da qui. - Edizioni Ares

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Poste Italiane Spa Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia
20131 Milano - Via Stradivari, 7
27 settembre 2014:
Álvaro del Portillo Beato
quaderno con interventi di
Cesare Cavalleri, Alessandro Rivali,
card. Francesco Monterisi,
Antonio M. Sicari, Emma Fattorini,
Maria Vittoria Marini Clarelli,
card. Julián Herranz, mons. Mario
Delpini, Agostino Giovagnoli,
Javier Medina Bayo.
Con una lettera di Papa Francesco
e le omelie del card. Angelo Amato
nella Messa di beatificazione
e di mons. Javier Echevarría
nella Messa di ringraziamento
Siria: genesi & prospettive
di una guerra
di Alberto Leoni
Segantini il grande
& il mistico Chagall
di Michele Dolz
644
Ottobre
2014
Patrick Modiano,
un Nobel meritato
di Andrea Vannicelli
Editoriale
La gratitudine del beato Álvaro del Portillo
I
l momento di maggior commozione alla Messa
della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo,
il 27 settembre scorso, a Madrid, è stato, per me,
quando ho visto il piccolo José Ignacio Ureta Wilson recare sull’altare, con tutta la solennità di cui è
capace un bambino, la reliquia del Beato. La guarigione di José Ignacio, dopo un arresto cardiaco di
oltre mezz’ora, avvenuta il 2 agosto del 2003, è il
miracolo che ha consentito la beatificazione, ed eccolo lì, il ragazzino cileno con i genitori raggianti e
commossi. Un bellissimo miracolo, un miracolo
«normale» per una famiglia normale, davvero tipico di don Álvaro che aveva appreso da san Josemaría Escrivá l’eroismo della vita «normale».
Molto si è scritto e moltissimo si scriverà sul beato Álvaro, e il dossier che apre questo fascicolo dà
un contributo importante e autorevole. Io, che ho
avuto il privilegio di conoscere don Álvaro e di essere da lui conosciuto, non me la sento, tanto meno in questa pagina, di parlare della sua fedeltà,
della sua umiltà e di tutte le virtù, a cominciare
dalle teologali, che egli ha vissuto e che fin da ora
sono oggetto di testimonianze e di studi altamente
qualificati. Riferirò due ricordi personali.
G
iovedì 26 giugno 1975: muore improvvisamente il fondatore dell’Opus Dei. È il dolore più grande della mia vita. La consegna è che
nessuno si muova da dove sta: la nostra peculiarità è di sforzarci di santificare la quotidianità,
quindi non vanno interrotti i compiti abituali. Fra
l’altro, convenire a Roma dai quattro punti cardinali sarebbe anche contrario allo spirito di povertà. Venerdì 27, però, alle 10 di mattina, vengo
chiamato a Roma per dare una mano all’ufficio
stampa. Prendo un aereo e alle 13,45 (altri tempi,
altri aerei) sono in viale Bruno Buozzi 75. La
chiesa di Santa Maria della Pace è chiusa perché
in quel momento stanno collocando nel feretro il
corpo del fondatore che, durante le Messe ininterrotte dal giorno precedente, riposava a terra,
su un tappeto davanti all’altare, con i paramenti
sacerdotali. Poco dopo, la porta si apre ed esce
don Álvaro. Mi vede, mi abbraccia, e sussurra:
«Consummati in unum, consummati in unum».
Tutti insieme, uniti nel dolore e nell’impegno di
seguire le orme del fondatore. Non dimenticherò
mai lo sguardo sereno, eppur velato, di don Álvaro, la fortezza e la pace che in quel momento irradiava. Davvero, ho pensato, egli è il capolavoro formativo del fondatore.
S
econdo ricordo. Nei primi anni Ottanta, don Álvaro, che ormai era «il Padre», mi fa chiamare
a Roma per redigere un testo che lo interessava. Vado, mi metto alla macchina per scrivere (all’epoca il
computer non aveva ancora preso il sopravvento) e
lavoro. Consegno il testo al Padre, che lo approva,
e insiste a baciarmi le mani, dicendo schezosamente: «So che tu scrivi direttamente a macchina, ma
non mi pare il caso di baciare la macchina...». La
gratitudine: ecco un’altra virtù che il beato Álvaro
ha praticato incessantemente, anche in occasioni
minime come quella mia.
N
ell’Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, che
l’Ares pubblicò in prima edizione per la beatificazione di Josemaría Escrivá, chiesi a don Álvaro
di dirci qualche cosa sul suo vincolo di filiazione
con il fondatore. Egli raccontò alcuni aneddoti particolarmente espressivi, e concluse: «La mia ammirazione per la sua straordinaria carità verso Dio e
verso il prossimo è cresciuta di giorno in giorno. Nei
suoi confronti mi sento debitore, debitore insolvente». Ancora una volta, la gratitudine, quella che oggi, non solo noi che l’abbiamo conosciuto, sentiamo
verso il nuovo Beato. Mons. Javier Echevarría, nella lettera che mensilmente rivolge ai membri della
prelatura (ma che tutti possono leggere sul sito
www.opusdei.it), ha scritto: «Ut in gratiarum semper actione maneamus! Uniamoci al permanente
rendimento di grazie di san Josemaría in Cielo, ora
per l’unità dell’Opera che abbiamo potuto toccare
con mano durante la beatificazione dell’amatissimo
don Álvaro: quanto più ringrazieremo il Signore,
tanto più ci uniremo alla sua Santissima Volontà,
sempre e in tutto. Rinnoviamo il desiderio di dare a
Dio tutta la gloria, lottando con quotidiana determinazione per impiantare il regno di Cristo nella società, molto uniti al Papa, lasciandoci condurre a
Gesù dalla Santissima Vergine, Madre nostra».
C.C.
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Madrid,
Valdebebas
Álvaro
del Portillo,
Beato
27 settembre
2014
N
660
Il 27 settembre 2014, a Madrid, è stato beatificato mons. Álvaro del Portillo, primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei.
Erano presenti 18 cardinali, 160 vescovi, 300 sacerdoti e oltre duecentomila pellegrini giunti da ogni parte del mondo. In queste pagine, dopo la
cronaca di Alessandro Rivali che fa rivivere il clima di festa e di gratitudine delle intense giornate madrilene, viene pubblicata la lettera che Papa
Francesco ha inviato, per l’occasione, al Prelato dell’Opus Dei. A seguire,
l’omelia del delegato pontificio, card. Angelo Amato, che ha presieduto la
celebrazione, e l’omelia di mons. Echevarría nella Messa di ringraziamento del giorno successivo, sempre nel grande scenario di Valdebebas.
o dejes de soñar. Non smettere di sognare. È l’insegna, a caratteri d’oro su
campo nero e anche un po’ retrò, che accoglie i visitatori del «Giardino degli Angeli», un antico e celebre
vivaio in Calle de Las Huertas, nel pulsantissimo cuore di Madrid. È un motto, una frase a effetto, ma potrebbe essere anche il refrain per la beatificazione di
Álvaro del Portillo (Madrid, 1914 – Roma, 1994), avvenuta lo scorso 27 settembre a Valdebebas, alle porte della città, davanti a più di duecentomila persone
dei più disparati angoli del globo.
«Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», insegnava Shakespeare e difficilmente potrà contraddirlo chi ha vissuto in diretta l’evento di Madrid: è stato una grande festa e un crocevia di sogni.
Innanzitutto, il sogno compiuto di san Josemaría
che dall’alto avrà abbracciato con la Chiesa il suo
discepolo più fedele. Álvaro, infatti, fu uno dei primi a seguirlo per quel sentiero «aperto» con la na-
scita dell’Opus Dei il 2 ottobre 1928, mentre suonavano le madrilene campane di Nostra Signora degli Angeli: per ricordare che la santità non è appannaggio di poche anime «elette» o fuori dal mondo,
ma è possibile anche per il contadino, la colf, il banchiere o l’artista dal temperamento infiammato.
Ma è stato anche il sogno coronato (nel senso del
paradiso «certificato») di Álvaro, quel timido universitario con la passione per i numeri e l’ingegneria che, dopo aver ascoltato un paio di meditazioni
di san Josemaría, il 7 luglio del 1935, decise di dare una nuova direzione alla propria vita. Da quel
giorno la sua esistenza si sarebbe complicata, ma
sarebbe stata irrimediabilmente più intensa, secondo la magna charta di ogni vocazione, descritta in
Marco 16: «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratel-
27 settembre 2014:
li e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna».
Lasciare tutto per il Regno: del resto fu proprio questo il motto episcopale (Regnare Christum volumus!) scelto da Álvaro del Portillo al momento della consacrazione voluta da Giovanni Paolo II il 6
gennaio 1991. A Valdebebas questo motto giganteggiava sul palco della beatificazione con la riproduzione di un autografo del nuovo Beato.
Il terzo sogno raggiunto è stato quello di tutti i pellegrini, dei devoti e degli amici del nuovo Beato.
Perché se nella Chiesa si fa festa quando lo Spirito irrompe con un carisma nuovo, si festeggia con
pari intensità quando il testimone del carisma viene trasmesso nella sua più integra e feconda ricchezza. E se un discepolo ha seguito bene il fondatore, anche altri discepoli potranno incamminarsi sulla stessa strada.
È la santità dei numeri «due», come ha spiegato
Francesco Ognibene su Avvenire nell’editoriale del
1° ottobre: «Tanto Escrivá abbagliava per la sua
personalità straripante e contagiosa – un uomo, dissero in molti, “che seguirei in capo al mondo” –
quanto don Álvaro era discreto, umile, lavoratore,
l’ombra del fondatore al quale tutti guardarono un
attimo dopo la morte del “Padre”, di un uomo cioè
la cui santità era pressoché universalmente riconosciuta. Cercando la strada da seguire fu naturale
volgersi a chi non vestiva i panni del numero uno
ma l’indiscussa, tenace e persino oscura fedeltà del
numero due. Il primo degli altri, il primo di noi che
probabilmente non siamo fuoriclasse, ma servitori.
La fedeltà di chi segue una strada aperta dalla grandezza altrui è la vera, grandissima santità della qua-
Álvaro del Portillo Beato
le ha urgente bisogno il nostro tempo: non solo prim’attori, ma gente che conosce il suo posto nel
mondo, e sa servire dove Dio l’ha voluto».
La santità passa per l’infinitamente piccolo. È l’esperienza di tutti i santi. Una giovane suora a Lisieux è diventata dottore della Chiesa raccomandando la «piccola via». E in anni recenti lo ha ricordato anche papa Benedetto XVI, per esempio,
nella splendida omelia per la veglia di Natale 2005.
I «luoghi» di don Álvaro
I pellegrini per Álvaro del Portillo a Madrid hanno
cercato, dalla brulicante Puerta del Sol agli ombrosi
boulevards nelle vicinanze del Museo del Prado, i
«piccoli segni» per cui è passata la vita di don Álvaro. Tappe naturalmente intrecciate con i primi passi
dell’Opus Dei e con l’esistenza del suo fondatore.
Un’ipotetica pole position delle fermate obbligate
potrebbe vedere al primo posto gli edifici di via
Santa Isabel (ai numeri civici 46, 48, 48 bis), non
lontano da quella stazione di Atocha tristemente nota per gli attacchi terroristici dell’11 marzo 2004
che causarono ben 191 morti e 2057 feriti.
Nella Casa del Rettore di via Santa Isabel san Josemaría visse dall’estate del 1934 all’agosto 1939. La
chiesa contigua fu lo scenario di celebri episodi.
Qui il giovane sacerdote ravvivò la sua umiltà di
fronte a Dio scoprendo che un giovane lattaio entrava in chiesa ogni mattina dicendo semplicemente, ma con molta devozione: «Gesù, ecco qui Juan,
il lattaio». Qui si innamorò di una piccola statua di
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Gesù bambino del XVII secolo con le guancie rosse e le braccine incrociate. Qui, durante la novena
all’Immacolata del 1931, nel ringraziamento successivo alla Messa, scrisse di getto il testo del Santo Rosario. Ma queste mura furono testimoni anche
di decisive locuzioni divine. Forse la più nota è
compendiata nel punto 933 di Cammino: «Le opere
sono amore, non i bei ragionamenti».
Fu lo stesso Josemaría a riportare sui propri Appunti intimi i retroscena dell’episodio: «16 febbraio
1932. Oggi, dopo aver dato la Santa Comunione alle monache, prima della Santa Messa, dissi a Gesù
quello che tante e tante volte gli dico, di giorno e di
notte: “Ti amo più di loro”. Immediatamente ho inteso, senza parole: “Le opere sono amore, non i bei
ragionamenti”. Vidi subito con chiarezza quanto io
sia poco generoso, e mi vennero alla mente molti
particolari cui non pensavo né davo importanza,
che mi fecero comprendere con molta evidenza la
mia mancanza di generosità. O Gesù: aiutami, perché il tuo asinello sia completamente generoso.
Opere, opere!».
La storia «interiore» di Álvaro passò senza dubbio
per Santa Isabel, per il Parco del Ritiro (tra i suoi
viali san Josemaría infiammava le anime dei primi
discepoli come del servo di Dio Isidoro Zorzano),
come per altri luoghi di culto della città: la chiesa di
san Giuseppe (via Alcalá, 43) dove fu battezzato il
17 marzo 1914; la parrocchia della Concezione di
Nostra Signora (via Goya, 26) dove ricevette la prima comunione e la cresima; la parrocchia di san
Roberto Bellarmino (via Veronica, 11) dove si prodigò per i più bisognosi.
Però, fu un luogo laicissimo a innervare ancora più
profondamente la sua vocazione. Fu l’ex Consolato
dell’Honduras al primo piano del Paseo de la Castellana, 45. Erano i tempi della guerra civile spagnola. Quando imperversava la persecuzione religiosa e bastava essere trovati con un rosario in tasca o una medaglietta della Madonna al collo per
essere messi al muro. Nel Consolato ripararono sia
san Josemaría sia Álvaro. Si confidarono. Pregarono insieme. Sognarono una grande messe apostolica e quando si spensero gli ultimi bagliori della
guerra, nel marzo del 1939, l’apostolato poté riprendere ai ritmi sospirati.
«Vieni a Valdebebas
& comincia a vivere»
La grande festa per i tantissimi pellegrini giunti a
Madrid è iniziata alle prime luci del 27 settembre: è
la data in cui si ricorda san Vincenzo de’ Paoli. Curiosamente, anche Álvaro fu legato a questo santo:
da giovane partecipò con entusiasmo alle iniziative
della Società San Vincenzo rivolte ai più poveri e in
una delle sue uscite rimediò un furibondo colpo di
chiave inglese alla testa. In quegli anni di esasperato anticlericalismo, qualcuno mal tollerava iniziative così spiccatamente cristiane.
Valdebebas è una zona periferica di Madrid, vicino
alla Fiera e all’aeroporto di Barajas e accanto alla
«cittadella» del Real Madrid (definita pomposamente la mejor ciudad deportiva del mundo, vanta
12 campi d’allenamento, studi televisivi e uno stadio da seimila posti, dove gioca la seconda squadra,
dedicato al campione Alfredo di Stefano).
Valdebebas doveva essere un’area di forte espansione, poi la crisi economica ha in buona misura
27 settembre 2014:
paralizzato i lavori. Si è completata sinora solo la
rete viaria che ha contribuito alla riuscita dell’evento: per chi non è stato a Madrid può trovare su Youtube la fisionomia della Valdebebas del futuro.
Su uno dei cavalcavia vicini alla zona della celebrazione si osservava la gigantografia di un Tir con
questo spot: «Ven a Valdebebas y empieza a vivir»
(«Vieni a Valdebebas e comincia a vivere»). Per i
pellegrini, un avviso dalle molteplici risonanze...
La lunghissima striscia d’asfalto che correva verso
la zona A1, quella del palco della cerimonia e dei
posti riservati agli anziani e ai disabili, si è presto riempita di colori, sotto lo sguardo delle nuvole un
po’ arcigne, ma alla fine clementi: bandiere di ogni
nazionalità (ma quanti sudamericani…), gonne
quadrettate di impeccabili divise di ragazze provenienti da scuole single sex, i giubbetti blu con il bollino arancione degli infaticabili volontari, gli sgargianti abiti tubolari from Africa, i sari indiani e i sai
degli ordini religiosi.
Iniziative apostoliche
in tutto il mondo
Nel percorrere i viali si contavano avventure molto
diverse. Pellegrini partiti dall’aeroporto di Verona
per una toccata e fuga di poche ore, ragazzi kenyoti disposti a dormire per giorni sul pavimento della
palestra di una scuola e sorbirsi più di dieci ore
giornaliere di pullman per andare e tornare dal santuario di Fatima. Un gruppo di ragazze che ripercorrevano il loro repertorio chitarristico e la famiglia venuta a ringraziare don Álvaro per la guarigione di un figlio o la felice conclusione di una gra-
Álvaro del Portillo Beato
vidanza. E su don Álvaro specializzato in miracoli
famigliari torneremo più avanti.
Nel settore A1 si poteva trovare un variegato campionario di storie di dedizione. Silvia Quezada, per
esempio, si è impegnata fin dagli anni Settanta con
la Fondazione Siramà (El Salvador) per promuovere la dignità della donna in una zona particolarmente povera del Paese. Edgar Umaña è venuto dal
Guatemala: fa parte del direttivo di Kinal, un centro
educativo di avviamento professionale ai confini di
una gigantesca baraccopoli. Ito Diejomaoh (Niger
Foundation Hospital) presta gratuitamente cure mediche ad alcune comunità rurali nella regione di
Enugu. Ma ci sarebbe da scrivere anche il profilo di
Mario Minami (Centro Pedreira di San Paolo), Juan
Humberto Salazar (Educar, Valle del Chalco in
Messico) o Anabelle Brown (Developmental Advocacy for Women Volunteerism, Manila, Filippine) e
di cento altri con loro…
Don Álvaro, come prelato dell’Opus Dei, viaggiò
moltissimo per accudire spiritualmente i suoi figli:
sono stati calcolati 198 viaggi pastorali in 42 diversi Paesi per la bellezza di 408.082 km percorsi (per
avere un’idea, è circa dieci volte la circonferenza
del globo). Ma don Álvaro ebbe una speciale predilezione per i Paesi in via di sviluppo. È anche per
soddisfare i suoi desideri di Padre che si è voluto
chiedere ai pellegrini di Madrid un aiuto per quattro
progetti molto specifici: la costruzione di un padiglione maternità per il Niger Foundation Hospital
and Diagnostic Center (Nigeria), l’avvio di un programma per sradicare la malnutrizione infantile a
Bingerville (Costa d’Avorio), lo sviluppo di quattro
ambulatori in una zona difficile della Repubblica
del Congo che permetterà di accudire diecimila
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I grandi viali di Valdebebas gremiti di pellegrini. Nella pagina accanto, il piccolo cileno José Ignacio Ureta Wilson ascolta le ultime raccomandazioni della mamma mentre si accinge a recare sull’altare le reliquie del nuovo Beato. La guarigione di José Ignacio, riconosciuta miracolosa per intercessione di don
Álvaro, avvenuta il 2 agosto 2003, ha concluso l’iter della beatificazione.
bambini ogni anno e, infine, un buon numero di
borse di studio per seminaristi africani che vogliano
prepararsi al sacerdozio a Roma.
La sterminata assemblea
& l’altare
Qualche immagine per ricostruire l’attesa della beatificazione. Intanto, in molti sono rimasti impressionanti dagli avveniristici confessionali che sembravano un’interminabile serie di vele da surf (si
erano già usati per la GMG madrilena). E che peccato che il Corriere della sera abbia dedicato all’evento soltanto una gallery di foto con il maldestro
titolo: «Madrid, confessione di massa per la beatificazione del numero due dell’Opus Dei».
Poi, le scatole di cartone. Ossia le sedie «usa e getta»
che hanno consentito a moltissimi di potersi sedere
durante la cerimonia (le sedie in plastica erano solo
nei primissimi settori). Qualche capogruppo ha anche
usato le scatole, al posto dei più consueti ombrelli, per
guidare il proprio piccolo gregge verso la zona asse-
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gnata. Eroici quelli che si sono ritrovati con il biglietto dalla zona C in poi. Da quella posizione in giù era
impossibile infatti anche scorgere il palco, complice
la conformazione a schiena d’asino del vialone centrale di Valdebebas: questi fedelissimi di don Álvaro
hanno benedetto la tecnologia dei tanti megaschermi
che hanno garantito la «copertura» dell’evento.
Qualche curiosità. Seicento persone da tutto il mondo hanno contribuito a preparare le vesti per i sacerdoti: dopo la beatificazione sono state offerte alle Chiese giovani o di Paesi perseguitati come l’Iraq, il Venezuela, le Filippine o l’Uganda.
I giornalisti accreditati sono stati più di 300, da 18
Paesi diversi e più di 30 reti televisive hanno chiesto di poter trasmettere la cerimonia.
Dopo la Spagna, lo Stato che ha contato il maggior
numero di pellegrini è stato il Messico (3.175 iscritti), seguito dall’Italia (2.136 presenze, ma qualcuno
si sarà «imbucato»…) e dalle Filippine (1.732 pellegrini). Da notare che hanno partecipato alla cerimonia anche persone provenienti da regioni in cui
non è ancora presente il lavoro apostolico dell’Opus
Dei come gli Emirati Arabi Uniti e Cuba.
27 settembre 2014:
Uno zoom sul palco. L’altare, l’ambone e la sede del
celebrante sono state le stesse della beatificazione dei
martiri di Tarragona (13 ottobre 2013). Alla destra
dell’altare la serigrafia (6 metri di altezza per 4,5 metri di larghezza) con il volto del nuovo Beato, a sinistra, invece, una bella immagine della Vergine dell’Almudena, la rassicurante patrona di Madrid.
All’inizio della cerimonia il postulatore, don Javier
Medina Bayo, ha letto un brano dal Decreto sulle virtù del Venerabile Servo di Dio (28-6-2012): «Il suo
amore alla Chiesa si manifestava nella totale comunione con il Romano Pontefice e i vescovi: fu sempre
figlio fedelissimo del Papa. Dando prova di un’adesione indiscussa alla sua persona e al suo magistero».
Don Álvaro è stato un silenzioso servitore della
Chiesa anche in periodi complicati, come durante il
Concilio Vaticano II, quando, per esempio, dovette
seguire i lavori per il Decreto Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita dei sacerdoti, che però fu
approvato il 7 dicembre 1965 con solo quattro voti
contrari sui 2.394 padri conciliari. Sul suo spirito di
servizio, sono significative le parole dell’allora
card. Ratzinger: «Ricordo la modestia e la disponi-
Álvaro del Portillo Beato
bilità in qualunque circostanza che caratterizzano il
lavoro di mons. Del Portillo come consultore per la
Congregazione della Dottrina della fede, istituzione
che contribuì ad arricchire in modo singolare con la
sua competenza ed esperienza, come ho avuto modo di comprovare personalmente» (Lettera al Vicario generale dell’Opus Dei, 23 marzo 1994).
E a Valdebebas è stato tangibile vedere l’affetto della Chiesa per don Álvaro. Presenti 18 cardinali, 160
vescovi e 300 sacerdoti. Tra i cardinali, oltre al celebrante, il cardinal Angelo Amato, prefetto della
Congregazione per le Cause dei santi, il card. Antonio Cañizares Llovera (prefetto della Congregazione per il Culto), l’arcivescovo emerito di Madrid,
card. Carlos Amigo Vallejo, i cardinali Francesco
Monterisi, George Pell, Gerhard Ludwig Müller
(prefetto della Congregazione per la Dottrina della
fede), Jean-Louis Tauran (Pontificio consiglio per il
Dialogo interreligioso), Juan Luis Cipriani, Julián
Herranz, Robert Sarah (Presidente Pontificio consiglio «Cor unum»), Stanislaw Rylko (Presidente
Pontificio consiglio per i Laici).
E, ancora, gli arcivescovi di San Juan de Cuyo (Argentina), Lagos (Nigeria), Guayaquil (Ecuador),
Cagayan de Oro (Filippine), Johannesburg (Sudafrica), Maracaibo (Venezuela), Kitui (Kenya), Maronita (Brasile), Kaisiadorys (Lituania), Ebibeyin
(Guinea Equatoriale) e tantissimi altri. Naturalmente presente anche l’attuale prelato dell’Opus Dei,
mons. Javier Echevarría, che tra le migliaia di persone presenti è stato colui che più intensamente ha
conosciuto la santità del nuovo Beato.
Folta anche la rappresentanza delle autorità civili,
come il ministro dell’Interno spagnolo, Jorge Fenández Díaz, e quello dell’Economia, Luis de Guindos, l’ex sindaco di Madrid, José María Martínez
Alegre o gli ambasciatori di Colombia, Polonia,
Svizzera, El Salvador.
Il miracolo del piccolo
José Ignacio
La causa di beatificazione è iniziata nel marzo del
2004 dopo che più di duecento tra vescovi e cardinali ne hanno chiesto l’apertura: negli anni sono stati
ascoltati ben 133 testimoni, tra cui 19 cardinali e 12
vescovi o arcivescovi e sono giunte 13.300 relazioni
di favori attribuiti all’intercessione di don Álvaro.
Il 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha dichiarato l’eroicità delle virtù di don Álvaro e la sua fama di
santità. Lo «sprint» finale per la beatificazione è
stato il miracolo del piccolo José Ignacio, riconosciuto da Papa Francesco il 5 luglio del 2013.
Una storia sorprendente risalente al luglio 2003 in
Cile. José Ignacio nasce dopo una gravidanza travagliata. In passato gli era stata diagnosticata un’ernia
a livello ombelicale, ma la situazione si complica in
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Lunghe file sorridenti ai confessionali e
molta devozione nel distribuire e nel ricevere la Comunione.
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modo vertiginoso dopo la nascita. Il cuore di José
Ignacio fa le bizze. Deve essere operato: all’ernia e al
cuore. Il 2 agosto sopraggiunge un’emorragia devastante al pericardio. Il cuore smette di battere per
mezz’ora. Sembra tutto finito. Così la madre ha raccontato quelle drammatiche circostanze in un’intervista reperibile su www.opusdei.it: «I medici lo stavano dando per morto, perché non reagiva al massaggio cardiaco né al resto. Ma quando stavano per
desistere, il cuore di José Ignacio ha ricominciato a
battere. L’emorragia comunque era stata massiva.
Ricordo che fu il dottor Felipe Heusser, cardiologo
dell’Università cattolica, che ci disse che José Ignacio aveva recuperato la frequenza cardiaca, ma aveva avuto un’emorragia nella zona del pericardio e intorno al rene. Siamo andati a vederlo e il suo colore
era spettrale, provammo una gran pena. Le unghie
sembravano viola: come mi spiegarono era una conseguenza della mancanza di ossigeno. Per tutto il
giorno le preghiere furono intense». Nonostante il
parere dei medici e grazie alla preghiera incessante
dei genitori a don Álvaro, il cuore di José Ignacio si
stabilizzò e riprese a fare il suo dovere.
La madre ha spiegato ancora: «Ricordo che il medico di turno ci disse che il dottor Heusser era venuto
a chiedere a che ora della notte era morto José Ignacio. È un dettaglio che mi è rimasto impresso, perché
è la stessa cosa che il medico chiese al padre di san
Josemaría quando ebbe una grave malattia da bambino. Il dottor Heusser mi confermò di non aver mai
pensato che il bambino avrebbe potuto sopravvivere.
Ripeteva costantemente quanto sorprendente fosse il
recupero. Ci chiese chi avevamo pregato...».
Adesso José Ignacio è un bambino come tanti altri,
innamorato del calcio, che tifa per il Colo-Colo, ma
che ha una particolare predilezione per Alexis Sánchez e Lionel Messi. E, puntualizza ancora la madre: «Gli piace anche il tennis, non si stanca mai di
ballare: ama la musica e ogni tanto a casa canta canzoni inventate da lui e balla seguendo i ritmi più diversi. Al matrimonio di sua zia stette tutto il tempo
a ballare fino a quando la festa non finì...».
Uno dei momenti più emozionanti del 27 settembre è
stato quando José Ignacio con la sua giacca blu e i
pantaloni bianchi, e accompagnato da mamma Susana e papà Javier, ha portato vicino all’altare il reliquiario con qualche goccia del sangue di don Álvaro.
Organizzazione impeccabile
& professionalità del coro
La celebrazione è iniziata con le note del canto Mi
alma bendice al Señor: all’interno di un’organizzazione impeccabile, è spiccata la professionalità del
coro: 250 voci coordinate da Marina Makhmoutova, che aveva avuto già questo incarico per la Giornata Mondiale della gioventù di Madrid.
Tra le «sorprese» riservate agli organizzatori, una
lunga lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus
Dei imperniata su una frase cara a don Álvaro: «Mi
piace ricordare la giaculatoria che il servo di Dio
era solito ripetere, specialmente nelle feste e negli
anniversari personali: “Grazie, perdono, aiutami di
più!”. Sono parole che ci avvicinano alla realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare nuovo slancio alla nostra vita cristiana».
Tra gli altri interessanti «fuori programma» del 27
settembre, anche un articolo molto positivo del
27 settembre 2014:
Washington Post a firma di John Allen, che negli
anni scorsi aveva dedicato più di un anno di lavoro
a un’inchiesta confluita nel libro Opus Dei: An Objective Look Behind the Myths and Reality of the
Most Controversial Force in the Catholic Church
(tradotto in Italia da Sperling).
Il card. Amato nella sua omelia ha ripercorso gli
snodi dell’esistenza del nuovo Beato, soffermandosi sulla sua umiltà: «C’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario,
ritenendola uno strumento indispensabile di santità
e di apostolato: la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva
da alcuni semplici atti di devozione popolare, come,
per esempio, salire in ginocchio la Scala Santa a
Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala
Santa perché si considerava un cristiano maturo e
ben formato, il nostro Beato rispose con un sorriso,
aggiungendo che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria pesante per la molta gente e la scarsa
ventilazione. Fu una grande lezione di semplicità e
di pietà. Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore
Gesù, che non era venuto per essere servito ma per
servire. Per questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico Adoro Te devote, latens deitas. Così
come rifletteva sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas
Ejemplares: “Sin humildad, no hay virtud que lo
sea” (“Senza umiltà non c’è vera virtù”). E spesso
pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei:
“Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies”. Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era la casa della carità. Ripeteva un consiglio
Álvaro del Portillo Beato
che dava spesso il fondatore dell’Opus Dei, citando
le parole di san Giuseppe Calasanzio: “Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più
umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo”».
Alla Comunione sono apparsi gli ormai consueti
ombrelli bianchi o gialli portati dai volontari per individuare con più facilità i sacerdoti, ed eventualmente ripararli dalla pioggia. Come era già accaduto per la beatificazione e la canonizzazione di san
Josemaria, il momento è stato contraddistinto da un
raccoglimento impressionante. Uno dei mille volti
della festa per don Álvaro. Tra l’altro, moltissimi
conventi della Spagna hanno fornito le ostie necessarie e, nei giorni precedenti la beatificazione, il comitato organizzatore si è visto recapitare una gigantesca cassa proveniente da una comunità di Elche,
contenente ventimila particole. Era accompagnata
da una sola frase: «Per ringraziare don Álvaro».
La gratitudine
del Prelato
Prima della conclusione della cerimonia, mons. Javier Echevarría si è così confidato all’assemblea:
«Al termine di questa celebrazione desidero manifestare la mia più profonda gratitudine alla Santissima Trinità per il dono che oggi ha fatto a tutta la
Chiesa. La elevazione agli altari di don Álvaro del
Portillo, successore di san Josemaría Escrivá, ci ricorda ancora una volta la chiamata universale alla
santità, proclamata con grande forza dal Concilio
Vaticano II. L’itinerario terreno del beato Álvaro ci
dimostra che il perfetto compimento dei propri doveri contrassegna il cammino della santificazione
personale, la via che conduce alla piena unione con
Dio, alla quale tutti dobbiamo aspirare».
667
Intorno alle 14 di sabato la gratitudine era il sentimento che traboccava sul volto dei duecentomila
pellegrini. La fiumana delle persone si è poi dispersa in modo ordinato sul perfetto asfalto di Valdebebas. I più fortunati sono stati quelli che «sfidando» gli organizzatori sono riusciti a parcheggiare a meno di mezz’ora a piedi dall’area riservata all’evento.
In tanti si sono poi dati appuntamento nella caotica
movida madrilena. Ogni pellegrino ha continuato a
celebrare il gran giorno a modo suo. Chi davanti a
una cerveza ghiacciata, chi scegliendo una varietà di
prosciutto sui tavolini del Museo del Jamón, chi in-
zuppando i churros fritti nella cioccolata di un antico locale accanto a Plaza Major (la leggendaria
Chocolateria San Gines). Ognuno con il proprio
racconto della beatificazione, che difficilmente potrà essere cancellato dalla memoria. Tutti con la consapevolezza di aver toccato con mano un ricorrente
incoraggiamento di san Josemaría: «Sonad y os quedereis cortos». «Sognate e la realtà supererà i vostri
sogni più audaci». È questa, in fondo, la sintesi di
don Álvaro. Il saxum, così amava chiamarlo san Josemaría, che continua a indicare il buon cammino.
Alessandro Rivali
«Grazie, perdono, aiutami di più»
Lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus Dei
In occasione della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo, Papa Francesco ha inviato a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, questa lettera che il vicario generale dell’Opera, mons. Fernando Ocáriz, ha letto all’inizio della cerimonia. Nella foto, il Papa e il Prelato al termine dell’udienza del 1° ottobre in Piazza San Pietro.
Caro fratello,
la beatificazione del servo di Dio Álvaro del Portillo, collaboratore fedele e primo successore di san
Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei, è un
momento di gioia speciale per tutti i fedeli della
prelatura, come pure per te, che sei stato così a lungo testimone del suo amore a Dio e agli altri, della
sua fedeltà alla Chiesa e alla propria vocazione. Desidero unirmi anch’io alla vostra gioia e rendere
grazie a Dio che adorna il volto della Chiesa con la
santità dei suoi figli.
La sua beatificazione avverrà a Madrid, la città in cui
nacque e in cui trascorse l’infanzia e la giovinezza,
con un’esistenza forgiata nella semplicità della vita
famigliare, nell’amicizia e nel servizio agli altri, come quando si recava nei quartieri estremi per collaborare alla formazione umana e cristiana di tante persone bisognose. Lì, soprattutto, ebbe luogo l’evento
che segnò definitivamente l’indirizzo della sua vita:
l’incontro con san Josemaría Escrivá, dal quale imparò a innamorarsi di Cristo ogni giorno di più. Sì,
innamorarsi di Cristo. Questo è il cammino di santità che deve percorrere ogni cristiano: lasciarsi amare
dal Signore, aprire il cuore al suo amore e permettere che sia lui a guidare la nostra vita.
Mi piace ricordare la giaculatoria che il servo di
Dio era solito ripetere, specialmente nelle feste e
negli anniversari personali: «Grazie, perdono, aiu-
668
tami di più!». Sono parole che ci avvicinano alla
realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con
il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare
nuovo slancio alla nostra vita cristiana.
Anzitutto, grazie. È la reazione immediata e spontanea che prova l’anima dinanzi alla bontà di Dio.
Non può essere altrimenti. Egli ci precede sempre.
Per quanto ci sforziamo, il suo amore giunge sempre prima, ci tocca e ci accarezza per primo, è primo sempre. Álvaro del Portillo era consapevole dei
tanti doni che Dio gli aveva concesso e lo ringraziava per quella dimostrazione di amore paterno.
Però, non si fermò lì; il riconoscimento dell’amore
27 settembre 2014:
del Signore risvegliò nel suo cuore desideri di seguirlo con maggiore dedizione e generosità e di vivere una vita di umile servizio agli altri. Era notorio il suo amore per la Chiesa, sposa di Cristo, che
servì con un cuore spoglio di interessi mondani,
alieno alla discordia, accogliente con tutti e sempre
alla ricerca del buono negli altri, di ciò che unisce,
che edifica. Mai un lamento o una critica, nemmeno in momenti particolarmente difficili, piuttosto,
come aveva imparato da san Josemaría, rispondeva
sempre con la preghiera, il perdono, la comprensione, la carità sincera.
Perdono. Confessava spesso di vedersi davanti a
Dio con le mani vuote, incapace di rispondere a tanta generosità. Peraltro, la confessione della povertà
umana non è frutto della disperazione, ma di un fiducioso abbandono in Dio che è Padre. È aprirsi alla sua misericordia, al suo amore capace di rigenerare la nostra vita. Un amore che non umilia, non fa
sprofondare nell’abisso della colpa, ma ci abbraccia, ci solleva dalla nostra prostrazione e ci fa camminare con più decisione e allegria. Il servo di Dio
Álvaro conosceva bene il bisogno che abbiamo della misericordia divina e spese molte energie per incoraggiare le persone con cui entrava in contatto ad
accostarsi al sacramento della confessione, sacramento della gioia. Com’è importante sentire la tenerezza dell’amore di Dio e scoprire che c’è ancora
tempo per amare.
Aiutami di più. Sì, il Signore non ci abbandona mai,
ci sta sempre accanto, cammina con noi e ogni giorno attende da noi un amore nuovo. La sua grazia
non ci verrà a mancare e con il suo aiuto possiamo
portare il suo nome in tutto il mondo. Nel cuore del
nuovo beato pulsava l’anelito di portare la Buona
Novella a tutti i cuori. Percorse così molti Paesi
dando impulso a progetti di evangelizzazione, senza preoccuparsi delle difficoltà, spronato dal suo
amore a Dio e ai fratelli. Chi è profondamente immerso in Dio sa stare molto vicino agli uomini. La
prima condizione per annunciare loro Cristo è
amarli, perché Cristo li ama già prima. Dobbiamo
uscire dai nostri egoismi e dai nostri comodi e andare incontro ai nostri fratelli. Lì ci attende il Signore. Non possiamo tenere la fede per noi stessi, è
un dono che abbiamo ricevuto per donarlo e condividerlo con gli altri.
Grazie, perdono, aiutami! In queste parole si esprime la tensione di una vita centrata in Dio. Di chi è
stato toccato dall’Amore più grande e di quell’amore vive totalmente. Di chi, pur avendo l’esperienza
delle debolezze e dei limiti umani, confida nella misericordia del Signore e vuole che tutti gli uomini,
suoi fratelli, ne facciano anch’essi l’esperienza.
Caro fratello, il beato Álvaro del Portillo ci invia un
messaggio molto chiaro, ci dice di fidarci del Signore, che egli è il nostro fratello, il nostro amico
che non ci defrauda mai e che sta sempre al nostro
fianco. Ci incoraggia a non temere di andare controcorrente e di soffrire per l’annuncio del Vangelo.
Ci insegna infine che nella semplicità e nella quotidianità della nostra vita possiamo trovare un cammino sicuro di santità.
Chiedo, per favore, a tutti i fedeli della prelatura,
sacerdoti e laici, e a tutti i partecipanti alle vostre attività, di pregare per me, mentre impartisco la Benedizione Apostolica.
Gesù vi benedica e la Santa Vergine vi protegga.
Fraternamente,
Francesco
«L’umiltà apre la porta della santità»
Omelia del card. Angelo Amato nella Messa di beatificazione
«Pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa» è questo il ritratto che Papa
Francesco fa del beato Álvaro del Portillo, pastore
buono, che, come Gesù, conosce e ama le sue pecore, conduce all’ovile quelle smarrite, fascia le
ferite di quelle malate, offre la vita per loro (cfr Ez
34, 11-16; Gv 10,11-16).
Il nuovo Beato, da giovane fu chiamato alla sequela di Cristo per essere dopo zelante ministro della
Chiesa e per manifestare a tutti la gloriosa ricchezza del suo mistero salvifico: «È lui [Cristo] che noi
annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo
con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in
Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza
Álvaro del Portillo Beato
che viene da lui e che agisce in me con potenza»
(Col 1, 28-29). E la proclamazione di Cristo salvatore egli la fece con una modalità di assoluta fedeltà alla croce e, allo stesso tempo, di esemplare letizia evangelica nelle difficoltà. Per questo oggi la liturgia gli applica le parole dell’apostolo: «Perciò
sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e
completo quello che nella mia carne manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la
Chiesa» (Col 1, 24).
La letizia nelle prove e nelle sofferenze è una caratteristica dei santi. Del resto le beatitudini, anche
quelle più ardue come le persecuzioni, non sono altro che un inno alla gioia.
669
Il card. Angelo Amato accoglie i doni all’offertorio della Messa di beatificazione.
Sono molte le virtù – come la fede, la speranza, la
carità – che il nostro Beato visse con eroismo. Ma
questi suoi abiti virtuosi egli li interpretò alla luce
delle beatitudini della mitezza, della misericordia,
della purezza di cuore. Le testimonianze sono concordi al riguardo. Oltre all’estrema sintonia spirituale e apostolica con il suo santo Fondatore, anch’egli fu una figura di grande umanità.
I testimoni affermano che, fin da piccolo, Álvaro era
un ragazzo di carattere allegro e studioso, che mai
diede problemi («un chico de carácter muy alegre y
muy estudioso, que nunca dio problemas»); era simpatico, semplice, gioioso, responsabile, buono («Era
cariñoso, sencillo, alegre, responsable, bueno»)1.
Dalla mamma Donna Clementina aveva ereditato la
proverbiale serenità, la delicatezza, il sorriso, la comprensione, l’attenzione a dir bene delle persone, l’equilibrio nel giudizio. Era un autentico gentiluomo.
Non era verboso. La sua formazione scientifica di ingegnere gli permettevano rigore mentale, concisione
e precisione per andare subito al cuore dei problemi e
risolverli. Ciò incuteva rispetto e ammirazione.
Alla squisitezza del tratto univa una eccezionale ricchezza spirituale, nella quale dominava la grazia dell’unità tra vita interiore e instancabile apostolato. Lo
scrittore Salvador Bernal afferma che egli trasforma-
670
va in poesia l’umile prosa del lavoro quotidiano2.
Era esempio vivente di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa, al magistero del Papa. Trovandosi nella basilica di
San Pietro, a Roma, era solito recitare il Credo presso la tomba dell’Apostolo e una Salve Regina davanti all’immagine di Maria, Mater Ecclesiae.
Rifuggendo da ogni personalismo, comunicava più
che i suoi pareri, la verità del Vangelo e l’integrità
della tradizione. La sua vita spirituale era nutrita di
pietà eucaristica, di devozione mariana e di venerazione dei santi. Frequenti giaculatorie e preghiere
vocali rendevano viva e continua la presenza di
Dio. Abituali erano le invocazioni: Cor Iesu Sacratissimum et Misericors, dona nobis pacem!, come
anche Cor Mariae Dulcissimum, iter para tutum.
Continue erano le invocazioni mariane, come Santa Maria, speranza nostra, ancella del Signore, sede della Sapienza.
Portatore del «buon
profumo di Cristo»
Una tappa decisiva della sua vita fu la chiamata all’Opus Dei. A 21 anni, nel 1935, dopo aver incontrato l’allora trentatrenne san Josemaría Escrivá de Balaguer, rispose generosamente alla chiamata del Signore, che per lui significava anche una vocazione alla santità e all’apostolato. Aveva un profondo sentimento di comunione filiale, affettiva ed effettiva con
27 settembre 2014:
il Santo Padre, del quale accoglieva con riconoscenza
il magistero, facendolo conoscere a tutti i fedeli dell’Opus. Negli ultimi anni della sua vita baciava spesso l’anello prelatizio che gli era stato regalato dal Papa, per confermare la sua piena adesione ai desideri
del Sommo Pontefice, quando soprattutto chiedeva la
preghiera e il digiuno per la pace, per l’unità dei cristiani, per l’evangelizzazione dell’Europa.
Appartenevano al suo abito virtuoso gli atteggiamenti di prudenza e rettitudine nel valutare gli
eventi e le persone; di giustizia nel rispetto dell’onore e della libertà delle persone; di fortezza nel resistere alle avversità fisiche e morali; di temperanza, vissuta come sobrietà, mortificazione interiore
ed esteriore. Il nostro Beato fu portatore del buon
profumo di Cristo (bonus odor Christi: 2 Cor 2,
15), profumo di santità autentica.
Ma c’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario, ritenendola uno
strumento indispensabile di santità e di apostolato:
la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva da alcuni semplici atti di devozione popolare, come, per esempio,
salire in ginocchio la Scala Santa a Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala Santa perché si
considerava un cristiano maturo e ben formato, il
nostro Beato rispose con un sorriso, aggiungendo
che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria
pesante per la molta gente e la scarsa ventilazione3.
Fu una grande lezione di semplicità e di pietà.
Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore Gesù, che non
era venuto per essere servito ma per servire. Per
questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico
Adoro Te devote, latens deitas. Così come rifletteva
sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas Ejemplares: «Sin
humildad, no hay virtud que lo sea» («Senza umiltà non c’è vera virtù»)4. E spesso pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei: «Cor contritum et
humiliatum, Deus, non despicies».
Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era
la casa della carità5. Ripeteva un consiglio che dava
spesso il Fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di san Giuseppe Calasanzio: «Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile;
se vuoi essere santissimo, sii umilissimo». Non dimenticava nemmeno che era stato un asino il trono
di Gesù all’entrata in Gerusalemme. Anche i suoi
compagni di studi, oltre a rilevare la sua straordinaria intelligenza, ne mettono in risalto la semplicità,
l’innocenza serena di chi non ha alcun complesso di
superiorità nei confronti del prossimo. Riteneva come suo peggior nemico la superbia. Un testimone
afferma che era l’umiltà in persona6.
Álvaro del Portillo Beato
Si trattava non di una umiltà aspra, appariscente,
esasperata, ma amabile, gioiosa. La sua letizia derivava dalla convinzione di non valere molto. All’inizio del 1994, ultimo anno della sua vita terrena, in una riunione disse: «Lo dico a voi e lo dico
a me stesso. Occorre lottare tutta la vita per giungere a essere umili. Abbiamo la scuola meravigliosa di umiltà del Signore, della Santissima Vergine
e di san Giuseppe. Dobbiamo imparare. Dobbiamo
lottare contro il proprio io che si alza costantemente come una vipera, per mordere. Ma siamo sicuri,
se rimaniamo vicino a Gesù che è della stirpe di
Maria, ed è lui che schiaccerà la testa del serpente»
(«Os lo digo a vosotros, y me lo digo a mí mismo.
Tenemos que luchar tota la vida para llegar a ser
humildes. Tenemos la escuela maravillosa de humildad del Señor, de la Santísima Virgen y de San
José. Vamos a aprender. Vamos a luchar contra el
proprio yo que está constantemente alzándose como una víbora, para morder. Pero estamos seguros
si estamos cerca de Jesús que es del linaje de María, y es el que aplastará la cabeza de la serpiente»7).
Per lui l’umiltà era la chiave per aprire la porta della santità, mentre la superbia era il grande ostacolo
per vedere e amare Dio. Diceva: «L’umiltà ci sottrae la maschera di cartone, ridicola, che portano le
persone presuntuose soddisfatte di se stesse» («La
humildad nos arranca la careta de cartón, ridícula,
que llevan las personas presuntuosas, pagadas de
sí mismas»8). L’umiltà è il riconoscimento dei nostri limiti ma anche della nostra dignità di figli di
Dio. Il miglior elogio della sua umiltà lo scrisse una
signora appartenente all’Opus, dopo la morte del
Fondatore: «Chi è morto è stato don Álvaro, perché
il nostro Padre continua a vivere nel suo successore» («El que ha muerto ha sido D. Álvaro, porque
nuestro Padre sigue vivo en su sucesor9»).
«Pastore secondo
il cuore di Gesù»
Un cardinale testimonia che quando leggeva il tema
dell’umiltà nella Regola di San Benedetto o negli
Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, gli
sembrava di contemplare un ideale altissimo, inarrivabile all’essere umano. Ma quando incontrò e
conobbe il nostro Beato capì che l’umiltà spinta fino alla radice era possibile.
Si possono applicare al nostro Beato le parole che
l’allora cardinale Ratzinger pronunciò nel 2002 in
occasione della canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei. Parlando della virtù eroica, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede
disse: «Virtù eroica propriamente non significa che
uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché lui è
671
stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio
[...]. Questa è la santità10».
È questa la consegna che fa a noi oggi il beato Álvaro del Portillo «pastore secondo il cuore di Gesù,
operoso ministro della Chiesa». Ci invita a essere
santi come lui, vivendo una santità amabile, misericordiosa, gentile, mite e umile.
La Chiesa e il mondo hanno bisogno del grande
spettacolo della santità, per bonificare, con il suo
buon profumo, i miasmi dei tanti vizi ostentati con
arrogante insistenza.
Abbiamo oggi più che mai bisogno di una ecologia della santità, per contrastare l’inquinamento
del malcostume e della corruzione. I santi ci invitano a immettere nel seno della Chiesa e della società l’aria pura della grazia di Dio, che rinnova la
faccia della terra.
Maria Ausiliatrice dei cristiani e Madre dei santi ci
aiuti e ci protegga.
Beato Álvaro del Portillo, prega per noi. Amen.
Card. Angelo Amato
Prefetto della Congregazione
per le Cause dei santi
Positio (2010) I p. 27.
Ivi, p. 30.
Ivi. p. 662.
Ivi, p. 663.
5 Agostino, De sancta virginitate, 51.
6 Ib. p. 668.
7 Positio I p. 675.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 705.
10 Ivi, p. 908.
«La fedeltà è il nome dell’amore»
Omelia del Prelato dell’Opus Dei alla Messa di ringraziamento
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri come io ho amato voi»: «Ut diligatis invicem, sicut dilexi vos» (Gv 15, 12). Cari fratelli e
sorelle, queste parole del Vangelo risuonano oggi
nella mia anima come una gioia nuova, considerando che la gente che ieri affollava questo luogo, in
piena comunione con Papa Francesco e con quanti
ci erano vicini dai quattro punti cardinali, non era
propriamente una folla ma la riunione di una famiglia unita dall’amore di Dio e dall’amore mutuo.
Questo stesso amore oggi diventa ancora più forte
nell’Eucarestia, in questa Messa di ringraziamento
per la beatificazione del carissimo don Álvaro, vescovo, prelato dell’Opus Dei.
Il Signore, nell’istituire l’Eucarestia, rese grazie a
Dio Padre per la sua eterna bontà, per la creazione
uscita dalle sue mani, per il suo misterioso disegno
di salvezza. E noi lo ringraziamo di quell’amore infinito manifestato sulla Croce e anticipato nel Cenacolo. E chiediamo al Signore: come dobbiamo fare per amare come tu ci hai amato? Per amare come
tu hai amato Pietro e Giovanni, ciascuno di noi, e
anche san Josemaría e il beato Álvaro?
Guardando alla vita santa di don Álvaro, scopriamo
la mano di Dio, la grazia dello Spirito Santo, il dono
di un amore che ci trasforma.
E accogliamo nel profondo dell’anima, facendola
nostra, quella preghiera di san Josemaría che tante
volte ripeté il nuovo Beato: «Dammi, Signore, l’Amore con cui vuoi che io ti ami1», affinché io sappia amare gli altri con il tuo Amore e con il mio po-
672
vero sforzo. Allora gli altri scopriranno nella mia
vita la bontà di Dio, come avvenne nel cammino
quotidiano di don Álvaro: in questa Madrid tanto
amata nella sua solidarietà con i più poveri e abbandonati si percepiva la misericordia divina. Ci riempie di gioia che nella seconda lettura della Messa ci sia stata ricordata la presenza di Cristo in noi,
che ci riveste «di tenerezza, di bontà, di umiltà, di
mansuetudine, di magnanimità» (Col 3, 12).
«Dio ci amava ancor prima
che nascessimo»
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo Iddio chiedendogli ancora più amore. Nella maturità della giovinezza, quando aveva 25 anni, don Álvaro era già «saxum», una roccia, per san Josemaría. Con la sua
umiltà, un giorno scrisse in una lettera al Fondatore
dell’Opus Dei queste parole: «Io nutro l’aspirazione che, malgrado tutto, Lei possa fidarsi di uno che,
più che roccia, è fango privo di ogni solidità. Ma il
Signore è tanto buono!2». Tale sicurezza nella bontà divina può impregnare anche tutta la nostra esistenza. «Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore
e la tua fedeltà», abbiamo ripetuto con il Salmo responsoriale (Sal 138 [137], 2). E innalziamo la nostra gratitudine alla Santissima Trinità perché resta
con noi con la sua Parola, Gesù stesso (cfr Col 3,
16), e con il suo Spirito, che ci colma di gioia (cfr
Gv 15, 11; Lc 11, 13) e ci permette di rivolgerci a
27 settembre 2014:
Mons. Javier Echevarría ha presieduto la
Messa di ringraziamento il 28 settembre.
Al suo fianco, il card. Salvatore De Giorgi.
Dio, pieni di fiducia, chiamandolo «Abba, Pater»:
«Padre! papà!».
«La trinità della terra ci condurrà alla Trinità del
Cielo3», ripeteva don Álvaro seguendo gli insegnamenti e l’esperienza del Fondatore dell’Opus Dei.
Gesù, Maria e Giuseppe ci guidano al Padre e allo
Spirito Santo; nella santa umanità di Cristo scopriamo la divinità, inseparabilmente unita a essa4.
La Sacra Famiglia! Con le parole della prima lettura, benediciamo il Signore «che fa crescere i nostri
giorni fin dal seno materno, e agisce con noi secondo la sua misericordia» (Sir 50, 24). Il testo sacro ci
fa presente che Dio ci amava ancor prima che nascessimo. Mi vengono in mente i versi che Virgilio
indirizza a un neonato: «Incipe, parve puer, risu
cognoscere matrem» (Virgilio, Egloga IV, 60): «Incomincia, piccolo bambino, a riconoscere tua madre dal sorriso». Il neonato scopre l’universo a poco a poco; nel volto di sua madre, pieno d’amore, in
quel sorriso che lo accoglie, l’esserino appena venuto al mondo scopre un riflesso della bontà di Dio.
Nella giornata odierna che il Santo Padre Francesco
ha dedicato alla preghiera per la famiglia, anche noi
ci uniamo alle suppliche di tutta la Chiesa per quella «communio dilectionis», quella «comunione d’a-
Álvaro del Portillo Beato
more5», quella «scuola6» del Vangelo, la famiglia,
come diceva Paolo VI a Nazareth. La famiglia, con
il «dinamismo interiore profondo dell’amore7», ha
una grande «fecondità spirituale8», come insegnò
san Giovanni Paolo II, a cui il beato Álvaro era unito da una filiale amicizia.
Nel ringraziare don Álvaro, ringraziamo i suoi genitori che lo hanno accolto ed educato, che hanno
preparato in lui un cuore semplice e generoso pronto a ricevere l’amore di Dio e rispondere alla sua
chiamata. «Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Don
Álvaro è stato così: un uomo che con il sorriso sulle labbra benediceva Dio che «compie grandi cose»
(Sir 50, 24), e che si è servito di lui per il servizio
della Chiesa, estendendo l’Opus Dei, come fedele
figlio e successore di san Josemaría.
Preghiamo affinché molte famiglie siano «focolari... luminosi e allegri, come quello della Sacra Famiglia9», citando parole di san Josemaría. La nostra
gratitudine si innalza a Dio per il dono della famiglia, riflesso dell’eterno amore trinitario, luogo in
cui ognuno sa di essere amato per sé stesso, così com’è. E ringraziamo adesso anche tutti i padri e le
madri di famiglia qui riuniti, e tutti coloro che si occupano dei bambini, degli anziani, dei malati.
Famiglie: il Signore vi ama, il Signore è presente
nel vostro matrimonio, che è un’immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. So che voi, molti
673
Don Javier Medina Bayo, Postulatore della Causa
di beatificazione, ha letto un brano del Decreto
sulle virtù eroiche di mons. Álvaro del Portillo.
di voi, vi dedicate generosamente a sostenere altri
coniugi nel cammino della fedeltà, che aiutate molti altri focolari ad andare avanti in un contesto sociale spesso difficile o addirittura ostile. Coraggio!
Il vostro impegno nella testimonianza e nell’evangelizzazione è necessario per tutto il mondo. Ricordatevi quello che ha detto l’amato Benedetto XVI:
«La fedeltà nel tempo è il nome dell’amore10».
«Trasmettere ciò che
abbiamo ricevuto»
«Siate riconoscenti» è l’esortazione di san Paolo
(Col 3, 15). Il beato Álvaro, pensando a quanto doveva a san Josemaría, affermava che «la migliore
manifestazione di riconoscenza è fare buon uso dei
doni ricevuti11». Nella sua predicazione, nelle tertulie, in incontri personali, dappertutto, non tralasciava mai di parlare di apostolato e di evangelizzazione. Per perseverare nell’amore di Dio che abbiamo
ricevuto, dobbiamo condividerlo con gli altri; la
bontà di Dio tende a diffondersi. Papa Francesco diceva che «nella preghiera il Signore ci fa sentire
questo amore, ma anche attraverso tanti segni che
possiamo leggere nella nostra vita, tante persone
che mette sul cammino. E la gioia dell’incontro con
Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma
ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa12».
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv
15, 16). Il Signore, dopo aver ribadito che l’iniziativa è sempre sua, nel primato del suo amore ci manda a diffondere il suo amore per tutte le creature: «Vi
ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (ibidem). «Manete in dilectione
mea»: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Rimanere nel Signore è necessario per dare un frutto capace di affondare, a sua volta, delle radici profonde.
674
Gesù lo ha appena detto ai suoi discepoli: «Rimanete
in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto
da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi
se non rimanete in me» (Gv 15, 4).
La folla di questi giorni, i milioni di persone in tutto
il mondo, e tante altre che ci aspettano già in Cielo,
testimoniano all’unisono la fecondità della vita di
don Álvaro. Vi invito, sorelle e fratelli, a restare, a
operare nell’amore del Signore: nell’orazione, nella
Messa e nella Comunione frequente, nella Confessione sacramentale, affinché tutti noi, fortificati dalla
predilezione divina, sappiamo trasmettere ciò che
abbiamo ricevuto, e sappiamo farlo attraverso un autentico apostolato di amicizia e confidenza.
Nella lettera che l’amato Papa Francesco mi ha
scritto in occasione della beatificazione di ieri, ci
diceva che «non possiamo tenere la fede per noi
stessi, è un dono che abbiamo ricevuto per donarlo
e condividerlo con gli altri13»; e aggiungeva che il
beato Álvaro «ci incoraggia a non aver paura di andare controcorrente e di soffrire per annunciare il
Vangelo», e inoltre «ci insegna che nella semplicità
e quotidianità della nostra vita possiamo trovare un
cammino sicuro di santità14».
In questo cammino, assieme a molti angeli, ci accompagna la Santissima Vergine. Maria è Figlia di
Dio Padre, Madre di Dio Figlio, Sposa e Tempio di
Dio Spirito Santo. È Madre di Dio e Madre nostra,
la Regina della famiglia e la Regina degli apostoli.
Che Lei ci aiuti, come ha fatto con il beato Álvaro,
a seguire l’invito del Successore di Pietro: «Lasciarsi amare dal Signore, aprire il cuore al suo
amore e permettere che sia lui a guidare la nostra
vita15», come chiese tante volte san Josemaría alla
Vergine dell’Almudena, molto amata e venerata in
questa arcidiocesi. Così sia.
Mons. Javier Echevarría
Prelato dell’Opus Dei
1
San Josemaría Escrivá, Forgia, n. 270.
Beato Álvaro del Portillo, Lettera a san Josemaría, Olot, 13
luglio 1939.
3 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 30 settembre 1975.
4 Cfr Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale in occasione delle Nozze d’Oro della fondazione dell’Opus Dei, 24 settembre
1978.
5 Venerabile Paolo VI, Allocuzione a Nazareth, 5 gennaio 1964.
6 Ibidem.
7 San Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale
«Familiaris consortio», n. 41.
8 Ibidem.
9 San Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 22.
10 Benedetto XVI, Omelia a Fatima, 12 maggio 2010.
11 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 1 luglio 1985.
12 Francesco, Discorso, Aula Paolo VI, 6 luglio 2013.
13 Francesco, Lettera a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, in occasione della beatificazione di Álvaro del Portillo celebrata a Madrid il 27 settembre 2014.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
2
27 settembre 2014:
Tavola rotonda
romana
Analisi della
biografia/1
J
Il primo
successore
di san Josemaría
Il volume di Javier Medina Bayo Álvaro del Portillo. Primo successore di
san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano
2014, pp. 760, euro 22) ha fornito lo spunto per un approfondimento non
solo biografico sulla figura del nuovo Beato. Alla tavola rotonda del 18 settembre 2014, nell’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce, moderata da Cesare Cavalleri, hanno preso la parola, dopo il saluto del
prelato dell’Opus Dei, il card. Francesco Monterisi (foto), padre Antonio
Maria Sicari, la sen. Emma Fattorini e la prof. Maria Vittoria Marini Clarelli, i cui interventi sono pubblicati in queste pagine. Da p. 688, gli interventi della tavola rotonda milanese.
avier Medina Bayo, nel redigere il volume
che oggi presentiamo, si è avvalso di una
documentazione che noi possiamo dire «eccezionale», per dimensioni e contenuti: ha utilizzato, fra
l’altro, gli Archivi dell’Opus Dei e della Santa Sede, gli scritti e le dichiarazioni di tanti testimoni, in
gran parte de visu, a cominciare dall’attuale prelato
dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, che è vissuto per ben quarantaquattro anni con mons. del
Portillo. Don Medina ha consultato poi diversi professori ed esperti della storia dell’Opus Dei, e in
particolare il postulatore della Causa di beatificazione di mons. Álvaro, e cioè mons. Flavio Capucci, il quale ha presentato alla Congregazione delle
Cause dei Santi una Positio in tre volumi, di 2.340
pagine complessive, curata da lui e composta a più
mani, come si suole dire (cfr p. 537).
Di fatto, la caratteristica di questa biografia che subito balza agli occhi è quella di essere veramente «do-
Álvaro del Portillo Beato
cumentata», come raramente si trova fra le vite dei
santi, anche oggi. Le citazioni, dalle fonti più varie e
disparate, sono indicate nelle Note collocate alla fine
del volume e occupano più di 90 pagine (pp. 633725). Le Note stesse, con i rispettivi commenti, aiutano moltissimo a entrare nel vivo della narrazione
delle vicende e della bell’anima di don Álvaro. Alla
fine del volume vi sono anche un’Appendice documentale e una Cronologia della vita di don Álvaro,
molto utili alla lettura e alla comprensione del testo.
Sul contenuto di questa biografia, si può dire che
l’Autore innanzitutto espone in successione storica il dipanarsi della vita di don Álvaro, con precisione e abbondanza di informazioni: dalla sua nascita e formazione alle prime responsabilità, dalla
sua adesione all’Opus Dei al suo insediamento a
Roma e, via via, alle sue attività come procuratore, segretario generale e quindi prelato dell’Opus
Dei e al lavoro per il Concilio ecumenico Vatica-
675
no II e per i dicasteri della Santa Sede.
Le vicende della vita di mons. Álvaro sono inquadrate, con pericopi brevi ed essenziali ma incisive,
nei contesti storici, civili ed ecclesiastici che toccarono o talvolta condizionarono le fasi dell’esistenza
del futuro Beato: la Guerra di Spagna, la Seconda
guerra mondiale, la Guerra fredda, la situazione italiana e mondiale: dal punto di vista ecclesiale, la
creazione e lo sviluppo dell’Opus Dei guidata da san
Josemaría Escrivá, il Concilio, le modifiche da esso
apportate nella Chiesa e nella Curia romana, con il
susseguirsi dei Papi da Pio XII a Giovanni Paolo II.
Ma tengo soprattutto a sottolineare che l’impianto
storiografico della biografia si intreccia armonicamente con la descrizione del carattere, delle doti, delle virtù e della spiritualità di don Álvaro. Questa simbiosi mi sembra il pregio più notevole di questa biografia. Cioè, la narrazione della storia e l’osservazione dell’anima di mons. del Portillo sono ben combinate e compenetrate l’una nell’altra. La lettura risulta piacevole, molto interessante e coinvolgente.
Infine, il racconto e le riflessioni procedono in forma
piana, certamente con viva passione e partecipazione
d’animo dell’Autore, ma non c’è traccia di quell’enfasi celebrativa o «oleografica» che spesso appare in
tante biografie di santi. Questo perché parlano da sé
stesse le vicende della vita di mons. del Portillo, a
volta paradossali e straordinarie (come quelle del riuscito passaggio dal territorio controllato dalle forze
«repubblicane» a quello dell’esercito «nazionale»
verso la fine della Guerra di Spagna, nel 1938; cfr pp.
109-113). Ma sono altrettanto rivelatrici della sua
personalità anche le notizie su fatti semplici, personali, familiari e comunitari, talvolta pure comici, descritti con vivacità in questo libro.
Da tutto il volume emerge con naturalezza la figura
sovrastante di un uomo di fede, affettuoso e generoso, sacrificato e cordiale, semplice e grande, quale fu
il prelato dell’Opus Dei mons. Álvaro del Portillo.
Sicurezza, serenità,
buonumore
Il carattere dell’imminente Beato si delineava già
nella sua fanciullezza e gioventù. Fu considerato da
alcuni parenti «deciso ed energico, ma unito a grande affabilità»; i genitori e altri familiari descrissero
il piccolo Álvaro talvolta «alquanto brusco, persino
discolo» (di fatto, aveva fatto solo qualche marachella come di solito fanno i fanciulli). In realtà era
un ragazzo «vivace e risoluto», nonostante qualche
tratto di «timidezza». Per questa sua riservatezza –
egli stesso lo racconta – al momento di iscriversi all’università, scelse la facoltà di Ingegneria e non
quella di Giurisprudenza, come aveva fatto suo padre, perché preferiva la professione più «discreta»
degli ingegneri a quella «pubblica» degli avvocati.
676
Questo temperamento era comunque «accompagnato da una grande bontà». Un compagno di scuola lo ricorda come un «bambino normalissimo, ma
diverso in questo: che aiutava costantemente gli altri». Da alunno intelligente e responsabile della
scuola Nuestra Señora del Pilar, retta dai Marianisti a Madrid, ricevette voti alti, tanto da essere
iscritto nel Libro d’Oro dell’Istituto. Soprattutto, in
tale scuola e in famiglia, ricevette un’ottima formazione religiosa, che profondamente si impresse nel
suo cuore. Aveva poi un costante buonumore, con
senso di sicurezza e serenità, mantenendolo anche
nelle difficoltà. Per esempio, faceva delle «battute»
con i fratelli sulla stretta dieta che doveva seguire a
colazione a causa dei medicinali al salicilico prescritti per guarire da un’affezione reumatica: «Che
fortunaccia (suertasa) avete! A voi uovo fritto e fagioli, a me solo salicilati» (pp. 39 e ss.).
Ovviamente, queste doti specifiche di carattere e di
spirito si sarebbero poi arricchite e perfezionate nel
corso delle vicende della vita, ma sempre nello stesso senso. Di fatto, san Josemaría Escrivá colse subito la ricchezza d’animo del giovane Álvaro fin da
quando questi cominciò ad accostarsi all’Opus Dei,
all’età di 21 anni. Ne riconobbe subito il temperamento deciso e forte, insieme alla bontà d’animo.
Lo chiamò in seguito «Saxum» e gli spiegò che questo titolo stava per «Roccia, fortezza, fondamento,
paternità» (p. 125). («Saxum» è il nome che è stato
dato alla Casa di Ritiri spirituali che l’Opus Dei sta
costruendo in Terra Santa, presso Abu Gosh; speriamo che la beatificazione di mons. Álvaro ne affretti la conclusione).
Tornando alle caratteristiche dell’animo di mons.
del Portillo, mi limito a segnalarne tre. Innanzitutto
la sicurezza, la serenità d’animo e anche il buonumore. Fu un uomo di pace. Nato a Madrid nel 1914,
morto a Roma nel 1994, visse in un secolo segnato
da guerre e divisioni. Basti ricordare la Guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale, il mondo
diviso in blocchi. Nella Chiesa, sentì profondamente la sofferenza delle persecuzioni comuniste, le divisioni del Concilio e le tensioni del periodo postconciliare; infine, anche prima del suo arrivo a Roma nel 1946 e fino alla morte, ebbe un impegno veramente arduo, anche se esaltante, di accompagnare i primi passi e di espandere l’Opus Dei. In totale
obbedienza al fondatore san Josemaría e affrontando difficoltà di ogni genere – viaggiando spesso in
Europa e negli altri continenti –, don Álvaro sapeva
mantenere un atteggiamento di calma, di sicurezza,
di decisione, fondato certamente nella sua fiducia e
nel suo amore per Cristo e frutto della sua volontà
affinata nelle prove.
Il giovane Álvaro mostrò queste disposizioni già
quando, ancora ventenne e quindi prima di aderire
all’Opus Dei, fu assalito da un gruppo di facinorosi
anticlericali, da cui ricevette un colpo di chiave in-
27 settembre 2014:
L’Aula Magna della Pontificia Università della
Santa Croce durante il saluto di mons. Javier
Echevarría. Da sinistra, Cesare Cavalleri, Emma Fattorini, il card. Francesco Monterisi, Maria Vittoria Marini Clarelli, p. Antonio Maria Sicari, Javier Medina Bayo.
glese alla testa, all’uscita da una parrocchia di Madrid nella quale insegnava il catechismo. Non si
diede in recriminazioni e lagnanze. Il medico che
poi lo curò diceva alla madre: «Che ragazzo coraggioso! Non si lamenta mai!» (p. 60).
Negli anni ‘50, durante la costruzione di Villa Tevere, sede centrale dell’Opus Dei a Roma (costruzione che san Josemaría aveva in pratica affidato
totalmente a don Álvaro), non di rado mancavano le
risorse economiche ed egli, vivendo in strettezze,
era afflitto da dolori e febbri frequenti. Ricordando
quei tempi, mons. del Portillo scriveva: «Tutte le
difficoltà si sommavano, comprese quelle materiali
che, sebbene non ci togliessero la pace, ci portavano via molto tempo». Si aggiunse anche il fatto che
delle persone interessate presentarono un’ingiusta
querela contro i lavori che si stavano realizzando.
Egli, pur sapendo di avere pienamente ragione,
scelse la via del dialogo e con serenità e pazienza
incontrò i denuncianti, riuscendo a calmarne gli
animi. Alla fine le denunce furono respinte dalle autorità competenti. «Si tratta di preoccupazioni che
non preoccupano», diceva don Álvaro riferendosi a
questi avvenimenti (pp. 237 e ss.).
Agli inizi degli stessi anni ‘50, ci fu una pericolosa
e dolorosa campagna di calunnie contro l’Opus Dei,
sollevata da varie parti (pp. 275 e ss.). Se ne presentò poi un’altra ancora più dura, dal 1983 in poi,
subito dopo l’erezione dell’Opus Dei in prelatura
personale, durante la quale le contestazioni si diffusero in diversi Paesi europei, proprio per diffamare
l’Opera (pp. 446 e ss.). Nella prima, ma soprattutto
nella seconda, quando mons. del Portillo era prelato, egli affrontò questi attacchi con grande serenità
Álvaro del Portillo Beato
e pace. Questi sentimenti infuse anche nei suoi collaboratori e fedeli, incoraggiandoli a mantenere la
visione soprannaturale e a non cedere alla dinamica
della contrapposizione. Il libro di don Medina riferisce diversi episodi di quel periodo burrascoso (si
mossero il prof. Hans Küng e, purtroppo, anche il
teologo Urs von Balthasar; cfr p. 449). Mons. Álvaro chiamava «aneddoti» questi episodi, come a
sminuirne la drammaticità, e manteneva la calma,
interna ed esteriore, propria di chi scorge in tutto la
mano di Dio. Tuttavia, non mancò di difendere l’Opus Dei (e anche il Papa e la Chiesa, pure attaccati
in quel periodo post-conciliare), usando i mezzi
umani più adatti alla situazione, ma con spirito sereno e leale verso tutti.
Un padre amorevole
Una seconda caratteristica di fondo dell’animo di
mons. del Portillo fu lo spirito di paternità e amore,
aiuto agli altri, concretizzato in iniziative sociali.
Come detto prima, il piccolo Álvaro era un ragazzo
«normalissimo, ma si distingueva perché aiutava
molto i compagni di scuola». Da giovane, durante gli
anni ‘20 e ‘30, si dedicò alle necessità dei più deboli; si recava tra i poveri di Madrid per assisterli, pri-
677
ma con gli amici della San Vincenzo de’ Paoli; poi
con gli universitari del primo Centro dell’Opera.
La sollecitudine per le necessità del prossimo rimase una costante nella sua vita. Nella Roma del periodo della guerra e in quello post-bellico, si adoperò molto per il sostentamento di molti fedeli e specialmente dei membri dell’Opus Dei che vi giunsero per studiare nelle Università ecclesiastiche.
Quando poi divenne prelato, seppe ispirare decine e
decine di iniziative in tutto il mondo sul piano sociale: scuole urbane e rurali, centri di formazione,
ospedali. Quando si recava in un posto in Africa o in
America Latina, cercava di scoprire quali erano le
necessità più urgenti delle popolazioni. Quindi, con
il suo solito spirito sereno ma determinato, incoraggiava i fedeli dell’Opus Dei del luogo a darsi da fare per mettere in piedi qualche iniziativa per rispondere a tali necessità. E poi, con costanza, seguiva
queste opere affinché arrivassero a piena maturità.
Qualcuno le ha radunate in una mappa che mostra
come le «ispirazioni sociali» di don Álvaro siano arrivate praticamente in tutti i continenti. Il capitolo di
questo libro sui «viaggi pastorali» di mons. Álvaro
riportano i dati principali su questo suo interessamento di tipo «sociale» (cfr pp. 452-477).
Il campo principale della sua paternità spirituale furono naturalmente i sacerdoti e i fedeli dell’Opus
Dei. Metteva grande attenzione al buon andamento
del Collegio Romano e della Pontificia Università
della Santa Croce, ma anche dell’Università di Navarra e di altri centri di formazione, perché specialmente in tali istituzioni si formano, con i membri
dell’Opera, moltissimi altri fedeli. Aveva un affettuoso rapporto con tutti e singoli, fin dal primo incontro. Seguiva lo sviluppo delle vocazioni nell’Opera, sia con contatti personali, sia almeno con una
fitta corrispondenza. Tipica la sua vicinanza a un
malato che andava a incontrare spesso in un ospedale di Zurigo, o ai ricoverati nella clinica dell’Università Navarra, o nel Campus Biomedico di Roma.
Tutti concordano nel riconoscere che mons. del Portillo, fu un autentico «Pastore buono» della prelatura personale (pp. 356 e ss.; pp. 403 e ss.).
Fedeltà alla Chiesa
& al Papa
Infine, il tratto più distintivo della sua personalità è
stata la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa, all’Opus
Dei e al suo fondatore. Del resto, questa fedeltà non
era che «fedeltà a Cristo», poiché il Signore si rivelava a don Álvaro, dietro le figure del Papa e di san
Josemaría, come in filigrana. Si può dire che tutte le
pagine di questa biografia, a ogni piè sospinto, sono ricche di episodi e di dichiarazioni di fedeltà di
don Álvaro a san Josemaría e alla Chiesa. In un momento di forte crisi generale, in un mondo spesso
678
lacerato dalle rotture e dalle opposizioni alla Chiesa e ai suoi insegnamenti, il libro ci mostra un sacerdote e vescovo che ha speso tutta la vita nel promuovere il grande valore della fedeltà, che dà dinamismo a tutta la vita. La sua è stata, infatti, una «fedeltà dinamica», come la descrisse il card. Julián
Herranz. Nella «fedeltà e continuità» con l’azione e
il carisma del fondatore, don Álvaro diede un impulso e un ampliamento straordinario all’Opus Dei.
Innanzitutto, la fedeltà di mons. Álvaro al Papa e alla Chiesa era nella scia dello spirito «romano» che
san Josemaría aveva infuso nell’Opera, in maniera
forte e concreta, non solo nei suoi Statuti. Per don
Álvaro era una gioia e un gesto di fede poter essere
ammesso a udienze personali con i Papi succedutisi durante il suo soggiorno a Roma, da Pio XII a san
Giovanni Paolo II. Tali udienze sono state sempre
una testimonianza del suo amore per il Papa e talvolta anche risolutive di alcuni problemi dell’Opus
Dei. Don Álvaro era molto legato al fatto di aver ricevuto la consacrazione episcopale dal Papa, il 6
gennaio 1991. Il volume narra che mons. del Portillo, da prelato, con una certa frequenza toccava il
suo anello pastorale e lo baciava. Don Álvaro stesso ne raccontò il perché: alla fine di un’udienza con
san Giovanni Paolo II, aveva rivolto questa preghiera al Papa: «Santo Padre, vorrei che Lei indossasse un momento questo anello». Glielo diede, e il
Papa se lo mise al dito. Quando glielo restituì, don
Álvaro disse al pontefice: «Quest’anello mi ha dato
sempre il senso della presenza di Dio, perché è il
simbolo della mia unione con l’Opus Dei… Ma
adesso che Vostra Santità lo ha indossato, mi darà
anche la presenza del Papa» (p. 404).
Mons. del Portillo lavorò molto per la Chiesa prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, con
giorni e notti passati a studiare, leggere e comporre
testi e pareri (mirabile il suo lavoro per la redazione del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis).
In seguito, ebbe varie nomine a membro e consultore di importanti dicasteri della Curia. Quando
mons. Fernando Ocáriz ricevette la nomina a consultore della Congregazione della Dottrina della Fede, gli disse: «Se sei chiamato a un lavoro per la
Santa Sede, bisogna rispondere sempre di sì» (p.
412). Così aveva sempre fatto lui stesso, pur sapendo il sacrificio che ogni nuovo lavoro per la Santa
Sede comportava. (Purtroppo, per mancanza di
tempo, non posso parlare della sua profonda cultura teologica e giuridica, delle sue pubblicazioni tradotte e apprezzate in tutto il mondo).
San Giovanni Paolo II, come i suoi predecessori,
aveva una profonda stima di mons. Álvaro. Lo dimostrò in particolare quando si recò a visitarne e
benedire le spoglie a Villa Tevere, il giorno stesso
della morte, il 23 marzo 1994 (p. 528). Da Gerusalemme, pochi giorni prima, don Álvaro aveva
scritto una cartolina al Segretario del Papa, mons.
27 settembre 2014:
Stanislao Dziwisz, per pregarlo di «presentare al
Papa il nostro desiderio di essere fideles usque ad
mortem nel servizio della Santa Chiesa e al Santo
Padre» (p. 528).
Nel libro appaiono impressionanti anche l’amore e
la fedeltà di mons. del Portillo all’Opus Dei e al suo
fondatore. Paolo VI, all’indomani dell’elezione di
mons. Álvaro a successore di san Josemaría, gli
aveva detto: «Lei, quando deve risolvere un problema, si metta alla presenza di Dio e si domandi: in
questa situazione che farebbe il mio fondatore? E
agisca di conseguenza. Dica a tutti i suoi figli e a
tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del
fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora –, con efficacia, con profondità e
con ampiezza» (p. 357).
La sintonia tra san Josemaría e don Álvaro fu totale e perfetta. Si stimavano e si amavano di cuore.
Mi devo limitare a indicare questo dato generale,
ma i fatti e le espressioni di questo amore e di questa stima sono innumerevoli in questa biografia. Mi
limiterò a dire che don Álvaro, alla morte del fondatore, tra i tanti compiti richiesti dalla guida dell’Opus Dei, si propose e riuscì a ottenere due obiettivi fondamentali: la beatificazione di mons. Josemaría Escrivà, il 17 maggio 1992, e l’approvazione
dell’Opus Dei come prelatura personale, con la
Bolla pontificia Ut Sit del 19 marzo 1993.
La beatificazione era molto importante per sottolineare l’esempio di santità del fondatore dell’Opus
Dei per tutta la Chiesa; ma sottolineava anche l’amore e la stima di mons. Álvaro e di tanti per san Josemaría. Si può dire che, pur con enorme lavoro,
questo obiettivo fu raggiunto senza grandi scosse. A
differenza del secondo obiettivo, cioè l’approvazione
dell’Opus Dei come prelatura personale. Questa co-
stituiva una vera e propria novità nella Chiesa, ma
era indispensabile per definire l’identità stessa dell’Opera e il suo carisma. Il carisma dell’Opus Dei,
come sappiamo, è l’appello ai cristiani a raggiungere
la santità nello svolgimento delle proprie attività e
professioni, da «secolari», com’è la loro condizione
di vita. La prelatura personale avrebbe avuto anch’essa il carattere secolare; i suoi sacerdoti non sono «religiosi» con la vita comune e i voti, ma «secolari»; i suoi fedeli laici hanno anche compiti direttivi. L’Opera ha comunque un’estensione a carattere
mondiale, guidata da un prelato, con sede a Roma, in
stretta comunione con il Papa. Per raggiungere questa approvazione definitiva dalla Santa Sede, don Álvaro, forte delle sue competenze giuridiche, aveva
lavorato fin dal suo ingresso nell’Opera, insieme a
san Josemaría, ma fu lui, con determinazione e con
grande lavoro di approfondimento e convinzione
presso personalità e uffici della Santa Sede e dell’episcopato, a ottenere il risultato, «contro venti e marosi», come si suol dire. Sono appassionanti e istruttive le pagine del libro su questa vicenda.
Mi piace concludere con alcune espressioni non mie.
Nell’epilogo del libro vengono riferite queste parole
del nostro amato prelato, mons. Javier Echevarría.
Esse, mi sembra, veramente sintetizzano tutto della
personalità di mons. Álvaro del Portillo e del significato della sua beatificazione: «Don Álvaro ha servito costantemente la Chiesa proprio perché ha assecondato nostro Padre (san Josemaría) come un “figlio fedelissimo”» (p. 540). Sono certo che la sua
beatificazione sarà un bene immenso, per la Chiesa e
per l’Opus Dei.
Card. Francesco Monterisi
Arciprete emerito della Basilica papale
di San Paolo fuori le Mura
Il carisma del beato Álvaro del Portillo
di Antonio Maria Sicari
La santità di un cristiano è sempre legata al fedele
compimento della missione che Dio gli assegna.
Nel caso di Álvaro del Portillo – chiamato a essere
il primo collaboratore e il primo successore di san
Josemaría Escrivá – è perciò necessario rifarsi al
carisma del fondatore, per vedere come egli lo abbia assimilato e vissuto.
In Mutuae Relationes (1978) – uno dei primi documenti del Magistero in cui è stata affrontata tale
questione – si legge: «Il carisma dei Fondatori si rivela come un’esperienza dello Spirito, da essi trasmessa ai propri discepoli, per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente svi-
Álvaro del Portillo Beato
luppata, in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita» (n. 11).
Studiando molti anni fa la questione, mi è sembrato
che gli elementi costitutivi di tale carisma (di fondatore e di fondazione) si potessero descrivere così:
l Lo Spirito Santo, in un particolare momento della storia della Chiesa e per rispondere a particolari necessità dei fedeli, getta, per così dire, una luce
nuova sul mistero di Cristo: da tale luce viene illuminato tutto il mistero cristiano (dato che esso non
può mai essere frammentato), ma secondo una particolare prospettiva unificante.
679
l Lo Spirito Santo, con lo stesso unico getto di luce, brucia il cuore del carismatico (del futuro «fondatore») che s’innamora del Signore Gesù e del suo
mistero amorosamente e indimenticabilmente contemplato in quella speciale prospettiva che gli è stata offerta.
l Lo Spirito Santo, con questa stessa duplice e indivisibile luce, fa risaltare una specifica drammaticità della situazione ecclesiale, alle cui necessità
il carismatico sente di dover dare risposta, con opere molteplici corrispondenti all’illuminazione ricevuta.
l Lo Spirito Santo mobilita tutte le energie, naturali e soprannaturali, del carismatico perché possa
fedelmente adempiere il compito che gli è affidato,
e diffonde la sua «luce» anche su coloro che questi
raduna attorno a sé come discepoli, non solo nei
primi tempi della sua missione, ma anche nel corso
della storia durante cui quel carisma si prolungherà
e si consoliderà.
l Lo Spirito Santo illumina anche i responsabili
della Chiesa, perché possano discernere il carisma,
possano accoglierlo e valorizzarlo, e possano armonizzarlo con gli altri doni, perché serva all’edificazione dell’unico corpo ecclesiale.
l Lo Spirito Santo, nei successivi momenti della
storia, farà sì che la stessa luce originaria si proietti ancora su necessità nuove e inedite della Chiesa
e del mondo: in tal modo la fedeltà allo stesso e
identico carisma si coniugherà con forme nuove di
servizio ecclesiale e missionario»1.
680
Forse doveva essere meglio precisato l’apporto ineliminabile dei «discepoli» e soprattutto dei primi
«compagni» del fondatore, senza i quali non si darebbe «fondazione». Questo rapporto di solito viene raccontato secondo una molteplicità di immagini: la
piantagione, la famiglia, la casa, il corpo, il gregge2.
L’immagine più decisiva resta comunque quella
della generazione: il fondatore si percepisce ed è
percepito come un padre (a volte perfino come una
madre!), e i discepoli si percepiscono come figli,
tanto che il fondatore può dire loro, con san Paolo:
«Io vi ho generati in Cristo Gesù».
Non mancano nella storia casi dolorosi in cui al fondatore viene a mancare (almeno parzialmente) tale sequela, al punto che egli stesso si trova poi messo in disparte ed è costretto a soffrire una certa distorsione
negli scopi o nei metodi della sua opera.
Così non ne mancano altri in cui i discepoli iniziano presto a «interpretare il fondatore», provocando
conflitti e divisioni tra i seguaci di uno stesso carisma. E non mancano fondatori ai quali toccano in
sorte discepoli piuttosto sbiaditi e seriali. Per grazia
di Dio, se il carisma originario viene davvero dallo
Spirito Santo ed è davvero necessario alla Chiesa,
nel corso della storia, tra i discepoli, sorge poi qualche santo a dargli nuovo splendore ed efficacia.
È ovvio tuttavia che la fedeltà dei discepoli al carisma del fondatore è condizione ineliminabile, se si
vuole assecondare generosamente l’iniziativa dello
Spirito Santo; fedeltà tanto più necessaria quanto
più il carisma presenta aspetti di novità, che potrebbero essere male interpretati: sia da chi – in nome
della novità – vorrebbe rifiutarli, sia da chi – in nome della stessa novità – vorrebbe impadronirsene.
Tale era il caso del carisma di san Josemaría Escrivá, chiamato ad anticipare con forza una delle più
belle conquiste del futuro Concilio ecumenico Vaticano II: la solenne proclamazione della vocazione
universale dei fedeli alla santità3.
Purtroppo, tutto quello che so del nuovo Beato l’ho
letto nella Biografia che oggi viene presentata4, e
posso solo parlarvi di ciò che, leggendola, mi ha
particolarmente colpito.
Ciò che maggiormente vi risalta è l’incontro felice
tra un fondatore ricco di carisma e di passione per i
drammi della Chiesa (del suo e del nostro tempo) e
un primo discepolo, presto riconosciuto come tale.
Il nome che deve essere dato a questo «incontro felice» è la parola «fedeltà», ma intesa in senso molto profondo e bidirezionale, che va, cioè, dal fondatore-Padre al discepolo-figlio e dal discepolo-figlio
al fondatore-Padre.
Unione di mente
& di cuore col fondatore
Fedeltà è la prima e l’ultima parola (oltre che la più
ricorrente) che legge chi prende in mano la biografia
su don Álvaro. Già nel titolo originario era scritto: Álvaro del Portillo. Un hombre fiel (peccato che sia stato tolto nella traduzione italiana) e nella quarta di copertina si leggono queste parole di san Josemaría rivolte a tutti gli altri discepoli: «Álvaro ha la fedeltà
che voi dovete avere sempre, e ha saputo sacrificare
con un sorriso tutto ciò che aveva di personale...».
A p. 70 poi leggiamo: «Álvaro ricevette un carisma
particolare: la coscienza precisa che poteva condurre
la missione che Dio gli affidava soltanto vivendo in
totale unione di mente e di cuore col fondatore. Era
convinto che la sua strada d’identificazione con Gesù passasse dalla sequela fedele di san Josemaría:
questo era il “canale regolamentare”». E viene citata
la risposta che egli stesso diede a Cesare Cavalleri in
un’intervista del 1992: «Mi considero, con un santo
orgoglio – anche se immeritatamente da parte mia –
figlio spirituale del fondatore e debitore insolvente...
Mi unisce, pertanto, al Padre la filiale immensa stima
che ho di lui, tanto perché mi diede sempre un esempio di santità eroica quanto perché fu lo strumento
del Signore per farmi trovare la mia vocazione, che è
la ragione della mia vita».
Quando Álvaro si presentava in pubblico assieme a
Josemaría tutti notavano l’affinità che li legava,
27 settembre 2014:
espressa perfino nello sguardo. Lo
zioni di don Álvaro con il fondatore.
sottolinea bene questa bella testimoUsciti dalla basilica, san Josemaría
nianza di Luis Prieto, uno studente
gli domandò: “Álvaro, che cosa hai
ventenne che lo conobbe già nel
chiesto alla Vergine?”. “Vuole che
1945: «Ebbi la sensazione che “usasglielo dica?”, rispose don Álvaro.
se” il suo talento a servizio del fonPoiché il fondatore aveva assentito,
datore, con tanta naturalezza e didisse: “Ebbene ho ripetuto ciò che
screzione che i suoi interventi nemdico sempre, ma come se fosse la
meno si notavano. […] Fra i due traprima volta. Le ho detto: ti chiedo
spariva l’esistenza di una tale sintociò che ti chiede il Padre”» (p. 260).
nia che, per comprendersi, a don ÁlAntonio Maria Sicari
l «In una lettera a san Josemaría –
varo bastavano poche parole o uno
scritta nel gennaio del 1944, in occasione di uno dei
sguardo del fondatore per interpretare discretamensuoi viaggi fuori Madrid per motivi di studio –, si
te il suo volere e andare rapidamente a compiere
vede come egli valutasse il fatto di vivere così viciquanto richiesto [...]. Era tale l’unità di volontà che
no a quel santo sacerdote: “Come sempre, molto
a volte restava il dubbio su a chi attribuire l’iniziacontento: ma anche, come al solito, con quel tanto di
tiva di un intervento» (p. 201).
tristezza che si mescola alla mia gioia quando mi seLa fedeltà risaltava perfino nelle formule spirituali
paro dal Padre. Per questo mi costa tanta fatica parche trasmetteva, dato che egli si preoccupava di
tire da Madrid. Capisco bene che è una sciocchezza,
chiarire fin dall’inizio agli ascoltatori: «L’importanma è la vita! Padre: ho un’enorme voglia di essere
te non è quel che dirò io, l’importante è ciò che lo
una persona buona e di lavorare davvero nell’Opera,
Spirito Santo suggerisce nell’anima di ciascuno,
per la Chiesa. Peccato che così spesso faccia l’idiocompresa la mia» (p. 198), e precisava che «nella
ta e non mi comporti come devo! Mi raccomandi,
sua» lo Spirito faceva sempre riecheggiare le paroPadre, perché qualche volta riesca a essere uno strule del fondatore!
mento buono, davvero docile, nelle sue mani. Ogni
Sappiamo che, nella mentalità comune, una fedeltà
volta che sono lontano da Lei prego con più forza
così totale rischia di essere interpretata come passiche mai, con tutta la mia anima, per mio Padre. E
vità intellettuale e sudditanza psicologica. Ma trocosì la mia presenza di Dio aumenta, nel ricordo del
viamo, al riguardo, la forte difesa di un uomo eccePadre e nell’offrire cose per lui”» (pp. 181-182).
zionale – il cardinale Andrzej Maria Deskur, che
descriveva così «l’unità, soprannaturale e umana, di
l «Il 19 marzo 1936 Álvaro rinnovò la sua incoraffetti e intenzioni, che esisteva tra san Josemaría e
porazione all’Opera in maniera definitiva. Fu una
don Álvaro»: «Pur nella diversità dei caratteri, [escerimonia breve, semplice e al contempo solenne,
si] fanno tutt’uno nella mia memoria: Álvaro era
nel corso della quale san Josemaría soleva allora
una sorta di reduplicazione del fondatore. Non una
baciare i piedi dei suoi figli spirituali [...]. Álvaro
copia inerte, ma un ritratto vivo e fedele. Ne portaconservò indelebile per tutta la vita il ricordo di
va scolpiti nella mente gli insegnamenti e, ciò che
quel momento e la scena gli tornò in mente con forpiù conta, il suo animo aveva assimilato gli esempi
za il 27 giugno 1975, mentre pregava davanti alla
al punto che non riuscivi mai a distinguere ciò che
salma del fondatore. Prima di procedere con la seera suo da ciò che scaturiva dal contatto con il Papoltura s’inginocchiò e gli baciò i piedi. Più tardi
dre. Finché capivi che non si poteva operare questa
avrebbe spiegato il perché di quel gesto: “Mi ricordistinzione: tutto ciò che Álvaro aveva imparato dal
dai di quando il Padre li aveva baciati a me, e gli rebeato Josemaría era profondamente suo, parte di sé
stituii il bacio. Come potevo dimenticarlo? Non è
stesso, era la sua vita. Egli fu il miglior esempio
stato soltanto un gesto. Non è stata soltanto l’edella virtù della fedeltà» (p. 273).
spressione di fedeltà e di unione. Molto di più: è
stato un tornare a donare me stesso”» (p. 81).
Tre episodi emblematici
Solo questa attenta ricostruzione psicologica e spirituale ci consente di rileggere con tenerezza certi
episodi della loro vita. Vorrei sottolinearne almeno
tre che mi hanno particolarmente colpito:
l Nel gennaio 1948 fecero un rapido viaggio Loreto per affidare alla Madonna l’espansione dell’Opera in Italia. «In quella breve visita tornò a manifestarsi la profondissima unione di affetti e d’inten-
Álvaro del Portillo Beato
Sono tre episodi intensi, ma potremmo ricordarne
anche altri più semplici e famigliari:
l l’esperienza del giovane Álvaro che in un momento di grave difficoltà sente con sicurezza, da
lontano che il Padre sta pregando per lui (cfr p.
130).
l Álvaro che fa il pagliaccio in uno studio fotografico per far sorridere il fondatore che si è messo in
681
posa tutto serio, in modo che non resti poi ai suoi figli un’immagine accigliata, ma sorridente di san Josemaría (cfr p. 268).
l E ci fu anche tra loro un intenso momento di comunione mistica che il fondatore ha così annotato:
«Ricordi? – Facevamo, tu e io, la nostra orazione al
cader della sera. Si udiva, lì vicino, il rumore dell’acqua. – E, nella quiete della città castigliana, sentivamo anche voci diverse che parlavano in cento lingue,
gridandoci ansiosamente che ancora non conoscevano Cristo. Baciasti il Crocifisso senza ritegno e gli
chiedesti di essere apostolo di apostoli» (p. 265).
l Ma c’è anche un simpatico momento di sofferenza, per un contrasto di opinioni: «[Una confidenza di san Josemaría, alle sue “figlie”, alla presenza dello stesso Álvaro, durante la costruzione
degli edifici di villa Tevere]: Oggi don Álvaro mi
ha fatto una correzione. Mi è costato accettarla.
Tanto che me ne sono andato un momento in oratorio e ho detto: “Signore, Álvaro ha ragione e io no”.
Ma subito dopo: “No, Signore, questa volta ho ragione io... Álvaro non me ne fa passare neanche
una... e questo non mi sembra affetto, è crudeltà”.
E poi: “Grazie, Signore, per avermi ha messo accanto mio figlio Álvaro che mi vuol tanto bene... e
non me ne lascia passare neanche una!”». Poi si rivolge a del Portillo che, con ritrosia, ha ascoltato in
silenzio. Gli sorride e gli dice: «Dio ti benedica,
Álvaro, figlio mio!» (p. 291).
E fu alla morte del Fondatore che la bella certezza
e la certa bellezza della fedeltà giocarono tutta la loro forza: «Lo spirito con cui desiderava affrontare
quel periodo [in cui bisognava eleggere il successore] era quello che lo aveva animato per tutta la vita…: fedeltà agli insegnamenti di san Josemaría. E
la stessa cosa chiedeva i suoi fratelli: se il Padre potesse parlarci che ci chiederebbe? Penso che l’abbia
già detto a tutti: dobbiamo essere fedeli! Siatemi fedeli era il ritornello del Padre, siatemi fedeli! Mi
permetto di insistere, sorelle e fratelli miei, che è
giunta l’ora: è questo il momento di essergli più fedeli che mai, il tempo di una decisa conversione
della nostra vita a una fedeltà più piena, più fine,
più sincera, più innamorata, più generosa, a tutta
l’eredità spirituale che il Padre ci ha trasmesso, donando per noi la sua stessa vita…» (p. 347).
E raccontò che Paolo VI gli aveva appunto raccomandato di restare fedelissimo allo spirito del fondatore: «Mi diceva: “Lei, quando deve risolvere un
problema, si metta la presenza di Dio e si domandi:
in questa situazione che farebbe il mio fondatore? E
agisca di conseguenza”. Dica a tutti i suoi figli e a
tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del
fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora – con efficacia, con profondità con
ampiezza”» (p. 354; ripetuto a p. 489).
682
Una «profezia»
battesimale
Al termine di questa mia veloce lettura della biografia, mi pare di dover ancora sottolineare un altro
aspetto della sua anima che rivela la sostanza intima di quella stessa fedeltà.
Don Álvaro aveva una salute precaria ed erano innumerevoli le sofferenze fisiche che lo affliggevano. Eppure sia le sue innegabili capacità sia il ruolo che doveva svolgere accanto al fondatore, e in
suo nome, esigevano da lui una massa di lavoro impressionante, umanamente incompatibile con le forze fisiche di cui disponeva.
Ebbene: non si lamentò mai, né mai si sottrasse,
eseguendo sempre ciò che gli era chiesto anche
quando a mala pena riusciva a reggersi in piedi (cfr
p. 240; p. 301; p. 305; p. 471).
E c’è una dolce e rispettosa malinconia nel ricordo di
mons. Echevarría che – rivedendo un filmato che lo
ritraeva stanco e affaticato, ma sempre in azione –
disse ai presenti: «Chiedo scusa, perché vedo che a
don Álvaro chiedevamo più di quanto poteva dare fisicamente, e non ce ne rendevamo conto» (p. 521).
Per concludere mi è sembrato che l’espressione più
sintetica e più bella, per descrivere l’esperienza e la
missione del nostro Beato sia ancora quella coniata da
mons. Echevarría, che è stata messa a conclusione di
tutto il racconto biografico: «[Don Álvaro] ci ha offerto una personificazione convinta e convincente
dell’equazione tra felicità e fedeltà, così ricorrente
nella predicazione di san Josemaría» (p. 540).
D’altra parte come dimenticare che Josemaría era
anche il secondo nome che il piccolo Álvaro aveva
già ricevuto nel giorno del Battesimo?
Antonio Maria Sicari O.C.D.
Saggista e scrittore
1 Cfr A. M. Sicari, Gli antichi carismi nella Chiesa. Per una
nuova collocazione, Jaca Book, Milano 2002, pp. 29-30.
2 Per tutta la questione cfr. F. Ciardi, I Fondatori uomini dello
Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982.
3 Mi piace ricordare, per la sua simpatica immediatezza, la risposta che san Josémaría diede – quasi sul finire della sua vita,
durante un incontro pubblico in Brasile – a un’interrogazione
sugli inizi dell’Opera: «Ti sembra una pazzia da poco dire che
si può e si deve diventare santi nel bel mezzo della strada? Che
possono e devono diventare santi il venditore di gelati col suo
carrettino, la collaboratrice domestica che passa tutto il giorno
in cucina, il direttore di banca, il professore universitario, il contadino, il portabagagli...? Tutti chiamati alla santità! Tutto questo è stato poi raccolto nell’ultimo Concilio, ma a quel tempo –
nel 1928 – non entrava in testa a nessuno. Quindi... era logico
che mi ritenessero pazzo... Adesso sembra una cosa naturale,
ma allora non era così...».
4 J. Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san
Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Edizioni Ares, Milano 2014.
Le pagine da me citate si riferiscono tutte a questa biografia.
27 settembre 2014:
Un’eroica & fattiva «leggerezza»
di Emma Fattorini
Álvaro del Portillo ha avuto per tutta la sua vita un
rapporto specialissimo con il fondatore dell’Opus
Dei Josemaría Escrivá de Balaguer. Una relazione
davvero non solo «istituzionale» (in quanto Segretario generale dell’Opera), ma intessuta anche di
dedizione, cura, custodia; una sorta, starei per dire, di «filiazione paterna», fatta di piccoli e grandi
gesti nei quali il ruolo del padre e del figlio si
scambiavano con amorevolezza, tenerezza e
schiettezza insieme, in un rapporto costruito su
una fedeltà tenace.
Non si può ragionare sulla biografia dell’uno senza
tornare a quella dell’altro.
Il 6 ottobre del 2002 papa Wojtyla proclamava santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Vorrei ricordare
il libro scritto dal suo postulatore (F. Capucci, Josemaría Escrivá, santo, L’iter della causa di canonizzazione, Edizioni Ares, Milano 2008), che ebbi pure l’onore di presentare.
Una canonizzazione, avvenuta in tempi insolitamente rapidi, a solo 17 anni dalla morte del fondatore dell’Opus Dei. La celerità del processo fu dovuta anche all’accorciamento dei tempi delle beatificazioni, voluto da Giovanni Paolo II, che proseguì
nella riforma iniziata nel 1969 da Paolo VI.
Escrivá muore il 26 giugno del 1975 e il processo di
beatificazione, iniziato nel 1981 e conclusosi nel
1992, ha rappresentato un record assoluto per rapidità (record che poi fu superato da quello di Teresa
di Calcutta, beatificata subito dopo e in soli 6 anni).
Come sappiamo, Giovanni Paolo II avviò un numero enorme di processi di beatificazione, tanto da far
parlare qualcuno di una vera e propria «fabbrica dei
santi», modelli ispirati a una santità praticabile e
quotidiana. L’idea di santità non era quella di una
perfezione distante e irraggiungibile: i santi dovevano essere, per il Papa polacco, vicini all’esperienza
umana comune, dovevano toccare le vette dell’eccezionale a partire dall’ordinario, dal quotidiano. Questo bisogno di vicinanza e di umanizzazione del santo propone quelle che si potrebbero definire le figure
di santi vivi: si tratta di figure particolarmente carismatiche che già in vita sono state un riferimento, riconosciuto e conclamato per i credenti.
C’è una specie di assonanza, di intima sintonia tra
la scelta delle canonizzazioni di cui qui parliamo e
questo spirito, diciamo così wojtyliano, di concepire la santità.
Ricordavo, già in occasione della presentazione del
Álvaro del Portillo Beato
libro di monsignor Capucci, come tra le testimonianze contenute nella Positio, lo scritto che, a mio
avviso, meglio coglie i punti essenziali della spiritualità di Escrivá, vi fosse un breve testo di Albino
Luciani, il Papa del sorriso, del 25 luglio 1978: vedere lo straordinario nell’ordinario, la santità nella
normalità, l’abbandono a Dio, l’allegria e il buon
umore, la cura delle piccole cose. E infine l’intuizione più moderna: la santificazione del lavoro, da
vivere non come «tragico quotidiano», ma come «il
sorriso quotidiano».
Un’autentica
spiritualità laicale
Una spiritualità che si rifà alla tradizione di Francesco di Sales e che, secondo Giovanni Paolo I, Escrivá «radicalizza» proponendo non solo una «spiritualità dei laici», ma una «spiritualità laicale». Egli parla addirittura di «materializzare» la santificazione:
per lui sarebbe lo stesso lavoro materiale a trasformarsi in preghiera e santità. E così Escrivá si dichiara «anticlericale», nel senso che i laici non devono
«scopiazzare» quello che fanno i religiosi, ma crescere nella loro spiritualità iuxta propria principia,
secondo un’idea della funzione laicale che anticipa
quella del Concilio Vaticano II. Una sorta di «spiritualità materializzata», vissuta cioè nel mondo e nella vita di ogni giorno, che consente una vita all’insegna dell’unitarietà, nella quale le tante parti esistenziali si compenetrano senza scissioni. Del resto, non
è forse vero che l’attuale deficit etico ha lì la sua radice profonda: nel distacco tra ciò che si pensa e ciò
che si fa, tra ciò che si crede e ciò che si è?
La principale vocazione dei laici è fare bene e pienamente il proprio lavoro, «perché il lavoro», diceva Escrivá, «come può essere di Dio, se è fatto male, di fretta, senza competenza?». E gli faceva eco
Gilson, scrivendo nel 1949: «Ci dicono che è stata
la fede a costruire le cattedrali del Medioevo; d’accordo... ma anche la geometria». Fede e geometria,
fede e lavoro, Fides et Ratio.
In un’omelia del 1967 del fondatore dell’Opus Dei,
Amare il mondo appassionatamente, sono contenute tre affermazioni di sorprendente attualità:
l «Essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità»: pensiamo all’odierna crisi economica, alle infinite sciat-
683
Emma Fattorini
terie nelle professioni, al rinnovarsi
periodico delle furbizie nostrane.
l «Essere sufficientemente cristiani
da rispettare i fratelli nella fede che
propongono, nelle materie opinabili,
soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi»: pensiamo alle risse, alle competitività, alla mancanza di ascolto fraterno che anima
tanti credenti.
l «Essere sufficientemente cattolici
da non servirsi della Chiesa, nostra
Madre, immischiandola in partigianerie umane».
Un monito a che la Chiesa non si compiaccia e inorgoglisca di fronte a un pensiero laico fragile, non
approfitti trionfalisticamente delle macerie lasciate
dal crollo delle ideologie, capitalizzandole a proprio vantaggio, ma si proponga come madre di tutti, come voce di tutta l’umanità.
La formazione familiare
Mi sono soffermata a lungo su questa vocazione
«alla chiamata universale alla santità», anche perché essa si esprime in modo mirabile nel percorso
spirituale di don Álvaro, a proposito del quale vorrei sottolineare alcune impressioni personali ricavate dalla lettura della corposa biografia di Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore
di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano 2014). Ingegnere civile, gran lavoratore, preveggente sostenitore dell’importanza
fondamentale della ricerca scientifica e tecnica per
il futuro dell’umanità in anni in cui la cultura cattolica ne diffidava, egemonizzata com’era da un impianto quasi esclusivamente umanistico.
Forza di volontà, tenacia e fedeltà erano qualità che
si erano palesate già negli anni della sua formazione giovanile, unite a un’innata mitezza e bontà.
«Bontà, semplicità, allegria. Era profondamente
buono», così lo descrive il suo compagno di banco.
E forse a questa sua attitudine docilmente serena
eppure forte ha concorso il particolare rapporto
avuto con i genitori dei quali mi ha colpito molto
una sorta di «mescolanza» dei ruoli.
Il padre, Ramón, avvocato di una delle più importanti compagnie assicurative spagnole era «serio
ma non severo», ordinato (il figlio ricorda le penne,
i libri in perfetto allineamento), abitudinario (la
Messa alla stessa ora, la passeggiata al parco con i
figli che dovevano essere perfettamente ordinati),
puntuale («quasi maniacale»).
La madre, Clementina, era messicana, nata a Cuernavaca e cresciuta nelle haciendas di famiglia, in
mezzo alla natura e ai prodotti agricoli; era «un’ottima amazzone e montava i cavalli più focosi, che sa-
684
peva controllare e comandare in maniera ammirevole», un’audacia che
destava trepidazione. Studierà in Europa e curerà la formazione dei figli,
attentissima alla loro conoscenza delle lingue straniere. Clementina è una
donna di fede profonda, lontana dagli
stereotipi sdolcinati del devozionismo
femminile tardo ottocentesco che siamo soliti vedere attribuiti alle mamme
dei santi. Anche se le sue devozioni
c’erano, saldamente ancorate al culto
mariano e a quello del Sacro Cuore.
Álvaro le era molto legato, come si capisce da tante lettere e testimonianze. Mi ha colpito il doloroso
episodio della sua morte improvvisa: la notizia
giunge in serata, ed Escrivá, perché don Álvaro non
trascorra una notte di pena, gliela riferisce solo il
giorno successivo. E don Álvaro, nonostante che, a
questo punto, non gli fosse possibile arrivare in
tempo al funerale, resterà certo molto, molto triste,
ma filtrerà questo suo sentimento con uno spirito
profondamente accettante.
La cosa che più mi ha colpito della sua formazione
umana e spirituale è la cifra misurata e profonda insieme, leggera e molto interiore.
Fedeltà e libertà, «la verità vi farà liberi»: l’abbandono alla volontà del Signore significa fedeltà all’Opera e a Escrivá, attraverso il lavoro e l’impegno
assoluto. Il tutto senza attaccamento, senza doverismo dolorista, senza lamentosità: non c’è mai in lui
un eroismo esibito, quella sorta di vittimismo sacrificale di chi «fa tante cose». Una fattiva leggerezza,
una sostanziosa spiritualità.
Durante il Concilio
Álvaro del Portillo ha avuto un ruolo importante su
alcune questioni chiave del Concilio Vaticano II,
pur continuando a svolgere i compiti di Segretario
generale dell’Opus Dei, con un aggravio di lavoro e
di impegno notevolissimi.
Avvicinato da Domenico Tardini e collaborando nel
corso degli anni con Pietro Ciriaci, partecipa a tutte
le fasi del Concilio a cominciare da quella preparatoria che, com’è noto, rivestì una funzione decisiva.
Il 2 maggio del 1959 è nominato consultore della
Sacra Congregazione del Concilio (oggi Congregazione del clero), il 10 agosto Presidente della VII
Commissione preparatoria che aveva il compito di
studiare il laicato cattolico e il 12 dello stesso mese
nella III Commissione sui moderni mezzi di apostolato. Al lavoro di commissione, dall’ottobre del
1959 fino al marzo del 1960, farà seguito l’intensa,
quotidiana presenza alle sessioni dell’Assemblea
dal 1962 fino al 1965. Si occupa di questioni tra le
27 settembre 2014:
più controverse: il 26 ottobre del 1960, per esempio, è nominato qualificatore nella Congregazione
del sant’Uffizio e affronta con equilibrio la delicata
questione del celibato dei sacerdoti.
Mi soffermo sulla sua azione conciliare perché il tema della laicità, cuore pulsante dello spirito conciliare, era, semplificando, il carisma specifico che il
fondatore aveva voluto imprimere all’Opus Dei, «la
chiamata universale alla santità». È quindi particolarmente illuminante vedere l’impegno del Segretario generale di fronte ai grandi temi del nuovo rapporto che i laici, nelle professioni e nella famiglia,
sono tenuti a stabilire con il mondo, cercando di discernere i segni dei tempi.
Álvaro del Portillo non cederà mai alle ali estreme,
non sarà mai né conservatore né progressista, mantenendo una posizione equilibrata e ferma, a proposito
della quale monsignor Angelo Dell’Acqua auspicava
che nel Concilio «ci fossero molti don Álvaro».
Nella documentatissima biografia di Javier Medina
Bayo alla partecipazione di don Álvaro alle varie
fasi del Concilio si accompagna quella non meno
perigliosa della vita interna all’Opus Dei, quando
dalla fine degli anni Cinquanta anche gli assilli economici diventano molto gravosi. È del 9 gennaio il
completamento degli edifici di Villa Tevere. La sede centrale. O quando si susseguono le opposizioni
curiali ed ecclesiastiche, dovute anche all’incerto
statuto giuridico dell’Opera; essa era ancora lontana dall’esser prelatura personale. Nel 1960, Escrivá, molto preoccupato, si era rivolto al cardinale
Tardini chiedendo di modificare la configurazione
giuridica dell’Opus Dei, senza ottenere però nessun
esito; un altro tentativo di trasformare l’Opera in
prelatura fu sostenuta dal cardinale Ciriaci nel
1962, sempre senza alcun successo. Una conquista
che si ottenne solo vent’anni dopo quando ormai il
fondatore era morto.
Don Álvaro seguì passo dopo passo tutto questo
percorso difficile, spiegando come l’Opus Dei «“al
giorno d’oggi, non abbia più nulla in comune con
ciò che attualmente si intende per istituto secolare”
e che, per questo motivo, “sia per un miglior servizio alla Chiesa, sia per un elementare senso della
giustizia [...], non dovrebbe essere più compreso nel
gruppo delle Associazioni che vengono chiamate
Istituti secolari, né dovrebbe dipendere dallo stesso
S. Dicastero dal quale esse dipendono» (Javier Medina Bayo, op. cit., pp. 303-304).
Per concludere, vorrei ricordare il rapporto molto
bello che si stabilì con Papa Montini. Messosi in
preghiera subito dopo l’annuncio della sua elezione
a Pontefice, Álvaro lo aveva molto apprezzato fin
dal suo primo viaggio a Roma.
Nel 1965, da parte sua, Paolo VI aveva visitato il
centro ELIS, esprimendo molto interesse per l’impegno verso la gioventù operaia, dimostrato con quella scuola tecnico-professionale.
A sua volta, nel luglio del 1976 don Álvaro gli
espresse una sincera solidarietà sul caso della sospensione a divinis di Lefebvre. Del resto ricordava
quanto Montini fosse stato coinvolto dalla lettura di
Cammino di Escrivá.
Molteplici possono essere le considerazioni e i bilanci che si possono svolgere su una personalità
tanto volitiva quanto abbandonata alla volontà del
Padre, così attraversata, a partire dalla sua famiglia
di origine, dai grandi sconvolgimenti novecenteschi: le guerre, le rivoluzioni, i rovesci economici.
Ma la nota che in me resta più viva è la pace interiore, la calma del cuore, la serenità che, nella fatica dell’accumularsi degli impegni, di natura tanto
diversa, sapeva mantenere, perché nel grande lavoro nel quale era immerso don Álvaro non era «né
nervoso, né impaziente, né eroico». E per me, ai
miei occhi – perché un santo parla al cuore di ciascuno di noi in modo diverso –, è proprio questa
eroica e fattiva leggerezza che lo ha reso davvero
santo.
Sen. Emma Fattorini
Ordinario di Storia contemporanea
nell’Università di Roma La Sapienza
Alla luce della fedeltà
di Maria Vittoria Marini Clarelli
La biografia di Alvaro del Portillo scritta da Javier
Medina Bayo riesce a mantenere in equilibrio due
livelli difficili da conciliare: presentare un personaggio storico e presentare un santo. Il taglio scelto
dall’autore è, se così posso definirlo, polifonico: a
parlare di don Alvaro sono molte voci diverse – di
uomini e di donne – che l’autore orchestra evitando
deliberatamente di far prevalere la propria, alla qua-
Álvaro del Portillo Beato
le, anzi, sembra aver messo la sordina. L’unica voce solista è quella del futuro beato, del quale sono
citati moltissimi scritti anche inediti. Rispetto ai
due profili biografici già editi in Italia – e qui ampiamente utilizzati – la novità principale del libro di
Medina Bayo mi sembra proprio il tentativo di far
parlare il protagonista in prima persona. Il tempo
trascorso dalla fine della sua vicenda terrena – po-
685
Maria Vittoria Marini Clarelli
co più di vent’anni – permette già la
distanza storica, ma il confine con la
cronaca è sottile, perché sono ancora
molti coloro che, avendolo conosciuto, leggono queste pagine cercando ora la corrispondenza con i
propri ricordi ora qualche aspetto o
episodio nuovo. Anch’io ho avuto la
fortuna di incontrare il futuro beato,
seppur occasionalmente, e questa
biografia, pur confermando l’idea
generale che ne avevo, mi ha permesso di rispondere a una domanda che sempre mi
ero posta a proposito del suo ruolo di primo successore di san Josemaría Escrivá. La domanda suona
più o meno così: «La fedeltà al fondatore è compatibile con la creatività? E se sì, come si è espressa?»
Per spiegare come ho trovato una risposta, devo
esaminare la fedeltà in rapporto a tre altri temi: la
tradizione, la magnanimità e la bellezza.
Fedeltà & tradizione
Il ruolo di primo successore in seno a una nuova
fondazione, anche non religiosa, è forse il più delicato. È infatti un passaggio cruciale che decide come si imposterà la tradizione, nel duplice senso di
trasmissione del deposito fondazionale e di costituzione di un’eredità che non è solo spirituale ma è
anche culturale. La fedeltà nella continuità, che è
stato il motto di don Alvaro, è un principio non così semplice da applicare come sembrerebbe, perché
non c’è tradizione senza interpretazione. Ciò che
permette la creatività nella fedeltà è la ricchezza del
messaggio ricevuto: il messaggio che il fondatore di
un’istituzione ecclesiale riceve è inesauribile, ossia
così denso e profondo che nessuna vita umana basta a penetrarlo interamente. È un dono divino che
deve bastare per sempre. La difficoltà sta nel riuscire a mantenerlo il più possibile integro, ma senza
confondere il permanente con il transeunte, quello
che fa parte del deposito e quello che è legato a una
certa contingenza storica. Don Alvaro, per creare la
tradizione, ha innanzitutto dedicato la massima attenzione alle fonti primarie, cioè agli scritti del fondatore dell’Opus Dei, sia quelli destinati alla catechesi generale, che egli stesso ha fatto pubblicare
scrivendone la prefazione – mi riferisco a Amici di
Dio, Solco, Forgia –, sia quelli che si riferiscono alla vita interiore di san Josemaría e che don Alvaro
ha citato spesso nelle sue lettere destinate alla formazione dei membri dell’Opus Dei. Per inciso, la
tradizione delle lettere del prelato risale appunto a
don Alvaro, che la inaugurò nel 1984. Il processo di
beatificazione di monsignor Escrivá, che è stato
portato a compimento sotto la sua guida, è stato an-
686
che un momento essenziale di raccolta e vaglio di questi documenti,
che sono il lascito del carisma fondazionale. Nel rapporto fra fedeltà e
tradizione il margine di creatività sta
dunque nell’ermeneutica, disciplina
essenziale non solo nell’esegesi ma
anche nella cultura cattolica. Ecco un
esempio di come don Alvaro la applica al pensiero del fondatore, tratto
dalla presentazione di Solco: «La
dottrina di monsignor Escrivá unifica
gli aspetti umani e divini della perfezione cristiana,
come non può non succedere quando si conosce in
profondità e si ama e si vive appassionatamente la
dottrina cattolica sul Verbo incarnato. In Solco restano saldamente tracciate le conseguenze pratiche
e vitali di questa gioiosa verità. L’autore delinea il
profilo del cristiano che vive e lavora in mezzo al
mondo impegnato nelle nobili aspirazioni che muovono gli altri uomini e, nel contempo, totalmente
proiettato verso Dio. Ne risulta un ritratto sommamente attraente».
Fedeltà & magnanimità
Essere davvero fedeli – e non seguaci pedissequi –
richiede grandezza d’animo, ampiezza di orizzonti,
disponibilità a rischiare. La biografia di Medina Bayo pone in rilievo questa virtù del futuro beato essenzialmente da tre punti di vista: la mentalità universale, la lettura dei segni dei tempi e la fortezza
nel lavoro. La linea è quella tracciata dal fondatore
in un brano famoso: «Ampiezza di orizzonti e un
vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; anelito
retto e sano – mai frivolezza – di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione della storia…; una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del
pensiero contemporaneo; un atteggiamento positivo
e aperto, di fronte all’odierna trasformazione delle
strutture sociali e dei modi di vita» (Solco, n. 428).
L’adesione fedele a un simile programma, però, implica una grande capacità d’iniziativa. Il libro cita
tutti i nuovi Paesi nei quali sono stati aperti centri
dell’Opus Dei e la quantità ed estensione dei viaggi
compiuti da don Alvaro, che poi dovette limitarli all’Europa per motivi di salute. Medina Bayo sottolinea anche come l’espansione apostolica sia stata
sempre accompagnata dall’avvio di iniziative sociali e culturali, come ospedali, scuole, università.
L’attenzione ai problemi sociali è attestata, fra l’altro, da queste parole pronunciate dal futuro Beato in
Messico nel 1986: «Figli miei, da quel che ho potuto osservare nelle scorribande nel vostro Paese, ho
27 settembre 2014:
notato una grande differenza fra le classi sociali.
Vedo ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri». E
poco dopo aprivano i battenti in Messico due scuole professionali per l’elevazione sociale. Lo stesso
accadde nel 1987 nelle Filippine e poi ancora in Bolivia, Paraguay, Argentina, Kenya, Congo. La cattolicità, intesa nel senso non della confessione religiosa ma dell’apertura universale, acquista un significato particolare nell’era della cosiddetta globalizzazione. A questo proposito, Medina Bayo mette
in speciale risalto l’attenzione prestata da Alvaro
del Portillo alle comunicazioni sociali.
Notevoli sono poi le testimonianze citate sul suo
metodo di lavoro, che era governato da una grande
fortezza. L’attuale prelato, monsignor Javier Echevarría, lo sintetizza così: «Centrare gli obiettivi, fissare i tempi e tradurli in atto con la necessaria determinazione». Lavorava con «ritmo e armonia»,
come ha scritto mons. Mariano Olés, osservando
che anche il suo modo di camminare era sereno. Un
esempio di fortezza nel lavoro è anche il ricorso costante alla collegialità, un metodo di governo ereditato dal fondatore ma non per questo più semplice
da applicare. Con la sua capacità di sintesi, don Alvaro osservava infine che «il lavoro di governo richiede carità, altrimenti si trasforma in un’occupazione burocratica», lasciando intendere che la burocratizzazione è una deriva molto insidiosa e non
meno grave dell’autocrazia, perché equivale all’indifferenza per le persone.
Fedeltà & bellezza
Lo sforzo di raggiungere la santità rende una personalità umana non solo migliore ma anche più bella,
perché, come ha scritto don Alvaro nella già citata
introduzione di Solco, «se, in conseguenza del peccato originale, l’umano non giunge alla propria pienezza senza la grazia, non è meno certo che la grazia non appare come giustapposta o come in azione
al margine della natura: al contrario, fa risplendere
le migliori perfezioni naturali per poterle divinizzare». Nel suo caso, la bellezza della fedeltà consisteva soprattutto nella «serenità che nessuna fatica può
offuscare, che nessuna sofferenza cancella», per
usare le parole pronunciate da mons. Echevarría
nell’omelia della Messa per il primo anniversario
del suo transito. Questa serenità, che colpiva chiunque lo incontrasse, era tanto attraente da consentirgli di fare rapidamente amicizia e anche di correggere, quando era necessario, riuscendo a conciliare
energia e affetto. Era il suo tratto distintivo, il suo
modo di raggiungere il misterioso equilibrio che,
sull’esempio di Cristo, ogni cristiano è chiamato a
trovare fra termini apparentemente inconciliabili:
obbedienza e libertà, lealtà e discernimento, compi-
Álvaro del Portillo Beato
Il libro
«Quando verrà scritta la sua biografia», suggeriva mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, «tra gli altri
aspetti rilevanti della sua personalità
soprannaturale e umana, questo dovrà
avere un posto di risalto: il primo successore di san Josemaría Escrivá alla
guida dell’Opus Dei è stato – prima di
tutto e soprattutto – un cristiano leale».
L’autore ha compiuto un profondo lavoro di ricerca, costruendo il testo sulla
base di lettere, documenti e testimonianze, mettendo a punto una biografia
commovente e rigorosa.
Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría
alla guida dell’Opus Dei, Edizioni
Ares, Milano 2014, pp. 760, € 22.
mento della volontà di Dio ed espressione della propria personalità. In questa «concordia discors» sta il
paradosso della vita cristiana, nella quale ogni contraddizione è risolta dall’amore, che è il vero principio rivoluzionario, capace di mantenere giovane il
cuore e indipendente lo spirito. Lo affermava don
Alvaro in un’omelia pronunciata nel 1985 e citata in
questo libro che molto più permette di comprendere
di lui: «La gioventù è l’età dell’anticonformismo,
della ribellione, del desiderio di tutto ciò che è bello, buono, elevato. Davvero giovane è soltanto chi
mantiene nello spirito questi ideali, anche quando il
corpo va consumandosi nel trascorrere del tempo».
C’è dunque un nesso fra bellezza e anticonformismo.
Maria Vittoria Marini Clarelli
Soprintendente alla Galleria nazionale
d’Arte moderna e contemporanea di Roma
687
Tavola rotonda
milanese
Analisi
della biografia/2
H
Il beato
Álvaro
visto da vicino
Lunedì 22 settembre 2014, presso il Teatro Faes di Milano, una tavola rotonda ha approfondito altri aspetti della personalità del nuovo Beato. Il
moderatore Francesco Ognibene, caporedattore di Avvenire, ha coordinato gli interventi del card. Julián Herranz (foto), di mons. Giuseppe Delpini
e del prof. Agostino Giovagnoli. Al termine, ha preso la parola don Javier
Medina Bayo, postulatore della causa di beatificazione.
o vissuto con don Álvaro dal 1953 al
1993, cioè per quarant’anni, e leggendo
il libro di Javier Medina Bayo, ho ritrovato intatta
questa figura così cara. Cara a tutti, ma specialmente
a chi ha vissuto accanto a lui momenti molto importanti nella vita dell’Opera e nella vita della Chiesa.
Lascio agli altri relatori di delineare con profondità
scientifica la figura di don Álvaro; per parte mia, ho
pensato a un intervento, diciamo, più famigliare.
Quattro ricordi. Ho scelto quattro momenti in cui ho
vissuto accanto a lui situazioni di particolare rilievo.
La tenerezza
di un padre
688
Primo ricordo. Credo fosse il 3 novembre 1953. Un
giovanotto laureato in Medicina, che voleva specializzarsi in Psichiatria in Germania, fu catapultato a
Roma per studiare Diritto canonico.
Mi spiego: nell’Opus Dei le cose si fanno con serietà; quel giovanotto ero io, naturalmente. Terminata la laurea, avevo chiesto qualche consiglio di
orientamento professionale, e mi fu suggerito di
puntare a una cattedra universitaria in Psichiatria,
sia perché la psichiatria mi appassionava, sia perché
in Spagna era un campo nel quale, anche dal punto
di vista cristiano, era molto importante incidere in
prospettiva apostolica. Un mese dopo, la stessa persona che mi aveva dato quel consiglio, mi disse:
«Senti, non ti piacerebbe andare a Roma per studiare il Diritto canonico?». «Ma tu non mi avevi detto
di andare in Germania? Spiegami un po’, perché il
Diritto canonico io non so neppure cosa sia».
Per dire come gioca il Signore con noi: non sapevo
cosa fosse il Diritto canonico, e ho finito per diventare presidente del Pontificio consiglio per i Testi legislativi. Dopo tanti anni, quando mi domandano come
27 settembre 2014:
Dopo il saluto del presidente Faes, Giovanni
De Marchi, nel gremitissimo Teatro hanno
preso la parola (da sinistra) Francesco Ognibene, Agostino Giovagnoli, il card. Julián Herranz, mons. Mario Delpini.
si fa a essere felici, rispondo: «C’è un solo modo, ed
è fare quello che il buon Dio vuole da te». Chi fa la
volontà di Dio è sempre sereno, tranquillo, gioioso e
ha la forza per affrontare le difficoltà della vita.
Bene, quel ragazzo – adesso si considerano ragazzi
anche i quarantenni, ma io, benché laureato, ero in
effetti un ragazzino – andò a Roma. Un giorno, stavo recitando il Rosario nel giardinetto che c’è attorno a Villa Tevere – la sede centrale della prelatura
dell’Opus Dei – ed ecco che si apre la porta ed esce
il Padre, san Josemaría, con don Álvaro. Quando mi
videro, don Álvaro – che praticamente non conoscevo – mi chiamò e disse: «Il Padre chiede se vuoi
venire con noi a San Pietro». «Subito!».
Pochi minuti dopo ero in macchina, seduto alla destra del conducente. Dietro c’era il Padre, a sinistra
don Álvaro. Siamo partiti. In San Pietro abbiamo
seguito la prassi abituale di san Josemaría: una Salve Regina davanti alla Pietà, la visita al Santissimo
nella cappella eucaristica, il Credo sulla tomba di
san Pietro. Poi, il Padre e don Álvaro entrarono in
Vaticano per qualche impegno, e quando uscirono
pensai: «Adesso torneremo a casa».
Invece no. Don Álvaro: «Il Padre dice che se non
hai niente in contrario, vorrebbe farti vedere un po’
di Roma». Io andavo di sorpresa in sorpresa. Un ragazzino che si trova lì accanto al Fondatore dell’Opus Dei che vuole fargli da cicerone. Io non sapevo
cosa dire, annuivo con la testa e non mi veniva fuori la voce. E cominciammo il tour. Il Padre mi spie-
Álvaro del Portillo Beato
gava: «Questa è Piazza Venezia, questo è il Colosseo, San Giovanni in Laterano...», e io avevo il torcicollo perché a me, in quel momento, Roma non
importava per niente. Mi dicevo: «La vedrò con
calma in un altro momento, adesso per me lo spettacolo è il Fondatore dell’Opus Dei che ho qui dietro». Mi interessava sentirlo, vederlo, godere per la
prima volta della sua presenza.
Don Álvaro si comportava un po’ come il direttore d’orchestra: lasciava che il Padre parlasse e a
me faceva qualche domandina per farmi intervenire. A un certo momento mi disse: «Senti, perché
non racconti al Padre come hai conosciuto l’Opera, la tua vocazione?».
Rimasi interdetto, perché la mia vocazione non era
quella di san Paolo, ma abbastanza vicina... A vent’anni, mentre frequentavo la facoltà di Medicina
nell’Università di Madrid, non conoscevo l’Opera,
anzi, avevo idee un po’... non giuste, sull’Opera. Dirigevo una rivistina settimanale per gli studenti dell’ateneo. Eravamo abbastanza presuntuosi, perché
l’avevamo chiamata Bengala: per «illuminare», an-
689
che se non illuminava niente. Un giorno, durante il
consiglio di redazione della rivista, arrivò il turno di
un articolo sull’Opus Dei. Lo lessi e dissi:
«Mmm…», perché era un articolo tremendo. Ne avevo sentite di cose sull’Opera: massoneria bianca, il
segreto, cospirano contro lo Stato… eccetera. Non
avevo dato troppo peso, ma l’autore dell’articolo
aveva scritto anche delle cose che per delicatezza
preferisco non ripetere. Rimasi molto impressionato
per cui dissi: «Questo articolo è molto duro, molto
forte. Io non conosco questi dell’Opus Dei, ma mi informerò personalmente. Nella mia classe ci sono due
ragazzi che frequentano l’Opera…». Presi contatto
con uno di loro e gli chiesi: «Mi fai vedere uno di
questi luoghi, di questi covi dove vi riunite?». E lui:
«Sì, vieni», e mi fece conoscere uno dei due centri
dell’Opus Dei frequentati da gente giovane.
«Ed eccomi qui», dissi al Padre. «Mi ha convinto di
più quel ragazzo che non l’autore dell’articolo». Il
Padre si mise a ridere e poi a cantare. Sono state due
ore straordinarie, in cui ho scoperto l’umanità divinizzata di san Josemaría, perché sapeva trarre dalle
canzoni d’amore umano una teologia finissima. Tra
le altre cantò una canzone popolare della sua terra,
l’Aragona, che mi è rimasta qui, non l’ho dimenticata anche se sono passati tanti anni. E ve la dico:
prima in spagnolo e poi la traduco in italiano: «Eres
mi primer amor / tú me enseñaste a querer / no me
enseñes a olvidar / que no lo quiero aprender».
«Sei il mio primo amore / tu mi hai insegnato ad
amare / non insegnarmi a dimenticare / che non lo
voglio imparare». È una bellissima canzone d’amore, ma anche un’esortazione alla fedeltà: fedeltà alla propria vocazione, al primo amore.
Questo era san Josemaría, e questo era don Álvaro
che si definiva «l’ombra»: stava un po’ dietro e suggeriva. Ne ho avuta conferma quando, arrivati a casa, sono sceso, ho spostato il sedile (l’auto era una
Seicento) e mentre il Padre usciva, abbassando la
testa, ho notato che aveva il collo pieno di foruncoli. Foruncoli tremendi, pieni di pus. Evidentemente
lì c’era una malattia, un diabete fortissimo. Dissi
sottovoce: «Don Álvaro, ha visto come sta il Padre?». E lui rispose: «Sì, sì, tu sei medico ed è giusto che sappia le cose, ma non commentarle perché
gli altri non si preoccupino. Il Padre ha un diabete
fortissimo, non ha dormito tutta la notte e ha un mal
di testa che non riesce a passare. Poi abbiamo grossi problemi economici, dobbiamo pagare gli operai
che stanno lavorando, che stanno ristrutturando la
sede centrale dell’Opera e io non so come potremo
fare per le scadenze di questa settimana…».
Allora ho capito due cose. Primo: che san Josemaría
era un santo, perché un uomo in quelle condizioni che
si dimentica completamente di sé stesso per dedicarsi
a un suo figlio è un santo. Secondo: ho ammirato anche don Álvaro, perché era stato lui a chiamarmi, a
preparare quell’uscita per distrarre il Padre, per fargli
690
prendere un po’ d’aria, per fargli sentire da parte mia
qualcosa che gli potesse far piacere, appunto il racconto di una vocazione, che è sempre un momento
meraviglioso. Ho ammirato don Álvaro e mi sono
detto: «Questo è davvero l’uomo su cui il Fondatore
può contare completamente». E il libro di Javier Medina lo descrive magnificamente.
Preparazione & sviluppo
del Vaticano II
Per il secondo ricordo, facciamo un salto di dieci anni: 1962. Il Concilio Vaticano II si è aperto in ottobre,
ma è in settembre che sono stati nominati i presidenti e i segretari delle commissioni. Appunto in settembre arrivò a san Josemaría una lettera della Santa Sede in cui si chiedeva a don Álvaro di accettare la nomina come segretario di una delle dieci commissioni
conciliari più importanti, quella sulla vita e il ministero dei sacerdoti. Don Álvaro era il segretario generale dell’Opus Dei. Era la mano destra del Fondatore
per tutto il lavoro apostolico e di governo. Il Padre,
san Josemaría, accennò alla richiesta vaticana in una
riunione di famiglia e aggiunse: «Don Álvaro farà la
volontà di Dio. L’Opera è nata per servire la Chiesa.
Álvaro deve servire la Chiesa. Vediamo un po’ se riesce a fare tutte e due le cose». Ebbene, durante i quattro anni di intenso lavoro conciliare ho visto come
don Álvaro, che aveva una capacità di lavoro immensa, riusciva a servire la Chiesa nel Vaticano II, e a
mantenere gli assorbenti impegni nell’Opus Dei.
Anch’io lavoravo in quella commissione conciliare e
voglio ricordare un episodio particolarmente significativo, per mostrare come don Álvaro reagiva nei
momenti difficili. La commissione era stata inizialmente incaricata di elaborare un progetto di decreto.
Successivamente, il comitato di coordinamento del
Concilio decise diversamente: sulla vita e il ministero dei sacerdoti si dovevano fare solo dieci brevi proposizioni. Don Álvaro, di fatto, dirigeva il lavoro
della commissione, perché il presidente, il cardinale
Pietro Ciriaci, che era malato, aveva delegato a lui la
presidenza e la direzione intellettuale del lavoro.
Della commissione facevano parte quattro cardinali,
una ventina di vescovi e una trentina di teologi e canonisti. Se i canonisti e i teologi erano gente complicata, i cardinali lo erano ancora di più, perché essi
parlavano ex-cathedra e don Álvaro doveva regolare
il dialogo e limitare gli interventi. Lo faceva con una
grazia e con una finezza straordinarie: fece redigere
un regolamento e, invece di dare dieci minuti a ciascuno, ne diede otto. E quando un cardinale abusava
della sua autorità, diceva: «Eminenza, scusi, interessantissimo tutto quello che sta dicendo, però dobbiamo consentire di parlare anche agli altri; per favore,
lasci il resto per iscritto». Poi toccava a noi leggere
tutto quello che era stato consegnato per iscritto.
27 settembre 2014:
Quando arrivò l’indicazione di elaborare solo dieci
proposizioni, don Álvaro ne soffrì: «Ma come,
quattrocentomila sacerdoti in tutto il mondo stanno
aspettando dal Concilio indicazioni e direttive sulla
loro vita e sul loro ministero, e noi facciamo dieci
brevi proposizioni!». Ma obbedì. La commissione
le preparò e le presentò all’Assemblea plenaria nell’aula di San Pietro, e i padri conciliari, fortunatamente, le bocciarono. Dico «fortunatamente» perché noi in fondo al cuore volevamo così.
Abbiamo fatto quello che ci era stato detto di fare,
ma era un momento in cui sulla natura e sull’identità del sacerdote nella Chiesa cattolica c’erano due
tendenze fortemente contrastanti. Da una parte c’era la concezione del prete «sacramentale» che rimane in sacrestia, che si accontenta di confessare
quando qualcuno lo desidera, di celebrare la Messa,
eccetera; dall’altra parte c’era il sacerdote «missionario», che esce alla ricerca delle pecore, con impegni nel sociale. Con don Álvaro, noi pensavamo che
non fossero due figure contrapposte, bensì che si
dovessero integrare: la parola e i sacramenti, tutto
in un contesto sacro di elezione divina.
Non mi dilungo su questo tema: basti dire che don
Álvaro propose al presidente della commissione e relatore, che era il cardinale François Marty, arcivescovo di Reims e successivamente arcivescovo di
Parigi, di scrivere una lettera al consiglio di presidenza del Concilio, chiedendo il permesso di preparare un decreto che toccasse tutti i punti riguardanti
la vita e il ministero dei sacerdoti dal punto di vista
teologico, disciplinare e ascetico. Il consiglio di presidenza approvò la proposta e don Álvaro organizzò
il lavoro: in meno di un mese si è potuto presentare
alla plenaria del Concilio un documento, il decreto
Presbyterorum ordinis, che ottenne dai padri conciliari una votazione plebiscitaria. I numeri me li ricordo bene: su 2.394 votanti, 2.390 espressero il Placet;
soltanto 4 il Non-placet.
Questo era don Álvaro. Una volta gli ho detto che mi
ricordava una meridiana che avevo visto sul campanile di una chiesa della Val di Sole o della Val di Non,
che recava la scritta: «Horas non numero, nisi serenas. Segno soltanto le ore serene». Così era don Álvaro. Dirigeva il lavoro con grande serenità in ogni
momento, anche nei momenti più critici. Non perdeva mai la calma, la mitezza e la fortezza così ben descritte nella biografia scritta da don Javier Medina.
Piena valorizzazione
del laicato
Dunque, protagonista del Concilio. Ma anche del
post-Concilio. Terza realtà da ricordare. Infatti, per diciotto anni don Álvaro ha lavorato nella Commissione pontificia per la revisione della legislazione della
Chiesa in base al Vaticano II. E ha lavorato come re-
Álvaro del Portillo Beato
latore di una commissione di studio che si doveva occupare nientemeno che dei diritti e doveri dei laici nella Chiesa e nel mondo. Cioè di come nella legislazione della Chiesa si doveva riflettere quello che – a mio
giudizio – reputo centrale nel Vaticano II: la chiamata
universale alla santità e all’apostolato, in forza del battesimo. Cioè far sì che nella Chiesa tutti i battezzati si
rendano responsabilmente conto che, per il fatto di essere stati battezzati, hanno il diritto/dovere di diventare santi, cioè di conformare la propria vita a quella di
Gesù, e di diventare apostoli, cioè diffusori del Vangelo nelle comunità umane in cui vivono: famiglia, lavoro, attività sindacali e politiche, arte eccetera...
Questo è il punto centrale che il Santo Padre Francesco, come i suoi immediati predecessori, ricorda con
tanta insistenza: la «nuova evangelizzazione» si farà
con l’apporto dei laici. La grande evangelizzazione
della Corea, come al Papa è piaciuto moltissimo ricordare nel suo recente viaggio, è stata fatta dai laici,
quando erano rimasti senza sacerdoti.
Ebbene, don Álvaro organizzò per la prima volta nella storia della Chiesa il lavoro su questo tema. Scrisse un documento di più di trecento pagine, cominciando col distinguere le parole: che cosa significa
«fedele» e che cosa significa «laico». Fedeli sono tutti coloro che hanno ricevuto la vocazione cristiana e
si sono incorporati alla Chiesa con il battesimo. E di
lì nascono i diritti e i doveri a cui abbiamo accennato. Perché un laico faccia apostolato non c’è bisogno
che un vescovo gli dia la missione canonica. Gliel’ha
data il Signore, con il battesimo e la cresima. Don Álvaro l’ha sottolineato, perché si riflettesse anche nei
canoni, che danno al fedele laico nella Chiesa il senso di quali sono le sue prerogative, i suoi diritti.
Il documento di don Álvaro ha molto stupito la
commissione perché vi si approfondivano molto i
concetti che poi si traducevano in canoni, come
nessuna legislazione ecclesiastica aveva mai fatto.
Potete comprovare che nel nuovo Codice è stato riversato tutto il lavoro di fondo fatto da don Álvaro.
Mentre lavoravo nella commissione per la revisione del Codice di diritto canonico (e poi per l’interpretazione del nuovo Codice: per questo adesso mi
trovo qua), mi resi conto dell’importanza del saggio di don Álvaro e gli suggerii di pubblicarlo:
«Don Álvaro, questo va reso pubblico, è una nuova
apertura nella storia del diritto canonico e della pastorale in applicazione del Concilio. Apre prospettive di studio anche a livello accademico». Don Álvaro tentennava. Era abituato a fare dei lavori stupendi a servizio della curia romana che non sono
stati mai pubblicati, perché lavorava nel nascondimento, in umiltà. Aveva fatto proprio il programma
di san Josemaría: «Il mio compito è nascondermi e
scomparire, perché brilli soltanto Gesù». Abbiamo
faticato non poco, ma alla fine l’abbiamo convinto.
Ed è stato pubblicato. Il libro ha avuto un successo
enorme, è stato tradotto in quasi tutte le lingue e la
691
prima edizione italiana è stata curata dall’Ares col
titolo Laici & fedeli nella Chiesa.
L’indimenticabile
26 giugno 1975
Passiamo velocemente al quarto punto. L’ultimo ricordo riguarda il 26 giugno 1975, giorno della morte di san Josemaría.
Ero di ritorno dal lavoro in Vaticano, verso l’una e
mezza. Appena entrato in Villa Tevere, dalla portineria mi hanno detto: «Per favore, salga al quarto piano». Ho preso l’ascensore e sono andato nella stanza
di lavoro di don Álvaro. Entro, e vedo sul pavimento
san Josemaría disteso per terra. Accanto a lui c’era un
altro sacerdote, medico, don José Luis Soria, che poi
è andato in Canada ed è lì tuttora, che cercava con i
massaggi cardiaci di rianimare san Josemaría. Don
Álvaro mi disse: «Vieni, vieni Julián, aiuta José Luis».
Abbiamo fatto massaggi cardiaci, respirazione artificiale, ma inutilmente. Senza parlare, ci leggevamo
nel pensiero: «Non c’è niente da fare». Io trattenevo a stento le lacrime e stavo dicendo al Signore:
«Portami con te, perché io non servo a niente, ma il
Padre è tanto importante per la Chiesa!». Era una
preghiera per capovolgere la situazione, ma il Signore non ha ascoltato: il Padre è morto.
Don Álvaro era lì insieme con don Javier Echevarría, attuale prelato dell’Opus Dei, e alcuni altri. Eravamo tutti distrutti, tranne uno: don Álvaro. «L’ombra», di colpo, era diventata corpo. E corpo di un
uomo forte che non ha esitazioni, che con grande
serenità comincia a dare indicazioni, ordini, cose da
fare mentre noi stavamo lì sconvolti. Era difficile
ragionare bene in quel momento perché i sentimenti agitavano troppo la mente. Io sentivo don Álvaro
che diceva: «Javier, per favore, chiama al telefono
l’assessorato centrale (l’organismo di governo delle donne dell’Opus Dei), di’ che preparino in Santa
Maria della Pace il luogo dove deporre il Padre».
Intanto erano sopraggiunti gli altri membri del consiglio generale dell’Opus Dei. Abbiamo recitato un
responsorio per accompagnare la sua anima e poi
don Álvaro ha incominciato a dare indicazioni all’uno e all’altro. In quel tempo telefonare all’estero
– erano già una trentina le nazioni in cui c’era l’Opus Dei – era abbastanza difficile, bisognava fare
diversi tentativi per ottenere le linee dirette... Poi
bisognava avvertire il Vicariato, andare nella basilica di Sant’Eugenio per preparare il funerale pubblico. A me disse di telefonare a diverse personalità in
Vaticano… Insomma, ha cominciato a dare tutta
una serie di istruzioni con grande fortezza e serenità come se tutto fosse nella normalità.
Non l’ho visto piangere. Qualche giorno dopo, però, avevamo la riunione che alle 10 di ogni domenica si svolgeva con san Josemaría: è il «Circolo
breve», che comprende un commento al Vangelo,
un esame di coscienza e qualche riflessione spirituale. Quella domenica, quando arrivò don Álvaro e
per la prima volta dovette sedersi nel posto che normalmente occupava san Josemaría, scoppiò a piangere. Per la prima volta.
Svolse magnificamente la lezione del Circolo e,
quando finì, io, non sapendo cosa fare, lo abbracciai. Era un modo per dire che tutta la famiglia era
attorno a lui per trovare maggiore unità e maggior
amore fraterno. L’unica cosa che ho saputo dirgli,
a voce bassa, è stato: «Grazie». E mi pare che gli
altri hanno fatto altrettanto.
l
l
l
Mi fermo qua. Sono quattro ricordi che toccano diverse tappe. Nel libro troverete molti altri racconti
di questo tipo, molto ben scritti. Grazie.
Card. Julián Herranz
Presidente emerito del Pontificio consiglio
per i Testi legislativi
L’inesausta fantasia dello Spirito Santo
di mons. Mario Delpini
692
Dalla lettura del libro di Javier Medina emerge la figura di don Álvaro come persona di un’umanità
completa, sorridente, colta, umile, una persona con
la quale sembra di entrare in amichevole compagnia.
Leggendo le peripezie, descritte con molto realismo,
e le gioie che hanno costellato la vita di don Álvaro,
sono stato colpito particolarmente da due cose: la
prima è da quante disgrazie è scampato. Per esempio, da ragazzo, mentre stava per compiere una gita
sul lago col fratello e altri amici, successe che il fratello scese dalla barca perché aveva dimenticato
qualche cosa, e Álvaro lo seguì. Ebbene, scoppiò un
fortunale e la barca affondò, ma Álvaro e il fratello
rimasero in salvo. Un’altra volta, mentre era in macchina con il Fondatore su una strada di montagna,
per la strada scivolosa la macchina sbandò e si fermò quasi in bilico sul ciglio, lasciando illesi i viaggiatori. Per non parlare poi dei pericoli durante la
27 settembre 2014:
Guerra civile spagnola, dell’interrogatorio che Álvaro affrontò con la pistola di un miliziano puntata
alla tempia, del drammatico attraversamento delle
linee del fronte per raggiungere il Fondatore nella
zona liberata, e tanti altri avvenimenti.
Anche da questi episodi si intuisce che il Signore
l’aveva protetto perché gli aveva affidato un compito da svolgere, una missione provvidenziale.
Oltre la diocesi
ambrosiana
La seconda cosa la vorrei dire da milanese, perché
si sa che noi ambrosiani siamo famosi per la nostra
umiltà [applausi e risate dal pubblico], per cui per
me, sacerdote di Milano, che esista qualcosa fuori
di Milano è sorprendente. È vero, alla televisione
dicono che esiste qualcosa anche altrove, ma insomma... Ebbene, tutto l’impegno di san Josemaría,
di don Álvaro e di tutta l’Opus Dei, che emerge da
questo libro così documentato e coinvolgente, mi
ha suscitato qualche domanda. Perché non basta la
Chiesa, nel senso della diocesi, della parrocchia,
con la sua presenza territoriale che nella diocesi
ambrosiana è così capillare? Perché non basta che il
cristiano laico vada a Messa alla domenica, e poi
nei giorni feriali si sforzi di essere cristiano in ufficio, nel lavoro, nella vita famigliare? Perché c’è bisogno di dare una consistenza anche giuridica a
un’istituzione come la prelatura? Perché a Roma
non bastano le università pontificie che già ci sono,
e bisogna fondarne un’altra?
Sono domande che mi sono posto, forse perché a
Milano abbiamo la presunzione di essere una Chiesa che offre tutto quello che occorre: c’è la pastorale per i giovani, per gli anziani, per la famiglia, per
la scuola, per i bisognosi... La lettura del libro mi ha
aiutato a perdere un po’ la boria milanese, quella che
da noi si chiama la baüscia: mi ha fatto capire che la
Chiesa col vescovo, i parroci eccetera, è importante,
essenziale, ma lo
Spirito Santo è più
grande, più vivo
dell’aspetto dell’organizzazione; ho
capito che c’è bisogno di qualcosa di
più, e don Álvaro
con la sua intraprendenza, con i
suoi viaggi per porMons. Mario Delpini
tare l’Opus Dei in
tutti i continenti, lo ha testimoniato. C’è qualcosa di
più di quello che la tradizione, l’organizzazione ecclesiastica, pur essenziale, ci ha consegnato. E ciò
vale anche per l’apostolato dei laici: il Concilio ha
detto che i laici, in quanto battezzati, sono missionari; perché dunque creare un’istituzione che ha come
carisma specifico quello di santificarsi nel lavoro e
nella vita quotidiana? La risposta è che la tradizione
può diventare stanchezza, la pratica ordinaria può
diventare un’abitudine un po’ rassegnata. Per questo
lo Spirito Santo suscita delle forme che risvegliano,
che danno un gusto di apertura, di intraprendenza, di
coraggio, di sfida anche per raggiungere ambienti
verso i quali la nostra «organizzazione», pur capillare, resta un po’ intimidita.
Talvolta anche la realtà ecclesiale costituita ha bisogno di correttivi, perché la pratica ordinaria rischia di essere un po’ troppo condizionata dall’abitudine, per cui una voce che richiama al vigore della coerenza, risveglia tutta la Chiesa. Dalla biografia di don Álvaro ho recuperato una visione di Chiesa più ampia, più viva, più capace di creatività, proprio perché attraverso l’esempio, il ministero, la testimonianza del nuovo Beato, si coglie un’integrazione, un arricchimento di tutta la Chiesa.
Mons. Mario Delpini
Vicario generale
dell’Arcidiocesi di Milano
Il dinamismo della fedeltà
di Agostino Giovagnoli
Álvaro del Portillo, com’ è noto, ha avuto un ruolo
importante nel Vaticano II ed è stato certamente una
figura di grande rilievo nella stagione post-conciliare. Attraverso i vari incarichi da lui svolti durante il
periodo conciliare, ha indubbiamente servito tutta
la Chiesa, non solo con zelo, impegno, pazienza ma
anche con una comprensione lucida dei problemi
più importanti del suo tempo, in modo particolare
Álvaro del Portillo Beato
per quanto riguarda il ruolo del laico nella Chiesa e
la sua vocazione spirituale. Mi pare però si possa
dire anche che don Álvaro ha servito la Chiesa tutta anzitutto perché ha servito l’Opus Dei. Le due
cose non devono essere separate: nel servizio all’Opera egli ha realizzato un grande servizio alla Chiesa. L’Opus Dei, infatti, è stato uno dei grandi doni
che la Chiesa cattolica ha ricevuto nel XX secolo.
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Agostino Giovagnoli
Nel ’900 la Chiesa ha corso un grande
pericolo. Il modo in cui è entrata in
questo secolo non era adeguato alle
sfide inattese che si è trovata di fronte.
Se non fosse cambiata, se non avesse
accettato di mutare in profondità la
sua fisionomia, avrebbe rischiato non
di scomparire, ma di diventare molto
marginale all’interno di una società
che si trasformava sempre più rapidamente. La sfida più importante è stata
quella di trovare la strada per incontrare le masse, gli uomini e le donne che vivono una
vita comune, nel mondo, insomma i laici, i semplici
fedeli. Nel XX secolo, la Chiesa non poteva sopravvivere restando identica a come era stata nei secoli
precedenti, un’istituzione separata, chiusa in sé stessa, a tratti anche forte in rapporto ad altre istituzioni,
ma con un’influenza sempre più limitata nella multiforme vita quotidiana di milioni di uomini e di donne immersi nella «modernità». Il messaggio antico
di cui la Chiesa è portatrice in tutti i secoli rischiava
di diventare vecchio e incomprensibile se non avesse assunto una forma nuova. Ed è avvenuto qualcosa di inatteso: la Chiesa è rinata nelle anime, come
diceva Romano Guardini. Davvero il XX secolo è
stato «il secolo della Chiesa». Tale costatazione è
strana se si considera che tante sono state le difficoltà da questa incontrate nel Novecento, le critiche, le
opposizioni, le contestazioni di cui è stata oggetto.
Ma è un’affermazione profondamente vera se si considera la grande novità di una Chiesa che non è rimasta un’istituzione del passato ed è entrata nel cuore di milioni di uomini e donne.
L’«impresa»
più importante
L’ Opus Dei è stata una delle strade attraverso cui
questa novità si è realizzata. Per questo dico che, al
fondo, il più grande servizio fatto da don Álvaro alla Chiesa è il servizio che ha fatto all’Opera. Álvaro del Portillo è stato un ingegnere civile e qualcuno potrebbe dire: non c’ è bisogno della laurea per
diventare santi. È così. Ma Álvaro è stato prima ingegnere e solo successivamente membro dell’Opera, sacerdote, esperto di Diritto canonico, vescovo e
tante altre cose. L’ingegnere civile costruisce le case, le scuole, gli edifici pubblici... E verso la fine
della guerra civile, ha sentito il bisogno di servire la
patria costruendo ponti, strade e tante altre cose distrutte dalla guerra. È stato il suo modo per contribuire a ricostruire una società profondamente ferita
dalla violenza della guerra. San Josemaría ha saputo parlare a questi ingegneri, medici, avvocati e a
tanti altri immersi nell’impegno di costruire la società, l’«impresa» più importante del XX secolo,
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per così dire, come costruire lo Stato era stato l’impresa più importante del XIX secolo. Ha saputo spiegare loro che la ricostruzione più
importante non era quella delle case
distrutte dalla guerra e neanche
quella di una società lacerata dalla
violenza: occorreva soprattutto lavorare per la costruzione di un grande edificio spirituale.
Don Álvaro si è messo al servizio di
questo grande disegno. Il libro di
Javier Medina Bayo ci spiega come ciò è avvenuto.
L’autore scrive che il suo volume non è né un libro
di storia né una biografia (anche se in realtà è, in
modo molto riuscito, entrambe le cose). La bibliografia su don Álvaro – aggiunge – è «piuttosto copiosa» e in particolare «sono già stati pubblicati due
ampi profili biografici, che offrono una sintesi adeguata» (p. 13). Il suo obiettivo, perciò, è un altro:
dimostrare la necessità, per chiunque intenda scrivere la biografia di don Álvaro, di tener conto in
modo preminente che «il primo successore del beato Josemaría Escrivá nel governo dell’Opus Dei fu
– anzitutto e soprattutto – un cristiano leale, un figlio fedelissimo della Chiesa e del Fondatore, un
pastore completamente dedito a tutte le anime e in
modo particolare al suo pusillus grex, alla porzione
del popolo di Dio che il Signore aveva affidato alle
sue cure pastorali, in stretta comunione con il Romano Pontefice e con tutti i suoi fratelli nell’episcopato. Lo ha fatto in assoluta dimenticanza di sé,
con donazione gioiosa e allegra, con carità pastorale sempre accesa e vigilante» (sono parole tratte
dall’Omelia di mons. Echevarría per la morte di
don Alvaro).
La Presentazione sottolinea inoltre che, più importanti delle virtù umane nel primo successore di san
Josemaría, sono state le sue virtù teologali. E conclude: «La fedeltà – che ha origine nella fede, come
spiega il suo nome – è la nota più caratteristica della vita di mons. del Portillo. Fedeltà a Dio, fedeltà
alla Chiesa e al Papa, fedeltà all’Opus Dei». L’intenzione di suffragare questa tesi – e cioè non solo
di sostenerla, ma soprattutto di portare elementi che
ne dimostrino la fondatezza – viene infine integrata
da quanto dichiarato in Premessa. Perciò, conclude
l’autore, il sottotitolo del libro potrebbe essere: «Testimonianze su Álvaro del Portillo visto da quanti
gli furono vicini», unite al tentativo di «lasciar parlare mons. del Portillo» il più possibile (p. 14). Questi diversi obiettivi si saldano in uno solo: mostrare
il possesso nel Beato, in un grado altissimo, della
virtù della fedeltà. E, indubbiamente, il libro è stato
molto fedele alle promesse: scorre in modo compatto – costruito con solidità e rigore come è giusto che
sia per un «ingegnere civile» – senza digressioni o
derive lungo questi due binari fino alla fine.
27 settembre 2014:
L’incontro con
Giovanni Battista Montini
Dopo alcune note sull’infanzia e adolescenza, si
mettono in evidenza l’incontro con il Fondatore,
l’ascolto, l’obbedienza, il sacrificio di sé, la collaborazione stretta con san Josemaría ecc. Particolarmente illuminate è la fedeltà di don Álvaro al Fondatore dell’ Opus Dei dopo la morte di questi. Il
modo in cui tale fedeltà si è esplicata viene anticipato nel libro da alcuni passaggi precedenti, di cui
ricordo alcuni soltanto. Una nota (due foglietti) in
cui il Beato spiega la sua concezione ascetica, trasponendo sul piano spirituale modalità tipiche della
vita militare (p. 125). Egli utilizza i termini militari
di disciplina e collegamento desumendoli dall’obbedienza agli ordini e dall’immedesimazione con la
volontà dei superiori che si debbono avere nei confronti dello Stato maggiore anche quando ci si trova nell’impossibilità di ricevere un ordine esplicito.
È questo il motivo per cui viene definito saxum dal
fondatore dell’Opera (p. 124). Per descrivere ulteriormente la sua fedeltà, l’autore ricorda che lo stesso don Álvaro, dopo la morte di san Josemaría, corregge il termine «continuità», utilizzato da mons.
Echevarría, con fedeltà (p. 355). Javier Medina Bayo richiama anche i termini «continuità dinamica»
(p. 355) – don Álvaro raccomandava di non sotterrare il talento ricevuto – e «dinamismo della fedeltà», come capacità di rispondere alle nuove sfide
dell’apostolato (p. 356). In concreto, al centro della
fedeltà di don Álvaro, dopo essere succeduto al fondatore, c’è stato l’impegno fortissimo a realizzare la
volontà di san Josemaría circa la forma giuridica
dell’Opus Dei e di promuoverne la canonizzazione.
Attraverso la sua fedeltà, don Álvaro è stato al ser-
vizio di Qualcosa, di Qualcuno, di un grande disegno. Ed è significativo, in questo senso, il suo incontro con un uomo molto diverso: Giovanni Battista Montini. Quando arriva a Roma, subito dopo la
guerra, don Álvaro incontrò don Battista, come lo
chiamavano i suoi ragazzi, che lavorava nella Segreteria di Stato di Pio XII. E questi mostrò un grande
interesse per don Álvaro, come pure, successivamente, per san Josemaría e, più in generale, per l’Opus Dei. Montini è stato molto legato all’Azione cattolica, alla FUCI, al Movimento laureati. Ma era curiosissimo verso tutte le esperienze ecclesiali nel suo
tempo. Giovanni Battista Montini, infatti, non è stato solo un grande Papa, un uomo di Dio ora riconosciuto beato, un «architetto» del cattolicesimo contemporaneo. È stato anche uno dei più grandi testimoni del rischio corso dalla Chiesa cattolica nel XX
secolo, uno dei più sensibili al pericolo che tra l’istituzione ecclesiastica e gli uomini e le donne del suo
tempo si creasse una distanza incolmabile. Quando è
diventato arcivescovo d Milano, ha dedicato grandissima parte della sua pastorale ai «lontani», impegnandosi in modo appassionato per avvicinarli nuovamente alla Chiesa. Credo perciò che la sua simpatia per don Álvaro e il suo interesse per l’Opera nascessero proprio da qui. Montini era alla ricerca di
una risposta a quel grande problema e si è impegnato personalmente per trovarla, insieme ai giovani
della FUCI. Ma sapeva anche che non poteva esserci
una sola risposta ed era perciò curiosissimo – segno
della sua grandezza spirituale – verso tutti coloro
che, come san Josemaría, ne stavano trovando altre
per costruire la grande novità di cui la Chiesa aveva
bisogno e di cui il Concilio Vaticano II è stato la
maggiore espressione.
Agostino Giovagnoli
Ordinario di Storia contemporanea
nell’Università Cattolica di Milano
Il segreto per essere felici? La santità
di Javier Medina Bayo
Mons. Delpini mi ha fatto scoprire un gemellaggio
con i milanesi, perché io sono basco, e anche noi baschi abbiamo la fama di essere molto umili.... [Applausi e risate dal pubblico]. Sono arrivato a Roma
nel 1970 e da allora sono cresciuto accanto a don Álvaro fino alla sua morte, nel 1994. In tutti questi anni, ho ascoltato molte volte la sua predicazione, ho
potuto parlare con lui personalmente, mi è stato concesso di essere testimone del suo lavoro di governo
nell’Opus Dei. Nell’accingermi a scrivere questa
biografia, pensavo di avere una buona conoscenza
Álvaro del Portillo Beato
della vita di don Álvaro. Tuttavia, nella stesura del libro, sono venuto a conoscenza di moltissimi episodi
che non mi erano noti, e che arricchiscono di moltissime sfaccettature la sua grandissima personalità
umana e soprannaturale. Sapevo che era molto santo
ma, per dirla in poche parole, non immaginavo che la
sua santità fosse così grande.
Nel 1997, il cardinale Luis Aponte Martínez, arcivescovo di San Juan di Porto Rico, in una lettera al vicario dell’Opus Dei scriveva: «Come era buono don
Álvaro. Era così umano e al tempo stesso così so-
695
prannaturale. Con gli anni la sua figuappagare questa sete procurandosi il
maggior numero possibile di beni
ra andrà ingigantendosi sempre più.
materiali; altri pensano di soddisfarSe la Chiesa lo riterrà opportuno, io
la con il potere, o con i piaceri senspero di vedere monsignor del Portillo
sibili... Ma non basta: l’uomo ha bielevato alla gloria degli altari. Questo
sogno di ben altro per essere felice.
chiedo al Signore. E questo spero. PerI santi sono persone che hanno troché penso che sarà di grande aiuto alvato il segreto della felicità e l’hanno
la nostra Chiesa cattolica l’esempio di
raggiunta. San Josemaría amava diquesto santo vescovo».
re: «Ne sono sempre più persuaso: la
Veramente don Álvaro era molto buofelicità del Cielo è per coloro che
no. Nel decreto della Santa Sede che Javier Medina Bayo
sanno essere felici sulla terra» (Fordichiara l’eroicità delle sue virtù, si
gia, n. 1005). Nonostante le possibili sofferenze –
afferma che egli era «uomo di profonda bontà e afche non mancano mai – nessun santo si dichiara trifabilità, capace di trasmettere pace e serenità alle
ste o non soddisfatto della propria sorte. Come si
anime». Nessuno ricorda un gesto poco cortese da
spiega? La risposta è questa: perché i santi hanno un
parte sua o il minimo moto d’impazienza dinanzi
cuore innamorato. Don Álvaro è stato un uomo veraalle contrarietà; mai una parola di critica o di protemente felice, perché il suo cuore era pieno di amore:
sta. Aveva imparato dal Signore a perdonare, a preper Dio e per gli uomini. Anche per questo motivo
gare per i persecutori, ad aprire sacerdotalmente le
bisogna far conoscere la sua vita.
braccia, accogliendo tutti con un sorriso e con cristiana comprensione. Dal giorno in cui fu scelto come successore di san Josemaría molte persone, anche non dell’Opus Dei, cominciarono a chiamarlo
«Padre». Don Álvaro era un sacerdote cordiale, sorridente, un vero padre. Un padre che diffondeva inInoltre, i santi intercedono per noi in Cielo. Per quantorno a sé un clima di serenità e di pace anche nei
to riguarda don Álvaro, dopo la sua morte sono permomenti più difficili. Anche quand’era immerso in
venute più di 13.000 relazioni firmate di favori otteun ritmo di lavoro molto intenso, riusciva sempre a
nuti grazie alla sua intercessione, anche da luoghi in
mantenere l’affabilità e il sorriso.
cui l’Opus Dei non è ancora presente. Si tratta di grazie di ogni tipo: materiali e spirituali. Certamente, le
più sorprendenti sono le guarigioni straordinarie, ma
ci sono tantissimi doni ricevuti, forse meno appariscenti ma ugualmente preziosi: disoccupati che trovano lavoro; sposi che recuperano l’armonia coniuIntorno all’anno 408 o 409, sant’Agostino scrisse
gale; concepimento di figli, a volte dopo anni di atteuna lettera a un suo amico vescovo, Memorio, che
sa prima di ricorrere alla sua intercessione; riconciconsiderava un vescovo santo, e gli diceva: «Mi
liazioni tra parenti in lite; nascita di bambini sani, dosento sollevato dal tuo amore. Poiché non è da una
po una diagnosi di malformazioni congenite...
persona qualunque che sono amato, prediletto, ma
Lo scorso mese di marzo, presso la Pontificia Unida una persona altamente qualificata, da un vescoversità della Santa Croce, a Roma, si è svolto un
vo di Dio quale tu sei, e so che sei tanto gradito a
convegno in occasione del centenario della nascita
Dio che, quando innalzi la tua anima sì buona al Sidi don Alvaro, in cui intellettuali e persone che lo
gnore, con essa innalzi anche me, poiché nella tua
avevano conosciuto da vicino hanno evidenziato diracchiudi pure la mia» (lettera 101, A Memorio, n.
versi aspetti della sua figura. Tra le tante manifesta1). Chi ha conosciuto don Álvaro sperimentava la
zioni di affetto, il Segretario di Stato di Sua Santità
stessa sensazione: ci si sentiva sollevati verso Dio,
ha telegrafato al prelato dell’Opus Dei, mons. Jagrazie al suo aiuto e al suo esempio.
vier Echevarría, che il Sommo Pontefice Francesco
Finché vivono sulla terra, i santi ci mostrano come
– sono le parole testuali – «esorta a imitare la vita
deve comportarsi il cristiano. Si racconta che una
umile, allegra, nascosta e silenziosa, ma anche devolta, in pieno giorno, Diogene uscì con una lantercisa nel testimoniare la perenne novità del Vangelo,
na per le strade di Atene e, alla domanda su che coannunciando l’universale chiamata alla santità»,
sa stesse facendo, rispose: «Cerco l’uomo!», intendell’allora venerabile, e oggi beato, Álvaro del Pordendo dire: «Cerco un uomo onesto». Oggi, viene
tillo. Penso che non possa esserci consiglio più auvoglia di gridare: «Cerco un uomo felice!», perché
torevole.
in questi nostri tempi, così opulenti, tantissime perJavier Medina Bayo
sone inseguono la felicità, ma non la trovano perché
non sanno quali sono le sorgenti di questa aspiraPostulatore della Causa di beatificazione
di mons. Álavaro del Portillo
zione insita nel cuore dell’uomo. Alcuni tentano di
Testimone della perenne
novità del Vangelo
Sollevati verso Dio
dal suo amore
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27 settembre 2014:

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