letre mogli - VerbaVolant Edizioni
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letre mogli - VerbaVolant Edizioni
LE TRE MOGLI Laura Di Falco con una prefazione di Donatella La Monaca VERBAVOLANT e d i z i o n i © Copyright 2013 by VerbaVolant edizioni Via Ragusa n 52, 96100 Siracusa www.verbavolantedizioni.it [email protected] ISBN: 978-88-89122-69-3 Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy Stampa Priulla s.r.l. - Palermo Illustrazione in copertina di Alessandro Di Sorbo PREFAZIONE Il “suono discorde” della storia In chiesa non riuscì a tollerare l’odore dell’incenso, che gli sembrò assai più acre del solito. Don Mariano doveva essersi accorto di ciò, tanto è vero che assegnò proprio a lui il compito di servire la messa. All’elevazione, quando fu il momento di far squillare il campanello per esortare i presenti al massimo raccoglimento, per poco non cadde svenuto sui gradini dell’altare. Si sentì solo e abbandonato come in un deserto, ebbe perfino pietà di se stesso. Ma aveva deciso di tollerare ogni cosa, non perchè si fosse rassegnato a piegarsi, ma per temprare il suo carattere, per rafforzare la sua capacità di resistere alla violenza sia fisicamente che moralmente. Trae l’avvio dalla reclusione tra le mura opprimenti del seminario, dall’austerità soffocante di un’educazione ecclesiastica patita senza vocazione, la torbida vicenda di Ferdinando di Riva Secca, personaggio intorno a cui ruota l’affresco corale delle Tre mogli, il romanzo più monumentale di Laura Di Falco, edito da Rizzoli nel 1967, accolto con il “Premio Savarese” e tradotto in Spagna e in America Latina. Una luce obliqua, presaga di dolorose mistificazioni si infiltra, sin dalle pagine iniziali, tra i pensieri più riposti del giovane discendente di una delle famiglie più blasonate della Siracusa postunitaria, svelandone, in un crescendo chiaroscurale, l’implacabile desiderio di rivalsa 3 nei confronti di un destino di segregazione dal mondo impostogli con inspiegabile inflessibilità sin dalla giovane età. Matura, infatti, durante l’opprimente noviziato, la traumatica scoperta del dramma che si cela al fondo della decisione paterna, una congenita menomazione della virilità, vissuta dal casato di appartenenza come segno di cocente infamia. L’agghiacciante consapevolezza corrobora ulteriormente la spietata formazione alla dissimulazione cui Ferdinando plasma la mente, lo spirito e quel corpo improvvisamente rivelatoglisi estraneo e nemico. Con mano sapiente la scrittrice lo scorta in un percorso di cui l’ambivalenza, la doppiezza, l’ipocrisia e l’inganno si ergono a norma e l’antifrasi a qualità formale della narrazione. La scrittura somatizza, infatti, in uno stridente controcanto, udibile solo dal lettore, tutta la dissonanza tra l’agire e il sentire del protagonista che più si mortifica, più si eleva ad emblema di severità, compunzione, rigore, più ribolle di tumultuanti brame di vendetta affinate nel tempo, complice la ferrea autodisciplina emozionale, in lucide strategie di ascesa sociale ed economica. Di fatto, sulla scia della meditata lezione derobertiana, la finzione si infiltra pervasiva nel tessuto capillare dei rapporti sociali, istituzionali, affettivi di un mondo che la narrazione teatralizza nelle forme di una grottesca “fantocciata”. Un umore corrosivo scorre nelle fibre di una realtà governata in tutti i suoi risvolti da interesse, calcolo o cieca istintualità, muovendo proprio dagli apparati ecclesiastici, scenari torvi e polverosi di riti e liturgie svuotati di qualsiasi empito religioso, inquinati, all’opposto, dall’ambiguità più profana. Un’irredimibile atmosfera di dissoluzione aleggia sull’avvicendamento di epoche e generazioni, dall’infeudamento delle prospettive risorgimentali all’insorgere violento del fascismo, sino alle soglie del secondo conflitto mondiale, attraverso la devastazione della guerra di trincea e la roboante propaganda della colonizzazione abissina. Sfila4 no così “quinte” sceniche animate dal derobertiano rovesciamento tra ‘storia’ e ‘cronaca’. Il privato si assume, infatti e si realizza come storia mentre il pubblico si degrada e minimizza in cronaca. Direbbe Natale Tedesco, che “qualsiasi avvenimento pubblico, immerso nella ‘storia’ privata viene da questa macerato”1. Destini individuali e collettivi si stritolano, infatti, tra le maglie delle macchinazioni di Ferdinando, quasi che la sua mutilazione si elevi a marchio della corruzione umana, ad onta di quelle eccezionali doti di ingegno e freddezza cui deve il risanamento dei vitigni siracusani devastati dalla filossera e la graduale creazione di un impero economico. Ma, a dispetto della schiacciante affermazione sociale cui con lucida bramosia di riscatto perviene, riducendo in ginocchio gli esponenti di un ceto aristocratico ormai divorato dalla tabe del parassitismo e della dissipazione, il ‘male’ continuerà a covargli dentro. L’impotenza fisica si converte in una sorta di cancro dell’anima che fagocita nell’“immobilità inerte della sua esistenza” la sorte delle tre ‘mogli’, Diomira, Giulietta e Ofelia, tre sorelle, diversamente coinvolte nelle spire di questo gioco delle parti. Tra di esse si staglia, per la tempra di un protagonismo che dilata ed amplifica al femminile il temperamento di Ferdinando, Diomira la “scamiciata”, “con la sua miseria di prostituta sconfitta e la ricchezza prepotente” di un corpo abusato, violato e sconciamente deprivato della sua fecondità. L’unione in matrimonio con l’ ‘invalido’ barone di Riva Secca interseca, in un desolato accordo, la ripulsa viscerale della donna per il genere maschile e la stessa strenua ambizione ad un’affermazione sociale che la risarcisca dalle frustrazioni, dalle umiliazioni sofferte sino all’esacerbazione. “C’era come una sorte comune fra lui e quell’avanzo di tanti amori; destinati entrambi a rimanere sterili, come la terra quando non è seminata” si 1 N. Tedesco, La norma del negativo, Palermo, Sellerio, 1989, p.100. 5 legge in una delle impietose incursioni nell’inesausto soliloquio del protagonista. Non può che soffocare, schiacciata dal peso delle menzogne, la fragile esistenza di Giulietta “con la purezza delle sue linee”, legata a Ferdinando da una reciproca inconfessata dedizione, brutalmente infranta dallo spietato svelamento della tara fisica e del reticolo di falsità su di essa edificato. Trasandata e rapace nel suo rapporto con la ‘roba’ è invece Ofelia, relegata ai margini delle visissitudini narrate, confinata nel ruolo di serva recalcitrante eppure sottomessa, sino ad un epilogo che la consacra, “maschera bianca di gesso, in una fissità sepocrale”, quale emblema della corrosione dei tempi. Brulica intorno alla triste mascherata dei Riva Secca una folla di personaggi minori attraverso le cui microstorie prende corpo una cartografia inclemente delle bassezze, delle pulsioni che asservono l’animo umano, sondato nelle tonalità più fosche. Di “scontento universale” argomentava nel 1890 l’autore dei Vicerè preconizzando un secolo, il Novecento, in cui “nessuna fede, nessuna illusione” avrebbe sorretto “gli uomini che sembrano aver visto il fondo di tutto”, pervaso da quel “dilettantismo infecondo” che in “religione in politica, in filosofia, in arte, fa passare da un sistema ad un altro col preconcetto che tutti si equivalgono nell’impotenza a contentarci”2. Dal crogiuolo di tale lucido disincanto attinge quella tradizione letteraria, dal Pirandello dei Vecchi e i giovani al Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, severamente interprete di tutte le storture, le dissonanze del divenire storico nel secolo scorso e nel cui alveo la Di Falco si pone con perseguita continuità. Non a caso ad “una scontentezza che le si infiltrava nell’anima come un nemico segreto, una sorta di angoscia come se le fosse mancata qualche cosa; forse per le condizioni di salute di sua madre, o perchè era questo il destino comune 2 Ivi, p.75. 6 degli esseri umani” allude Lauretta, sorella di Ferdinando, anch’essa duplicemente sacrificata alle logiche distorte del casato e alle idealità calpestate del marito. L’intero impianto del romanzo elegge l’erosione sociale ed etica a principio compositivo e la deformazione espressionistica a cifra narrativa dominante. Si dispiega appieno l’ “attitudine”, qualche anno dopo felicemente colta da Arnaldo Bocelli, ad “esteriorizzare quasi scenicamente eventi e moti interiori, a rendere ‘normali’ psicologie e circostanze abnormi, a condensare in figure, dialoghi, sfondi, elementi di analisi sottili”3. La drammatizzazione dei turbamenti intimi si fonda su un tratto descrittivo, fisionomico, ambientale, paesaggistico, architettonico adulterato dal germe della dissoluzione: dal “respiro caldo della città in fermento”, devastata dal colera, che si propaga come “l’alito affannato di un moribondo divorato dalla febbre”, alla balia Mariannina, “grassa, deformata dagli anni, enorme rospo biancastro, e tuttavia rigurgito di tomba”, al castello Maniace “rettile acquattato che si protende sull’acqua”. Metafore e similitudini proliferano in particolare nella rappresentazione degli scorci naturali resi con forza pittorica. Il “sibilo del vento striscia come un nastro di metallo lungo la ringhiera del lungomare”, la “luna si leva dal mare come un pallone rosaceo pieno di macchie”, le “stelle lottano con l’aria prima di appuntarsi come borchie luccicanti sul cielo”, in un’espansione di figurazioni che avvolge luoghi esemplari della topografia siracusana mutandone le sembianze, così la “facciata della chiesa dello Spirito Santo era una colomba bianca accovacciata sull’acqua” e “il castello un mostro addormentato sulla bocca del porto”. Su tutto si leva il protagonismo del mare colto nella mutevolezza delle sue gradazioni cromatiche, “grigio”, “azzurrognolo”, “viola”, spettatore maestoso ora tumultuoso, ora silente della caducità prosaica delle vicende umane. 3 A. Bocelli, Miracolo in laboratorio, “La Stampa” (26 marzo 1971). 7 Spicca su tale ribalta consunta e corrotta l’ingenuità vitale, la spregiudicatezza adolescenziale di Sandra, nipote di Ferdinando, affine per l’insofferenza ai gangli stantii della gabbia sociale, ai tanti profili femminili che popolano il palcoscenico letterario della Di Falco, da Nerina e Noemi di Paura del giorno a Diletta dell’Inferriata. “Figure animate da un segreto fuoco di poesia”, definiva Eugenio Montale le due giovani protagoniste del romanzo d’esordio della scrittrice, quel Paura del giorno del 1954 che rivelava a suo avviso “un talento narrativo più che notevole”. Prendendo a prestito le parole vergate dal poeta ligure in quell’occasione, si potrebbe chiosare che la vocazione inventiva della Di Falco si aggiudica la sfida del ritratto epocale in un’architettura compositiva imponente che, seppure ogni tanto “scricchioli, non cade”. “Merito della scrittrice”, notava sin dal ’54, Montale con il consueto acume, resta, infatti, di “essere uscita indenne dal suo canovaccio e di aver destato in noi un interesse, una pietà umana che non dimenticheremo facilmente”4. Pur solcando, infatti, senza indulgenza il fondo limaccioso delle miserie umane, l’autrice sa attingere tuttavia a quelle scaturigini dolorose di cui è permeata la condizione dell’uomo di ogni tempo. Donatella La Monaca 4 E. Montale, Laura Di Falco, Paura del giorno in Il secondo mestiere. Prose, I, Milano Mondadori, 1996, p.1720 8 I La campana della sveglia fece sentire i suoi rintocchi importuni; fuori era ancora buio pesto, perché il sole era lontano dal sorgere, e l’aria frizzante della tramontana filtrava attraverso le fessure delle finestre delle camerate. Don Mariano, sempre vigile e attento, spiava lungo i dormitori, badava a che i futuri sacerdoti provvedessero a levarsi d’addosso la camicia da notte e a infilare le lunghe mutande bianche con la massima verecondia e riservatezza possibile. “Dovrete essere di esempio al mondo. Gli occhi di tutti saranno rivolti su di voi”. A un tratto la sua lunga figura nera e poco benevola si fermò ai piedi del letto di Ferdinando. “Sveglia, ragazzo. Qui non ci sono né principi né baroni, perché siamo tutti uguali; e neppure c’è la balia pronta con l’uovo frullato, come vai raccontando”. Ferdinando si sentì invadere dalla solita fiamma di ribellione; qualcuno dei “fratelli” lo tradiva, andava a riferire ai superiori i discorsi anche futili che egli faceva. Per l’avvenire sarebbe stato assai più chiuso e diffidente. “Ho mal di gola” disse; infatti stentava assai a inghiottire, e seguitò a rimanere immobile nel letto come se nulla fosse. Don Mariano gli tastò la fronte. “Storie” disse duramente. “Dovresti essere più caldo” e gli strappò le coperte dal collo, dentro cui si era avvoltolato strettamente. Ferdinando provò a poggiare i piedi in terra, ma si sentì mancare di 9 sotto il pavimento. Decise però che non si sarebbe abbattuto davanti al suo nemico. Fece forza a se stesso e cominciò a vestirsi mentre tutto gli girava attorno. Si portò le mani alle guance; scottavano. Doveva avere la febbre, come già gli era capitato una volta in campagna. La balia lo aveva fatto sapere in città e sua madre era venuta in fretta, accompagnata dal dottore. Ora invece nessuno si curava di lui. Gli riapparve alla mente la figura graziosa della baronessa col suo abito di seta lilla (gli amabili, carezzevoli fiori di lillà che a primavera ondeggiavano al vento nel giardino). “Perché mi fate rimanere sempre in campagna, estate e inverno, mentre voi ve ne tornate dopo la villeggiatura con la carrozza in città?” le aveva chiesto a capo chino. Sua madre era rimasta confusa e disorientata a guardarlo, ed egli aveva approfittato di quell’attimo per afferrare il calamaio con l’inchiostro di gelsi mori e di papaveri e glielo aveva scagliato addosso. In chiesa non riuscì a tollerare l’odore dell’incenso, che gli sembrò assai più acre del solito. Don Mariano doveva essersi accorto di ciò, tanto è vero che assegnò proprio a lui il compito di servire la messa. All’elevazione, quando fu il momento di far squillare il campanello per esortare i presenti al massimo raccoglimento, per poco non cadde svenuto sui gradini dell’altare. Si sentì solo e abbandonato come in un deserto, ebbe perfino pietà di se stesso. Ma aveva deciso di tollerare ogni cosa, non perché si fosse rassegnato a piegarsi, ma per temprare il suo carattere, per rafforzare la sua capacità di resistere alla violenza sia fisicamente che moralmente. Ecco perché non aveva voluto accettare la lettera di sua madre che uno dei servitori del seminario gli aveva fatto intravedere di nascosto ai superiori nel corridoio; oltre che per punire colei che l’aveva allontanato da casa d’accordo con suo padre. Allo stesso modo non aveva smesso di rifiutare gli invii che già gli aveva fatto giungere più volte il barone, con una larghezza che non gli 10 era affatto abituale (la gente guarda; bisogna sempre ben figurare agli occhi degli estranei). Al suon del mormorio sonnolento del prete che recitava le sue formule, rivide le grosse ceste piene di frutta secca, di uova, di confetture che si celavano sotto gli ampi tovaglioli di lino con lo stemma di famiglia ricamato in rosso e blu. “Rimandatele indietro” diceva, ma nascondeva il suo disprezzo sotto la specie che preferiva mortificarsi con l’astinenza. “Abbiamo il piacere e ci assumiamo il gradito compito” aveva scritto il rettore al priore di Sant’Andrea dopo più d’una di quelle prove “di comunicare a Vostra Signoria che il vostro protetto, e nostro apprezzato beniamino, il figlio dell’assai commendevole barone di Riva Secca, rivela già non comuni doti e qualità d’animo essenziali per chi, come lui, s’incammina per l’ardua via del sacerdozio. Largisce infatti, senza nulla toccare, ai poveretti, che così spesso bussano alla nostra porta, tutto quanto il barone suo padre, con costante solerzia e affettuosa larghezza, fa giungere al suo indirizzo”. Il priore era venuto un giorno a visitarlo. “Come ti chiami?” gli aveva chiesto, tanto per cominciare. “Se mi avete fatto venire, è segno che già sapete il mio nome” egli aveva risposto, colpito, più che dalla maestà della persona, dall’accento di settentrionale del prelato che gli suonava all’orecchio quasi come quello di uno straniero. “Dimmi allora come ti trovi in seminario”. “Male” aveva ribattuto senza esitare, perché non aveva ancora appreso l’arte di mentire. “La tonaca mi punge le braccia, il colletto mi taglia la gola, e poi, a tavola...” A questo punto il priore si era affrettato a cambiare argomento, con la faccia emaciata come per un improvviso malessere. Quando poi se n’era andato, egli era rimasto a guardare i sedili neri del parlatorio, i quadri di sacerdoti alle pareti, i mille occhi dei seminaristi, colti dall’obiettivo e fissati per sempre in un’espressione di cu11 riosità inerte, che erano venuti a chiudersi in reclusione tanto tempo prima di lui. “Balia, balia, tradimento!” Il prete officiante era già arrivato alla lettura del Vangelo finale. Ferdinando avvertiva un martellare doloroso alle tempie; sulla lingua gli si era fermato un sapore funesto, e tuttavia quasi si compiaceva di seguitare a sostenere lo stesso, con astiosa indifferenza, lo sguardo insistente di don Mariano. Doveva fin d’ora affilare le armi per la sua vittoria finale; in che cosa consistesse quest’ultima, non lo sapeva ancora neanch’egli, ma una cosa era certa: che non avrebbe mai acconsentito a vestire l’abito del sacerdote. Alla fine della messa riprese il suo posto nel banco. I fratelli recitavano il rosario. “Nel primo mistero gaudioso...” Era lontano il tempo in cui si era fatto riprendere più volte perché teneva le labbra serrate e lo sguardo dissipato mentre i compagni rispondevano alle avemmarie. Ora era il primo a cogliere con l’orecchio teso l’ultima sillaba del corifeo per inserirsi nel coro di risposta. Era stato anche il mezzo escogitato per riuscire a vincere gli sbadigli e combattere la noia per quelle ore interminabili che doveva trascorrere in ginocchio, come una sorta di occupazione, che era bene espletare nel miglior modo possibile. La mente intanto spaziava liberamente per conto suo. “Nel secondo mistero gaudioso...” Bisognava che scoprisse chi l’aveva tradito riferendo a don Mariano le sue conversazioni. Forse il fratello Bellia, magro e consumato dalle devozioni, che chiedeva sempre di purgarsi, perché diceva che dopo gli si schiariva la mente; o il fratello Amenta, grasso e contento, che a refettorio buttava giù qualunque cosa e divorava soddisfatto il suo pezzo di pagnotta, anche se era stantia di tre giorni. “Ave Maria, gratia plena...” Un gran male ancora alla testa, e poi sempre alla gola, con un gran bisogno di tossire. Il muro di cinta del Seminario era altissimo, ma, ammesso pure che fosse riuscito a scalarlo, una volta fuggito da quel luogo, non sarebbe stato ancora in grado di difendersi da solo. 12 Passarono in fila dal giardino di cemento; gli alberi di aranci cominciavano a mostrare i primi boccioli di zagare, un nespolo nano, che cresceva accanto a una palma prigioniera, faceva intravedere un accenno di grappoli pronti a fiorire. La stagione cominciava a cambiare, già si avvicinava la fine di marzo. In quell’epoca la balia lo conduceva dai pastori, nella valle vicina, a mangiare la ricotta appena tirata fuori dai paioli. In segno di rispetto gli apparecchiavano un posto con la scodella e il tovagliolo in un luogo appartato dell’abitazione, che odorava di latte e di montone. Nell’androne del refettorio, pavimentato anch’esso con una gettata di cemento, arrivò il cuoco con un’enorme bricco di caffè d’orzo; si sparse attorno un sentore di fondi ribolliti e di tizzoni fumiganti. (La balia tirava fuori dal seno un cartoccetto e cospargeva di zucchero mischiato a cannella pestata quella crema tenera e candida). Il rettore in persona si accostò al lungo tavolo dove sedeva Ferdinando. “Come va col tuo caffè, figliolo?” “Benissimo” egli rispose e si affrettò a mandar giù con falso entusiasmo il contenuto della tazza. Il vecchio sacerdote si allontanò con un gran rumore di chiavi che gli pendevano a mazzo dalla cintola e gli sbattevano ad ogni passo sul ginocchio. “Lo fa per penitenza” gli aveva spiegato un giorno il fratello Bellia, e aveva concluso che proprio per questo egli ammirava e invidiava il rettore. Doveva essere stato lui a riferire la faccenda dell’uovo frullato. Ora i ragazzi si erano alzati e avevano abbandonato il loro posto a tavola; si erano schierati al solito davanti a un recipiente pieno d’acqua fredda, ciascuno col proprio cucchiaio, per risciacquarvi dentro la posata. Quando arrivò il suo turno, l’acqua era già sporca e opaca; ma non ci badò neppure. Aveva trovato quest’altro modo di esercitarsi a vincere la sua naturale repugnanza; quasi come i santi, che avevano mortificato se stessi per guadagnarsi il paradiso (ricordava gli esempi più largamente citati al riguardo, a cominciare da santa Margherita 13 Alacocque). Egli invece si comportava così per prepararsi a conquistare il mondo. Quest’ultima parola era per lui piena di fascino e di promesse, e al tempo stesso carica d’incognite: il “titolo”, le ricchezze, la potenza, la gloria. Il rettore compilava già nella mente la lettera che avrebbe inviata a mano quel giorno stesso al priore di Sant’Andrea: “Il nostro dilettissimo figlio e vostro amabile protetto comincia a rivelare le virtù degli eletti...” Fuori dal refettorio, nel giardino, diede sfogo finalmente a quel gran bisogno che avvertiva di tossire, e ogni colpo di tosse gli si ripercuoteva nella nuca. “Basta” diceva dentro di lui il ragazzo che era cresciuto fra le sottane della balia. “Resisti” diceva il nuovo Ferdinando che fino a quel momento era stato sotto la sferza dello sguardo di don Mariano. Durò così per altri due giorni, fino a quando di notte fece una gran sudata e avvertì in bocca un liquido caldo e insipido. Lo spasimo alla gola era cessato di botto e al mattino, quando si levò dal letto, non avvertì più il capogiro, anche se le gambe gli tremavano ancora. “Questo ragazzo ha avuto l’angina” disse qualche giorno dopo il medico provinciale, venuto a effettuare un controllo sanitario per ordine del potere governativo. “Eppure” ribatté incredulo don Mariano “ha seguitato a fare la vita di tutti i giorni come gli altri”. Ferdinando gioì dentro di sé. Il suo fisico aveva superato quella prova. Per tre giorni fu dispensato dai soliti doveri. Era la prima volta, da che era in seminario, che aveva davanti a sé l’intera giornata senza che questa fosse scandita attimo per attimo dalle pratiche religiose e dalla frequenza della scuola. Non provava simpatia per nessuno dei compagni, ma quel dormitorio vuoto, non animato dalla loro presenza, dal loro tossire frequente, alla sera e al mattino, che si intercalava agli ammonimenti di don Mariano (“la purezza, figlioli, così cara alla Vergine Maria, che è la mamma di tutti”) conferiva un senso d’invincibile solitudine. 14 Prese con sé il libro con la Preghiera del seminarista, ché non voleva essere accusato di dissipazione se lo avesse incontrato qualcuno dei superiori e discese nel piano in basso per fare un’ispezione di quei luoghi che gli erano del tutto ignoti. Anche qui corridoi cupi e umidicci, con le finestre con le griglie di ferro, che aveva appena intraveduto quando passava in fila con i fratelli per recarsi al refettorio. Scoperse così che era situata da quelle parti la dispensa, chiusa a catenaccio, da cui si sprigionava un odore di frutta e di formaggio che appesantiva l’aria; più giù gli spogliatoi con le pareti invase da armadi immensi, anch’essi dello stesso colore del cemento, dentro cui erano radunati gli abiti dell’intera comunità a seconda della stagione. “Perché non mi accompagnate” disse all’improvviso una voce dal fondo del corridoio. Era il fratello che faceva da custode al guardaroba, una specie di converso, che pur senza appartenere a nessun ordine, si era ritirato presso i preti. Trascinava un sacco pieno di biancheria da lavare e fece capire che desiderava essere aiutato. Attraversarono insieme l’androne e sbucarono improvvisamente in un giardino pieno di rosai carichi di boccioli vicini alla fioritura. Gli oleandri sfoggiavano già i loro mazzi rossi e carnicini. “Qui sì che è bello” non poté fare a meno di esclamare Ferdinando, e abbandonato per un momento il sacco, si fermò a guardare le piante. “È il giardino dell’arcivescovo” gli spiegò il converso. “Quando monsignore era vivo, si affacciava da quella loggia” e indicò una terrazza assalita da cespugli di gelsomini anch’essi prossimi alla fioritura. “Il nuovo arcivescovo è già venuto in città, ma ancora non è entrato in sede” e a questo punto egli si strinse nelle spalle e fece capire che non avrebbe potuto aggiungere al riguardo una parola di più. Risollevarono il sacco e si avviarono per un viale di rampicanti; si ritrovarono in un atrio di cemento, con gli alberi imprigionati, perfettamente simile a quello del seminario. “Qui ci stanno le orfanelle” disse il converso, con l’aria di aver svela15 to chissà che mistero, e subito dopo s’inchinò a salutare una suora, che si attaccò alla catena di una campanella per annunciare il loro arrivo. S’inoltrarono in una specie di lungo sotterraneo, e un’altra suora, sbucata da quell’oscurità, s’inoltrò con loro verso la penombra dopo aver risposto al saluto appena con un lieve cenno della testa appesantita dal cappello inamidato. Ferdinando avvertì un odore caldo di lisciva e di sapone confezionato con grasso di animali; eppure c’era un che di confortevole e di casalingo in quel tanfo greve che invadeva l’ambiente e faceva supporre che qualcuno provvedeva al bucato per tutti, e sicuramente anche agli strappi e ai bottoni che erano saltati via. Apparvero i lavatoi lunghi come quelli pubblici di campagna, e nell’acqua saponosa e grigiastra, galleggiava una schiuma grassa e densa. Buttarono per terra il fagotto e quattro ragazze robuste e sorridenti vi si lanciarono sopra. “A me, a me”, gridavano come impazzite “la biancheria del vicario del vescovo”. Sotto gli occhi sbalorditi di Ferdinando apersero l’involucro e ne tirarono fuori una montagna di camicie e di mutande. Si diedero a frugare come forsennate. “I fazzoletti” gridavano, e ridevano senza ritegno. Finalmente trovarono la preda. “Mamma mia, che profumo”. Infatti da quelle pezzole di tela raffinata si sprigionava un acuto odore di lavanda e di gelsomino. Accanto al lavatoio era rimasta in piedi una ragazza; doveva essere la più giovane; bionda, e tuttavia con gli occhi neri e sorridenti, il viso delicato poggiato sul petto come per una certa riservatezza che le aveva impedito di abbandonarsi anche lei alla gazzarra al cospetto di quegli inattesi visitatori; Ferdinando per la prima volta fu colpito dai seni che si disegnavano appena sotto il rozzo grembiule che fasciava per intero la sua figura. Si sentì invadere da una fiamma che però non era né di odio, né di orgoglio ferito, come gli era accaduto in parlatorio a colloquio col priore. I suoi occhi s’incontrarono con quegli occhi disarmati, e tuttavia pronti ad accogliere il suo sguardo, e avvertì uno strano 16 languore che riuscì a spiegare con il colpo di febbre che aveva avuto. Ma un lungo grido, prolungato e assordante, accompagnato da un coro sfrenato di voci, e subito dopo seguito da uno scalpiccio impetuoso che si ripercuote per le finestre, lo fece trasalire. “Il morto! Il morto!” “Sono le ragazze che hanno avuto la notizia che devono andare in fila a un funerale di lusso” spiegò con un sorriso di condiscendenza la suora che li aveva guidati lungo il corridoio. “Non vanno mai a passeggio e allora sono contente, perché così almeno possono un poco svagarsi”. Ferdinando considerò sconcertato come la morte potesse essere causa di gioia; anch’egli, per le sue uscite insieme ai fratelli, non aveva altro itinerario che la strada appartata che costeggiava il cimitero, battuta soltanto da quelli che portavano i loro morti a spalla, nella maniera la più riservata possibile per nascondere la loro povertà, visto che non avevano i mezzi per far trasportare la salma dalla carrozza funebre, con il corteo delle orfane, chiamate appunto a pagamento per rendere il rito più solenne. “Sveglia, figliolo” disse il converso e gli battè la mano sulla spalla; era venuto il momento di raccattare da terra il sacco vuoto che aveva fatto da involucro alla biancheria da lavare. “Venite un momento” disse la suora, e scansando abilmente gli stipiti di una porticina laterale che avrebbero ammaccato il suo cappello, fece strada e li condusse in una stanzetta appartata e silenziosa. Due giovani sorelle erano intente a fare le ostie. Una di loro preparava in una terrina una pasta candida e fluida, l’altra chiudeva fra due lastre di ferro rovente una cucchiaiata per volta di quell’impasto. Subito dopo apparivano i fogli con tante piccole ostie da ritagliare. “Quelle grandi per la consacrazione le faremo domani” disse la suora al converso e gli consegnò intanto un pacchetto fragile e leggero. “Mi raccomando, attenzione” gli suggerì con zelo e cominciò a far strada per il ritorno. 17 Al passaggio dalla lavanderia le ragazze erano sparite; per ordine della suora o perché avevano già portato a termine per quel giorno il loro lavoro. Ma i panni insaponati e abbandonati a mucchio sul lavatoio facevano piuttosto pensare alla prima ipotesi. Ferdinando seguitò a perdersi nelle supposizioni: la suora doveva essersi accorta di quello sguardo intenso e prolungato che aveva scambiato con la ragazza bionda. Forse era questo uno dei peccati contro la purezza che don Mariano esecrava come i più gravi. “E se il tuo occhio ha peccato, strappalo e buttalo nel fuoco...” La forma dei seni era così diversa da quella della balia, abbondante e carnosa, che egli aveva sempre considerato come un animale mansueto e domestico fatto apposta per fornire a lui sicurezza e compagnia. Attraversarono da capo il giardino dell’arcivescovo. I boccioli delle rose, i fiori vicini ad aprire i loro petali gli fecero pensare ancora al petto dell’orfanella. Lo invase un’ondata inspiegabile di vita, insieme a un senso di mestizia e come di nostalgia. C’erano molte cose che ignorava, o che gli erano state tenute nascoste; il ventre gonfio di sua madre, che lei cercava di nascondere a tutti i costi sotto le arricciature delle vesti; e poi, entrambe le volte, erano nati Lauretta e Luigino. Anche le mucche con la pancia enorme, che ritornava a essere normale non appena era nato il vitellino; e i muggiti della bestia di notte, quando sentiva un gran tramestio nella stalla durante il sonno, perché erano venuti gli uomini ad aiutare non si sa per che cosa; il mattino seguente la balia gli preparava una specie di formaggio color miele e saporoso. “È il colostro” diceva e non aggiungeva altro. “Chissà quando tornerà l’arcivescovo” esclamò il converso desolato. “Non dovrei dirlo, ma c’è qualcuno che glielo impedisce” e l’espressione chiusa e assorta della sua faccia suggerì l’idea della lumaca che si raccoglie nel guscio; tanto appariva non più disposto a dare altre spiegazioni. 18 Il romanzo continua in libreria... VERBAVOLANT e d i z i o n i Finito di stampare nel novembre 2013 presso Priulla srl - Palermo per conto della VerbaVolant edizioni