159 GRAMSCI E I QUADERNI DEL CARCERE IL VELO DI NIOBE
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159 GRAMSCI E I QUADERNI DEL CARCERE IL VELO DI NIOBE
Anno XXXIV, n. 3 BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI Dicembre 2016 GRAMSCI E I QUADERNI DEL CARCERE IL VELO DI NIOBE GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL’ARTE MATTEO VERONESI Imola I n una celebre lettera del 19 marzo del 1927, Gramsci scriveva di avvertire, nell’oppressione del carcere, l’esigenza di compiere un’opera che fosse “für ewig”1, “per l’eternità”, collocata in un orizzonte “disinteressato”, incondizionato, assoluto. Si trattava, com’è ovvio, di un Aiòn, di un Aevum calati, declinati, per così dire, nella temporalità, incarnati nella storia e negli eventi, non astrattamente idealizzati ‒ ma, proprio per questo, ancor più vivi e sentiti. Gramsci, a proposito di questo orizzonte proteso oltre il tempo, evocava, dalla voragine di una memoria culturale che l’oppressione della prigionia era riuscita a turbare, ma non ad annullare o a rimuovere, e nemmeno ad offuscare o a snaturare nell’essenza, le ombre di Goethe e di Pascoli, autori l’uno di Für ewig, l’altro di Per sempre: una giustapposizione, una contaminazione che mostrano il carattere ambivalente, conflittuale di questo orizzonte spalancato al di là dell’immediato ‒ da un lato, con Goethe, la possibilità, proprio per il prigioniero, per l’oppresso, di intravedere, metafisicamente, la Verità, l’Armonia, la Luce ‒ dall’altro, invece, con Pascoli, la perennità irrevocabile della solitudine e dell’abbandono: da un lato il prigioniero che, anche nelle segrete e nei ceppi, può assaporare “Die Harmonie der Treue”, l’Armonia della Verità, la Luce che accarezza il sapiente nel suo pensiero, e il Vate nel suo canto ‒ e, dall’altro, un “cuore che pensa al ritorno”, un’anima che ascolta “un’eco dell’ieri”, l’eco di un’“infinita promessa” che è venuta meno, e ha lasciato il poeta nella solitudine. E, fondamentalmente, il Gramsci dei Quaderni è, al di là, o al di qua, della ricchezza e della complessità del suo pensiero, della portata storica e pragmatica delle sue riflessioni severe e lucidissime, questo: un uomo solo, 1 Vedi la relativa voce, redatta da Eleonora Forenza, nel Dizionario gramsciano, a cura di G. Liguori e P. Voza, Roma: Carocci, 2009, pp. 338339. 159 MATTEO VERONESI che scrive2, anche per non disperare, per non impazzire, per non cedere ‒ una mente che si nutre ‒ con una sorta di lucida frenesia, di metodicità febbrile ‒ di letture assidue, frenetiche, quasi sfibranti ‒ un pensiero che torna ostinatamente, ciclicamente su se stesso, per meglio definirsi, correggersi, precisarsi, con una movenza hegeliana d’autocoscienza, trasfondendosi in una scrittura programmatica, sorvegliatissima, che non ha ovviamente nulla del journal intime, o del soliloquio, o della confessione, e che non può neppure essere accostata, se non vagamente ‒ orientata com’è alla possibilità o alla speranza, che si fa certezza, di un’azione futura ‒, all’algido, adamantino ripiegamento, fra notturno e aurorale, ossessivamente raziocinante, del Valéry dei Cahiers. L’epistolario è pervaso da un lato dal tremendo senso di vuoto, dalla percezione di una vita “terribilmente e squallidamente vuota” ‒ e ravvivato, dall’altro, dall’anelito, di per sé comunitario e dialogico, ad un’imponente ed articolata storia degli intellettuali italiani nei loro rapporti con la società e con il popolo, dalla consolazione, commovente, che la prospettiva di uno studio dantesco arreca alla sua ferita “umanità di carcerato”, dall’appassionata esortazione, rivolta alla moglie, a riprendere la musica come lui la filologia, per rinserrare l’“anello spezzato” di una “catena” intellettuale e morale. Eppure perdura, come un costante sottofondo, la consapevolezza quasi dolorosa dello schermo, per così dire, della scrittura, la quale, se da un lato è tramite della comunicazione, dall’altro è simulacro e surrogato di una presenza assente. In modo quasi pirandelliano (e proprio alla dialettica pirandelliana, specchio, per quanto mistificante, delle contraddizioni borghesi, erano dedicate significative riflessioni negli scritti teatrali giovanili), Gramsci sottolineava come la forma della scrittura finisse per essere, spesso, e involontariamente, distorsione, finzione, artificio, in quanto “risultato di una serie complessa di sforzi di volontà e di atti di autocontrollo”. E viene in mente, riguardo a questa condizione esistenziale di uomo solo che scrive, di prigioniero che si ostina a pensare, a progettare, a scandagliare intellettualmente più la società e la storia che se stesso ‒ o, meglio, anche se stesso, ma sempre in relazione con una società e una storia progettate, e proiettate, al di là dell’immediato ‒, tutta una vasta serie di possibili, più o 2 L’interpretazione che più si avvicina a questa prospettiva, parendo più idonea a cogliere i risvolti prettamente letterari dell’esperienza del Gramsci carcerario, appare quella di Bartolo Anglani, Solitudine di Gramsci. Politica e poetica del carcere, Roma: Donzelli, 2007. Si può vedere, anche, per una lettura del Gramsci critico d’impostazione ermeneutica e raimondiana, con suggestive aperture e accostamenti talora illuminanti, per quanto arditi (da Thibaudet a Valéry a Cioran), l’antologia curata da Andrea Menetti, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma: Carocci, 2004. 160 IL VELO DI NIOBE. GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE meno azzardati, accostamenti e paralleli ‒ da Sade alla Bastiglia, che riversa in migliaia di pagine, pur se con una dialettica non certo lucida e severa come quella di Gramsci, ma dissolta in delirante deriva, una pulsione metamorfica e rivoluzionaria soffocata ‒ a Montaigne, prima ancora, il Montaigne del saggio Des livres, che negli amati storici trova, come Machiavelli nell’esilio dell’Albergaccio, l’azione, l’evento già deposti e decantati in sostanza testuale ‒ e proprio a Montaigne alluderà, nel definirsi, nel Libro segreto, “estremo de’ bibliomanti”, ultimo onnivoro esploratore del Museo della Tradizione, D’Annunzio (dal quale Gramsci, pur alieno, com’è ovvio, da qualsiasi forma di estetizzazione della politica, e propenso semmai, per parafrasare Benjamin, alla politicizzazione dell’arte, tenterà invano di farsi ricevere al Vittoriale, intravedendo, al pari di Lenin, nell’impresa di Fiume una potenziale carica rivoluzionaria e palingenetica, benché ancora confusamente ammantata di un vago socialismo libertario e di un anarchismo fumoso ed irrisolto)3. Ma si pensa, soprattutto (e l’accostamento può valere anche per Serra), al Kafka dei frammenti postumi, per l’idea e l’immagine, l’icona esistenziale e conoscitiva, dell’intellettuale che ‒ nella sua provincia europea, nella sua ebraica marginalità ed erranza, non troppo diverse dalla condizione forzatamente solitaria, defilata, monologante o dialogante solo in absentia, ma proprio per questo più libera, impregiudicata, chiaroveggente, della cultura del confino ‒ non ha bisogno di uscire, nell’immediato, da se stesso, dal breve e vastissimo cerchio delle sue letture e delle sue meditazioni, per andare incontro alla realtà, alla storia, al “mondo della vita” ‒ perché saranno questi ultimi a venire da lui, a farglisi incontro, a sfiorare il cerchio remoto e trepidante del suo isolamento virtualmente dischiuso: “Non è necessario che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per esser smascherato, non può farne a meno, in estasi ti si torcerà innanzi” (Aforismi di Zürau, 109)4. Certo non fu ‒ essendogli preclusa l’azione politica diretta ‒ la storia immediata e contingente a visitare, a sollecitare Gramsci nel suo isolamento non splendido, nella sua gabbia non aurea, nella sua solitudine oppressiva, gemente, malata, “offesa” direbbe Vittorini, non certo “melodiosa” come quella del D’Annunzio del Vittoriale; ma fu, piuttosto, proprio la forzata 3 Cfr. S. Caprioglio, “Un mancato incontro Gramsci-D’Annunzio a Gardone nell’aprile 1921 (con una testimonianza di Palmiro Togliatti)”, Rivista storica del socialismo, 1962, 15-16, pp. 263-265; C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Bologna: il Mulino, 2008. 4 F. Kafka, Il silenzio delle sirene, trad. di A. Lavagetto, Milano: Feltrinelli, 1994, p. 104. 161 MATTEO VERONESI solitudine, il dispotico allontanamento dal mondo decretato da un Regime che voleva, programmaticamente, impedire a quel cervello di pensare (e che invece finì per contribuire a configurare e plasmare, precisamente, e paradossalmente, l’attitudine, la sola possibile, senza alternative, del Gramsci carcerario), a spingere e ad elevare Gramsci, per così dire, dalla storia alla storicità, dalla precarietà discontinua, accidentale e aleatoria della prassi alla sfera dell’ewig, dell’aevum (esattamente sovrapponibile, a ben vedere, al “possesso perpetuo”, allo ktéma es aéi, di Tucidide, all’esperienza storica innalzata a paradigma, a conoscenza esemplare, assoluta, ma non per questo astrattamente idealizzata), ad uno sguardo e ad un respiro che, proprio perché forzatamente, e dolorosamente, sradicati dal piano immanente dell’azione immediata, non divengono certo incapaci di incidere sulla storia, ma al contrario si protendono e si estendono, proprio per questo, alla storia futura. In questo senso, non astrattamente idealistico, né tanto meno, com’è ovvio, estetizzante, eppure tutt’altro che avulso dai valori estetici, da ciò che è specifico dell’arte, Gramsci si muove in un’atmosfera, in un clima intellettuale, non lontanissimi dalla perennis humanitas di Serra, dalla “superstizione volontaria” della sua religio litterarum (la quale, nell’ottica di Gramsci, si intreccia all’idealistica religione della libertà privandola, però, della sua astrattezza, riconducendola al travaglio del lavoro intellettuale inteso come saldissimo impegno etico, e condotto in una solitudine quasi eroica, malgrado tutto, in nome di quella che è stata definita l’“arte del nonostante”, della sfida, della scommessa ostinata, che costituiscono l’essenza della Critica, e della Cultura, nelle loro forme più alte). E si potrà rileggere, allora (passaggio obbligato), l’articolo pubblicato da Gramsci all’indomani della morte di Serra, La luce che si è spenta, apparso sul Grido del Popolo del 20 novembre 1915: scritto dai toni lirici, appassionati, quasi vociani, che appaiono per certi aspetti sorprendenti sotto la sua penna ‒ d’abitudine ben più lucida, pacata, misurata, razionale, dialettica, padrona di sé. Non solo Serra, ma anche De Sanctis ‒ che il Gramsci carcerario leggerà in chiave ideologica, politica, civile, non prettamente estetica, contrapponendo anzi la propria lettura, dialettica e pedagogica, a quella filosofica, per così dire teoretica, datane da Croce ‒ è calato in un’atmosfera iniziatica, mistagogica, visto come guida dietro cui addentrarsi nelle dense profondità di quello che Mallarmé chiamava “le Mystère dans les Lettres”. Ma non è, beninteso, quello di Gramsci, un approccio irrazionalistico, una, direbbe Calvino, “resa al labirinto”, un abbandono all’istinto, all’alea, alla pura sensibilità, al capriccio cangiante delle epifanie e delle intuizioni; si tratta, semmai, di quell’Angelo delle Tenebre di cui parlava il giovane Proust (pur da lui lontanissimo, nel suo estetismo, nella sua mondanità, nel suo dilettantismo di sensazioni, per quanto venati di disincanto, di distacco, di coscienza, fra borghese e aristocratica, della decadenza e del tramonto) 162 IL VELO DI NIOBE. GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE nell’articolo Contre l’obscurité ‒ Angelo che attraversa la Notte “portandovi la luce”. I “mistagoghi” Serra e De Sanctis “hanno iniziato ai misteri” precisamente “mostrando che questi misteri sono vane costruzioni di letterati”. L’iniziazione ai misteri consiste, precisamente, in una demistificazione. L’iniziazione all’esperienza estetica si traduce in superamento critico e dialettico dell’esperienza stessa, non più passivamente ed irrazionalmente subìta, ma mutata in sostanza intellettuale, in operativa essenza concettuale ‒ eppure, proprio per questo, non freddamente scandagliata, ma ancor più direttamente e profondamente vissuta. La critica intesa come immedesimazione e come creazione, come opera d’arte di secondo grado, è così resa immune da qualsiasi insidia d’estetismo inerte e trasognato; e l’esperienza estetica è riconciliata con l’impegno ideologico, e anzi resa funzionale e coessenziale ad esso. Anche la percezione del testo letterario come essenza musicale che si prolunga, riecheggia, rivive e si riverbera nell’animo del lettore interprete ‒ uno degli elementi fondamentali della concezione del critico come artista e come creatore (“la parola (…) è un suono, una nota di un periodo musicale che si snoda, si riprende, si amplia in volute leggere, aeree, che ci conquistano lo spirito e lo fanno vibrare all’unisono con quello dell’autore”) ‒ si traduce in musica intellettuale, in partitura razionale su cui esercitare la consapevolezza critica. Anche su questo terreno, e sotto questo punto di vista, è possibile valutare l’influsso, sul Gramsci critico, di Gentile, che, discostandosi dalla concezione crociana del critico come philosophus additus artifici, come pensatore che illumina le personalità, le individualità etiche e psicologiche degli scrittori riconducendole a ben determinate, adamantine categorie concettuali, teorizzava una critica intesa come facoltà creatrice, come soggettiva prosecuzione, con altri mezzi e in altre forme, dello sforzo creativo dell’artista: basti qui citare la conferenza Genio, gusto, critica (nella Filosofia dell’arte, del 1937), ove si tratteggia un ideale di critico capace di “entrare anche lui in quel che si può dire lo stato di grazia dell’artista, in cui ferve e tumultua la vita con le sue forze creatrici”5. Tanto sul piano delle teorie estetiche, quanto, forse, in certa misura, su quello, più ampio, delle concezioni filosofiche, sia Gentile che Gramsci guardarono a Marx6 per volgere, per declinare la dialettica e l’autocoscienza 5 In generale, per quanto concerne l’influsso di Gentile sul Gramsci critico, con particolare riferimento all’interpretazione di Serra, vedi M. Lollini, “La luce che si è spenta. Gramsci interprete di Renato Serra”, Italian Culture, X (1992), pp. 97-114. 6 Vedi D. Fusaro, Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile, Genova: Il 163 MATTEO VERONESI hegeliane dal piano dell’Idea a quello della Praxis, dalla sfera autonoma e in sé conclusa della speculazione concettuale astratta a quello attivo, concreto, operativo dell’impegno etico, civile, formativo, storico: questo nell’ottica, entro lo sguardo più vasti e più elevati di una religione della libertà che peraltro, in Gentile, sarà soverchiata ‒ senza che ciò investa la sfera dell’esperienza estetica e della speculazione gnoseologica ‒ dallo Stato Etico avvertito, forse, come necessità storica, come fattuale ineludibilità di fronte a cui alla filosofia non resta che il tardivo, crepuscolare volo della Nottola di Minerva ‒ mentre in Gramsci, com’è ovvio, la stessa esperienza estetica, e lo stesso travaglio conoscitivo del cimento filosofico, sono finalizzati al progetto democratico di un organismo sociale e civile che investa la collettività intesa come blocco storico e vita nazionale. Quando parlava, a proposito di De Sanctis, di entusiasmo, creazione, mistagogia estetica, Gramsci pensava, forse, a pagine desanctisiane come quelle sul Dante del Lamennais, ove la critica è definita “la coscienza e l’occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera riflessa dal gusto”, “creazione poetica che ritorna o si ripiega in se stessa”. Proprio facendo leva ‒ sulla scia di Marx, e forse di Gentile ‒ sul movimento autoriflessivo di questa autocoscienza, di questa hegeliana Selbstbewusstsein proiettata e traslata dalla sfera adamantina della speculazione pura ‒ e si pensi, qui, al mallarmiano “Ma Pensée s’est penséé” come esempio, al contrario, dell’aseità assoluta di una coscienza estetica e insieme gnoseologica del tutto chiusa in sé, alienata dalla storia ‒, Gramsci riesce a curvare l’esperienza estetica e la coscienza ermeneutica sul piano della prassi e dell’impegno senza per questo snaturarle, senza farne predeterminata sovrastruttura o rispecchiamento inerte. Il “ritorno al De Sanctis” caldeggiato da Gramsci in pagine celebri7 prospettava, appunto, una critica capace di fondere i due aspetti, quello estetico e quello ideologico, il cimento dell’ermeneutica e quello dell’impegno e della militanza: una critica che fondesse “la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo”. Riviveva, in certa misura, pur se in altro contesto e con altri fini, quell’idea della letteratura stessa come criticism of life che era stata di Matthew Arnold, e poi di Wilde. Proprio per questo, proprio in ragione di questo intrinseco carattere estetico, artistico oltre e prima che politico insito nella creazione letteraria, anticipando tensioni e inquietudini che si ritroveranno largamente nel dibattito Nuovo Melangolo, 2013. 7 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma: Editori Riuniti, 1975, pp. 22 sgg. 164 IL VELO DI NIOBE. GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE culturale del dopoguerra, da Vittorini a Quasimodo a Pasolini, Gramsci mette in luce la dicotomia e il potenziale attrito, nelle dinamiche del divenire storico, tra la sfera del politico, di per sé protesa all’avvenire, tesa alla corrosione critica, e alla conseguente trasformazione, dell’esistente, e quella dell’attività artistica, la quale ‒ e qui Gramsci ha forse in mente, magari attraverso la dialettica di Vita e Forma messa in luce da Tilgher, le maschere di Pirandello, mostrandosi del pari in sintonia indiretta con alcuni aspetti della riflessione di un Simmel, come del giovane Lukács ‒ tenderà invece a cristallizzarsi in “immagini fissate e ‘colate’ nella loro forma definitiva”. Questa dialettica ‒ sorprendentemente vicina all’“abisso dell’estetismo” di cui ha parlato Adorno lettore di Kierkegaard, ossia all’intima coscienza, non estranea all’estetismo nelle sue forme più consapevoli, della fallacia, dell’illusorietà e del vuoto di un’esistenza precariamente giustificata dai soli idoli estetici e formali ‒ di vita e forma, di sostanza ed espressione, d’anima e superficie, attraversa a più riprese, con consonanze per molti aspetti sorprendenti, il Gramsci critico teatrale. Basti pensare non solo alle riflessioni, note, intorno a Pirandello, alla tensione che agli occhi di Gramsci si crea, in pièces come Liolà e Il berretto a sonagli, fra lo slancio dionisiaco, istintuale, la vicinanza alle pulsioni naturali e prerazionali, e i condizionamenti della civiltà e del costume; ma anche allo sguardo con cui Gramsci osserva, sulla scena, cogliendone acutamente il nascosto potenziale di critica della società borghese, rappresentazioni (come Casa di bambola di Ibsen o A Woman of no importance di Wilde) nate nel contesto del simbolismo e dell’estetismo europei, e nelle quali (così come nel Pirandello, poniamo, di Trovarsi o di Diana e la Tuda) emerge una riflessione tormentata intorno al difficile rapporto fra realtà e rappresentazione, pensiero e linguaggio, libero fluire della vita interiore e fissità delle cristallizzazioni sociali e relazionali. Davvero pirandelliano, ad esempio, il disagio che Gramsci coglie nel pubblico borghese posto di fronte al dramma dell’emancipazione, alla vera e propria tragedia dell’autocoscienza e della libertà, incarnati dalle eroine ibseniane; un pubblico che, come i Personaggi pirandelliani, non riconosce, o inconsciamente rifiuta di riconoscere, se stesso nella propria rappresentazione ‒ con la stessa “rabbia di Calibano”, per citare il Wilde del Prologo del Ritratto di Dorian Gray, che riconosce se stesso nella propria cruda e crudele mimesi e non riesce a riconoscersi, invece, nella propria sentimentale e psicologica sublimazione. Se il Tragico nasce dal conflitto, dall’“urto necessario tra due mondi interiori”, allora si comprende la sordità irredimibile della gretta mentalità borghese posta di fronte alla manifestazione drammatica e dialettica di una “morale più spiritualmente umana”, quale quella che appare sulla scena ibseniana; e, allo stesso modo, nel pirandelliano Gioco delle parti, la moglie, 165 MATTEO VERONESI che “per natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io”, contrasta con il cartesiano o kantiano “io ragionante” del marito, con il suo trascendentale principium individuationis “ben levigato e ravviato come un concetto puro” (e viene in mente, qui, quasi, l’alterigia del gaddiano “Io collo ritto” contrapposto, nella sua fissità, nella sua superiorità supposta, al molteplice ed irriducibile Barocco del mondo)8. La dialettica taglia trasversalmente, accomunandole, la sfera ideologica e quella letteraria. È ancora un concetto tragico, quello di catarsi, a mediare il rapporto e l’interrelazione fra struttura e sovrastruttura; una connessione che non si riduce, dunque, a meccanico rispecchiamento o ad omologia inerte e passiva. L’“elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini” (Quaderni, 1244) avviene attraverso un’autoriproduzione riflessiva che coinvolge l’autocoscienza dell’individuo come parte, e insieme specchio, di quella della collettività9. Il passaggio dalla struttura alla sovrastruttura si configura come “catarsi”, come purificazione; nel senso non di una idealistica sublimazione, di un’evasiva fuga dal reale, ma di una lucida, progressiva presa di coscienza, di cui anche la creazione letteraria e l’innovazione linguistica (essa stessa ‒ e anche sotto questo profilo Gramsci non deve essere stato sordo alla lezione del Neoidealismo ‒ forma di creazione, in certa misura d’invenzione poetica, data l’universale metaforicità insita nel linguaggio) sono parte integrante. “La fissazione del momento ‘catartico’ diventa così (…) il punto di partenza per tutta la filosofia della praxis”. In questo senso, anche la critica dantesca, oltre che esercizio disperato eppure lucidissimo di resistenza intellettuale alla prigionia e all’oppressione, è per Gramsci momento del travaglio dialettico. Anche in questo caso, la dialettica assume una forma drammatica, evocando una metafora teatrale. Come viene osservato nel celebre abbozzo di saggio, incoraggiato da Umberto Cosmo, sul canto decimo dell’Inferno10, l’incontro con Cavalcante è punteggiato di didascalie quasi teatrali, che colmano in qualche modo i silenzi, i non detti, le implicite allusioni della rappresentazione, alonata di un “inespresso” che potrebbe far pensare quasi al théâtre du silence di Maeterlinck, ma che non ha, invero, nulla di 8 Ibidem, pp. 342 sgg. e 423. Cfr. P. Misuraca, “Sulla ricostruzione dei concetti di struttura e superstruttura”, Rassegna italiana di sociologia, III (1977), pp. 439-451. 10 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 54 sgg. Si può vedere, al riguardo, la fine analisi di Daniele Maria Pegorari, nel suo libro Il codice Dante. Cruces della Commedia e intertestualità novecentesche, Bari: Stilo, 2012. 166 9 IL VELO DI NIOBE. GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE misticamente indeterminato e vago, e sembra, semmai, simile al Silenzio di Wittgenstein, a quel margine d’indicibilità che circoscrive la parola, il dominio del linguaggio, e contribuisce a definirne e a delimitarne, lucidamente, le prerogative, le regole e i meccanismi11. L’“eternità” della poesia, dice Gramsci (e si ricordi che lo stesso Marx, nell’introduzione ai Grundrisse, doveva pur riconoscere, rileggendo Omero in termini quasi vichiani, che un “perpetuo incanto” continuava ad irradiarsi da quegli antichi miti, che essi continuavano a rappresentare un modello, un termine di paragone e una fonte di piacere estetico perenni, per quanto remote e cupe fossero le epoche storiche di cui essi erano espressione), consiste precisamente nella sua facoltà di “suggestione”, che le consente di andare al di là del dato immediato, di trascendere la mera contingenza (si sarebbe quasi tentati di citare Mallarmé, per l’idea di évocation e suggestion, se la visione storicistica e pragmatica di Gramsci non fosse così decisamente aderente proprio a quel Reale che Mallarmé escludeva fin dal principio, “perché vile”, dalla sfera del poetico). Anche nel discorso poetico, è interessante notare, ha luogo una “catarsi”, che si concentra sulla spia semantica e temporale del verbo “ebbe”, su cui si impernia l’angosciato interrogativo di Cavalcante. Catarsi, questa, che non sembra derivare ‒ come nell’interpretazione goethiana della Poetica di Aristotele ‒ dal distanziamento e dal distacco cui sono sottoposti la pietà e il terrore suscitati da eventi schermati dalla finzione rappresentativa, e men che meno da una freudiana sublimazione o trasformazione delle pulsioni prerazionali; ma che rinvia, piuttosto, se mi si concede l’accostamento ardito, alla kátharsis di cui parla il Platone del Sofista: una purificazione dei concetti, delle definizioni, e dunque del linguaggio; una sorta di salutare igiene del pensiero (“nobile Sofistica”, ghennáia sophistiké), di cui l’intellettuale, il filosofo e il critico possono essere ugualmente compartecipi, e che, pur nascendo sul terreno del linguaggio e del pensiero, può investire l’intera società, giovando alla chiarezza e alla genuinità della comunicazione. Di quella ghennáia sophistiké, di quell’arte della parola che non è vacuo edonismo o vano gioco formale, ma lucida e insieme appassionata ricerca del senso, anche la critica ‒ esercizio di comprensione e d’interpretazione, ma insieme genere letterario e forma d’arte ‒ sa e può essere strumento. Gramsci (allievo, a Torino, dello storico dell’arte Pietro Toesca, sensibile, prima di convertirsi ad un rigoroso metodo filologico, alle suggestioni 11 Su Gramsci come possibile precursore di Wittgenstein (ma in un’altra ottica), vedi A. Sen, “Sraffa, Wittgenstein e Gramsci”, Journal of Economic Literature, XLI (2003), n. 4, pp. 1240-1255; F. Lo Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein, Roma: Donzelli, 2004. 167 MATTEO VERONESI dell’estetismo) introduce, fra l’altro, una movenza quasi da critique d’analogie, da critica en artiste e en poète, richiamando, a paragone della reticenza, dell’allusione, dell’inespresso, del non detto danteschi, alcune figurazioni pompeiane ‒ il velo di Niobe, le fasce che avvolgono il viso di Medea mentre medita l’assassinio dei figli. E chi osserva gli affreschi pompeiani non fatica a scorgere, effettivamente ‒ nella dilatazione degli spazi, nella sospensione dei gesti, nella ieratica atmosfera d’attesa e d’angoscia ‒, una tensione tragica, un fatale incombere, non lontani da quelli delle enigmatiche evocazioni dantesche. Un richiamo alla pittura antica si trova anche nello scritto su Liolà di Pirandello12, dove la vitalità primordiale, satiresca incarnata dal protagonista (la solare, prorompente Vita soffocata dalla rigidità della Forma delle convenzioni borghesi) evoca “l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco” ‒ una tradizione che “ha lasciato tracce nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico”. L’esperienza estetica, anche e proprio quando sia espressione, riflesso e condensazione simbolica di una sfera prerazionale, originaria, istintuale, di una perduta sintonia con la natura, di un’autenticità oramai irrimediabilmente adulterata, resta ‒ come tutte le componenti di una cultura intesa, complessivamente, quale corrispettivo e manifestazione della civiltà ‒ oggetto e tramite di consapevolezza, cristallizzazione d’autocoscienza, e, dunque, potenziale alimento del lungo e arduo processo di disalienazione dell’uomo. L’autocoscienza hegeliana era giunta, con la letteratura pura (cui Gramsci guardò con fastidio, come i suoi giudizi sprezzanti su Ungaretti basterebbero a dimostrare), ad un estremo di lucidità e di rarefazione, che rischiavano di tradursi in algido cerebralismo, in raggelato ripiegamento solitario. Nella rilettura gramsciana del rapporto desanctisiano fra soggetto interpretante ed oggetto interpretato (della “relation critique”, diremmo con Starobinski), l’oggetto, l’oggettività dell’altro da sé non sono cancellati, fatti svanire, fagocitati, per così dire, dal movimento della coscienza che torna a se stessa divenendo autocoscienza. Al contrario, l’immedesimazione con l’oggetto resa possibile dall’entusiasmo, dal trasporto e dall’investimento del critico creatore accresce la pregnanza dell’interpretandum, dell’oggetto dell’interpretazione, considerato nella sua significanza, nella sua consistenza storiche e civili, oltre che estetiche. Sulle orme di Marx (e forse di Gentile), il critico gramsciano supera la visione teoretica che nelle “diverse forme di alienazione” non vede se non “figure variate della coscienza e dell’autocoscienza”, e che per “sopprimere l’alienazione” finisce per sopprimere anche l’“oggettività”. L’immergersi 12 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 347 sgg. 168 IL VELO DI NIOBE. GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE nell’altro da sé, il trasporto del critico entusiasta che diviene altro, e insieme, per via d’autocoscienza, più profondamente e più consapevolmente se stesso (fino ai limiti di una mistica alienatio mentis, di un excessus mentis, di una ekstasis estetica e simpatetica che tuttavia non sconfinano mai, in Gramsci, in un idealistico annullamento metastorico della soggettività nella sfera perenne dell’Assoluto e dello Spirito, e sono anzi sempre ancorati alla ben definita situazione storica e contestuale del critico come uomo, intellettuale, pensatore) proprio nel confronto appassionato e partecipe con l’opera accrescono, semmai, il significato e la forza del critico e dell’opera nel loro essere partecipi del mondo fenomenico e, di conseguenza, della società e della storia. “L’idea astratta, che diviene immediato intuire, non è assolutamente altro che il pensiero astratto che rinuncia a sé e si decide ad essere intuizione”13. Come scrive Pasolini nelle Ceneri di Gramsci (pur delineando, forse, come notava ironicamente Asor Rosa, una improbabile “Silvia marxistizzata”14 ‒ eppure fondendo, proprio tramite quell’immaginosa ipotipòsi, poesia e ideologia, impegno civile e afflato creatore), Gramsci aveva, “in quel maggio in cui l’errore / era ancora vita”, additato, “con la sua magra mano”, “l’ideale che illumina questo silenzio”, che insidia e dissipa lo spessore sordo e cupo dell’insensatezza. E il Gramsci di cui parla Pasolini nel saggio La libertà stilistica ‒ il Gramsci carcerato, “tanto più libero quanto più segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero”15 è, precisamente, quello ‒ letterariamente, forse, il più fecondo e il più vivo ‒ su cui si sono concentrate queste mie pagine. Un giovane filosofo, che cerca di aprire uno spiraglio e una speranza nella grigia coltre di questa postmodernità morente ‒ di questa sorta di autunno del postmoderno in cui pare di vivere, e in cui lo stesso postmodernismo pare essersi stancamente arenato, perdendo, o irrigidendo in cliché e in formula, anche la forza potenzialmente innovatrice e liberatrice della sua originaria volontà di decostruzione ‒, accosta alla “città futura” prospettata da Gramsci i versi in cui Fortini parla di una realtà storica e sociale nella quale “tutto è tremendo ma non ancora irrimediabile”. L’ideologia e la poesia convergono e si sovrappongono e si intrecciano, senza prevaricare l’una sull’altra, sul terreno dell’immaginazione, della proiezione ideale, della mitopoiesi, se si vuole ‒ ma una mitopoiesi concreta, 13 K. Marx, Scritti filosofici giovanili, a cura di S. Moravia, Milano: Mondadori, 1996, pp. 159 sgg. 14 A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma: Samonà e Savelli, 1969, p. 397. 15 Vedi, su tutto questo, P. Voza, “Il Gramsci di Pasolini”, Lo sguardo. Rivista di filosofia, III, 2015, n. 19, pp. 243-254. 169 MATTEO VERONESI corposa, pragmatica, operativa; di una “fantasia concreta” volta all’agire, o alla possibilità e all’ipotesi, almeno, dell’agire, e capace di far “balenare nuove immagini del mondo”; di un “prassismo trascendentale” non inconciliabile, paradossalmente, con un fondo di platonismo, con l’idea ficiniana di un’umanità che, guardando alla purezza degli archetipi, “perficit, corrigit et emendat” la materia bruta, il grigio e angusto esistente16 (e si potrebbe citare, qui, proprio sull’alone del pensiero neoplatonico, e in modo altrettanto paradossale, il D’Annunzio delle Vergini delle rocce e del Proemio al Convito, con la sua utopia di un “vivo fascio di energie militanti le quali valgano a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità”). In ciò consiste, forse, almeno agli occhi dello storico e del teorico della critica e delle poetiche (ossia allo sguardo forse più distaccato, contemplante, meno invischiato nei travagli storici di una filosofia della prassi), una parte non esigua del significato e del messaggio racchiusi nell’eredità di Gramsci. __________ 16 D. Fusaro, Il futuro è nostro, Milano: Bompiani, 2014, pp. 569 e 596-597. 170 IL VELO DI NIOBE. GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE NOTA BIBLIOGRAFICA Anglani, B. Solitudine di Gramsci. Politica e poetica del carcere, Roma: Donzelli, 2007. Asor Rosa, A. Scrittori e popolo, Roma: Samonà e Savelli, 1969. Caprioglio, S. “Un mancato incontro Gramsci-D’Annunzio a Gardone nell’aprile 1921 (con una testimonianza di P. Togliatti), Rivista storica del socialismo, 1962, 15-16, pp. 263-265. Catalfamo, A. Antonio Gramsci. Una “critica integrale”, Chieti: Solfanelli, 2015. Davico Bonino, G. Gramsci e il teatro, Torino: Einaudi, 1974. Dizionario gramsciano, a cura di G. 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