159 GRAMSCI E I QUADERNI DEL CARCERE IL VELO DI NIOBE

Transcript

159 GRAMSCI E I QUADERNI DEL CARCERE IL VELO DI NIOBE
Anno XXXIV, n. 3 BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI Dicembre 2016
GRAMSCI E I QUADERNI DEL CARCERE
IL VELO DI NIOBE
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL’ARTE
MATTEO VERONESI
Imola
I
n una celebre lettera del 19 marzo del 1927, Gramsci scriveva di avvertire,
nell’oppressione del carcere, l’esigenza di compiere un’opera che fosse
“für ewig”1, “per l’eternità”, collocata in un orizzonte “disinteressato”,
incondizionato, assoluto.
Si trattava, com’è ovvio, di un Aiòn, di un Aevum calati, declinati, per così
dire, nella temporalità, incarnati nella storia e negli eventi, non astrattamente
idealizzati ‒ ma, proprio per questo, ancor più vivi e sentiti.
Gramsci, a proposito di questo orizzonte proteso oltre il tempo, evocava,
dalla voragine di una memoria culturale che l’oppressione della prigionia era
riuscita a turbare, ma non ad annullare o a rimuovere, e nemmeno ad offuscare
o a snaturare nell’essenza, le ombre di Goethe e di Pascoli, autori l’uno di Für
ewig, l’altro di Per sempre: una giustapposizione, una contaminazione che
mostrano il carattere ambivalente, conflittuale di questo orizzonte spalancato
al di là dell’immediato ‒ da un lato, con Goethe, la possibilità, proprio per il
prigioniero, per l’oppresso, di intravedere, metafisicamente, la Verità,
l’Armonia, la Luce ‒ dall’altro, invece, con Pascoli, la perennità irrevocabile
della solitudine e dell’abbandono: da un lato il prigioniero che, anche nelle
segrete e nei ceppi, può assaporare “Die Harmonie der Treue”, l’Armonia
della Verità, la Luce che accarezza il sapiente nel suo pensiero, e il Vate nel
suo canto ‒ e, dall’altro, un “cuore che pensa al ritorno”, un’anima che ascolta
“un’eco dell’ieri”, l’eco di un’“infinita promessa” che è venuta meno, e ha
lasciato il poeta nella solitudine.
E, fondamentalmente, il Gramsci dei Quaderni è, al di là, o al di qua, della
ricchezza e della complessità del suo pensiero, della portata storica e
pragmatica delle sue riflessioni severe e lucidissime, questo: un uomo solo,
1
Vedi la relativa voce, redatta da Eleonora Forenza, nel Dizionario
gramsciano, a cura di G. Liguori e P. Voza, Roma: Carocci, 2009, pp. 338339.
159
MATTEO VERONESI
che scrive2, anche per non disperare, per non impazzire, per non cedere ‒ una
mente che si nutre ‒ con una sorta di lucida frenesia, di metodicità febbrile ‒
di letture assidue, frenetiche, quasi sfibranti ‒ un pensiero che torna
ostinatamente, ciclicamente su se stesso, per meglio definirsi, correggersi,
precisarsi, con una movenza hegeliana d’autocoscienza, trasfondendosi in una
scrittura programmatica, sorvegliatissima, che non ha ovviamente nulla del
journal intime, o del soliloquio, o della confessione, e che non può neppure
essere accostata, se non vagamente ‒ orientata com’è alla possibilità o alla
speranza, che si fa certezza, di un’azione futura ‒, all’algido, adamantino
ripiegamento, fra notturno e aurorale, ossessivamente raziocinante, del Valéry
dei Cahiers.
L’epistolario è pervaso da un lato dal tremendo senso di vuoto, dalla
percezione di una vita “terribilmente e squallidamente vuota” ‒ e ravvivato,
dall’altro, dall’anelito, di per sé comunitario e dialogico, ad un’imponente ed
articolata storia degli intellettuali italiani nei loro rapporti con la società e con
il popolo, dalla consolazione, commovente, che la prospettiva di uno studio
dantesco arreca alla sua ferita “umanità di carcerato”, dall’appassionata
esortazione, rivolta alla moglie, a riprendere la musica come lui la filologia,
per rinserrare l’“anello spezzato” di una “catena” intellettuale e morale.
Eppure perdura, come un costante sottofondo, la consapevolezza quasi
dolorosa dello schermo, per così dire, della scrittura, la quale, se da un lato è
tramite della comunicazione, dall’altro è simulacro e surrogato di una
presenza assente.
In modo quasi pirandelliano (e proprio alla dialettica pirandelliana,
specchio, per quanto mistificante, delle contraddizioni borghesi, erano
dedicate significative riflessioni negli scritti teatrali giovanili), Gramsci
sottolineava come la forma della scrittura finisse per essere, spesso, e
involontariamente, distorsione, finzione, artificio, in quanto “risultato di una
serie complessa di sforzi di volontà e di atti di autocontrollo”.
E viene in mente, riguardo a questa condizione esistenziale di uomo solo
che scrive, di prigioniero che si ostina a pensare, a progettare, a scandagliare
intellettualmente più la società e la storia che se stesso ‒ o, meglio, anche se
stesso, ma sempre in relazione con una società e una storia progettate, e
proiettate, al di là dell’immediato ‒, tutta una vasta serie di possibili, più o
2
L’interpretazione che più si avvicina a questa prospettiva, parendo più
idonea a cogliere i risvolti prettamente letterari dell’esperienza del Gramsci
carcerario, appare quella di Bartolo Anglani, Solitudine di Gramsci. Politica
e poetica del carcere, Roma: Donzelli, 2007. Si può vedere, anche, per una
lettura del Gramsci critico d’impostazione ermeneutica e raimondiana, con
suggestive aperture e accostamenti talora illuminanti, per quanto arditi (da
Thibaudet a Valéry a Cioran), l’antologia curata da Andrea Menetti, Il lettore
in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma: Carocci, 2004.
160
IL VELO DI NIOBE.
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE
meno azzardati, accostamenti e paralleli ‒ da Sade alla Bastiglia, che riversa
in migliaia di pagine, pur se con una dialettica non certo lucida e severa come
quella di Gramsci, ma dissolta in delirante deriva, una pulsione metamorfica e
rivoluzionaria soffocata ‒ a Montaigne, prima ancora, il Montaigne del saggio
Des livres, che negli amati storici trova, come Machiavelli nell’esilio
dell’Albergaccio, l’azione, l’evento già deposti e decantati in sostanza testuale
‒ e proprio a Montaigne alluderà, nel definirsi, nel Libro segreto, “estremo de’
bibliomanti”, ultimo onnivoro esploratore del Museo della Tradizione,
D’Annunzio (dal quale Gramsci, pur alieno, com’è ovvio, da qualsiasi forma
di estetizzazione della politica, e propenso semmai, per parafrasare Benjamin,
alla politicizzazione dell’arte, tenterà invano di farsi ricevere al Vittoriale,
intravedendo, al pari di Lenin, nell’impresa di Fiume una potenziale carica
rivoluzionaria e palingenetica, benché ancora confusamente ammantata di un
vago socialismo libertario e di un anarchismo fumoso ed irrisolto)3.
Ma si pensa, soprattutto (e l’accostamento può valere anche per Serra), al
Kafka dei frammenti postumi, per l’idea e l’immagine, l’icona esistenziale e
conoscitiva, dell’intellettuale che ‒ nella sua provincia europea, nella sua
ebraica marginalità ed erranza, non troppo diverse dalla condizione
forzatamente solitaria, defilata, monologante o dialogante solo in absentia, ma
proprio per questo più libera, impregiudicata, chiaroveggente, della cultura del
confino ‒ non ha bisogno di uscire, nell’immediato, da se stesso, dal breve e
vastissimo cerchio delle sue letture e delle sue meditazioni, per andare
incontro alla realtà, alla storia, al “mondo della vita” ‒ perché saranno questi
ultimi a venire da lui, a farglisi incontro, a sfiorare il cerchio remoto e
trepidante del suo isolamento virtualmente dischiuso: “Non è necessario che
tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta
soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il
mondo ti si offrirà per esser smascherato, non può farne a meno, in estasi ti si
torcerà innanzi” (Aforismi di Zürau, 109)4.
Certo non fu ‒ essendogli preclusa l’azione politica diretta ‒ la storia
immediata e contingente a visitare, a sollecitare Gramsci nel suo isolamento
non splendido, nella sua gabbia non aurea, nella sua solitudine oppressiva,
gemente, malata, “offesa” direbbe Vittorini, non certo “melodiosa” come
quella del D’Annunzio del Vittoriale; ma fu, piuttosto, proprio la forzata
3
Cfr. S. Caprioglio, “Un mancato incontro Gramsci-D’Annunzio a Gardone
nell’aprile 1921 (con una testimonianza di Palmiro Togliatti)”, Rivista storica
del socialismo, 1962, 15-16, pp. 263-265; C. Salaris, Alla festa della
rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Bologna: il
Mulino, 2008.
4
F. Kafka, Il silenzio delle sirene, trad. di A. Lavagetto, Milano: Feltrinelli,
1994, p. 104.
161
MATTEO VERONESI
solitudine, il dispotico allontanamento dal mondo decretato da un Regime che
voleva, programmaticamente, impedire a quel cervello di pensare (e che
invece finì per contribuire a configurare e plasmare, precisamente, e
paradossalmente, l’attitudine, la sola possibile, senza alternative, del Gramsci
carcerario), a spingere e ad elevare Gramsci, per così dire, dalla storia alla
storicità, dalla precarietà discontinua, accidentale e aleatoria della prassi alla
sfera dell’ewig, dell’aevum (esattamente sovrapponibile, a ben vedere, al
“possesso perpetuo”, allo ktéma es aéi, di Tucidide, all’esperienza storica
innalzata a paradigma, a conoscenza esemplare, assoluta, ma non per questo
astrattamente idealizzata), ad uno sguardo e ad un respiro che, proprio perché
forzatamente, e dolorosamente, sradicati dal piano immanente dell’azione
immediata, non divengono certo incapaci di incidere sulla storia, ma al
contrario si protendono e si estendono, proprio per questo, alla storia futura.
In questo senso, non astrattamente idealistico, né tanto meno, com’è ovvio,
estetizzante, eppure tutt’altro che avulso dai valori estetici, da ciò che è
specifico dell’arte, Gramsci si muove in un’atmosfera, in un clima
intellettuale, non lontanissimi dalla perennis humanitas di Serra, dalla
“superstizione volontaria” della sua religio litterarum (la quale, nell’ottica di
Gramsci, si intreccia all’idealistica religione della libertà privandola, però,
della sua astrattezza, riconducendola al travaglio del lavoro intellettuale inteso
come saldissimo impegno etico, e condotto in una solitudine quasi eroica,
malgrado tutto, in nome di quella che è stata definita l’“arte del nonostante”,
della sfida, della scommessa ostinata, che costituiscono l’essenza della
Critica, e della Cultura, nelle loro forme più alte).
E si potrà rileggere, allora (passaggio obbligato), l’articolo pubblicato da
Gramsci all’indomani della morte di Serra, La luce che si è spenta, apparso
sul Grido del Popolo del 20 novembre 1915: scritto dai toni lirici,
appassionati, quasi vociani, che appaiono per certi aspetti sorprendenti sotto la
sua penna ‒ d’abitudine ben più lucida, pacata, misurata, razionale, dialettica,
padrona di sé.
Non solo Serra, ma anche De Sanctis ‒ che il Gramsci carcerario leggerà
in chiave ideologica, politica, civile, non prettamente estetica, contrapponendo
anzi la propria lettura, dialettica e pedagogica, a quella filosofica, per così dire
teoretica, datane da Croce ‒ è calato in un’atmosfera iniziatica, mistagogica,
visto come guida dietro cui addentrarsi nelle dense profondità di quello che
Mallarmé chiamava “le Mystère dans les Lettres”.
Ma non è, beninteso, quello di Gramsci, un approccio irrazionalistico, una,
direbbe Calvino, “resa al labirinto”, un abbandono all’istinto, all’alea, alla
pura sensibilità, al capriccio cangiante delle epifanie e delle intuizioni; si
tratta, semmai, di quell’Angelo delle Tenebre di cui parlava il giovane Proust
(pur da lui lontanissimo, nel suo estetismo, nella sua mondanità, nel suo
dilettantismo di sensazioni, per quanto venati di disincanto, di distacco, di
coscienza, fra borghese e aristocratica, della decadenza e del tramonto)
162
IL VELO DI NIOBE.
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE
nell’articolo Contre l’obscurité ‒ Angelo che attraversa la Notte “portandovi
la luce”.
I “mistagoghi” Serra e De Sanctis “hanno iniziato ai misteri” precisamente
“mostrando che questi misteri sono vane costruzioni di letterati”.
L’iniziazione ai misteri consiste, precisamente, in una demistificazione.
L’iniziazione all’esperienza estetica si traduce in superamento critico e
dialettico dell’esperienza stessa, non più passivamente ed irrazionalmente
subìta, ma mutata in sostanza intellettuale, in operativa essenza concettuale ‒
eppure, proprio per questo, non freddamente scandagliata, ma ancor più
direttamente e profondamente vissuta.
La critica intesa come immedesimazione e come creazione, come opera
d’arte di secondo grado, è così resa immune da qualsiasi insidia d’estetismo
inerte e trasognato; e l’esperienza estetica è riconciliata con l’impegno
ideologico, e anzi resa funzionale e coessenziale ad esso.
Anche la percezione del testo letterario come essenza musicale che si
prolunga, riecheggia, rivive e si riverbera nell’animo del lettore interprete ‒
uno degli elementi fondamentali della concezione del critico come artista e
come creatore (“la parola (…) è un suono, una nota di un periodo musicale
che si snoda, si riprende, si amplia in volute leggere, aeree, che ci conquistano
lo spirito e lo fanno vibrare all’unisono con quello dell’autore”) ‒ si traduce in
musica intellettuale, in partitura razionale su cui esercitare la consapevolezza
critica.
Anche su questo terreno, e sotto questo punto di vista, è possibile valutare
l’influsso, sul Gramsci critico, di Gentile, che, discostandosi dalla concezione
crociana del critico come philosophus additus artifici, come pensatore che
illumina le personalità, le individualità etiche e psicologiche degli scrittori
riconducendole a ben determinate, adamantine categorie concettuali,
teorizzava una critica intesa come facoltà creatrice, come soggettiva
prosecuzione, con altri mezzi e in altre forme, dello sforzo creativo
dell’artista: basti qui citare la conferenza Genio, gusto, critica (nella Filosofia
dell’arte, del 1937), ove si tratteggia un ideale di critico capace di “entrare
anche lui in quel che si può dire lo stato di grazia dell’artista, in cui ferve e
tumultua la vita con le sue forze creatrici”5.
Tanto sul piano delle teorie estetiche, quanto, forse, in certa misura, su
quello, più ampio, delle concezioni filosofiche, sia Gentile che Gramsci
guardarono a Marx6 per volgere, per declinare la dialettica e l’autocoscienza
5
In generale, per quanto concerne l’influsso di Gentile sul Gramsci critico,
con particolare riferimento all’interpretazione di Serra, vedi M. Lollini, “La
luce che si è spenta. Gramsci interprete di Renato Serra”, Italian Culture, X
(1992), pp. 97-114.
6
Vedi D. Fusaro, Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile, Genova: Il
163
MATTEO VERONESI
hegeliane dal piano dell’Idea a quello della Praxis, dalla sfera autonoma e in
sé conclusa della speculazione concettuale astratta a quello attivo, concreto,
operativo dell’impegno etico, civile, formativo, storico: questo nell’ottica,
entro lo sguardo più vasti e più elevati di una religione della libertà che
peraltro, in Gentile, sarà soverchiata ‒ senza che ciò investa la sfera
dell’esperienza estetica e della speculazione gnoseologica ‒ dallo Stato Etico
avvertito, forse, come necessità storica, come fattuale ineludibilità di fronte a
cui alla filosofia non resta che il tardivo, crepuscolare volo della Nottola di
Minerva ‒ mentre in Gramsci, com’è ovvio, la stessa esperienza estetica, e lo
stesso travaglio conoscitivo del cimento filosofico, sono finalizzati al progetto
democratico di un organismo sociale e civile che investa la collettività intesa
come blocco storico e vita nazionale.
Quando parlava, a proposito di De Sanctis, di entusiasmo, creazione,
mistagogia estetica, Gramsci pensava, forse, a pagine desanctisiane come
quelle sul Dante del Lamennais, ove la critica è definita “la coscienza e
l’occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come
opera riflessa dal gusto”, “creazione poetica che ritorna o si ripiega in se
stessa”. Proprio facendo leva ‒ sulla scia di Marx, e forse di Gentile ‒ sul
movimento autoriflessivo di questa autocoscienza, di questa hegeliana
Selbstbewusstsein proiettata e traslata dalla sfera adamantina della
speculazione pura ‒ e si pensi, qui, al mallarmiano “Ma Pensée s’est penséé”
come esempio, al contrario, dell’aseità assoluta di una coscienza estetica e
insieme gnoseologica del tutto chiusa in sé, alienata dalla storia ‒, Gramsci
riesce a curvare l’esperienza estetica e la coscienza ermeneutica sul piano
della prassi e dell’impegno senza per questo snaturarle, senza farne
predeterminata sovrastruttura o rispecchiamento inerte.
Il “ritorno al De Sanctis” caldeggiato da Gramsci in pagine celebri7
prospettava, appunto, una critica capace di fondere i due aspetti, quello
estetico e quello ideologico, il cimento dell’ermeneutica e quello
dell’impegno e della militanza: una critica che fondesse “la lotta per una
nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei
sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente
artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo”.
Riviveva, in certa misura, pur se in altro contesto e con altri fini, quell’idea
della letteratura stessa come criticism of life che era stata di Matthew Arnold,
e poi di Wilde.
Proprio per questo, proprio in ragione di questo intrinseco carattere
estetico, artistico oltre e prima che politico insito nella creazione letteraria,
anticipando tensioni e inquietudini che si ritroveranno largamente nel dibattito
Nuovo Melangolo, 2013.
7
A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma: Editori Riuniti, 1975, pp.
22 sgg.
164
IL VELO DI NIOBE.
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE
culturale del dopoguerra, da Vittorini a Quasimodo a Pasolini, Gramsci mette
in luce la dicotomia e il potenziale attrito, nelle dinamiche del divenire
storico, tra la sfera del politico, di per sé protesa all’avvenire, tesa alla
corrosione critica, e alla conseguente trasformazione, dell’esistente, e quella
dell’attività artistica, la quale ‒ e qui Gramsci ha forse in mente, magari
attraverso la dialettica di Vita e Forma messa in luce da Tilgher, le maschere
di Pirandello, mostrandosi del pari in sintonia indiretta con alcuni aspetti della
riflessione di un Simmel, come del giovane Lukács ‒ tenderà invece a
cristallizzarsi in “immagini fissate e ‘colate’ nella loro forma definitiva”.
Questa dialettica ‒ sorprendentemente vicina all’“abisso dell’estetismo” di
cui ha parlato Adorno lettore di Kierkegaard, ossia all’intima coscienza, non
estranea all’estetismo nelle sue forme più consapevoli, della fallacia,
dell’illusorietà e del vuoto di un’esistenza precariamente giustificata dai soli
idoli estetici e formali ‒ di vita e forma, di sostanza ed espressione, d’anima e
superficie, attraversa a più riprese, con consonanze per molti aspetti
sorprendenti, il Gramsci critico teatrale.
Basti pensare non solo alle riflessioni, note, intorno a Pirandello, alla
tensione che agli occhi di Gramsci si crea, in pièces come Liolà e Il berretto a
sonagli, fra lo slancio dionisiaco, istintuale, la vicinanza alle pulsioni naturali
e prerazionali, e i condizionamenti della civiltà e del costume; ma anche allo
sguardo con cui Gramsci osserva, sulla scena, cogliendone acutamente il
nascosto potenziale di critica della società borghese, rappresentazioni (come
Casa di bambola di Ibsen o A Woman of no importance di Wilde) nate nel
contesto del simbolismo e dell’estetismo europei, e nelle quali (così come nel
Pirandello, poniamo, di Trovarsi o di Diana e la Tuda) emerge una riflessione
tormentata intorno al difficile rapporto fra realtà e rappresentazione, pensiero
e linguaggio, libero fluire della vita interiore e fissità delle cristallizzazioni
sociali e relazionali.
Davvero pirandelliano, ad esempio, il disagio che Gramsci coglie nel
pubblico borghese posto di fronte al dramma dell’emancipazione, alla vera e
propria tragedia dell’autocoscienza e della libertà, incarnati dalle eroine
ibseniane; un pubblico che, come i Personaggi pirandelliani, non riconosce, o
inconsciamente rifiuta di riconoscere, se stesso nella propria rappresentazione
‒ con la stessa “rabbia di Calibano”, per citare il Wilde del Prologo del
Ritratto di Dorian Gray, che riconosce se stesso nella propria cruda e crudele
mimesi e non riesce a riconoscersi, invece, nella propria sentimentale e
psicologica sublimazione.
Se il Tragico nasce dal conflitto, dall’“urto necessario tra due mondi
interiori”, allora si comprende la sordità irredimibile della gretta mentalità
borghese posta di fronte alla manifestazione drammatica e dialettica di una
“morale più spiritualmente umana”, quale quella che appare sulla scena
ibseniana; e, allo stesso modo, nel pirandelliano Gioco delle parti, la moglie,
165
MATTEO VERONESI
che “per natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del
mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io”, contrasta con il
cartesiano o kantiano “io ragionante” del marito, con il suo trascendentale
principium individuationis “ben levigato e ravviato come un concetto puro” (e
viene in mente, qui, quasi, l’alterigia del gaddiano “Io collo ritto”
contrapposto, nella sua fissità, nella sua superiorità supposta, al molteplice ed
irriducibile Barocco del mondo)8.
La dialettica taglia trasversalmente, accomunandole, la sfera ideologica e
quella letteraria.
È ancora un concetto tragico, quello di catarsi, a mediare il rapporto e
l’interrelazione fra struttura e sovrastruttura; una connessione che non si
riduce, dunque, a meccanico rispecchiamento o ad omologia inerte e passiva.
L’“elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza
degli uomini” (Quaderni, 1244) avviene attraverso un’autoriproduzione
riflessiva che coinvolge l’autocoscienza dell’individuo come parte, e insieme
specchio, di quella della collettività9.
Il passaggio dalla struttura alla sovrastruttura si configura come “catarsi”,
come purificazione; nel senso non di una idealistica sublimazione, di
un’evasiva fuga dal reale, ma di una lucida, progressiva presa di coscienza, di
cui anche la creazione letteraria e l’innovazione linguistica (essa stessa ‒ e
anche sotto questo profilo Gramsci non deve essere stato sordo alla lezione
del Neoidealismo ‒ forma di creazione, in certa misura d’invenzione poetica,
data l’universale metaforicità insita nel linguaggio) sono parte integrante. “La
fissazione del momento ‘catartico’ diventa così (…) il punto di partenza per
tutta la filosofia della praxis”.
In questo senso, anche la critica dantesca, oltre che esercizio disperato
eppure lucidissimo di resistenza intellettuale alla prigionia e all’oppressione, è
per Gramsci momento del travaglio dialettico.
Anche in questo caso, la dialettica assume una forma drammatica,
evocando una metafora teatrale. Come viene osservato nel celebre abbozzo di
saggio, incoraggiato da Umberto Cosmo, sul canto decimo dell’Inferno10,
l’incontro con Cavalcante è punteggiato di didascalie quasi teatrali, che
colmano in qualche modo i silenzi, i non detti, le implicite allusioni della
rappresentazione, alonata di un “inespresso” che potrebbe far pensare quasi al
théâtre du silence di Maeterlinck, ma che non ha, invero, nulla di
8
Ibidem, pp. 342 sgg. e 423.
Cfr. P. Misuraca, “Sulla ricostruzione dei concetti di struttura e
superstruttura”, Rassegna italiana di sociologia, III (1977), pp. 439-451.
10
A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 54 sgg. Si può vedere,
al riguardo, la fine analisi di Daniele Maria Pegorari, nel suo libro Il codice
Dante. Cruces della Commedia e intertestualità novecentesche, Bari: Stilo,
2012.
166
9
IL VELO DI NIOBE.
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE
misticamente indeterminato e vago, e sembra, semmai, simile al Silenzio di
Wittgenstein, a quel margine d’indicibilità che circoscrive la parola, il
dominio del linguaggio, e contribuisce a definirne e a delimitarne,
lucidamente, le prerogative, le regole e i meccanismi11.
L’“eternità” della poesia, dice Gramsci (e si ricordi che lo stesso Marx,
nell’introduzione ai Grundrisse, doveva pur riconoscere, rileggendo Omero in
termini quasi vichiani, che un “perpetuo incanto” continuava ad irradiarsi da
quegli antichi miti, che essi continuavano a rappresentare un modello, un
termine di paragone e una fonte di piacere estetico perenni, per quanto remote
e cupe fossero le epoche storiche di cui essi erano espressione), consiste
precisamente nella sua facoltà di “suggestione”, che le consente di andare al di
là del dato immediato, di trascendere la mera contingenza (si sarebbe quasi
tentati di citare Mallarmé, per l’idea di évocation e suggestion, se la visione
storicistica e pragmatica di Gramsci non fosse così decisamente aderente
proprio a quel Reale che Mallarmé escludeva fin dal principio, “perché vile”,
dalla sfera del poetico).
Anche nel discorso poetico, è interessante notare, ha luogo una “catarsi”,
che si concentra sulla spia semantica e temporale del verbo “ebbe”, su cui si
impernia l’angosciato interrogativo di Cavalcante.
Catarsi, questa, che non sembra derivare ‒ come nell’interpretazione
goethiana della Poetica di Aristotele ‒ dal distanziamento e dal distacco cui
sono sottoposti la pietà e il terrore suscitati da eventi schermati dalla finzione
rappresentativa, e men che meno da una freudiana sublimazione o
trasformazione delle pulsioni prerazionali; ma che rinvia, piuttosto, se mi si
concede l’accostamento ardito, alla kátharsis di cui parla il Platone del
Sofista: una purificazione dei concetti, delle definizioni, e dunque del
linguaggio; una sorta di salutare igiene del pensiero (“nobile Sofistica”,
ghennáia sophistiké), di cui l’intellettuale, il filosofo e il critico possono
essere ugualmente compartecipi, e che, pur nascendo sul terreno del
linguaggio e del pensiero, può investire l’intera società, giovando alla
chiarezza e alla genuinità della comunicazione.
Di quella ghennáia sophistiké, di quell’arte della parola che non è vacuo
edonismo o vano gioco formale, ma lucida e insieme appassionata ricerca del
senso, anche la critica ‒ esercizio di comprensione e d’interpretazione, ma
insieme genere letterario e forma d’arte ‒ sa e può essere strumento.
Gramsci (allievo, a Torino, dello storico dell’arte Pietro Toesca, sensibile,
prima di convertirsi ad un rigoroso metodo filologico, alle suggestioni
11
Su Gramsci come possibile precursore di Wittgenstein (ma in un’altra
ottica), vedi A. Sen, “Sraffa, Wittgenstein e Gramsci”, Journal of Economic
Literature, XLI (2003), n. 4, pp. 1240-1255; F. Lo Piparo, Il professor
Gramsci e Wittgenstein, Roma: Donzelli, 2004.
167
MATTEO VERONESI
dell’estetismo) introduce, fra l’altro, una movenza quasi da critique
d’analogie, da critica en artiste e en poète, richiamando, a paragone della
reticenza, dell’allusione, dell’inespresso, del non detto danteschi, alcune
figurazioni pompeiane ‒ il velo di Niobe, le fasce che avvolgono il viso di
Medea mentre medita l’assassinio dei figli. E chi osserva gli affreschi
pompeiani non fatica a scorgere, effettivamente ‒ nella dilatazione degli spazi,
nella sospensione dei gesti, nella ieratica atmosfera d’attesa e d’angoscia ‒,
una tensione tragica, un fatale incombere, non lontani da quelli delle
enigmatiche evocazioni dantesche.
Un richiamo alla pittura antica si trova anche nello scritto su Liolà di
Pirandello12, dove la vitalità primordiale, satiresca incarnata dal protagonista
(la solare, prorompente Vita soffocata dalla rigidità della Forma delle
convenzioni borghesi) evoca “l’antica tradizione artistica popolare della
Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei
campi piena di furore dionisiaco” ‒ una tradizione che “ha lasciato tracce
nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico”.
L’esperienza estetica, anche e proprio quando sia espressione, riflesso e
condensazione simbolica di una sfera prerazionale, originaria, istintuale, di
una perduta sintonia con la natura, di un’autenticità oramai irrimediabilmente
adulterata, resta ‒ come tutte le componenti di una cultura intesa,
complessivamente, quale corrispettivo e manifestazione della civiltà ‒ oggetto
e tramite di consapevolezza, cristallizzazione d’autocoscienza, e, dunque,
potenziale alimento del lungo e arduo processo di disalienazione dell’uomo.
L’autocoscienza hegeliana era giunta, con la letteratura pura (cui Gramsci
guardò con fastidio, come i suoi giudizi sprezzanti su Ungaretti basterebbero a
dimostrare), ad un estremo di lucidità e di rarefazione, che rischiavano di
tradursi in algido cerebralismo, in raggelato ripiegamento solitario.
Nella rilettura gramsciana del rapporto desanctisiano fra soggetto
interpretante ed oggetto interpretato (della “relation critique”, diremmo con
Starobinski), l’oggetto, l’oggettività dell’altro da sé non sono cancellati, fatti
svanire, fagocitati, per così dire, dal movimento della coscienza che torna a se
stessa divenendo autocoscienza.
Al contrario, l’immedesimazione con l’oggetto resa possibile
dall’entusiasmo, dal trasporto e dall’investimento del critico creatore accresce
la pregnanza dell’interpretandum, dell’oggetto dell’interpretazione,
considerato nella sua significanza, nella sua consistenza storiche e civili, oltre
che estetiche.
Sulle orme di Marx (e forse di Gentile), il critico gramsciano supera la
visione teoretica che nelle “diverse forme di alienazione” non vede se non
“figure variate della coscienza e dell’autocoscienza”, e che per “sopprimere
l’alienazione” finisce per sopprimere anche l’“oggettività”. L’immergersi
12
A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 347 sgg.
168
IL VELO DI NIOBE.
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE
nell’altro da sé, il trasporto del critico entusiasta che diviene altro, e insieme,
per via d’autocoscienza, più profondamente e più consapevolmente se stesso
(fino ai limiti di una mistica alienatio mentis, di un excessus mentis, di una ekstasis estetica e simpatetica che tuttavia non sconfinano mai, in Gramsci, in un
idealistico annullamento metastorico della soggettività nella sfera perenne
dell’Assoluto e dello Spirito, e sono anzi sempre ancorati alla ben definita
situazione storica e contestuale del critico come uomo, intellettuale,
pensatore) proprio nel confronto appassionato e partecipe con l’opera
accrescono, semmai, il significato e la forza del critico e dell’opera nel loro
essere partecipi del mondo fenomenico e, di conseguenza, della società e della
storia. “L’idea astratta, che diviene immediato intuire, non è assolutamente
altro che il pensiero astratto che rinuncia a sé e si decide ad essere
intuizione”13.
Come scrive Pasolini nelle Ceneri di Gramsci (pur delineando, forse,
come notava ironicamente Asor Rosa, una improbabile “Silvia
marxistizzata”14 ‒ eppure fondendo, proprio tramite quell’immaginosa
ipotipòsi, poesia e ideologia, impegno civile e afflato creatore), Gramsci
aveva, “in quel maggio in cui l’errore / era ancora vita”, additato, “con la sua
magra mano”, “l’ideale che illumina questo silenzio”, che insidia e dissipa lo
spessore sordo e cupo dell’insensatezza. E il Gramsci di cui parla Pasolini nel
saggio La libertà stilistica ‒ il Gramsci carcerato, “tanto più libero quanto più
segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado
leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero”15 è, precisamente, quello ‒
letterariamente, forse, il più fecondo e il più vivo ‒ su cui si sono concentrate
queste mie pagine.
Un giovane filosofo, che cerca di aprire uno spiraglio e una speranza nella
grigia coltre di questa postmodernità morente ‒ di questa sorta di autunno del
postmoderno in cui pare di vivere, e in cui lo stesso postmodernismo pare
essersi stancamente arenato, perdendo, o irrigidendo in cliché e in formula,
anche la forza potenzialmente innovatrice e liberatrice della sua originaria
volontà di decostruzione ‒, accosta alla “città futura” prospettata da Gramsci i
versi in cui Fortini parla di una realtà storica e sociale nella quale “tutto è
tremendo ma non ancora irrimediabile”.
L’ideologia e la poesia convergono e si sovrappongono e si intrecciano,
senza prevaricare l’una sull’altra, sul terreno dell’immaginazione, della
proiezione ideale, della mitopoiesi, se si vuole ‒ ma una mitopoiesi concreta,
13
K. Marx, Scritti filosofici giovanili, a cura di S. Moravia, Milano:
Mondadori, 1996, pp. 159 sgg.
14
A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma: Samonà e Savelli, 1969, p. 397.
15
Vedi, su tutto questo, P. Voza, “Il Gramsci di Pasolini”, Lo sguardo.
Rivista di filosofia, III, 2015, n. 19, pp. 243-254.
169
MATTEO VERONESI
corposa, pragmatica, operativa; di una “fantasia concreta” volta all’agire, o
alla possibilità e all’ipotesi, almeno, dell’agire, e capace di far “balenare
nuove immagini del mondo”; di un “prassismo trascendentale” non
inconciliabile, paradossalmente, con un fondo di platonismo, con l’idea
ficiniana di un’umanità che, guardando alla purezza degli archetipi, “perficit,
corrigit et emendat” la materia bruta, il grigio e angusto esistente16 (e si
potrebbe citare, qui, proprio sull’alone del pensiero neoplatonico, e in modo
altrettanto paradossale, il D’Annunzio delle Vergini delle rocce e del Proemio
al Convito, con la sua utopia di un “vivo fascio di energie militanti le quali
valgano a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità”).
In ciò consiste, forse, almeno agli occhi dello storico e del teorico della
critica e delle poetiche (ossia allo sguardo forse più distaccato, contemplante,
meno invischiato nei travagli storici di una filosofia della prassi), una parte
non esigua del significato e del messaggio racchiusi nell’eredità di Gramsci.
__________
16
D. Fusaro, Il futuro è nostro, Milano: Bompiani, 2014, pp. 569 e 596-597.
170
IL VELO DI NIOBE.
GRAMSCI CRITICO E LA CATARSI DELL'ARTE
NOTA BIBLIOGRAFICA
Anglani, B. Solitudine di Gramsci. Politica e poetica del carcere, Roma:
Donzelli, 2007.
Asor Rosa, A. Scrittori e popolo, Roma: Samonà e Savelli, 1969.
Caprioglio, S. “Un mancato incontro Gramsci-D’Annunzio a Gardone
nell’aprile 1921 (con una testimonianza di P. Togliatti), Rivista storica
del socialismo, 1962, 15-16, pp. 263-265.
Catalfamo, A. Antonio Gramsci. Una “critica integrale”, Chieti: Solfanelli,
2015.
Davico Bonino, G. Gramsci e il teatro, Torino: Einaudi, 1974.
Dizionario gramsciano, a cura di G. Liguori, P. Voza, Roma: Carocci, 2009.
Il giovane Gramsci e la Torino d’inizio secolo, a cura della Fondazione
Istituto Piemontese Antonio Gramsci, Torino 1998.
Lollini, M. “La luce che si è spenta. Gramsci interprete di Renato Serra”,
Italian Culture, X (1992), pp. 97-114.
Lo Piparo, F. Il professor Gramsci e Wittgenstein, Roma: Donzelli, 2004.
Menetti, A. (a cura di). Il lettore in catene. La critica letteraria nei
Quaderni, Roma: Carocci, 2004.
Misuraca, P. “Sulla ricostruzione dei concetti di struttura e superstruttura”,
Rassegna italiana di sociologia, III (1977), pp. 439-451.
Pegorari, D. M. Il codice Dante. Cruces della Commedia e intertestualità
novecentesche, Bari: Stilo, 2012.
Salaris, C. Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio
a Fiume, Bologna: il Mulino, 2008.
Sen, A. “Sraffa, Wittgenstein e Gramsci”, Journal of Economic Literature,
XLI (2003), n. 4, pp. 1240-1255.
Voza, P. “Il Gramsci di Pasolini”, Lo sguardo. Rivista di filosofia, III, 2015,
n. 19, pp. 243-254.
171