versione in pdf

Transcript

versione in pdf
24 luglio 2016 delle ore 00:09
Uno, dieci, mille Rencontres!
Il celebre festival di Arles continua a crescere. E tra un paio d’anni potrà contare su una nuova e
ricca fondazione: la LUMA. Ma nel frattempo mantiene la sua proverbiale qualità
Dieci anni di assenza tra le strade di Arles
durante la settimana di apertura del festival di
fotografia più reputato al mondo, sono una vera
eternità. È successo a me: mi sono ritrovata a
ripercorrere i vicoli, le strade, le piazze, sempre
caldissime, ma oggi anche affollatissime, in uno
stato di completo stupore. Sì, perché solo di
stupore si può parlare quando davanti
all’ingresso dei mitici Ateliers SNCF (antichi
depositi della società ferroviaria francese,
adattati a sale espositive dei Rencontres) ci
troviamo davanti ad un immenso cantiere
verticale e a stentare di riconoscere i vecchi
capannoni dismessi, oggi quasi tutti elegantemente
restaurati, che ci fanno sognare ad occhi aperti.
È l’ultima avventura di Maja Hoffmann,
mecenate di 56 anni, svizzera, che nel 2018
doterà la piccola città di Arles di un efficace
dispositivo per la produzione mondiale
dell’arte contemporanea. La Fondazione,
un’altra tra le mille che sorgono continuamente,
si chiama LUMA (acronimo dalle iniziali del
padre, Luc, e del suo nome Maja) e avrà come
sede, segno di riconoscimento forte, un edificio
a forma di torre, in vetro ed acciaio, alto 56
metri, concepito da Frank Gehry, l’architetto
star del Guggenheim di Bilbao. Maja finanzia
questo progetto, visivamente dantesco, con un
budget non ben specificato compreso tra i 110
e i 150 milioni di euro.
Ma riassumiamo anche le altre cifre di questa
47a edizione dei Rencontres de la Photographie
(4 luglio - 25 settembre), appuntamento cruciale
per il sistema internazionale del mondo delle
immagini. Primo dato indicativo: l’anno scorso,
prima edizione dell’attuale direttore artistico
Sam Stourdzé, che ha guadagnato il testimone
da François Hebel, direttore artistico per i 12
anni precedenti, la biglietteria del festival ha
venduto ben 93mila biglietti, ciò ci fa ben capire
la dimensione che ha raggiunto l’evento creato
da Lucien Clergue, Michel Tournier e JeanMaurice Rouquette nel 1970, quando le
fotografie venivano lette per strada e nei pochi
bistrot intorno alla piazza Du Forum.
Quest’anno, nella settimana di apertura, dal 4
al 10 luglio, si sono registrati 15.200 visitatori
di cui il 35% proveniente dall’estero. Solo nella
sezione ufficiale contiamo 40 mostre in 19
luoghi diversi per 137 artisti e 38 curatori che
hanno esposto complessivamente 3.500 opere.
E ancora, 6 serate proposte in diversi luoghi
(anche fabbriche dismesse dall’altra sponda del
fiume Rodano raggiungibile tramite un
lunghissimo tunnel buio che passa proprio sotto
l’autostrada), 115 eventi pubblici (seminari,
incontri, presentazione di libri, visite guidate da
curatori e artisti, registrazioni radio in
diretta…), vendite all’asta, innumerevoli
workshop, programmi didattici, che hanno
coinvolto 10mila studenti, 88 editori, 1.5000
giornalisti accreditati. Photo Folio Review
quest’anno ha visto 130 esperti provenienti da
tutto il mondo che hanno letto e discusso i lavori
di 250 partecipanti, anch’essi provenienti da
tutto il modo, attribuendo alla fine 4 menzioni
speciali.
Per non parlare dei premi: quello del libro,
diviso tra premio libro d’autore, premio libro
storico e premio libro foto-testo, che attribuisce
6mila euro a ciascun vincitore, tra i 700 libri
pubblicati nel 2016, tutti religiosamente esposti
in un padiglione ristrutturato degli Atelier
SNCF; il premio del progetto di libro (dummy
book), alla sua seconda edizione promosso dalla
Fondazione LUMA che mette a disposizione
del vincitore ben 25mila euro; il premio
scoperta dell’anno che vale anch’esso 25mila
euro; la prima edizione del premio della
fotografia Madame Figaro, 5mila euro; e per
finire il Gran Premio della Giuria del valore
5mila euro. Tutto questo, con un budget di
6.700mila euro di cui il 30% proveniente da
finanziamenti pubblici, il 42% dalla biglietteria
e il 18% dal mecenatismo, sempre più in voga.
Senza poi contare l’indotto che tutto ciò
produce: il Festival Off, nella corte
dell’Arcivescovado che ormai ha raggiunto una
importante rilevanza, decine e decine di
gallerie, molte nuove, alcune vecchie, librerie
che si occupano solo di fotografia, e uomini
sandwich che camminano per le strade con
indosso armature fotografiche, della serie se
Maometto non va alla montagna, è la montagna
che va da Maometto. Non ultimo è l’esercito
dei collezionisti, più o meno importanti, che
attacca le decine di vernissage, anch’essi ormai
catalogabili secondo status diversi seguendo un
rigido protocollo. Da segnalare anche il quartier
generale dello stato della fotografia italiana
installatosi al pian terreno dell’albergo du
Forum, dove si sono svolti diversi eventi ed
incontri gestiti dall’istituto Marangoni di
Firenze con a capo il suo fondatore Martino
Marangoni.
Ma vediamo cosa contiene questo gigantesco
contenitore, che quest’anno ha visto anche la
visita ufficiale del presidente Hollande.
Citiamo subito la sezione dedicata al Dopo
Guerra che propone una vasta raccolta di scatti
di Don McCullin, classe 1935, che ha
fotografato i conflitti più atroci degli ultimi
decenni, che qui viene proposto al di là della
guerra, nel quotidiano di una Londra degli anni
‘50, grigia di carbone, o nei paesaggi bucolici
di Somerset, per scoprire che le sue fotografie
esprimono le stesse grandi questioni sociali del
nostro tempo attraverso un linguaggio
fotografico di grande finezza. Nella stessa
sezione troviamo Yan Morvan, nato a Parigi nel
1954, che ha dedicato 10 anni della sua vita a
cercare e catalogare i territori che sono stati
teatro di conflitti. Qui presenta una mostra
composta da 80 fotografie, selezione da 430
immagini, che funziona come una panoramica
della storia: dalla battaglia di Ponte Milvio del
28 ottobre del 312, al massacro di Srebrenica
del 11 – 13 Luglio 1995, questi luoghi,
fotografati oggi con il banco ottico, ritornati alla
normalità, ci invitano a riflettere. E ancora, una
collettiva dedicata alle immagini dell’11
settembre dal titolo Nothing but Blue Skies,
titolo di una canzone scritta da Irvin Berlin nel
1926 che richiama il blu intenso del colore del
cielo al momento dell’attacco alle Torri
Gemelle: la maggior parte degli artisti si sono
basati sui documenti esistenti per proporne una
nuova lettura e soprattutto per interrogarsi,
dopo 15 anni dalla tragedia, su come questo
dramma è stato affrontato visivamente e
mediaticamente.
Una grande attenzione è data alla Street
Photography, genere la cui nascita potrebbe
essere accomunata a quella del jazz, che, a
partire dagli anni Trenta definisce ed incarna la
fotografia nel suo status più puro: prima ampia
esposizione europea di Sid Grossman, New
York 1913, uno dei fondatori della Photo
League, questa mostra propone tutto il percorso
visivo di questo eclettico autore, che cadde,
come molti agli inizi degli anni Cinquanta nelle
trame del Maccartismo. Troviamo, in questa
sezione, un dialogo tra Garry Winogrand (New
York, 1928), uno dei principali esponenti della
fotografia di strada, e Ethan Levitas (New York,
1971), che usa la sua macchina in modo più
contemporaneo cercando la relazione con le
persone che incontra: degno erede di
Winogrand, negli ultimi 10 anni, Levitas ha
definito la pratica della fotografia di strada
come relazione tra diverse parti la cui somma
svela una dissonanza tra il visibile e l’apparente.
Altre sezioni divertenti ed originali ci
raccontano la storia di diversi territori: quello
della Camargue, dove, con Western Stories,
scopriamo che già nel 1905 fu scelta come
scenario di produzione cinematografica per
pagina 1
Exibart.com
girare i primi film Western; quello del
continente africano, che con Africa Pop, ci
racconta di un’Africa piena di umorismo e
voglia di vivere; quello della tradizione
giapponese dove, nella sezione Monster,
Charles Frèger ci fa conoscere le maschere
rituali del Giappone, esplorando le aree rurali
dove incontra figure mascherate, dipinte,
immaginazioni dell’uomo per cercare di
domare gli elementi esterni al reale e dare un
senso agli eventi naturali.
Impossibile riassumere tutte le proposte, ma
tra la sezione delle Istituzioni Associate entro
nel Museo Rèattu dove mi imbatto nel lavoro
di Katerina Jebb, inglese, classe 1962, dal titolo
Deus Ex Machina: all’interno di una stanza al
pian terreno del museo, sembra una cappella
sconsacrata, si entra in un luogo di
raccoglimento dove immagini fisse, video e
suoni accolgono il visitatore e lo fanno
finalmente tacere. Questo lavoro mi fa capire
che l’idea della riproduzione tridimensionale,
attuata tramite uno scanner numerico ad
altissima definizione, si annulla a beneficio di
un iperrealismo della materia e della carne
stessa.
Patrizia Bonanzinga
pagina 2
24 luglio 2016