muro qualche frase di protesta e viene nuovamente punito. Tornato a casa, in un appartamento piccolo e modesto, accende la stufa, ruba dei soldi e comincia a fare i compiti. Torna la madre, stanca e nervosa, e lo aggredisce perché si è dimenticato di acquistare la farina. Antoine esce a comprarla e, al rientro, incontra il padre sulle scale.
Tra marito e moglie c’è tensione. Dopo una cena frugale Antoine va a letto su una branda con un sacco a pelo sistemato
nell’ingresso.
Il mattino seguente Antoine decide di marinare la scuola insieme a René, compagno di classe e suo unico amico.
Nascoste le cartelle in un portone, i due van no al cinema, giocano a flipper in un bistrò, entrano nel baraccone di un
luna park: Antoine prova l’ebbrezza del rotore, ma all’uscita vede – visto a sua volta – la madre abbracciata a uno
sconosciuto. Il mattino successivo, appena Antoine è uscito di casa, Mauricet, un compagno di classe, fa la spia ai genitori circa le assenze del figlio. Scoperto l’inganno, il signor Doinel trascina la moglie a scuola, dove Antoine – per giustificarsi del giorno precedente – ha appena raccontato al professore che sua madre è morta. Finite le lezioni, Antoine
decide di fuggire di casa e con l’aiuto di René si sistema in una tipografia. Svegliato all’alba dall’arrivo degli operai,
vaga da solo per Parigi e per sfamarsi ruba una bottiglia di latte. Il giorno dopo, la madre lo raggiunge di nuovo a scuola, questa volta spaventata e premurosa. A casa promette al figlio mille franchi se otterrà un buon voto nel tema di
francese, poi convince il marito a portarli al cinema Gaumont Palace a vedere Paris nous appartient. L’indomani,
Antoine scrive un componimento sulla morte del nonno ispirandosi al finale della Ricerca dell’assoluto di Balzac. A casa
allestisce allo scrittore una specie di altarino, con tanto di ritratto e candela accesa, ma la tenda dietro cui l’ha nascosto
prende fuoco. Il tema va male: il professore accusa Antoine di plagio e gli assegna zero. Fuggito dalla scuola, Antoine
viene raggiunto da René, che lo ospita clandestinamente a casa sua. A corto di denaro, i due decidono di rubare una
macchina da scrivere nell’ufficio del padre di Antoine. Non riuscendo a venderla, Antoine la riporta indietro ma viene
scoperto dal custode. Il signor Doinel denuncia il figlio e lo fa rinchiudere in riformatorio. Dopo una notte passata in
cella insieme a delinquenti comuni e prostitute, Antoine viene trasferito in un centro d’osservazione, dove racconta alla
psicologa la sua infanzia in solitudine. L’amico René va a trovarlo ma non gli viene concesso l’ingresso. Entra invece la
madre: furiosa per la lettera che Antoine ha scritto al padre, informandolo della sua infedeltà, avverte il figlio che nessuno si interesserà più alla sua sorte. Un giorno, durante una partita di calcio, Antoine riesce a scappare dal riformatorio. Dopo una lunga corsa arriva al mare. Fatto qualche passo nell’acqua, si volta indietro, verso la macchina da presa.
(Da: Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)
Hanno detto del film
“Follemente ambizioso e follemente sincero” come il giovane turco si augurava “fosse
il film di domani”, I quattrocento colpi è uno degli esordi più folgoranti e originali
dell’intera storia del cinema: per l’immediato riconoscimento ottenuto in diversi ambiti (vincitore del premio per la miglior regia al festival di Cannes1959, è uno dei film
che hanno dato ufficialmente il via alla Nouvelle Vague), per la sua peculiarità produttiva (è un film indipendente, coprodotto da Les Films du Carrosse e da Ignace
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Morgenstern, suocero di Truffaut) e soprattutto per la sua importanza basilare nella filmografia dell’autore, di cui costituisce le fondamenta imprescindibili. (…).
Truffaut, che nei Mistons aveva cercato di portare sullo schermo una verità infantile quasi sempre
negata, adesso prosegue in un’altra direzione: non più il gruppetto di guastafeste curiosi e impertinenti, ma un solo ragazzino, introverso e sottomesso; non più il confronto alla pari, in tempo di spazio e tempi cinematografici, tra i bambini e la coppia di adulti, ma una distribuzione delle inquadrature totalmente a favore del giovanissimo protagonista, unico personaggio a tutto tondo in un mondo
di adulti ostili, a cui il regista dedica pochi e significativi tratti. Ma la vera novità dei Quattrocento
colpi è la sua genesi autobiografica: mentre nei Mistons l’interessa per il “mondo dei ragazzini” era
stato mediato da un racconto di Maurice Pons, adesso Truffaut preferisce ispirarsi direttamente alla
propria esperienza esistenziale, consapevole, però, che la tentazione dell’autobiografia può essere
fatale per un regista alle prime armi. (…)
Sul grande schermo, per François Truffaut, solo Jean Vigo e Roberto Rossellini avevano raapresentato i bambini come personaggi specifici, dotati di dignità e compiutezza, mentre sul versante letterario, Jean Cocteau aveva individuato un universo infantile autonomo, disperato e inventivo in Les
enfants terribles (…). Truffaut nei Quattrocento colpi segue le loro tracce: i momenti più vivaci in
classe e le baruffe nel cortile della scuola ricordano Zero in condotta, la crudeltà degli adulti, soprattutto quella del maestro, e le scene a casa di René sono “alla Cocteau” (il tema del furto invece è più
autobiografico), mentre nei confronti di Rossellini il debito cinematografico è maggiore: il bambino
solo , al centro del film, che vagabonda dolorosamente per la città, rimanda a Germania anno zero,
Doinel dietro le sbarre e le figlie del guardiano del riformatorio, chiuse in gabbia, rievocano i bambini che dietro al filo spinato assistono alla fucilazione del prete in Roma città aperta, ma soprattutto il taglio cronachistico, le carrellate, le panoramiche, lo sguardo “obiettivo” che fissa dritto in faccia la realtà e quello intriso di tenerezza con cui Truffaut riprende Antoine sono il cinema rosselliniano assimilato nel profondo, anche se quattro anni dopo il regista cinefilo rivendicherà un’altra
influenza fondamentale: “Mi rendo conto che I quattrocento colpi è hitchcockiano. Perché? Perché
dalla prima immagine all’ultima ci si identifica con il ragazzino”, che poi nel cinema di Hitchcock
avrebbe l’equivalente nell’innocente braccato. (…)
Truffaut (…) sia nel ciclo di Antoine Doinel, sia negli altri film dedicati all’infanzia, non raggiungerà più l’intensità, la nuda verità, il “lirismo da scorticato vivo” dei Quattrocento colpi, lucida opera
prima allo sbaraglio emotivo, incontro unico e irripetibile di un regista e di un attore simili, che nel
raccontare una storia per immagini registrano inconsapevolmente e inevitabilmente anche l’emozione del loro incontro, il disorientamento e la felicità della condivisione di sentimenti comuni. Certo,
anche in Baci rubati ci saranno gli elementi autobiografici, la gioia della fiction, lo stesso interprete
diventato adulto, ma non più la misteriosa indefinibile magia di due sguardi, dolorosamente maturi
e tuttavia staordinariamente puri, che per la prima volta si cercano, si trovano e si parlano sulla pellicola impressionata.
I quattrocento colpi è davvero il film come “atto d’amore” auspicato dai critici dei Cahiers, e celebra contemporaneamente più nascite: di Truffaut come autore, di Léaud come interprete, di Doinel
come personaggio, della Nouvelle vague come nuova visione del mondo e del cinema. Ma è anche
un film fondamentale dell’opera truffautiana (coerente come pochissime sul piano tematico), il luogo
di eterno ritorno per tutti i personaggi e le storie a venire. Antoine Doinel, così realistico e calato nel
quotidiano, diventerà nella filmografia del regista anche una figura archetipica, capace di ricomparire quando meno ce la si aspetta, di reincarnarsi sotto spoglie impensate, di manifestarsi con una
complessità insospettabile nella sua prima apparizione sul grande schermo: non c’è film di Truffaut
che in qualche modo non rimandi ai Quattrocento colpi, e non c’è protagonista – bambino o adulto,
maschile o femminile – che non abbia legami con Antoine Doinel, che non sviluppi un tratto del suo
carattere o della sua storia, che non dia voce e volto a una sua angoscia o non proietti, con rivendicativa onnipotenza, un suo sogno irrealizzabile.
(Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)
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Straordinario primo lungometraggio di F. Truffaut che, premiato per la regia a Cannes,
contribuì al lancio della Nouvelle Vague francese. Primo film della serie Antoine
Doinel che – caso unico nella storia del cinema – segue un personaggio dall’adolescenza alla maturità. Uno dei film più teneri e lucidi sull’infanzia incompresa, tema
che attraversa tutta l’opera del regista. Cinepresa mobilissima, fotografia in Dyalscope
e bianconero di Henri Decaë. Faire les 400 coups = fare una vita agitata, dissipata.
(Laura, Luisa, Morando Morandini. Il Morandini - Dizionario dei film)
L’eretico è entrato nel tempio. Il giornalista François Truffaut, nemico irriducibile del
Festival di Cannes, che un anno fa sembrava disposto a incendiare il Palazzo del
Cinema, non solo metaforicamente, è divenuto regista e col suo primo film di lungometraggio Les quatre cents coups, presentato stasera, ha affermato il suo diritto a essere ascoltato. Probabilmente, aveva torto quando blaterava ingenerosamente contro
tutti, non è vero che gli altri siano, in blocco, idioti e che egli solo abbia ingegno. Ma
ingegno ne ha, e anche ha qualcosa da dire.
Il cinema francese, lo si è già detto, è rappresentato stavolta a Cannes da questo suo spietato avversario. Egli non riconosce meriti che al regista Renoir, forse perché Renoir tace da un pezzo e vive
della reputazione acquisita. Ha un carattere pessimo, permaloso e rissoso. All’origine della sua controversia con il Festival era, l’anno scorso, la circostanza che era stato rifiutato un suo documentario, Les mistons. Si trattava di una rappresaglia ingiusta. Ma un’opera non va giudicata sull’indole
del suo autore; chiunque lo abbia diretto, Les quatre cents coups è un film di rilievo, alimentato di
verità, al quale non poteva essere negato un esame serio. Dal principio alla fine, si avvertono i pregi
e i difetti di un lavoro giovanile, e cioè si apprezzano le esuberanze e spiacciono gli eccessi: ma se
la funzione del Festival è anche quella di rivelare il nuovo, Truffaut non ha scroccato il suo ingresso.
Bisogna ricondursi, per trovare un’analogia di ispirazione e di trattazione, a Jean Vigo, il regista
morto a ventinove anni. Figlio dell’anarchico Almereyda, giustiziato nella prima guerra mondiale
per tradimento, Vigo ebbe un’infanzia infelice, trascorsa in un tetro collegio. Di questa infanzia fu
un riflesso il film Zero in condotta, venerato dai frequentatori dei cine-clubs. Lo stesso accade ora a
Truffaut: ebbe anch’egli anni difficili, da ragazzo, e fu ospite di un riformatorio. Les quatre cents
coups, narrando la storia di un tredicenne Antoine, che è poi il regista stesso, costituisce un documento autobiografico. Antoine è un discolo: marina la scuola, si ribella agli insegnanti, rubacchia in
casa e fuori. Il contegno dei suoi genitori non lo incoraggia al bene: che faceva, sua madre, quel giorno in cui egli la sorprese per strada, fra le braccia di uno sconosciuto? Se egli è in colpa, anche la
mamma è in colpa. E qui si pone la responsabilità dei genitori: ma non come atto d’accusa, al modo
dei film di Cayatte, bensì come fredda constatazione.
Il film è tutto di constatazione. Carenza d’affetto, intolleranza di controllo, ansietà di indipendenza.
Ecco Antoine che ruba una macchina per scrivere, con un compagno, eccolo trascinato davanti al
giudice dei minorenni, e poi nelle guardine della polizia, accanto a donne di malaffare, e poi nell’istituto dei corrigendi e quindi in fuga alla scoperta del mare. La vicenda è fragile, praticamente inesistente: fra l’altro questa evasione verso il mare si rintraccia, come motivo retorico, in tutti i racconti sull’adolescenza. Ma non c’è notazione che non sia suggerita dall’amore del vero: lo squallore della casa di Antoine, ad esempio, la inimicizia delle strade e della folla di Parigi, una Parigi prodigiosamente esatta, con la lusinga dei richiami e l’impenetrabilità dell’indifferenza. Il piccolo
malandrino è troppo solo nella grande città troppo gremita: solo fra le mura screpolate della sua casa,
solo nell’aula ammuffita della scuola.
Questa materia, lo si indovina, Truffaut l’ha macerata per molti anni dentro di sé. Saprà dire altre
parole importanti, dopo aver raccontato se stesso? Tutti sanno scrivere il primo atto di una commedia: e gli atti successivi? A Les quatre cents coups va rimproverato il troppo sangue : è una felice
colpa dei giovani, non saper rinunciare a qualcosa. A molte sequenze avrebbero giovato i tagli: anche
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a quella, mirabile, dell’interrogatorio nella casa di pena, anche a quella della fuga. Il piccolo JeanPierre Léaud, il tredicenne figlio dell’attrice Jacqueline Pierreux, è un protagonista sensibile, spontaneo, attendibile in ogni atteggiamento.
Arturo Lanocita, 5 maggio 1959 (da Cannes)
I quattrocento colpi sarà il film più orgoglioso, più testardo, più ostinato, in due parole, per finire, il film più libero del mondo. Moralmente parlando. E anche esteticamente. Gli obiettivi dialiscopici regolati da Henry Decaë ce ne riempiranno gli occhi
come quelli del Trapezio della vita (…). Per riassumerci, che dire? Questo: I quattrocento colpi sarà un film firmato Franchezza, Rapidità, Arte, Novità, Cinematografo,
Originalità, Impertinenza, Serietà, Tragicità, Refrigerio, Ubu-Roi, Fantastique,
Ferocia, Amicizia, Universalità, Tenerezza.
(Jean-Luc Godard , Cahiers du Cinéma, n. 92, 1959)
Che sia chiaro : questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico (…)
Dialoghi e messa in scena, al termine di un’ascesa discreta, sfociano infine nel vero
della diretta: il cinema qui reinveste la televisione e questa, a sua volta, lo consacra
cinema; c’è posto ormai solo per le tre stupende inquadrature finali, inquadrature della
durata pura, della perfetta liberazione. Tutto il film cresce verso questo istante e si
priva a poco a poco del tempo per raggiungere la durata (…). C’è adesso fra noi non
più un debuttante dotato e promettente, ma un vero cineasta francese, che è all’altezza dei più grandi, e che si chiama François Truffaut.
(Jacques Rivette, Cahiers du Cinéma, n. 95, maggio 1959)
Due parole su I quattrocento colpi. Forse vi ho già confidato,una volta, che l’autore di
questo film della “Nouvelle vague”, essendo critico cinematografico di Arts quando a
Parigi venne presentato L’oro di Napoli, mi squartò con le unghie e con i denti. Vergine
dell’Aiuto! Disse che il mio libro era folcloristico e scemo, piagnucoloso e mammista,
una vergogna e che, insomma, avevo rovinato De Sica. Ammetto di averne un po’ sofferto, non tanto per la opinabilissima arte mia, quanto perché il Truffaut ironizzava
con gallica impertinenza su mia madre, la quale era ed è polvere. A me, per molto meno, il regista
dei film I tartassati, cioè Steno, mi ha dato querela. Io non fiatai. Potrebbe essere questa, ecco l’ora
della mia vendetta. Il contenuto dell’opera di Truffaut lo conoscete, non c’è giornale che non lo abbia
riferito. (…) Beh, pensate quanto mi sarebbe agevole beffare una materia simile, ricordando al
Truffaut che il suo Antoine, dove non è un aggiornato e inurbato Pel di Carota, è un aggiornato
Gavroche… e che tutto nel film trasuda malizia, parzialità (odiosa la famiglia, odiosa la scuola, odioso il Riformatorio, odiosi cielo e terra, affinché il ragazzo ci espugni), nonché quintali e quintali di
elementi soavi, patetici. Ah quanto mi sarebbe facile sibilare a monsieur Truffaut: “Ehi tu, che vedi
L’oro di Napoli nell’occhio altrui e non vedi I quattrocento colpi nel tuo!” Ma non sibilo un accidente. Anzi, do volentieri il benvenuto in Italia a François Truffaut, con una piccola riserva per mia
madre che non ebbe colpa se fu molto diversa dalla sua. Dico bravo a Truffaut perché nonostante
egli abbia gettato in un solo piatto della bilancia tutti i pesi che aveva, e nonostante i capitoli sottratti
a Jules Rénard, il suo film ha i connotati del grande cinema. Vi splende una Parigi memorabile, davvero interpretata. E c’è un rigore, c’è un’essenzialità di racconto dinanzi alla quali Rosi dovrebbe
fare gli esercizi spirituali per un decennio. L’interrogatorio di Antoine al Riformatorio, quelle sue
risposte dolenti e semplici, tremende e puerili, non le dimenticherete, uscendo, alla prima voce di
juke box. Il ragazzino è Jean-Pierre Leaud, i genitori sono Claire Maurier e Albert Rémy. A chi mi
fece pensare la scena finale? Ah sì, a Fellini.
(Da: Giuseppe Marotta, Visti e perduti, Bompiani, 1960)
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(…) I quattrocento colpi, come i film che seguiranno, è decisamente più rispettoso
delle regole classiche della narrazione cinematografica; racconta una storia semplice,
quella di un ragazzo che sta a disagio nella sua pelle, come dovette certamente accadere anche a Truffaut, ma di cui si esorcizzano allo stesso tempo le aspirazioni e i blocchi affettivi; lo spirito di ribellione cede il passo al bisogno di tenerezza, e la volontà
di costruire una vita – di riuscire ad avere una vita degna di essere vissuta – esclude
ogni furia suicida. Le strade di Godard e di Truffaut divergeranno assai presto, e la carriera del
secondo sarà quella di un autore responsabile, che saprà integrarsi nel “sistema”) senza mai rinunciare alla sincerità. Truffaut si è mosso nella linea dei grandi registi dei sentimenti.
(Da: Claude Beylie, I capolavori del cinema, Vallardi, 1990)
TIRATE SUL PIANISTA
(Tirez sur le pianiste, 1960)
Regia: François Truffaut
Sceneggiatura: François Truffaut e Marcel Moussy
Musica : Georges Delerue
Direttore fotografia : Raoul Coutard
Durata: 85'
Interpreti: Charles Aznavour, Marie Dubois, Nicole Berger,
Michèle Mercier, Albert Rémy, Boby Lapointe
Tratto dal romanzo Down There, di David Goodis
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Chico, reduce da una rapina e inseguito dai complici con i quali ha litigato, si rifugia nel locale dove il fratello Charlie
lavora come pianista, e scappa dal retro. Alla chiusura del bistrot, Léna, la cameriera, chiede a Charlie di riaccompagnarla a casa: è innamorata di lui, ma il pianista, che pure è interessato alla ragazza, non riesce a vincere la sua timidezza. Intanto Momo ed Ernest, i complici di Chico, pensano di rintracciarlo attraverso i suoi fratelli per recuperare il
bottino. Il giorno dopo pedinano il minore, Fido, fino all’ingresso della scuola, poi costringono Charlie a salire sulla loro
macchina e, caricata anche Léna, cercano di farsi guidare da Chico: La ragazza, approfittando di un momento di distrazione di Ernest, preme il piede sull’acceleratore provocando l’intervento degli agenti. Léna e Charlie scappano. A casa
Léna rivela a Charlie di conoscere la sua vera identità: un tempo si chiamava Edouard Saroyan ed era un promettente
concertista classico. Charlie completa il racconto: sposato con Thérésa, una cameriera, un giorno viene convocato dall’impresario Lars Schmeel per un’audizione. Superata la prova, diventa un concertista famoso, ma il rapporto con la
moglie peggiora sempre più, finché la donna, durante una tournée, gli rivela di essere andata a letto con Schmeel per
favorirlo. Edouard lascia la stanza, Thérésa si suicida buttandosi dalla finestra: da quel giorno Edouard Saroyan è diventato Charlie Kohler. Léna, sinceramente innamorata, cerca di convincerlo a risalire la china. I due fanno l’amore e decidono di abbandonare il bistrot.
Ma gli eventi precipitano: Momo ed Ernest rapiscono Fido e al bistrot, dove Charlie e Léna sono andati per licenziarsi,
la ragazza insulta Plyne, il proprietario che ha un debole per lei, perché ha dato ai gangster i loro indirizzi. Plyne l’aggredisce, Charlie interviene: scoppia una lite violenta in cui Charlie uccide Plyne con una coltellata. Mentre Léna va a
cercare Fido, Charlie rimane nascosto nella cantina del locale. All’arrivo della polizia, Mammy, la donna di Plyne,
dichiara che Charlie ha agito per legittima difesa. Léna si procura una macchina e accompagna Charlie in montagna,
nella casa d’origine della famiglia Saroyan. L’uomo, anche se lo vorrebbe, non ha il coraggio di trattenerla. Quando Léna
torna per informarlo che è stato assolto, arrivano alla baita anche Momo ed Ernest, guidati da Fido. Nella sparatoria che
segue, Léna è colpita a morte.
Nel bistrot di Mammy, dove ha appena preso servizio la nuova cameriera, Charlie si siede al piano e comincia a suonare meccanicamente.
(Da: Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)
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Hanno detto del film
I romanzi della Série noir, inaugurata da Marcel Duhamel per le edizioni Gallimard
nel 1945, hanno accompagnato l’adolescenza dei giovani turchi (Godard, in La donna
è donna, 1962, non a caso fa dialogare Anna Karina e Jean-Claude Brialy a colpi di
titoli della collana) come pure i film americani tratti da essi o ispirati al loro universo
disperato, considerati non tanto tributi al genere quanto autentiche prove d’autore,
capaci di scatenare forti emozioni proprio laddove si confermano più obbedienti alle
regole narrative.
È dunque naturale, e solo apparentemente in contraddizione con la “rivoluzione della sincerità” auspicata da Truffaut e compagni, che alcuni registi della Nouvelle vague, dopo opere prime più o
meno autobiografiche, attingano agli scrittori noir e pratichino un cinema che è insieme di generi e
di autore. Claude Chabrol trae il suo terzo film, A doppia mandata, da un romanzo di Stanley Ellis.
Truffaut, che già nei Quattrocento colpi aveva fatto vedere di sfuggita un volumetto della serie tra
le mani di Antoine Doimel, adesso porta sullo schermo un romanzo di David Goodis, Down There
(Non sparate sul pianista). Il risultato è un film complesso e, per certi versi, sconcertante, il prezzo
un pesante fallimento commerciale. Eppure Tirate sul pianista è il miglior noir di Truffaut fino a
Finalmente domenica! E la sua sensibilità è così in sintonia con quella di Goodis da consentirgli di
fare un film del tutto personale attenendosi fedelmente alla pagina scritta, a parte qualche sporadico
intervento che tuttavia va nella medesima direzione dello scrittore, appena qualche passo più in là.
(…).
È evidente che per Truffaut Tirate sul pianista è anche un’occasione per sperimentare le potenzialità
della finzione (ma si tratta sempre di una finzione che aspira a rivelare maggiormente la realtà, alla
Bazin) e la sua confidenza con il mezzo cinematografico. La vitalità del film è infatti tutta nel caleidoscopio di invenzioni rese possibili dalla fiction “fiabesca”: Truffaut, al giuramento di circostanza
di uno dei rapinatori (“possa morire mia madre, se non è vero”), fa seguire in una cornice ovale d’altri tempi la mamma stecchita sul pavimento, e dopo aver risolto un doppio sequestro con un malizioso piedino premuto sull’acceleratore, ne orchestra un altro, di un bambino (assente nel romanzo
di Goodis e dunque tanto più significativo), che assomiglia a un’allegra scampagnata in compagnia
di due zii un po’ tocchi. Ma quella stessa vitalità è esaltata anche dalla intrinseca forza della messa
in scena: le mani di Charlie che esitano a sfiorare Léna, le dissolvenze incrociate della loro prima
notte d’amore, il dito di Edouard che indugia sul campanello e si ritrae, la violinista sfiorata per un
attimo nello spazio di un’inquadratura, di un incontro potenziale sfumato per sempre. Eppure, rielaborazione cinematografica a parte, Tirate sul pianista è di una malinconia luttuosa rara, comune sia
al romanzo di Goodis che alla poetica del regista. (…).
Tragedia di una caduta senza arresto, il Pianista è lontanissimo dai Quattrocento colpi per quanto
riguarda la messa in scena, ma gli si riavvicina molto sul piano dell’immaginario tramite il protagonista e il suo mondo fatto di timidezza, solitudine, sconfitta affettiva, rifugio nell’arte come tentativo (vano) di allontanarsi dalla famiglia e di esorcizzare la sofferenza (il film è racchiuso fra due
sequenze musicali: si apre su un pianoforte a tutto schermo i cui tasti, nell’eseguire il valzer di
Delerue, sembrano toccati da mani fantasma, e si chiude con il musicista che suona meccanicamente nel solito bistrot, con lo sguardo perso nel vuoto). (…).
A distanza di svariati decenni, Tirate sul pianista non appare come il capolavoro incompreso che non
è mai stato, ma nemmeno come una semplice tappa evolutiva, necessaria per comprendere il percorso del regista: è in sé un film di grande e ambiguo fascino, ironicamente e disperatamente vitalistico, dove il gioco della finzione, cioè le immagini e i suoni del cinema, cercano in ogni modo di
contrastare – invano per i personaggi ma con notevole piacere per lo spettatore – la “condanna” della
vita alla sofferenza e alla morte.
(Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)
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(…) Sconvolto dal successo internazionale di pubblico del suo esordio, Truffaut fa un
secondo film deliberatamente molto diverso, ispirato all’eccentrico romanzo noir di
David Goodis Down There (1956 – poi Shoot the Piano Player – in italiano Non sparate sul pianista e nel 1989 Profondo nero). Nel film, sostanzialmente fedele al libro
(con l’aggiunta di Fido, il fratellino di Charlie), Truffaut pratica – seguendo la lezione
di Jean Renoir, e quando non era ancora di moda – la mescolanza dei generi e dei toni
con digressioni, spostamenti a sorpresa, sfasamento tra banda visiva e banda sonora, ricorso alla
voce over con i pensieri di Charlie, dissolvenze incrociate, espedienti del cinema muto. Ne consegue un intreccio troppo complicato che allontanò il pubblico e spiazzò il più dei critici. Già il romanzo di Goodis non rispettava le regole del genere criminale. Truffaut gli fa fare qualche passo avanti,
ma non dimentica mai il suo vero nucleo: l’amore legato alla morte. (…)
(Morando Morandini. Dizionario dei film)
ANTOINE E COLETTE
(Antoine et Colette, 1962)
Prima parte del film a episodi L'amore a vent'anni)
Regia: François Truffaut
Sceneggiatura: François Truffaut
Musica George Delerue
Fotografia: Raoul Coutard
Durata: 29'
Interpreti: Jean-Pierre Léaud, Marie-France Pisier, Patrick
Auffay, Rosy Varte, François Darbon, Jean-François Adam
La trama
(attenzione: viene svelato il finale del film)
Antoine Doinel vive in un modesto albergo di Place Clichy e lavora come classificatore di dischi alla Philips. È ancora
amico di René Bigey, che a sua volta ha trovato un impiego presso un agente di cambio ed è innamorato di sua cugina.
Appassionato di musica classica, la sera Antoine va spesso a concerti organizzati dalla Jeunesse musicales de France. A
uno di questi, nella Sala Pleyel, dove si esegue la Symphonie Fantastique di Berlioz, nota tra il pubblico una ragazza,
Colette e se ne innamora immediatamente. Durante la settimana la tiene d'occhio ad altri concerti, senza osare avvicinarla, finché una sera si fa coraggio e si siede accanto a lei: è una studentessa che sta preparando la maturità, e fa volentieri amicizia con Antoine. I due cominciano a frequentarsi prestandosi libri e dischi. Colette lo considera un buon
amico, ma niente di più. Doinel, innamorato timido e tenace, arriva a dichiararle il suo amore per lettera e a traslocare
nell'hotel di fronte a casa sua. Conosce i genitori, che lo traovano simpatico e lo invitano spesso a cena.
Trasferito dal magazzino al reparto fabbricazione, Antoine fabbrica il suo primo disco, che la sera, al cinema, regala a
Colette. Durante il film, cerca di baciarla: respinto, abbandona la sala. René, nel frattempo, ha avuto successo con la cugina.
Il giorno dopo Colette invita Antoine a cena dai suoi. Lui esita, ma poi si presenta con due biglietti per un concerto. Ma
Colette non è libera dopo cena, ed esce con Albert Tazzi. Antoine rimane a casa con i genitori a seguire il concerto in
diretta televisiva.
(Da: Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)
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Hanno detto del film
(…) Rispetto ai Quattrocento colpi, Doinel trova una famiglia accogliente: è la prima
nel cinema del regista, e una delle poche. (…) Antoine è contento di non essere più
bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedergli un parere, dimenticare
o rifiutare con crudeltà, ma il suo bisogno d’affetto smisurato ha fatto di lui un adolescente in bilico fra timidezza e audacia, silenzio e impulsività, slancio e frustrazione.
Nella tenacia ossessiva con cui Doinel cerca di ottenere l’amore di Colette si riscontra
un tratto comune a molti caratteri truffautiani, sia maschili che femminili (e massimamente sviluppato in Adele H. e L’uomo che amava le donne). E nell’opposizione tra lui e Colette, sebbene
Truffaut ammiri la fierezza, la sicurezza, l’indipendenza e la vitalità del personaggio femminile, si
scorge la frattura originaria tra Doinel e la madre: non a caso la visione ha luogo nell’atmosfera piena
di musica della Sala Pleyel, dove l’attrazione per Doinel scatta alla vista di un corpo a frammenti:
nuca, viso, mani, bocca, gambe accavallate – elementi che si ritrovano in quasi tutti i film di
Truffaut.
Ciò che invece in Antoine e Colette emerge con la massima evidenza, mentre in seguito diventerà
più sfumato e rarefatto (senza mai venire meno, però), è la potenza della musica, che assume un’importanza pari a quella dei libri in altri film. (…) Se prima e dopo Doinel ha soprattutto il culto della
parola scritta, qui ha la venerazione del suono armonico: nel Ragazzo selvaggio il dottor Itard, interpretato dallo stesso regista, dirà che “la parola è anche musica”, stabilendo un rapporto diretto tra
l’infanzia, i suoni, il linguaggio. È il rapporto fondamentale, primario, costitutivo: non a caso nella
scena già citata dell’innamoramento di Antoine il montaggio lega, in un’unità inscindibile, immagini, musica ed emozioni, e non a caso le donne importanti nella vita di Doinel avranno sempre a che
vedere con la musica.
(Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)
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JEAN-LUC GODARD
Svizzero, nato nel 1930 da una famiglia di banchieri appassionati di libri, coltiva la passione di
famiglia e il desiderio di pubblicare un libro.
Forte di questa passione, attraverso Jacques
Doniol-Valcroze, figlio di un’amica della madre
di Godard, il giovane Jean-Luc inizia a proporre
articoli di cinema alla rivista che sta per essere
editata presso i tipi della Gallimard. I suoi articoli compaiono su La Gazette du Cinéma, poi su
Arts e, infine, sui Cahiers du Cinéma, la rivista
presso la quale incontra dapprima Bazin, fondatore insieme a Doniol-Valcroze, poi i vari
Truffaut, Rivette, Chabrol e Rohmer.
Così come è avvenuto o avverrà per i suoi amici,
anche per Godard il trasferirsi dietro la macchina da presa sarà un passo necessario nonché
naturale. Collabora con Truffaut alla stesura dei
Quattrocento colpi e, l’anno successivo all’uscita del film realizzerà a sua volta il primo lungometraggio: Fino all’ultimo respiro (A bout de
souffle, 1960), dopo aver precedentemente girato
alcuni cortometraggi.
La passione per la letteratura nei film di Godard,
così come d’altra parte in quelli di molti autori
della Nouvelle vague, si avverte spesso. La letteratura americana, Faulkner ad esempio, in Fino
all’ultimo respiro; gli adattamenti di alcuni film
da romanzi più o meno famosi, come Il disprezzo (Le mépris, 1963) da Alberto Moravia; In
effetti, resosi conto che quello dello scrittore non
sarebbe stato il suo futuro, Godard traspose questo suo amore nella redazione di articoli di critica cinematografica prima, e nella realizzazione
di film poi. Fu lo stesso regista a dichiarare al
documentarista François Reichenbach: “Mi
servo di una cinepresa perché non sono un
romanziere. Ma vorrei al tempo stesso servirmene come il pittore di un album di schizzi e come
l’inviato di un grande giornale di reportage”. Ciò
che ama Godard è spesso il “lato documentaristico” di molti registi di fama: Alfred Hitchcock,
Anthony Mann, John Ford, nonché la capacità
come vero realizzatore di documentari di un altro
regista legato alla Nouvelle vague: Jean Rouch.
Il grande interesse che Godard manifesta per lo
stile del documentario gli farà utilizzare spesso
questa forma per narrare delle storie. Accade, ad
esempio, in Questa è la mia vita, dove viene raccontata, attraverso 12 episodi-quadri che appaiono come altrettanti frammenti di un reportage, la
vita di una prostituta. Per Godard la passione per
il film-documentario deriva, d’altronde, direttamente dal suo amore verso il cinema delle origini, quello dei Lumiére, ad esempio. Cosa che lo
indurrà ad utilizzare spesso nelle sue opere
accorgimenti che riconducono direttamente a
quell’epoca: usare l’immagine accelerata,
costruire il film per quadri, far ricordare le comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy.
Più degli altri registi della Nouvelle vague, JeanLuc Godard è stato un innovatore. Ha sovvertito
le normali regole del linguaggio cinematografico; ad esempio non dando peso ai normali “raccordi” fra le varie sequenze ma, anzi, utilizzando
dei “falsi raccordi” che interrompono, volutamente, la fluidità narrativa, generando un senso
di stupore e di incomprensione nello spettatore.
Oppure utilizzando lo sguardo fisso in macchina
dei personaggi o, ancora, gli stessi che interrompono la scena e, voltandosi verso la macchina da
presa, si rivolgono direttamente al pubblico recitando alcune frasi. Tutto ciò è presente sin dal
suo primo film, Fino all’ultimo respiro, unitamente ai lunghi piani sequenza che seguono il
peregrinare del protagonista Jean-Paul
Belmondo lungo i viali di Parigi.
Questa capacità di sperimentare tecniche e linguaggi nuovi, ha accompagnato Godard per tutta
la sua carriera, che dura ancora oggi nonostante
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sia arrivato alla soglia degli ottant’anni. Forse è profondo amore di questo artista nei confronti
proprio questa la prova migliore che testimonia il del cinema.
Filmografia di J.-L. Godard
Operation béton (1954) (cortometraggio)
Charlotte et son Jules (1958) (cortometraggio)
Tous les garçon s’appellent Patrick (1958) (cortometraggio)
Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle, 1960)
Le petit soldat (1960)
La donna è donna (La femme est une femme, 1961)
La paresse (1962) episodio del film collettivo I sette peccati capitali (Les septe pechés capitaux)
Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962)
Il disprezzo (Le mépris, 1963)
I carabinieri (Les carabiniers, 1963)
Le noveau monde (Il mondo nuovo, 1963) episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G.
Le grand ecrot (1963) episodio di Les plus belle escroquieres du monde
Una donna sposata (Une femme mariée, 1964)
Montparnasse-Levallois (1964) episodio di Paris vu par
Bande à part (1964)
Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, 1965)
Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution,
1965)
Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que je sais d’elle, 1966)
Il maschio e la femmina (Masculin féminin, 1966)
Una storia americana (Made in Usa, 1966)
La cinese (La chinoise, 1967)
Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (Week-End, 1967)
Anticipation (1967) episodio del film collettivo L’amore attraverso i secoli (Le plus vieux métier du
monde)
Camera Eye (1967) episodio del film collettivo Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam)
La gaia scienza (Le gai savoir, 1968)
Vento dell’est (Vent de l’est, 1969) (con Jean-Pierre Gorin e Gérard Martin)
L’amore (1969) episodio del film collettivo Amore e rabbia
Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972)
Si salvi chi può (La vita) (Sauve qui peut (la vie), 1980)
Passion (1982)
Prénom Carmen (1983)
Je vous salue, Marie (1984)
Detective (Détetective, 1985)
Cura la tua destra… (Soigne ta droite, 1987)
Re Lear (King Lear, 1987)
Histoire(s) du cinéma (1988-98)
Armida (1988) episodio del film collettivo Aria
Nouvelle Vague (1990)
Germania anno 90 nove zero (Allemagne année 90 neuf zero, 1991)
Les enfants jouent à la Russie (1993)
Je vous salue, Sarajevo (1993)
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Peggio per me (Hélas pour moi, 1993)
The Old Place (1998)
Eloge de l’amour (2001)
Liberté et patrie (2002)
Ten Minutes Older: The Cello (2002)
Notre musique (2004)
Vrai faux passeprot (2006)
Une catastrophe (2008)
I FILM DELLA RASSEGNA:
Charlotte et son Jules
Questa è la mia vita
Da vedere, inoltre:
Fino all'ultimo respiro
Le petit soldat
La donna è donna
Il disprezzo (in versione originale)
Bande à part
Agente Lemmy Caution: missione Alphaville
La cinese
Crepa padrone, tutto va bene
QUESTA È LA MIA VITA
(Vivre sa vie, 1962)
Regia Jean-Luc Godard
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Durata: 85'
Interpreti: Anna Karina, Sady Rebbot, André S. Labarthe,
Guylaine Schlumberger, Brice Parain
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Storia in 12 "quadri" di Nanà, giovane commessa in un negozio di dischi: sogna la vita
nel cinema e diventa prostituta.
I quadro: in un bistrot Nanà vuole abbandonare Paul. Giocano una partita a flipper.
II quadro: nel negozio di dischi. Nanà chiede in prestito a una collega 2000 franchi: senza successo.
III quadro: Nanà non ha i soldi per pagare l'affitto. Viene sfrattata. Nanà va al cinema e si commuove vedendo La passione di Giovanna d'Arco, di Dreyer. In un bar incontra un uomo che la illude di poter entrare nel mondo del cinema.
IV quadro: Nanà viene interrogata dalla polizia per un tentativo di furto.
V quadro. Nanà inizia a prostituirsi. Il primo incontro sul viale. Nella camera d'albergo Nanà rifiuta il rapporto.
VI quadro. Incontro con Yvette che, in un bar, le presenta Raoul. Fuori dal bar c'è una sparatoria. Raoul fugge.
VII quadro Nanà scrive una lettera alla tenutaria di un bordello. In realtà arriva Raoul che le offre di diventare il suo protettore.
VIII quadro: Raoul illustra a Nanà diritti e doveri di una prostituta.
IX quadro: giorno di riposo. Nanà va al cinema, poi balla in un bar al suono di un juke-box.
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X quadro: Nanà batte il marciapiede. Incontro con un uomo in una camera.
XI quadro. Nanà cammina per Parigi. Si ferma in un bistrot dove conosce un filosofo. Nanà fa della filosofia.
XII quadro Raoul vuol vendere Nanà a una organizzazione concorrente. Disaccordo sul prezzo di vendita. Scontro a
fuoco. Nanà muore e Raoul scappa.
Hanno detto del film
Che ciascuno viva la sua vita purché gli vada sempre meglio. La Nouvelle vague?
Pierre dice bene di Georges che delira per Julien che fa il supervisore di Popaul che fa
una coproduzione con Marcel di cui Claude ha fatto l’elogio.
Ebbene, è di Jean-Luc che oggi canto le lodi, Godard che gira pellicole, esattamente
come me, ma con una frequenza doppia.
Quando facevo il critico cinematografico, volevo a tutti i costi convincere, probabilmente perché ignoravoi veri problemi che si pongono al cineasta e cercavo istintivamente di convincere anzitutto me stesso che quel film era buono e quell’altro non lo era.
La gioia fisica e il dolore fisico che procurano certi momenti di A bout de souffle e di Vivre sa vie,
non mi proverò nemmeno a comunicarli con la scrittura a che non li prova.
L’irrealtà totale, voluta o meno, di certi stili cinematografici è seducente, ma determina un certo
malessere. La realtà più cruda ci seduce per un momento ma può alla fin fine lasciarci insoddisfatti.
Un film come Vivre sa vie ci intrattiene costantemente ai limiti dell’astratto, poi al limite del concreto ed è senza dubbio questa oscillazione che crea l’emozione.
Il cinema eccitante, ecco ciò che ci interessa, che appassiona, sia che questa emozione venga creata
scientificamente, come in Hitchcock e Bresson, o che nasca semplicemente dalla capacità dell’artista di comunicare le sue emozioni come in Rossellini o in Godard.
Ci sono dei film che ammiriamo e che ci scoraggiano: a che scopo continuare dopo di lui? Ecc. Non
sono i migliori, perché i migliori danno l’impressione di aprire nuove strade e che il cinema cominci o ricominci con loro. Vivre sa vie è di questi. (1962)
(François Truffaut. I film della mia vita. Marsilio, 1978)
Quarto lungometraggio di J.-L. Godard (e il terzo con la danese Karina, nome d’arte
di Ann Karin Bayer), è considerato da alcuni l’opera meno invecchiata e più adulta del
suo primo periodo, quella in cui le invenzioni appaiono più congeniali e integrate a un
progetto che non è soltanto cinematografico. I 12 quadri – nei quali Nanà vive la sua
vita, rivelandone casuali frammenti – hanno registri diversi (sociologico, documentario, letterario, cinematografico: quello in cui al cinema Nanà piange vedendo la morte
della Giovanna d’Arco di Dreyer) con linguaggi diversi, non uniti da una logica narrativa, ma giustapposti, forse ricombinabili: “vivere la propria vita”, accettarla com’è, mostrarla nella sua mescolanza di realtà e di finzione (rappresentazione), ma anche aiutarne una comprensione, aprire a un
possibile giudizio. Affrontato altrove in modi obliqui, allusivi, episodici, qui il tema della prostituzione diventa centrale. Lo spunto è quello di un’inchiesta giornalistica (Où en est avec la prostitution? di Marcel Sacotte), ma “le domande e le risposte vere vengono da ben più lontano, come rivela la citazione da Montaigne che apre il film: ‘Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a sé stessi’”
(A. Farassino). Premio speciale della giuria a Venezia.
(Laura, Luisa, Morando Morandini. Il Morandini - Dizionario dei film)
Questa è la mia vita è a tutt’oggi lo sforzo più consistente dell’autore di Fino all’ultimo respiro : lo dice egli stesso, del resto, ponendo il suo film fra i dieci migliori dell’anno secondo i “Cahiers du Cinéma”. Più significativa, anche se meno divertente,
l’intervista concessa dal regista a “Sight and Sound”, dove in sostanza Godard affer- 27 -
ma di aver lavorato, fino a Questa è la mia vita, sulle sue esperienze di patito del cinema, quasi senza
conoscere la lealtà. In questo film, costruito in capitoli staccati con titoli alla Brecht, Godard fa invece uno sforzo per rompere il diaframma fra cinema e vita: non è più la storia di Belmondo, gangster
alla Bogart in una Parigi da romanzo della serie nera, ma l’esistenza autentica di una creatura sperduta nel grande frastuono di una moderna metropoli. Tant’è vero che l’invenzione narrativa
approfondisce ben presto le sue indicazioni più originali in una specie di inchiesta sul motivo del
vizio, tentando la dimensione del saggio. I dodici momenti della vita di Nanà sono fissati con la spregiudicatezza, a volte sorniona e a volte disarmata, tipica dell’atteggiamento di Godard. C’è anche
una componente autobiografica, il rapporto con Anna Karina-Nanà, che il regista illustra facendo
leggere a un personaggio (ma la voce nell’edizione francese è la sua) il brano di Poe in cui un marito pittore causa la morte della moglie per trasferirne la vitalità a un ritratto che sta dipingendo. Con
una parafrasi da Poe si potrebbe dunque spiegare l’episodio meno convincente del film, la morte
finale di Nanà in una sparatoria fra protettori: ma della conclusione tragica, che sconcerta il pubblico pur appartenendo alla cronaca insensata di tutti i giorni, si fa garante Brice Parain, il filosofo che
dialoga con Nanà nel sottofinale. Come Porthos in Vent‘anni dopo, anche Nanà è perduta quando
scopre il pensiero, cioè il dovere di considerare la sua vita e le sue azioni da un punto di vista razionale. Una creatura abbandonata a se stessa può sopravvivere solo affidandosi al ritmo oscuro dell’esistenza: perciò Questa è la mia vita, con la sua insistenza parascientifica sugli aspetti più turpi del
sottobosco amoroso di Parigi, si risolve in un appello a una visione più concreta e coerente del
mondo, insomma con un richiamo alla coscienza. Godard ci risparmia la lezioncina, perde tutte le
occasioni di trasformarsi in un pedante: e offre ad Anna Karina la possibilità di mostrarsi vispa, simpatica, vitale. Ma non c’è vita né salvezza all’infuori della ragione e accorgersene all’ultimo momento è peggio che mai.
(Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962-1967, Edizioni Il Formichiere)
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CLAUDE CHABROL
Nato a Parigi nel 1930 da una famiglia di farmacisti della quale non ne ripercorrerà le orme,
Claude Chabrol si appassiona al cinema sin da
bambino quando, a Sardent, paesino della
Francia centrale dove era stato mandato dai genitori durante l'occupazione tedesca - e nel quale
girerà il suo primo film, Le beau Serge (1958) assiste alle proiezioni organizzate da un amico di
qualche anno più grande.
Tornato dopo la Liberazione a Parigi, inizia a frequentare vari cineclub, dove conoscerà prima
Paul Gegauff, che sarà lo sceneggiatore dei suoi
primi film, poi Maurice Schérer, un professore di
lettere che, più tardi, diventerà famoso con lo
pseudonimo di Eric Rohmer.
Chabrol comincerà a scrivere le sue prime recensioni cinematografiche su la Revue du Cinéma,
per poi entrare a far parte della redazione dei
Cahiers, ove si metterà in evidenza per alcune
recensioni estremamente interessanti di alcuni
film di Alfred Hitchcock: Rebecca la prima
moglie, La finestra sul cortile e Caccia al ladro.
Diventerà in poco tempo un profondo conoscitore del regista britannico tanto che, nel 1957, con
l'amico Rohmer, pubblicherà una monografia sul
maestro.
Chabrol, insieme agli amici della futura
Nouvelle vague, conosce il regista italiano
Roberto Rossellini apprendendo da questi l'arte
di realizzare film con scarsi mezzi e budget
ridotti al minimo. Fu anche grazie a questo che i
giovani turchi iniziano a cimentarsi nella realizzazione dapprima di cortometraggi e poi dei
primi lungometraggi.
Chabrol, ad esempio, collabora con Truffaut alla
realizzazione del film di Godard A bout de souffle, dopo aver realizzato, nel 1958, i suoi primi
due film: Le beau Serge e I cugini (Les cousins),
film che mostra numerose influenze hitchcockiane e che fu vincitore dell'Orso d'oro al Festival
cinematografico di Berlino.
Per realizzare i propri film Chabrol aveva fondato una propria casa di produzione chiamandola
A.J.Y.M. dalle iniziali della moglie e dei suoi
due primi figli. Sarà grazie alla piccola casa di
produzione di Chabrol che nel periodo 1958-61
verranno prodotti L'américain di Alain Cavalier,
il cortometraggio di Jacques Rivette Veronique et
son cancre e, in coproduzione con la casa di
Truffaut, il primo lungometraggio dello stesso
Rivette Paris nous appartient; Le signe du lion,
esordio di Rohmer; i primi due lungometraggi di
Philippe De Broca Le jeux de l'amour e Le farceur.
Il fallimento della A.J.Y.M. e i disastri al botteghino di alcuni suoi film mandano quasi in rovina, sia economicamente sia sul piano artistico,
Chabrol che, per risollevarsi, farà buon viso a
cattiva sorte accettando di realizzare alcuni film
di spionaggio, genere commerciale di successo
durante gli anni Sessanta.
Con gli anni Chabrol ha iniziato a realizzare film
dichiaratamente noir, genere che lo ha portato
lontano dalla sperimentazione e dalla anticonvenzionalità caratteristica della Nouvelle vague,
perseguita sempre e comunque, ad esempio, da
Godard.
Tuttavia con i suoi film Chabrol è riuscito a analizzare in maniera perfetta - si potrebbe dire da
fine entomologo - i comportamenti umani che,
apparentemente normali, possono virare improvvisamente e inaspettatamente verso la follia o
verso il delitto a causa, spesso, di un piccolo
imprevisto.
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Filmografia di C. Chabrol
Le beau Serge (1958)
I cugini (Les cousins, 1958)
A doppia mandata (A double tour, 1959)
Donne facili (Les bonnes femmes, 1960)
L’avarice (1962) Episodio del film collettivo I sette peccati capitali (Les septe pechés capitaux)
Ophélia (1963)
Landru (1963)
L’homme qui vendit la Tour Eiffel (1963) Episodio del film collettivo Le più belle truffe del mondo
(Les plus belles escroqueries du monde)
La tigre ama la carne fresca (Le tigre aime la chair fraîche, 1964)
La tigre profumata alla dinamite (Le tigre se parfume à la dynamite, 1965)
Marie Chantal contro il dr. Kha (Marie Chantal contre Dr. Kha, 1965)
Lo scandalo - Delitti e... champagne (Le scandale, 1967)
Criminal Story (La route de Corinthe, 1967)
Les biches – Le cerbiatte (Les biches, 1968)
Stéphane, una moglie infedele (La femme infidèle, 1968)
Il tagliagole (Le boucher, 1969)
Ucciderò un uomo (Que la bête meure, 1969)
All’ombra del delitto (La rupture, 1970)
Dieci incredibili giorni (La décade prodigieuse, 1971)
Trappola per un lupo (Docteur Popaul, 1972)
L’amico di famiglia - Le nozze rosse (Les noces rouges, 1973)
Una gita di piacere (Une partie de plaisir, 1974)
Sterminate “Gruppo Zero” (Nada, 1974)
Gli innocenti dalle mani sporche (Les innocents aux mains sales, 1975)
Pazzi borghesi (Folies bourgeoises, 1976)
Profezia di un delitto (Les magiciens, 1976)
Rosso nel buio (Les liens de sang, 1977)
Violette Nozière (1978)
I fantasmi del cappellaio (Les fantômes du chapelier, 1982)
Il sangue degli altri (Le sang des autres, 1983)
Una morte di troppo (Poulet au vinaigre, 1984)
L’ispettore Lavardin (Inspecteur Lavardin, 1986)
Il grido del gufo (Le cri du Hibou, 1987)
Volto segreto (Masques, 1987)
Un affare di donne (Une affaire de femmes, 1988)
Doctor M (Dr. M, 1990)
Giorni felici a Clichy (Jours tranquilles à Clichy, 1990)
Madame Bovary (1991)
Betty (1992)
L’inferno (L’enfer, 1993)
Il buio nella mente (La cérémonie, 1995)
Rien ne va plus (1997)
Il colore della menzogna (Au coeur du mensonge, 1999)
Grazie per la cioccolata (Merci pour le chocolat, 2000)
Il fiore del male (Le fleur du mal, 2002)
La damigella d’onore (La Demoiselle d’honneur, 2004)
La commedia del potere (L’ivresse du pouvoir, 2006)
L’innocenza del peccato (La fille coupée en deux, 2007)
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IL FILM DELLA RASSEGNA:
Stephane, una moglie infedele
Da vedere, inoltre:
Le beau Serge
I cugini
Donne facili
Landru
Les biches - Le cerbiatte
Il tagliagole
STEPHANE, UNA MOGLIE INFEDELE
(La femme infidéle, 1968)
Regia: Claude Chabrol
Sceneggiatura: Claude Chabrol
Fotografia: Jean Rabier
Musica: Pierre Jansen
Durata : 98'
Interpreti: Michel Bouquet, Stéphane Audran, Maurice Ronet,
Michel Duchaussoy, Guy Marly, Donatella Turri
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Charles, agiato assicuratore, scopre che la moglie Hélène (nell'originale), madre del piccolo Michel, lo tradisce con un
giornalista. Va a trovarlo, lo uccide, cancella le tracce del suo passaggio e si sbarazza del suo cadavere. Tace con la
moglie che, però, scopre da sola la verità e interpreta come un grande atto d'amore il delitto del marito che viene arrestato.
(Da: Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Ddizionario dei film)
Hanno detto del film
(…) Attraverso uno stile lucido e controllato, Chabrol infonde nel racconto una
suspense dal timbro hitchcockiano, mettendo al centro della scena un uomo comune
che, spinto dalle circostanze, si trasforma in un assassino.
La narrazione filmica, nella sua apparente semplicità, ci regala alcune scene magistrali – come quella in cui Michel ripulisce meticolosamente l’appartamento della sua vittima mentre nel frattempo, a casa, si festeggia il compleanno del figlio. Bravissimi i due protagonisti, Bouquet e la Audran, e splendida la sequenza conclusiva, con una formidabile carrellata all’indietro che pare voler sottolineare l’ambiguità del finale. Nel 2002 Adrian Lyne ne ha fatto un remake
a Hollywood, L’amore infedele, con Diane Lane e Richard Gere.
(Stefano Lo Verme)
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(…) Il gioco di allusioni e reticenze dovrebbe diventare una più generale metafora del
vivere borghese: ma importa soprattutto la compattezza della messinscena e l’acutezza nella descrizione dei tre personaggi: Bellissimo il finale. Decisamente uno dei
migliori Chabrola (anche autore della sceneggiatura) del periodo, nel filone che comprende anche L’amico di famiglia e Gli innocenti dalle mani sporche.
(Paolo Mereghetti: Il Mereghetti. Dizionario dei film)
(…) È uno dei migliori film di Chabrol che prosegue sulla via narrativa e stilistica di
Les Biches (1967) all’insegna della lezione di Hitchcock: “La complessità del suo
cinema non sta in ciò che racconta, ma nel modo con cui viene messa in scena anche
la situazione più quotidiana e banale” (A. Viganò). Un borghese viola con un omicidio
la legge per riaffermare i diritti sui propri beni patrimoniali che comprendono anche
gli affetti, l’armonia di una normalità coniugale. E la moglie, nonostante l’infedeltà,
gli è solidale, come mostra la sequenza finale con il suo contraddittorio movimento di carrello indietro e zoom in avanti.
(Laura, Luisa, Morando Morandini. Il Morandini – Dizionario dei film)
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ERIC ROHMER
Di tutti i cineasti della Nouvelle vague Eric
Rohmer, all’anagrafe Jean-Marie Maurice
Schérer, è il più anziano. Nato a Tulle da una
famiglia di origine alsaziana, Rohmer appartiene
più che alla generazione dei vari Truffaut,
Godard, Rivette, ecc. a quella di André Bazin,
nato nel 1918 e di Jacques Doniol-Valcroze, coetaneo dello stesso Rohmer. A differenziare ulteriormente Rohmer dal gruppo degli “hitchcockhawksiani”, termine coniato da Bazin per
indicare i giovani turchi dei Cahiers, tenendo
conto delle loro passioni cinefile, è il fatto di
essere stato l’unico ad aver compiuto studi classici, arrivando alla laurea, e ad avere un’occupazione extra cinematografica, essendo stato professore di lettere presso vari licei francesi.
Rohmer si avvicina al cinema durante l’occupazione tedesca, assistendo alla proiezione di
numerosi film, per lo più francesi, essendo gli
unici permessi a quel tempo nel paese.
Successivamente, attraverso la frequentazione
della Cinématheque e di vari cineclub, entrerà in
contatto con i giovani, futuri, redattori dei
Cahiers du Cinéma e futuri registi della “nuova
onda” francese.
La sua età, ma anche il suo rigore morale e la sua
levatura intellettuale, ne faranno una sorta di
capofila che, a differenza della maggior parte dei
colleghi, manterrà rigorosamente separate la vita
privata da quella pubblica.
All’interno della rivista Rohmer acquisirà via via
una posizione di prestigio e responsabilità, assumendo la guida dei Cahiers nel momento in cui
Bazin si ammalerà e sino all’avvento di Jacques
Rivette alla guida del giornale.
Come cineasta, la sua carriera inizierà, rispetto
agli amici, relativamente tardi. Dopo un primo
cortometraggio girato nel 1951 dal titolo Journal
d’un scélérat, su soggetto dell’amico sceneggiatore Paul Gegauff e dopo aver collaborato alla
realizzazione di alcuni corti di Godard, firmerà
il suo primo lungometraggio nel 1959. Il segno
del leone, sfortunatamente, uscirà nelle sale solo
nel 1962, in un momento di stanca e di riflusso
della Nouvelle vague. Questo fatto, nonché la
“difficoltà” del soggetto del film (un uomo alla
deriva vaga da solo per le strade di Parigi) sarà la
causa dell’inevitabile flop al botteghino.
Tuttavia, lungi dal perdersi d’animo, Rohmer
continuerà a perseguire la sua idea di cinema,
realizzando una serie di opere incentrate tutte su
minime variazione di un tema centrale e mediate
da una voce fuori campo. Nasceranno così i sei
“Racconti morali”, iniziati nel 1962 con La boulangerie du Monceau e proseguiti con La carrière de Suzanne (1963), La collectioneuse (1967),
Ma nuit chez Maud (1969), Il ginocchio di Claire
(Le genou de Claire, 1970) e L’amore il pomeriggio (L’amour l’après midi, 1972).
Nella sua carriera Rohmer ha avuto il merito di
non rinnegare quella che è stata la sua filosofia
iniziale, cioè realizzare film il cui costo non realizzasse più di quello che, realisticamente, avrebbero potuto incassare. È sempre stato un regista
molto attento alla parola. Le sue opere, che trattano apparentemente argomenti frivoli, come le
discussioni futili fra adolescenti, celano una
riflessione profonda su ciò che rappresenta il
senso della vita, l’etica e la morale.
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Filmografia di Eric Rohmer
Journal d’un scélérat (1951) (cortometraggio)
Il segno del leone (Le signe du Lion, 1959)
La boulangerie de Monceau (1962) (cortometraggio)
La carrière de Suzanne (1963)
La collezionista (La collectioneuse, 1967)
La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud, 1969)
Il ginocchio di Claire (Le genou de Claire, 1970)
L’amore il pomeriggio (L’amour l’après midi, 1972)
La marchesa von... (La marquise d’O..., 1976)
Perceval le gallois (1978)
La femme de l’aviateur - La moglie dell’aviatore (La femme de l’aviateur, 1981)
Il bel matrimonio (Le beau mariage, 1982)
Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage, 1983)
Le notti della luna piena (Les nuits de la pleine lune, 1984)
Il raggio verde (Le rayon vert, 1986)
L’amico della mia amica (L’ami de mon amie, 1987)
Reinette e Mirabelle (Quatre aventures de Reinette et Mirabelle, 1987)
L’albero, il sindaco e la mediateca (L’arbre, le maire et la médiathèque, 1993)
Incontri a Parigi (Les rendez-vous de Paris, 1995)
Un ragazzo, tre ragazze... (Conte d’été, 1996)
Racconto d’autunno (Conte d’automne, 1988)
Racconto di primavera (Conte de printemps, 1990)
Racconto d’inverno (Conte d’hiver, 1991)
La nobildonna e il duca (L’Anglaise et le duc, 2001)
Triple Agent - Agente speciale (Triple Agent, 2004)
Le canapé rouge (2005)
Gli amori di Astrea e Celadon (Les amours d’Astrée et de Céladon, 2007)
IL FILM DELLA RASSEGNA:
La mia notte con Maud
Da vedere, inoltre:
Il segno del leone
La collezionista
Il ginocchio di Claire
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LA MIA NOTTE CON MAUD
(Ma nuit chez Maud, 1969)
Regia : Eric Rohmer
Sceneggiatura: Eric Rohmer
Fotografia : Nestor Almendros
Durata: 110'
Interpreti: Jean-Louis Trintignant, Françoise Fabian,
Antoine Vitez, Marie-Christine Barrault
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Clermont-Ferrand. Durante una messa nella basilica di Notre Dame du Port, un ingegnere si innamora di una dolce
ragazza bionda, Françoise. Giorni dopo incontra un compagno di liceo, Vidal, di stretta osservanza marxista, che lo invita a passare il Natale da Maud, una sua amica, separata dal marito. I dialoghi filosofici tra i due continuano, così davanti alla signora molto affascinante che, rimasti soli, tenterà invano di sedurre l'ingegnere. Questi il mattino dopo ritrova
la ragazza bionda, la ferma e le strappa un appuntamento. Una nevicata li costringerà a passare la notte insieme.
L'ingegnere allora le si dichiara. Cinque anni dopo, ormai sposati con bambino, incontrano sulla spiaggia Maud: le due
donne sembrano conoscersi. L'ingegnere, che è anche il narratore di tutta la vicenda, scopre che l'ex marito di Maud è
stato amante della moglie. Forse anche per questo, allora, decide di "confessare"a Françoise la sua notte passata con
Maud.
(Da: Flavio Vergerio e Giancarlo Zippoli: Eric Rohmer - La parola vista, Morett&Vitali, 1996)
Hanno detto del film
Eric Rohmer è uno dei giovani critici francesi passati al cinema militante sulla scia
della Nouvelle Vague. I suoi «racconti morali» non hanno avuto finora particolare successo a eccezione di La collezionista, di cui fu apprezzata la solare sensualità mediterranea. Forse per amore dei contrasti il nuovo film di Rohmcr ci porta sotto le feste
di Natale in una Clermont-Ferrand battuta dalla pioggia e dalla neve. Dietro la vicenda privata di Jean-Louis, ingegnere alle officine Michelin che respinge timidamente la
bruna Maud e altrettanto timidamente sposa la bionda Françoise, c’è la teoria della scommessa di
Blaise Pascal: in una vita dominata dal caso bisogna scommettere in base alla speranza matematica
dell’incontro giusto. Nel gioco alla Marivaux il regista ce la mette tutta per tirar fuori le simmetrie
di racconto e di significato: a ogni passo rischia però di spezzare la suggestione con inviti troppo
pressanti a individuare significati etici e religiosi sotto il velame. In base a queste allusioni Françoise
potrebbe anche rappresentare la grazia, ultima posta della scommessa pascaliana; o, al contrario, la
delusione di chi ha puntato sulla carta perdente, se si prende alla lettera l’amara, per quanto prevedibile, rivelazione finale. Ne deriva un film ambiguo: attraente sulle prime, alla lunga inflazionato
di chiacchiere.
(Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere)
(…) Terzo dei “racconti morali” di E. Rohmer, fa perno su un dilemma, fondato sulla
fedeltà alla scelta più che alla persona. Il protagonista-narratore respinge la seconda
donna (Maud) in virtù della sua scelta iniziale (Françoise): ha scelto quel che non ha
o addirittura, come qui, quel che non conosce. Optando per Françoise, donna sognata,
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contro Maud, donna conosciuta, sceglie l’idealità dell’archetipo contro la pericolosità del reale.
Geometrica precisione dell’intreccio, giustezza di dialoghi, fluidità della scrittura (fotografia di
Nestor Almendros), verità dei personaggi.
(Laura, Luisa e Morando Morandini: Dizionario dei film)
(…) Il terzo (anche se girato come quarto) è uno dei più belli dei racconti morali di
Rohmer. Il narratore Michel esordisce dicendo che “non dirà tutto della storia”, scommette pascalianamente col caso, si districa tra menzogna e verità (farà credere a
Françoise di essere stato l’amante di Maud), ma alla fine rimane sconfitto. Su un
intreccio di apparenti simmetrie che ha la perfezione di un labirinto, si dipanano lunghi dialoghini cui i personaggi mettono alla prova le convinzioni loro e degli spettatori. Rohmer fa cinema con la parola senza adagiarsi nella teatralità, e il gioco intellettuale cela seduzioni e tensioni che il cinema riesce di rado a rappresentare con tanto acume e tanta forza.
(Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film)
La mia notte con Maud è l’esatto opposto di un grido per la rivoluzione. Ci tocca con
le qualità più classiche: analisi psicologica, acutezza, sensibilità, precisione. Una nota
pura e chiara che penetra la cacofonia circostante, questa cadenza mozartiana “tiene”
ancora. Sia che stia mostrando una tranquilla vita provinciale, o il valzer dell’esitazione di un ingegnere diviso tra il suo cristianesimo, il suo gusto per la matematica, i suoi
problemi amorosi e la sua avversione per Pascal, Rohmer dimostra in modo abbagliante a quali altezze può giungere un regista quando le regole vengono dettate dall’intelligenza.
Moltiplicando le trappole, il modo migliore per evitarle, il film contiene la scena più pericolosa del
cinema francese: essa vede insieme in una camera/soggiorno una coppia che non si è mai incontrata prima: Jean-Louis, l’ingegnere, e una giovane donna medico, bella, divorziata. Cenano. L’amico
che li ha fatti incontrare se ne va. Jean-Louis vuole andare a casa ma abita lontano e sta nevicando.
Maud riesce a farlo restare. La notte passerà… senza che nulla accada, tranne che discussioni e confidenze sempre più intime. Al mattino, contrariamente ai suoi desideri, l’agnellino smarrito non sarà
stato mangiato dal lupo. Potete immaginare a quale oscena farsa avrebbe potuto portare questo
incontro. Qui, comunque, delicatezza, spontaneità e proprietà di tono trionfano. Quello che Rohmer
ha tirato fuori d Jean-Louis Trintignant e, specialmente, da Françoise Fabian è così miracoloso che
uno vorrebbe che la notte con Maud durasse per sempre.
(Gilles Jacob, Nouvelles littéraires, n. 22, maggio 1969)
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JACQUES RIVETTE
Nato a Rouen nel 1928, divenne critico dei
Cahiers du Cinéma, rivista della quale assunse la
direzione dopo la morte di Bazin e il breve periodo di direzione di Eric Rohmer.
Il suo esordi dietro la macchina da presa avviene nel 1956 con il cortometraggio Le coup du
berger a cui fa seguito, dopo varie traversie, il
suo primo lungometraggio Paris nous appartient
(1958-60), scritto insieme a Jean Groualt e prodotto dalle case di produzione di François
Truffaut e Claude Chabrol. Di questo film lo
stesso Truffaut ne mostrerà alcune sequenze nel
suo I quattrocento colpi, facendo assistere la
famiglia Doinel alla proiezione.
Paris nous appartient resterà un film emblematico delle tematiche di Rivette: l’intrigo poliziesco
che rimane insoluto; la continua mescolanza fra
realtà e immaginazione, spesso irriconoscibili;
l’incrocio fra palcoscenico e vita quotidiana.
Il successo internazionale verrà raggiunto da
Rivette nel 1966 con Suzanne Simonin, la religiosa (Suzanne Simonin, la religieuse de
Diderot) che narra le esperienze drammatiche di
una giovane del diciottesimo secolo obbligata ad
entrare in convento e poi sospettata di essere
indemoniata.
Spesso nei suoi film Rivette “fa un cinema basato sul gioco e sull’improvvisazione, che invade
gli spazi reali rispettando i tempi della realtà” (P.
Mereghetti). Di qui la durata spesso esagerata
dei suoi film, che tocca il suo massimo in Out 1
(Out 1: Noli me tangere, 1971) lungo ben 760
minuti.
Filmografia di Jacques Rivette
Le coup du berger (1956) (cortometraggio)
Paris nous appartient (1958-60)
Susanne Simonin, la religiosa (La religieuse (Suzanne Simonin, la religieuse de Diderot), 1966)
Out 1 (Out 1: Noli me tangere, 1971)
Noroît (Scènes de la vie parallèle : 3 – Noroît (une vengeances), 1978)
Merry-Go-Round (1977-83)
L’amore in pezzi (L’Amour par terre, 1983)
Una recita a quattro (La bande des quatre, 1984)
La bella scontrosa (La belle noiseuse, 1991)
Giovanna d’Arco - Parte I: Le battaglie / Giovanna d’Arco - Parte II: Le prigioni (Jeanne la
Pucelle. Les batailles / Jeanne la Pucelle. Les prisons, 1994)
Alto basso fragile (Haut, bas, fragile, 1995)
Chi lo sa? (Va savoir, 2001)
Storia di Marie et Julien (Histoire de Marie et Julien, 2003)
La duchessa di Langeais (Ne touchez pas la hache, 2007)
Da vedere:
Paris nous appartient
Susanne Simonin, la religiosa
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QUELLI DELLA RIVE GAUCHE:
ALAIN RESNAIS
Nato a Vannes nel 1922 si trasferisce da giovane
a Parigi dove inizia a studiare recitazione, diplomandosi in fotografia e montaggio.
Dopo alcune pellicole a carattere pubblicitario e
alcuni cortometraggi, realizza, nel 1956, Notte e
nebbia, straordinario mediometraggio di denuncia dei campi di concentramento nazisti, in cui
mescola materiale di repertorio e scene riprese al
presente. Sarà Hiroshima mon amour (1959) a
consacrarlo definitivamente a livello internazionale. Scritto da Marguerite Duras è la straziante
storia d’amore fra una donna francese e un uomo
giapponese a Hiroshima, ripercorrendo la tragedia della bomba atomica, con flash back sul
passato durante l’occupazione nazista in Francia.
Pur non appartenendo al gruppo della Nouvelle
vague, Resnais vi viene affiancato proprio grazie
a questo film che venne acclamato al festival di
Cannes del 1959, insieme a I quattrocento colpi
di Truffaut, per la sua forza innovatrice del cinema francese.
Il successo di Resnais si consolidò successiva-
mente con L’anno scorso a Marienbad, con cui
vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1961, e con
Muriel, il tempo di un ritorno (1963).
Con La guerrà è finita, realizzato nel 1966 su un
soggetto dello scrittore catalano in esilio Jorge
Semprun, Resnais analizza la crisi delle ideologia che colpisce un gruppo di fuoriusciti spagnoli a Parigi durante il franchismo.
Filmografia di Alain Resnais
Guernica (1950) (cortometraggio)
Gauguin (1950) (cortometraggio)
Anche le statue muoiono (Les statues meurent aussi, 1951-53) (cortometraggio realizzato insieme a
Chris Marker)
Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1956)
Le Chant du Styrène (1958) (cortometraggio)
Hiroshima mon amour (1959)
L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad, 1961)
Muriel, il tempo di un ritorno (Muriel ou le temps d’un retour, 1963)
La guerra è finita (La guerre est finie, 1966)
Claude Ridder (1967) episodio del film collettivo Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam)
Je t’aime, je t’aime - Anatomia di un suicidio (Je t’aime, je t’aime, 1968)
Stavisky il grande truffatore (Stavisky, 1974)
Providence (1977)
Mon oncle d’Amérique (1980)
La vita è un romanzo (La vie est un roman, 1983)
L’amour à mort (1984)
Melò (Mélo, 1986)
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Voglio tornare a casa! (I Want To Go Home, 1989)
Smoking; No Smoking (1993)
Parole, parole, parole... (On connait la chanson, 1997)
Pas sur la bouche (2003)
Cuori (Cœurs, 2006)
Les herbes folles (2009)
IL FILM DELLA RASSEGNA:
La guerra è finita
Da vedere, inoltre:
Notte e nebbia
Hiroshima mon amour
L'anno scorso a Marienbad
Muriel, il tempo di un ritorno
Providence
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LA GUERRA È FINITA
(La guerres est finie, 1966)
Regia : Alain Resnais
Sceneggiatura : Jorge Semprun
Fotografia: Sacha Vierny
Musica: Giovanni Fusco
Durata: 120'
Interpreti: Yves Montand, Ingrid Thulin, Geneviève Bujold,
Jean Bouise, Michel Piccoli, Dominique Rozan
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Protagonista del film è un comunista, Diego, uno dei molti fuorusciti che traversando più volte la frontiera tra Francia e
Spagna tiene i contatti con i compagni rimasti in patria. Siamo nei giorni di Pasqua del 1965: dopo sei mesi di permanenza clandestina a Madrid, Diego rientra precipitosamente a Parigi per mettere in guardia l'amico Juan dal recarsi in
Spagna, dove la polizia franchista sta compiendo nuovi arresti. Ma Diego questa volta ha avuto noie alla frontiera: viaggiava col passaporto di un altro, e soltanto la prontezza di spirito di Nadine, una studentessa parigina alla quale la polizia ha telefonato per un controllo, ha potuto salvarlo. Giunto a Parigi, Diego non riesce a rintracciare Juan, che ormai è
già partito, e invano contesta ai capi del partito l'opportunità di proclamare uno sciopero generale progettato per il 1°
maggio, a suo avviso destinato a fallire. Dopo aver conosciuto Nadine, e avuto con lei un rapido incontro d'amore, Diego
rientra a casa, dove lo attende Marianne, una straniera che lo ama profondamente ma è stanca di averlo tanto spesso lontano, e vorrebbe almeno un figlio da lui. L'indomani, a una riunione di partito, Diego si sente rimproverare di aver lasciato senza ordine Madrid, viene accusato di debolezza ideologica, e sospeso dall'attività. Analoghi rimbrotti riceve il terzo
giorno da un gruppo di giovani comunisti francesi amici di Nadine, che rischiano di implicarlo in una azione di terrorismo da cui egli tenta di distoglierli.
Già Diego progetta di rientrare per proprio conto in Spagna insieme a Marianne, a proseguire in patria una lotta che
ormai gli sembra assurda diretta da lontano, da vecchi combattenti prigionieri della mitologia insurrezionale o da giovani avventati, quando la morte di un compagno e la consapevolezza di sentirsi vivo soltanto nel rischio dell'azione lo
spingono a riprendere il suo posto e a ripartire subito per Barcellona, nella speranza di fare ancora in tempo a impedire
a Juan di raggiungere Madrid. Ma Diego non sa che la polizia gli è da tempo alle calcagna (o forse lo sospetta, e ha compiuto la sua scelta per una volontà di coerenza). Per avvertirlo a sua volta, il partito chiede a Marianne di giungere in
volo a Madrid prima di lui.
Hanno detto del film
(…) È il film più politicamente impegnato di A. Resnais. Scritto dallo spagnolo (allora in esilio) Jorge Semprun, è un film sull’azione, sull’ostinazione, l’allegria e la stanchezza dell’azione: il flusso della coscienza riguarda il contrario della memoria, l’avvenire invece del passato. La pazienza e l’ironia sono le due virtù del rivoluzionario,
dice Diego Mora. Nel corso labirintico del racconto affiora il motivo conduttore di un
omaggio all’uomo e alla sua integrità, in coincidenza tra livello pubblico e livello privato, continuamente intrecciati.
( Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)
La guerra è finita, coproduzione franco-svedese, giunge in Italia con un’etichetta di
film audace che proprio non merita. Anche senza le brevi sforbiciate della censura,
quest’ultimo di Alain Resnais è uno dei film più casti che si conosca, e contiene due
grandi scene d’amore fra le più struggenti di tutto il cinema francese. Il motivo delle
difficoltà che ha incontrato sono altrove: per i fascisti, nel celebrare la lotta clandesti-
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na combattuta a prezzo di sangue contro il regime di Franco; per una parte dei comunisti, nel mostrare i cedimenti di cui possono soffrire, dopo il lungo esilio, i fuorusciti, e come siano superati, anzi
dannosi, certi schematismi dottrinari non adeguati alla nuova realtà della Spagna. (…)
La guerra è finita è un bel film, forse la prova più ricca di Resnais, che abbandonati i giochi intellettualistici si dedica a dipingere, con grande rispetto del vero, nella cornice d’un ambiente molto
emotivo, il ritratto d’un uomo nel quale si riflettono insieme la crisi delle ideologie e le crisi private dei quarant’anni, sullo sfondo d’un carattere segnato dall’amarezza dell’esilio, dalla stanchezza
per un trentennale rinvio, dai lividi delle delusioni e d’un’esistenza raminga. Realizzato con classica semplicità e compostezza (l’unico difetto è un certo languore nel ritmo), il film, animato da personaggi tanto più autentici di quelli di Marienbad e Muriel, supera ogni pure interessante significazione politica e morale con una poesia intrisa di malinconia fortissima, che tuttavia non raggiunge
l’angoscia esistenziale, e perciò serba grazia. Essa risalta appunto nelle scene d’amore: nell’incontro con Nadine, dove l’uomo quasi estraneo alla realtà ritrova il calore della vita nella fresca e graziosa ragazza, e in quello con Marianne, la donna non più giovane che teneramente lo supplica di
riempire la sua solitudine. Da questi nodi supremi la tristezza si spande lungo tutto il racconto, nei
luoghi, nei volti e nelle situazioni, e ogni volta torna a condensarsi nella figura di Diego, inquietato
da un’ambiguità e da un’incertezza che gli turbano la coscienza col sospetto della menzogna e del
tradimento. Ma non è soltanto nella penetrazione psicologica del complesso protagonista che
Resnais dà prova di eccezionale intelligenza e sensibilità: il ritratto di Marianne, dove i motivi della
sensualità s’intrecciano a quelli della desolazione e, di rimbalzo, d’una nascente coscienza politica;
e il profilo rapido e tenero di Nadine, così sicura della sua giovinezza in confronto ai dubbi del quarantenne, sono compiuti con rara precisione di tocco. Lo stesso accade ai personaggi di contorno,
tutti colti dal vero, gli umili operai e i politici dogmatici, in un armonico concertato realistico cui fa
da ideale contrappunto la Spagna invisibile.
(Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera, 30 marzo 1967)
Lo straordinario fascino del film di Resnais sta (…) nel proporci un personaggio ormai
canonico del cinema contemporaneo, un “uomo, a metà” appunto, la cui crisi appare
finalmente rappresentata nelle sue concrete motivazioni politiche e morali, e non dilatata surrettiziamente a emblematico referto di un malessere esistenziale. Diego Mora
non è un segno, una “persona” o una metafora, è un uomo, un militante della classe
operaia europea colto e rappresentato in un’alternativa, tutt’altro che privata, fra
abbandono e fedeltà a una causa rivoluzionaria. La delusione e l’amarezza che ne frenano l’azione
non rimandano ad equivoche stagioni del nostro amore declamate con colpevole morbidezza, ma ad
un aspro e sgradevole capitolo del presente limpidamente individualizzato in un personaggio che non
sa più come volere ciò che vuole. Diego non è un’ombra, una delle tante, troppe, del cinema “moderno”, ma non è neppure, non può essere per fortuna, l’eroe positivo” di un cattivo cinema programmatico. La crisi politica e quella sentimentale risultano, pertanto, perfettamente compenetrate:
l’incontro con Nadine e i rapporti difficili con Marianne non sono un’altra storia, giustapposta o dilatata rispetto a quella politica, ma la stessa storia, verificata e sofferta a un altro livello.
Di qui un risultato di una limpidezza di significati e di segni sorprendente, ma tutt’altro che semplicistica, fondata anzi su un’analisi rigorosa di rapporti e di interferenze assai complesse, che si irradiano e convergono sempre intorno all’asse centrale del discorso, la crisi di Diego e il processo concreto, fatto di incontri, discussioni, e dei loro risvolti e prolungamenti interni, attraverso il quale egli
esce dal labirinto, ritrovando l’ottimismo della volontà nel pessimismo dell’intelligenza. Della
“maniera” di Resnais, che non a caso risulta contestata e illimpidita dallo sforzo conoscitivo del regista e dalla revisione che esso comporta di certo avanguardismo tutto formale e pretestuoso, persistono certo gusto dell’incastro e della complicazione degli accadimenti e talune concessioni nel
visualizzare timori, sospetti e incertezze del protagonista di fronte al momento della scelta, rispetto
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alla quale, però, trovano quasi sempre una giustificazione interna, come “ipotesi” e “possibilità” che
è necessario si ponga continuamente chi non vuole accettare, appunto, le cose e gli uomini come
sono ora. È ne La guerra è finita dunque che, per tornare a Goldmann, l’avanguardia dell’assenza,
di cui Resnais fu acceso neofita in Hiroshima e severo adepto in Marienbad, diventa avanguardia
della presenza: senza verità da sbandierare ma con amara e ostinata volontà di ritrovarle.
(Adelio Ferrero, Recensioni e saggi 1956-1977, Edizioni Falsopiano, 2005)
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QUELLI DELLA RIVE GAUCHE:
CHRIS MARKER
Regista, fotografo, scrittore. Chris Marker è il
nome d’arte di Christian François BoucheVilleneuve, nato nel 1921 a Neully-sur-Seine.
Studia filosofia con Jean-Paul Sartre.
Durante la guerra si unisce alla resistenza come
paracadutista. Successivamente entra a lavorare
all’Unesco. Inizia a viaggiare e a filmare tutto
ciò che vede in giro per il mondo.
Nel 1953 realizza il cortometraggio Les statues
meurent aussi in coppia con Alain Resnais e, nel
1963, La jetée, film costruito mediante fotogrammi fissi che raccontano di un mondo dopo
la catastrofe nucleare.
A La jetée si è ispirato Terry Gilliam per realizzare il suo film fantascientifico L’esercito delle dodici scimmie (1995).
LA JETÉE
(1963)
Regia di Chris Marker
Fotografia: Jean Chabaut
Musiche: Trevor Duncan
Voce over: Jean Negroni
Durata: 29'
Interpreti: Davos Hanich, Hélène Chatelain, Jacques Ledoux
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Sulla piattaforma dell'aeroporto di Orly la morte di un uomo di cui all'inizio non sappiamo l'identità è associata allo scoppio della Terza guerra mondiale. I superstiti della catastrofe nucleare sono nei rifugi sotterranei. Si inviano emissari
affinché il passato e il futuro soccorrano il presente. Durante i suoi lunghi e penosi viaggi l'uomo ritrova l'immagine che
l'ossessiona: quando all'aeroporto di Orly corre verso la donna amata comprende il significato dell'evento iniziale.
(Da: Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)
Hanno detto del film:
(…) Cortometraggio in bianconero a foto fisse e ferme - se si toglie uno zoom all'inizio e due o tre altri in un momento in cui la storia va nel futuro - in cui si afferma "una
identità tra il grande e il piccolo, l'individuale e l'universale ... introduce un tema che
sarà tipico della fantascienza francese nouvellevaguista, quello del viaggio nel tempo"
(A. Farassino). Allucinato, vertiginoso, originale. Vincitore del primo Festival di fantascienza di Trieste nel 1963. (…)
(Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)
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(…) Marker costruisce in pochi minuti un intero universo, esplora paradossi temporali su cui giocherà la fantascienza, riflette sulla natura dell'immagine e del cinema, e
soprattutto trasmette una suggestione irripetibile. (…)
(Paolo Mereghetti, Il Mereghetti - Dizionario dei film)
(…) Quello che è bello, qui, è che abbiamo a che fare con un film sentimentale fatto
da un intellettuale: i sentimenti sono presenti in secondo piano. Avveniristico o no, è
un film d'amore sui ricordi e un film di ricordi sull'amore. La parte del ricordo è la
fotografia, questi frammenti fissi che sono sopravvissuti (Cortazar, al quale si pensa
quando si vede La jetée, scriveva: "Un modo tra i molti di combattere il nulla, è quello di fare delle fotografie"). La parte dell'amore, è la bellezza di un viso e delle sue
espressioni, si guarda con tale attenzione questo volto che questo si scosta bruscamente : gli occhi,
la bocca si muovono: E se gli animali di un museo di storia naturale sembrano rivivere, i piccioni su
una piazza sembrano impagliati. La morte e la vita sono là, come per sbaglio. La bellezza così commovente degli incontri dell'uomo e della donna, nel punto di intersezione della memoria e del sogno,
è il punto centrale del film. E mi piace che questa bellezza sia controllata da un inquietante saggio.
(F.W., Cahiers du Cinéma, 146, 1963)
GLI ALTRI:
Henri Colpi (Briga, Svizzera, 1921 - Mentone, 2006)
Jacques Demy (Pont Chateaux, 1931 - Parigi, 1990)
George Franju (Fougères, 1912 - Parigi, 1987)
Louis Malle (Thumeries, 1932 - Los Angeles, 1998)
Jean Rouch (Parigi, 1917 - Birni N'Konni, Nigeria, 2007)
Jacques Rozier (Parigi, 1926)
Agnes Varda (Bruxelles, 1928)
Da vedere:
Ascensore per il patibolo (Louis Malle, 1958)
Les amants (Louis Malle, 1958)
Zazie nel metro (Louis Malle, 1959)
Moi, un noir (Jean Rouch, 1959)
L’inverno ti farà tornare (Henri Colpi, 1960)
Lola, donna di vita (Jacques Demy, 1960)
Occhi senza volto (George Franju, 1960)
Cléo dalle 5 alle 7 (Agnes Varda, 1962)
Desideri nel sole (Jacques Rozier, 1963)
Les parapluies de Cherbourg (Jacques Demy, 1964)
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I “MAESTRI”:
JACQUES BECKER
Nato a Parigi nel 1906 e morto nella stessa città
nel 1960.
Dopo aver diretto con Jacques Prévert due
mediometraggi nel 1935, esordisce nel lungometraggio con Dernier atout (Ultima possibilità,
1942); lo stesso anno ottiene un discreto successo con La casa degli incubi, interessante opera
corale ambientata nella Francia occupata. Segue,
nel 1952, Casco d’oro con Simone Signoret,
cruda storia di amore e violenza in un sobborgo
parigino. Nel 1954 dirige il cupo e introspettivo
Grisbi, storia di un’amicia fra due gangster che
F. Truffaut ha definito “il miglior film noir di
sempre”. Dopo Le avventure di Arsenio Lupin
(1957), nel 1958 dirige Montparnasse, biografia
del pittore A. Modigliani sceneggiata da M.
Ophüls poco prima di morire. Il suo ultimo film
è Il buco (1960), memorabile racconto di un tentativo d’evasione: è forse il punto più alto della
sua carriera, un film girato con asciuttezza e rigore, capace di restituire un’intensa umanità ai
protagonisti e alla loro estenuante ricerca di libertà. La sua opera, scabra, prontamente umana,
impregnata di una psicologia penetrante, rappresenta uno dei principali raccordi fra il cinema
francese classico e la Nouvelle vague: la capacità
di leggere una realtà scomoda e mai elegiaca si
unisce a un linguaggio cinematografico semplice
e diretto che coglie l’intima essenza della dimensione esistenziale – spesso violenta e controversa – dei suoi personaggi.
(Da: Le Garzantine – Cinema)
François Truffaut:
JACQUES BECKER, UN ANNO DOPO LA SUA MORTE
Aveva inventato un suo proprio ritmo. Amava la velocità in auto, i pranzi molto lunghi, girava film
di due ore su soggetti da quindici minuti, parlava per delle ore al telefono.
Era scrupoloso e riflessivo, di una delicatezza infinita. Amava filmare minuziosamente le cose insignificanti, un biglietto di lotteria o un gilet smarrito, ma ha superato i suoi limiti volontariamente e
coraggiosamente molte volte alla fine di Casque d’or, in Montparnasse 19 e in Le trou.
Attento a tutti i nuovi film, ai nuovi cineasti, facile all’ammirazione e sempre affettuoso, quest’uomo non conosceva la gelosia professionale. Ammetteva tranquillamente che si potesse fare il suo
stesso mestiere e tuttavia quali inquietudini lo tormentarono verso la fine della sua vita!
Siccome era abbastanza lento e pensava a voce alta, superava spesso i preventivi e, in questi ultimi
tre film, le interruzioni causate dalla malattia aggravarono le cose e compromisero i suoi rapporti
con i produttori.
Negli ultimi tempi il suo viso stupendo era diventato grigio acciaio, o più esattamente del colore di
un’automobile metallizzata.
Dopo l’uscita del mio primo film, lo incontro proprio quando terminava Le trou e mi dice: “E
soprattutto mi dia retta, metta da parte un po’ di denaro”.
Non ho mai osato raccontare prima d’ora raccontare la mia ultima conversazione con lui al telefono, due settimane prima della sua morte. Fu François Fabian a rispondermi. Le ho chiesto notizie
e mi sono offerto di fare commissioni o qualunque altra cosa. Lei mi disse: “È troppo malato per
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parlarle”. Sentii che domandava: “Chi è?” poi prese il microfono. Si esprimeva a fatica e mi disse:
“Va male ma non bisogna che lo sappiano. Quelli non mi farebbero più lavorare”.
Ho esitato prima di raccontarlo, ma mi sono deciso per mostrare la crudeltà del nostro mestiere e
più generalmente quella di tutti i mestieri dello spettacolo.
(1961)
Filmografia di Jacques Becker
Ultima possibilità (Dernier atout, 1942)
La casa degli incubi (Goupi - Mains – Rouges, 1942)
Falbalas (1944)
Amore e fortuna (Antoine et Antoinette, 1946)
Le sedicenni (Rendez-vous de juillet, 1949
Edoardo e Carolina (Edouard et Caroline, 1951)
Casco d’oro (Casque d’or, 1952)
Alì Babà (Ali Baba et les quarante voleur, 1954)
Grisbi (Touchez pas au grisbi, 1954)
Le avventure di Arsenio Lupin (Les aventures d’Arsène Lupin, 1957)
Montparnasse (Montparnasse 19, 1958)
Il buco (Le trou, 1959)
IL FILM DELLA RASSEGNA:
Il buco
Da vedere, inoltre:
Casco d’oro
Grisbi
IL BUCO
(Le trou, 1959)
Regia: Jacques Becker
Durata : 145'
Intrepreti : Michael Constantine, Jean Keraudy, Philippe Leroy,
Raymond Meunier, Marc Michel, Catherine Spaak
La trama
(attenzione : viene svelata la fine del film)
Il giovane Gaspard, detenuto in attesa di giudizio, viene trasferito in un'altra ala del carcere. Deve dividere la cella con quattro "anziani", tutti prossimi alla condanna definitiva per reati vari e gravi. Sono il simpatico e loquace Monsignore, il silenzioso Geo,
L'irascibile e sospettoso Manu e il più saggio Roland. I galeotti diffidano del nuovo arrivato, sulla cui testa pesa però
un'accusa di tentato omicidio della moglie. Tradotto in soldoni significa dieci anni. È uno di loro. Lo si può dunque coinvolgere nel progetto di evasione. I quattro, infatti, vogliono perforare il pavimento di cemento e scavare un buco verso
la libertà. È una cosa fattibile, occorre pazienza e costanza, oltre a una rigorosa organizzazione dei turni di guardia e di
scavo. Gaspard accetta di essere della partita, ma durante un colloquio con il direttore, che lo ha preso in simpatia, viene
a sapere che la moglie sta per ritirare la denuncia. Il giovane, prossimo alla libertà, denuncia i compagni, che la notte
dell'evasione vengono bloccati dalle guardie e portati in isolamento.
(Da: Mauro Gervasini, Cinema poliziesco francese, Le Mani, 2003)
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Hanno detto del film
I film di Jacques Becker mi richiamano sempre alla mente una frase di Valéry: “Il
gusto è fatto di mille disgusti”. D’altronde quando Becker parlava del prossimo film
che avrebbe girato la parola che ripeteva più spesso era diffidenza. Al telefono, or non
è molto: “Sto per fare I tre moschettieri ma diffidate, il film si fermerà al ritorno dei
ferretti, e saranno già due ore…”.
In questa frase c’è tutto Becker: la diffidenza e la preoccupazione della durata.
Le trou è un film superbo, superbamente concepito, scritto, realizzato, montato, sonorizzato. È , per
fortuna, il miglior film di Jacques Becker, per fortuna perché i critici che saranno all’occorrenza dei
notai, potranno aprire un buon testamento.
È infatti di un testamento che si tratta e sono pochi i film attraverso i quali si intuiscono a tal punto
le riflessioni dell’artista lungo questo doppio cammino.
Becker fu il cineasta più riflessivo della sua generazione, il più scrupoloso, quello che si poneva più
problemi. Se la critica non poteva insegnargli niente, è che aveva nella sua testa passato e ripassato
tutti i problemi. (…)
Concependo Le trou, poi girandolo e montandolo, Becker doveva stranamente diffidare; ciò si avverte a ogni immagine: Di cosa diffidava quest’uomo per il quale un film in lavorazione era innanzi
tutto una sorta di “percorso di guerra” allestito in piena giungla, cioè non solo irto di ostacoli, ma
minato a ogni passo, ventiquattro volte al secondo? Diffidava prima di tutto del versante “piccolo
gruppo di uomini imprigionati”, trappola che era stata fatale a non pochi suoi colleghi. Seconda trappola: “la solidarietà dei duri” che porta agli scambi di sguardi commossi e al sentimentalismo di
ritorno. Terza trappola, una delle più difficili da evitare: il lessico da prigione e il gergo poetico.
Becker ha evitato tutte queste trappole e mi sembra che Le trou sia inattaccabile sia nei particolari
che nell’insieme. Alcuni deploreranno forse i limiti dell’impresa ma questo rimprovero è inutile in
quanto Becker è stato un cineasta limitato, che ha voluto limitarsi conoscendo i suoi limiti, imponendosi dei limiti, sforzandosi a sua volta di superarli, a volte di rispettarli ma giocando a scontrarsi con essi e dandoci così i momenti migliori della sua opera (…).
( François Truffaut. I film della mia vita. Marsilio, 1978)
(…) Tesissimo, angosciato, costruito con inquadrature di rigorosa geometria, scandito
non dalla musica ma dai rumori ossessivi della vita carceraria, è la ricostruzione
pedante e minuziosa di una disperata voglia di libertà, testamento e metafora di un pessimismo cupo e totale.
(Paolo Mereghetti: Il Mereghetti. Dizionario dei film)
Da un romanzo (1957) di José Giovanni. Nel 1947 nel carcere della Santé di Parigi cinque detenuti tentano di evadere scavando una galleria. Uno di loro tradirà. Ultimo film
di J. Becker e con Casco d’oro uno dei suoi capolavori, ormai considerato un “classico” del cinema francese, opera che fa da cerniera tra i film cosiddetti “di qualità” e
quelli della Nouvelle Vague. Racconta un gruppo di criminali con la loro dignità di
uomini. Un inno alla libertà, ma anche alla pazienza, all’amicizia, alla solidarietà.
Un’epopea alla Bresson, senza enfasi oratoria né messaggi umanitari.
(Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)
(…) Il buco è un film aspro, coriaceo, dalla messa in scena geometrica che non può
non ricordare, per brutale asciuttezza, quella di Un condannato a morte è fuggito di
Robert Bresson. Il modello è alto, ma il lavoro sul rapporto tra iconografia e rumore
è molto simile, tanto che entrambi i film sembrano dispiegare sullo schermo una plumbea estetica del cemento, del ferro, degli oggetti. (…)
Becker non è Bresson, è attento alle esigenze della narrativa popolare. In Il buco si
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ritrovanmo tutte le situazioni tipiche del prison movie, soprattutto è realistica la descrizione della vita
quotidiana di chi sta in carcere. (…) Senza mai andare sopra le righe con gli stereotipi, perché anche
la violenza del luogo deve essere soprattutto di tipo psicologico, più intuita che vista.
Già, il luogo. La grandezza del film sta nel rendere il carcere un corpo mostruoso e cupo ma con un
suo linguaggio, una sua morale. (…)
Tremendo capolavoro e film testamento. Jacques Becker, affetto da una rara e implacabile malattia
del sangue, termina le riprese di Il buco ben sapendo che non rivedrà più un set. Ma la sua opera permette al polar di fare un salto di qualità: non più storie “letterarie” di regolamenti di conti per strada ma stile visivo, durezza di linguaggio, regole di messa in scena, ispirazione narrativa. Un noir
d’autore che infatti, caso più unico che raro, viene esaltato anche dai Cahiers e dalla critica engagée.
(Mauro Gervasini, Cinema poliziesco francese, Le mani, 2003)
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Sommario
Introduzione.................................................pag. 3
I Cahier du Cinéma...................................... “
3
La Nouvelle Vague....................................... “
5
Cannes 1959................................................. “
7
I registi della Rive gauche............................ “
9
Il cinema e il ‘68.......................................... “ 10
Vedere oggi la Nouvelle Vague................... “ 11
I protagonisti............................................... “ 13
François Truffaut......................................... “ 13
I quattrocento colpi......................... “ 16
Tirate sul pianista........................... “ 20
Antoine e Colette............................. “ 22
Jean-Luc Godard......................................... “ 24
Questa è la mia vita........................ “ 26
Claude Chabrol........................................... “ 29
Stephane, una moglie infedele........ “ 31
Eric Rohmer................................................ “ 33
La mia notte con Maud................... “ 35
Jacques Rivette........................................... “ 37
Quelli della Rive gauche: Alain Resnais.... “ 38
La guerra è finita............................ “ 40
Quelli della Rive gauche: Chris Marker..... “ 43
La jetée............................................ “ 43
I “Maestri”: Jacques Becker........................ “ 45
Il buco............................................. “ 47