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Solo un peccatore ha il diritto di predicare
(Christopher Darlington Morley)
1
Quando
Ostro scomparve, nessuna delle persone che lo conoscevano
pensò di denunciare quella che aveva l’aria di essere una sparizione
inspiegabile. Forse perché tutti credettero che si trattasse di uno dei tanti
esperimenti psicologici che lui amava fare e di cui ci si rendeva conto soltanto
una volta terminati, quando si veniva a sapere qual era stato l’oggetto di
studio. L’unico che intuì da subito che potesse essere ben altro fu Domenico
Klinger, lo psichiatra. Ma anche lui perse tempo prima di rivolgersi alle forze
dell’ordine, convinto che sarebbe arrivato da solo a risolvere il mistero, senza
dare in pasto ad estranei la vita dell’amico. Forse, non avesse trovato il Diario
–di cui conosceva l’esistenza, ma non i contenuti– le cose avrebbero avuto un
altro corso. Forse, non avesse neppure saputo che Ostro teneva un Diario,
sarebbe arrivato presto alla conclusione che certe cose è meglio lasciarle fare a
chi le sa fare, e quelle ore avrebbero potuto essere sfruttate meglio e dare
frutti diversi. Forse. Ma non andò così. Perché il Diario saltò fuori e lui ne fu
sedotto, perdendo la lucidità e il distacco di cui avrebbe avuto tanto bisogno.
La telefonata arrivò al suo studio verso le undici. Sulla linea personale. Era
raro che qualcuno chiamasse quel numero, perché lo psichiatra teneva
scrupolosamente separata l’attività professionale dalla sfera privata, e la sua
sfera privata non prevedeva molte persone meritevoli di arrivare a lui senza il
filtro della segretaria. Fu una conversazione brevissima, senza cordialità,
perché Klinger non aveva simpatia per l’inatteso interlocutore, che si chiamava
Carlo, ma tutti conoscevano come il Corto. E il Corto non era suo amico, anche
se si frequentavano da sempre e bazzicavano gli stessi posti, la stessa gente. A
dirla tutta, non gli piaceva proprio, il Corto. Soprattutto dopo che si era
impossessato del suo numero in modo fraudolento, frugando nel cellulare
lasciato incustodito da Ostro, e aveva confessato la sua bravata con leggerezza
e a voce alta attorno a un tavolo del Baretto di via Senato. Anche al telefono
aveva parlato con un volume inadatto a una domanda senza preamboli –sai
dov’è quell’abelinato di Ostro?– e al corollario confidenziale che l’aveva
seguita: aveva organizzato una cosetta per mercoledì sera con una conosciuta
in chat ma mi ha dato buca. Ho chiesto in giro e nessuno l’ha più visto o
sentito. Ho pensato che a te magari avesse detto dove è andato…
Klinger si era imposto di non dare voce al fastidio che gli procuravano
quelle confessioni intime non richieste e aveva indirizzato lo sguardo occhialuto
verso l’agenda aperta sulla scrivania. Era solito calcolare il trascorrere del
tempo sulla base del susseguirsi delle sedute, che memorizzava secondo la
patologia diagnosticata. Come tutti gli psicoterapeuti seri, non cambiava mai
giorno e ora, una volta iniziata la cura, né frequenza degli incontri. La
regolarità dava sicurezza ai pazienti. E a lui. Ed era dell’opinione che più di un
incontro la settimana fosse assolutamente inutile. Dunque, tre psicosi maniaco
depressive/monopolari dall’ultimo incontro con Ostro significavano ventuno
giorni. Giusti giusti. Tanto, considerò, anche se non era insolito che si
vedessero di rado, a causa delle vite che conducevano, diversissime ma
ugualmente intense. Il loro sentire comune sopportava distacchi ben più lunghi
di tre settimane. Però non era mai passato così tanto tempo senza che si
scambiassero se non altro un sms di saluto. Almeno non da quando Ostro
aveva cominciato a raccontargli del Diario e di quanto pesassero sul suo cuore
i Dubbi –che lui riusciva a pronunciare maiuscolo e in corsivo anche a voce, per
chiarire che si trattava di una categoria speciale di problemi.
"Hai dubbi sul corrompere o sul voler continuare a corrompere?”, gli aveva
chiesto l’ultima volta, proprio in quello studio, lui alla scrivania e il suo amico
seduto su una delle due poltrone Royalton destinate ai pazienti.
"Io corrompo?”. Ostro rispondeva spesso a una domanda con una
domanda. E Domenico era uno dei pochissimi a non irritarsi per quella tattica
dilatoria.
"Non lo so. Tu ti sei definito un corruttore. Hai esagerato il tuo ruolo?”.
"Credo di no".
"Dunque le corrompi, queste povere femmine…".
"Sì e no. Si lasciano corrompere, perché è quello che vogliono –anche se
nessuna lo ammetterà mai. Io sono solo lo strumento con cui si tolgono la
maschera. Il loro alibi”.
Prima di replicare, Domenico si era tolto gli occhiali tondi dalla montatura in
titanio quasi invisibile. Aveva pulito le lenti. Si era sistemato meglio sulla
poltrona. “Non ti seguo. Sei tu che le conduci al vizio… Scusa. Ritiro. È un
sostantivo orribile vizio. Contiene un giudizio morale che gronda catechismo e
dualismi religiosi con Virtù… Volevo dire: sei tu che le cerchi; che le tenti; che
guidi il gioco, no? Se tu non le corteggiassi, quella maschera non se la
toglierebbero, no? Quindi tu le devi dal sentiero retto, come direbbe il tuo
parroco. Le corrompi. Conclusione, sei un corruttore”.
“Il mio primo dubbio, invece, è proprio questo: chi corrompe chi? Sono io
che le guasto moralmente o loro che ingannano me?”.
La discussione era terminata su quell’ultima domanda, che non chiedeva
una risposta. Non in quel momento. Ostro aveva cambiato argomento con una
sterzata da camionista, com’era solito fare quando l’argomento lo
imbarazzava. E Domenico aveva messo da parte le proprie curiosità per la
prossima occasione. Che sarebbe arrivata senza preavviso, e solo quando
Ostro avesse deciso di tornare ad accennare ai propri dubbi. Non era un indizio
di arroganza, quel modo di fare. Ma la conseguenza della sua inguaribile
convinzione che non vi fosse nessuno che lo capisse e avesse a cuore i suoi
tormenti. Quindi, perché parlarne? In questo era rimasto un adolescente
vulnerabile, ma tale vulnerabilità, per quanto vistosa come un angioma in
fronte, gli aveva procurato pochi riguardi. Domenico, che aveva diagnosticato
le fragilità dell’amico dai tempi dell’università, si era fatto un punto d’onore di
difenderlo dai giudizi affrettati degli altri. Era un’impresa destinata a fallire,
perché Ostro riuniva in sé molti elementi che, con certezza, attirano la
malevolenza dei mediocri. Era un virtuoso evidente, e come tale meritevole di
essere sospettato di falsità. E poi era dotato di quel fascino che le donne
riconoscono a colpo d’occhio e che lo faceva apparire desiderabile, quale che
fosse il loro gusto; e che negli uomini stimola gelosia e lascia un retrogusto
inammissibile di invidia.
Lo psichiatra si riscosse da quel ricordo e tornò al presente. Al lungo
silenzio dell’amico. Al suo Diario, che forse conteneva proprio quei dettagli e
chissà quanti altri. Si rimise diritto sulla poltrona e prese il telefono che teneva
nel cassetto, spento, durante le visite. E chiamò Ostro, al cellulare e a casa: il
primo numero risultava al momento non raggiungibile. Il secondo, squillava a
vuoto. La centralinista della palestra, invece, rispose al primo trillo: no, il
signor Ostro non c’era; no, non lo vedeva da qualche giorno ma forse la
signorina Serena…
Serena nonricordavacosa era la direttrice della palestra. Aveva una trentina
d’anni e un’alterigia naturale che sapeva di presunzione ma era solo lo scudo di
una bellezza a cui non si era ancora rassegnata. Camminava con lo sguardo
fisso avanti a sé, la testa diritta, la falcata ampia e veloce di chi sappia dove
andare e sia in ritardo, aggrappata a borsoni gonfi di certezze privatissime. E
parlava poco, sfuggendo gli occhi degli interlocutori maschi, come fanno molte
donne che a quell’età critica hanno il cuore ancora libero ma minacciato dalla
delusione. Klinger l’aveva incontrata una sola volta, e per pochi minuti, ma
sufficienti per consentirgli di capire che era irrimediabilmente innamorata di
Ostro e che sarebbe invecchiata male –senza che le due cose fossero
necessariamente in relazione. Parlava con voce di burro e con quel lieve
affanno che autorizzavano a immaginare fosse appena scesa da un letto
bollente o da un tapis roulant. Raccontò che non vedeva Ostro da una
settimana ma che non aveva osato cercarlo né chiedere notizie, perché sapeva
quanto lui fosse schivo e non amasse indagini sul proprio conto. Neppure
quelle dettate dalla naturale apprensione di un’amica. Calcò il tono sull’ultimo
sostantivo perché non era stupida e doveva aver intuito i sospetti dello
psichiatra sulla reale natura del rapporto che aveva con Ostro. E poi perché,
probabilmente, era consapevole del fatto di non riuscire a nascondere i propri
sentimenti per un uomo refrattario all’amore, e si vergognava di quella sua
incongruenza. Klinger, in realtà, sapeva assai poco di lei: che era pugliese; che
si era laureata all’Isef di Torino e si era trasferita a Milano giusto in tempo per
immergersi con entusiasmo nel progetto Città delle donne. Era un’idea che
Ostro cullava da almeno vent’anni e che per un ventennio aveva resistito alla
volubilità del proprio ideatore. Con l’omonimo film non aveva nulla in comune,
salvo il nome. Nella fantasia di Ostro –che possedeva ricchezza inventiva e
interesse per il mondo femminile in misura almeno pari a Federico Fellini–
doveva essere un luogo per le donne: uno spazio in cui fosse riunito tutto ciò
che poteva contribuire al relax e al benessere tanto di un’imprenditrice con
poco tempo da perdere quanto di una mamma con la mattina libera: il
parrucchiere per un piega veloce e un’estetista delicata; una spa essenziale ma
esclusiva; un bar; una libreria con tutti i mensili del mondo; un punto vendita
di Victoria’s secret; un parcheggio figli, di emergenza. E una sala per la forma
fisica. Alla fine il progetto aveva visto la luce, anche se ridimensionato nel
nome e, in parte, negli obiettivi. La città era stata inaugurata nel 2003, in
pieno centro, e in breve era diventata la palestra di Milano. Prezzi altissimi e
waiting list di un anno per la prima iscrizione. Ostro ci passava una volta al
giorno, all’ora di pranzo, per non infrangere il regolamento che non ammetteva
uomini in quegli spazi, se non nella veste di accompagnatori, e restava chiuso
nell’ufficio di Serena nonricordavacosa per una mezzora –un tempo che
autorizzava anche i meno maligni a immaginare che dietro quella porta chiusa
l’evidente infatuazione della direttrice per il proprietario producesse qualcosa di
ben più succoso che chiacchiere di lavoro. Negli ultimi cinque giorni, però, non
si era visto.
“Cinque? E’ sicura?”, chiese Klinger.
Era sicura.
“E non le ha detto che si sarebbe assentato; non le ha…?”.
Non le aveva. Grazie. Prego. Le avrebbe fatto sapere. E a lui, una volta
trovato, avrebbe detto di chiamarla, che era preoccupata.
Klinger chiuse la comunicazione in fretta e chiamò l’892424 per farsi
collegare direttamente con il porto turistico di Porto Maurizio, dove Ostro
teneva ormeggiato un Grand Soleil 42. La risposta a tutte le sue domande gli
si era parata davanti all’improvviso, talmente ovvia, talmente banale che si
diede mentalmente dello stupido per non averci pensato prima. Ci vollero pochi
secondi per essere messo in linea con la Direzione e un’eternità per far venire
al telefono uno dei marinai che si occupavano della vigilanza e della
manutenzione delle barche. Alla Marina, Ostro non si era presentato e la barca
era chiusa, assicurò finalmente il lupo di mare, distillando con sforzo ogni
singola parola, da buon imperiese. E scappò via, lasciando probabilmente il
ricevitore penzoloni.
Lo psichiatra cercò di ingannare la delusione fischiettando. E cominciò a
comporre altri numeri che ricordava a memoria, di amici comuni,
essenzialmente, e di qualche parente non apprensivo. Ottenne da tutti la
stessa laconica risposta –né visto né sentito– ma diverse rassicurazioni di
buonsenso, che potevano essere sintetizzate in una frase: è fatto così, non c’è
da preoccuparsi.
Klinger aveva finito per infastidirsi, però. Come gli succedeva ogni volta che
trovava conferma di una propria salda convinzione: che al giorno d’oggi tutti si
sentono autorizzati a fare gli psicanalisti con la testa degli altri -non solo gli
psicanalisti ufficiali, che già fanno guai per conto proprio. Ostro era un
campionario di ambiguità caratteriali, questo era disposto ad ammetterlo, ma,
proprio per questo, bisognava andarci con i piedi di piombo nella ricerca delle
motivazioni vere delle sue stranezze –che, per lo più, sembravano
atteggiamenti presuntuosi, reazioni suggerite da un’inguaribile superbia.
Bisognava conoscere o, almeno, intuire le fragilità del suo sentire –che erano
misteriose, e conficcate negli strati più profondi dell’anima. E capire che
preferiva non cercare le persone, perché voleva sentirsi cercato; e che non
ammetteva di aver bisogno di qualcuno per il solo timore che quel bisogno,
una volta liberato dal cuore, lo ricattasse.
L’unico da cui accettasse di venire smascherato, era Domenico. Perché
Domenico era tutta la sua famiglia da quando quella di origine si era sciolta
nelle decisioni del destino; e l’altra, quella che aveva costruito, non aveva retto
alle sue contraddizioni. E sorrideva -un sorriso disarmante che infiacchiva
qualunque rimprovero- quando l’amico lo rimetteva a posto.
Era accaduto sei mesi prima, mentre uscivano dal Cinese. “Pensavo di
andare a Imperia in bicicletta. Che ci vuole?”, aveva sondato Ostro. Era chiaro
che non si aspettava un parere positivo. Era un’idea evidentemente balzana,
che forse gli era fiorita in testa in quello stesso momento, ma a cui lui aveva
dato voce cercando un segno di apprensione in Domenico che lo facesse
sentire benvoluto. “Seguo il naviglio fino Pavia, poi Voghera, passo del
Turchino, e tutta l’Aurelia fino là. Saranno duecentocinquanta chilometri. Una
specie di Milano-Sanremo, un po’ più corta”.
Klinger aveva scosso la testa, fingendo un’esasperazione che non provava.
Non per Ostro. Mai, per Ostro. Neppure quando si dimostrava così infantile. “Mi
sembra un’ottima idea. Calcolando che non pedali da quarant’anni; non hai
una bici; e sei così bolso che non reggi un randori intero”.
“Appunto. Mi alleno”.
“Bravo. Allenati. Ma non sperare che mi preoccupi o finga di preoccuparmi,
e cerchi di dissuaderti. Se non hai ancora capito che ti voglio bene e usi questi
mezzucci, con me, monta in sella subito”.
“Guarda che dico sul serio”.
Klinger gli aveva assestato una pacca sulla schiena, senza neanche
aspettare il suo sorriso. Ed era quel sorriso che aveva in mente quando chiamò
Simonetta, l’ex moglie, che, almeno, sapeva per esperienza che Ostro non si
sarebbe mai assentato volontariamente per tanti giorni senza dire a qualcuno
dove andava. Simonetta stava uscendo da una settimana di emicranie ma
ricordava un incontro recente con il marito di un tempo. Non riusciva a essere
certa della data dell’avvistamento, ma insistette che non poteva essere più
vecchio di una settimana.
“Ci siamo incrociati da Garibaldi. Io stavo andando via con Marcella. Lui è
entrato e ha chiesto del suo tavolo”. La voce della donna aveva il ritmo
galoppante di chi sfrutta una domanda come pretesto per un monologo, e
teme interruzioni. Il tema, Domenico già lo conosceva: le malefatte di Ostro.
“Non l’avevo notato perché mi ero incantata a fissare la ragazzetta che gli
stava attaccata al braccio. Avrà avuto vent’anni, se li aveva. Ma, credimi, così
volgare che anche se era bella non lo notavi. Quelle zoccolette che vanno a
caccia di calciatori all’Hollywood: seminude, piercing, due tette rifatte che le
toccavano la gola…”
“Sai se Virginia l’ha incontrato, gli ha parlato, magari al telefono?”, sviò
Klinger.
“No. Cioè, sì, lo so, perché, combinazione, proprio poco fa mi stava
chiedendo del padre: se sapevo dove fosse, perché non risponde al cellulare…
Cose così”.
“Ti ricordi il giorno?”, domandò Klinger, che cominciava ad avere fretta di
mettere in chiaro di persona l’accaduto.
“Quando ci siamo incrociati, dici? Venerdì, mi pare. O mercoledì. Posso
chiedere a Marcella, se vuoi. Ma perché tutte queste domande? Che cosa sta
combinando, questa volta? Non si sarà messo in qualche guaio, vero? Non sarà
stata minorenne quella dell’altra sera, e adesso lui si deve dare alla macchia
perché il padre lo sta cercando? Digli che non sopporterei altri sputtanamenti
pubblici. Ricordagli che ha una figlia della stessa età di quelle che si trascina
dietro nei ristoranti in cui sa che vado anche io… ”.
Klinger interruppe l’intemerata con qualche frase di circostanza, che
sicuramente Simonetta neppure udì. [Parlava sempre a voce bassa, lui, e lei,
invece, trattava l’argomento Ostro stando sempre qualche ottava sopra la
soglia dell’irritabilità dello psichiatra]. Poi chiamò la segretaria, chiedendole di
disdire gli appuntamenti del giorno, e uscì.
Sul taxi che lo portava verso la casa dell’amico, Domenico trovò il tempo per
pensare alla donna. Non ricordava di aver mai conosciuto un’ultraquarantenne
separata dal marito (e ancora sola) capace di mostrare misericordia nei
confronti della ventenne ben fatta che l’aveva sostituita, ma Simonetta riusciva
a trasformare quella debolezza giustificabile in un difetto nocivo. E lui aveva
poca indulgenza per quel genere di sentimenti. Oltretutto era pronto a
scommettere la propria collezione di penne stilografiche che la ragazza con cui
Ostro era stato visto al ristorante non fosse una fidanzata. Non corrispondeva
al ruolo, almeno stando alla descrizione di Simonetta –vistosa. E poi Ostro era
troppo elegante per portare in un locale notoriamente frequentato dall’ex
moglie una nuova fiamma. Più probabile che l’avesse conosciuta poco prima,
per strada, per caso, e le avesse offerto una cena. Solo per chiacchierare. Per
curiosare nella sua vita. Un’esplorazione del suo pianeta, avrebbe detto lui.
Ostro era capace di quelle decisioni d’istinto, e riusciva a gestirle in modo tale
che nessuna donna avrebbe potuto dubitare delle sue buone intenzioni o
temere che il suo invito nascondesse un secondo fine.
Ostro abitava in un piccolo appartamento all’ultimo piano di un palazzo
settecentesco in piazza sant’Eufemia, munito di portiere straniero e antipatico,
com’è costume, da qualche anno, nel centro di Milano. Klinger dovette esibire
le chiavi che gli aveva dato l’amico, per ogni evenienza, giusto un paio di
settimane prima, ma ciò nonostante perse una decina di minuti per convincere
quel pasdaran del portone che era autorizzato a entrare anche se signore no
c’è (“da tutta settimana”, aveva precisato, in spregio alla discrezione).
Davanti alla porta d’ingresso, lo psichiatra si fermò e fissò il mazzo di chiavi
che stringeva in pugno. Si rese conto che gli batteva il cuore più velocemente
del normale. Non riusciva a immaginare una ragione per cui Ostro avesse
tagliato volontariamente i ponti con il mondo. E, quindi, tutto ciò che gli veniva
in mente per spiegare la sua assenza giustificava il lieve stato d’ansia che
avvertiva.
“Che genere di evenienza mi dovrebbe portare a casa tua con queste?”,
aveva chiesto a Ostro quando gli aveva posato accanto al piatto le chiavi del
suo appartamento. Erano seduti al loro tavolo abituale del Baretto, in fondo
alla sala, d’angolo, accanto all’uscita di emergenza. Quella cena del giovedì era
diventata quasi un rito, ormai. Ma non era un appuntamento fisso. Avevano
sempre troppi impegni per ipotecare una sera insieme con anticipo. Quando
erano liberi, però, un salto al ristorante del Baglioni lo facevano comunque e,
se avevano fortuna, si trovavano. Era andata così anche quella sera di risotto e
nostalgie bruscamente interrotte da quelle chiavi fuori tema.
“Non so. Ma mi sento più tranquillo se ne hai un mazzo tu”.
“Io, no, invece. Se me le rubano a casa?”.
“Faccio sostituire le serrature”.
“Se le perdo?”.
“Tu non perdi mai nulla. E, comunque, anche in questo caso chiamerei il
fabbro”.
“Perché non le lasci in portineria?”.
Ostro aveva scosso la testa.
“Alla donna delle pulizie?”.
“No”.
“A Simonetta?”.
“Per carità”.
“A tua figlia?”.
Ostro aveva sorriso, ma gli occhi gli si erano velati, come se questo fosse
ormai l’unico risultato possibile quando si menzionava Virginia. Riprese a
parlare dopo un’esitazione durata un secondo di troppo, e con voce che allo
psichiatra era sembrata diversa. “Dài, per favore. O le do a te o a nessuno.
Tienile e non fare tante domande”.
Avrebbe dovuto farle, invece, altre domande, al posto di tornare al risotto e
ai ricordi frastagliati dei loro randori nella mitica palestra del Cinese. Ne aveva
accantonati una decina, quella sera, di interrogativi, e ora erano un centinaio
quelli che gli si affollavano in testa mentre fissava le chiavi: a quale eventualità
pensava Ostro quando aveva deciso di dargli la possibilità di entrare
autonomamente nel suo appartamento? Di restare accidentalmente chiuso
fuori? Di trovarsi all’interno ma impossibilitato ad aprire? Temeva un malore,
un infortunio, un accesso momentaneo di collera da parte di una delle corrotte
capace di metterlo al tappeto? Lo preoccupava una persona in particolare? Un
uomo? In ogni caso, che cosa esattamente si aspettava che facesse il riflessivo
Domenico avendo le chiavi del suo appartamento? Forse proprio quello che
stava facendo ora: che andasse a verificare se era successo qualcosa di
insolito. Di allarmante. Di misterioso. Come una sparizione non annunciata. E
fosse d’aiuto.
Altro che ansia, considerò Klinger. Quella era angoscia pura: “stato
caratterizzato da paure irrazionali e accompagnato da una sensazione di
malessere generico e, a volte, da vertigini, sudorazione e disturbi cardiaci”.
Domenico soffriva di molte delle patologie che diagnosticava quotidianamente
nei propri pazienti. Ma, rispetto a loro, aveva il vantaggio di saperle
riconoscere al primo sintomo. Il che, però, non lo metteva al riparo delle
conseguenze. Aprì la porta blindata con le mani sudate, un insistente capogiro
e il cuore a mille.
L’appartamento profumava di Givenchy e sensualità. Ma forse, pensò
Klinger, era la suggestione dei racconti di Ostro a fargli provare quella
sensazione. Accese la luce prima di richiudere la porta dietro di sé, e un
chiarore alogeno di cielo a fine giornata illuminò il salone e il corridoio che
portava alle camere da letto. Sembrava tutto in ordine. Sul cassettone del XVII
secolo dell’ingresso era posato un contenitore di cristallo con dei lilium bianchi
dalle incredibili venature magenta. Klinger si fermò a fissare i fiori enormi
come se avessero potuto dirgli qualcosa sulla sorte dell’amico: erano altezzosi
e irraggiavano una perduta freschezza: sul ripiano languivano alcuni petali
esausti e, nel vaso, sull’acqua si era posato un film intatto di polvere che
sapeva di giorni andati. Poteva dedurre altro, prima di vergognarsi delle sue
elucubrazioni da Poirot? Sì, che erano fuori stagione ma che certo non stavano
resistendo in quel vaso dall’estate precedente. E che non li abbinava a Ostro
né a quella casa. Simbolo di purezza. Castità. E' il fiore ideale da regalare ad
una donna fiera, onesta e di classe, per dirle che la consideriamo una regina,
recitò mentalmente lo psichiatra, recuperando chissà dove le proprie scarse
nozioni di simbologia botanica. E passò oltre. La camera sembrava quella di un
albergo firmato da Philippe Stark: letto king-size –militarmente rifatto;
arredamento minimalista, firmato; toni diversi di grigio (dal venti al settanta
per cento) per pareti, tessuti, ripiani, parquet. Elettronica B&O di ultima
generazione. Anche la cabina armadio ostentava l’ordine innaturale di una foto
da catalogo. Domenico cercò di capire se mancasse qualcosa, ma non
conosceva il guardaroba dell’amico tanto bene da concludere che si fosse
preparato una valigia. E poi aveva le mani così sudate per la profanazione che
stava compiendo che esitava a muoverle. Sembrava ci fosse tutto, comunque.
Tutto quello che lui ricordava di aver visto indosso a Ostro più spesso: il
cappotto blu, il Fay, la giacca sportiva di pelle marrone che abbinava alla
sciarpa di cachemire nera –la individuò in un cassetto, e quando la portò al
volto percepì un profumo dolce, di frutta, di femmina. Uno svuota-tasche
conteneva il Rolex GMT-Master, gli occhiali da lettura, le chiavi della macchina,
il portafoglio di pelle nera. Klinger lo aprì, senza sollevarlo, e vide, negli
appositi spazi, i documenti –patente e carta di identità- e le carte di credito.
All’interno, contò quattrocento euro, in banconote di vario taglio. In bagno, si
imbatté, invece, nell’astuccio nero da viaggio che gli aveva acquistato il Natale
precedente da Lorenzi in via Montenapoleone. Lo prese in mano, con un sorriso
da resa dei conti: trovò uno spazzolino da denti, il rasoio a tre lame, il gel da
barba, un vasetto di crema depilatoria, un deodorante e una mini bottiglia di
eau de toilette di Polo Ralph Lauren, una spazzola, un pettine di tartaruga, e
nessuna risposta. In cucina, l’orologio del forno segnava mezzogiorno
spaccato. Aprì la doppia porta del frigorifero che avrebbe potuto contenere un
adulto senza costringerlo a contorsioni e che era praticamente vuoto: una
bottiglia di latte fresco intero riportava la data di scadenza di cinque giorni
prima. Una confezione di cubetti di grana. Quattro arance. Una busta di
plastica con qualche carota, alcune delle quali mostravano i segni
dell’avvizzimento. Un vasetto di marmellata di castagne, quasi terminato. Sei
fette di pan carré avvolte nella pellicola trasparente. Indurite. Una confezione
di Salonpas e due tubetti di plastica alti una spanna che contenevano –
Domenico ne afferrò uno, avvicinandolo agli occhi per leggere quello che era
stampato sul retro- crema per massaggio protettiva, emolliente, nutriente
epidermica.
Arretrò di qualche passo e si appoggiò al lavello, per raccogliere le idee. In
tutta la casa, aveva trovato solo due cose che gli sembravano stonate: la
crema depilatoria –perché non riusciva proprio a immaginare Ostro alle prese
con il problema dei peli superflui. Dei suoi, almeno. E quei tubi di roba strana,
indicata per salvaguardare la pelle dai fastidiosi inconvenienti derivati da
sfregamento e sudorazione. In trent’anni che calpestava tatami, non aveva mai
sentito nessuno preoccuparsi di sfregare contro un avversario, o per terra. E’
ben altro, quello che si cerca di evitare, nel judo: contusioni, distorsioni,
torcicollo, distrazioni muscolari, lussazioni. E quando non ci si riesce, e si resta
a terra a grugnire, con un filo di fiato, è al Salonpas che si pensa; è quel suo
odore di canfora e di mentolo che si vuole sentire sulla pelle per cominciare a
stare bene. Non una maionese da applicare in adeguata quantità sulle zone
cutanee interessate e direttamente anche sul supporto sportivo a contatto con
le stesse. Come medico e, soprattutto, come judo-ka, non capiva che cosa
fosse, né a quale supporto sportivo facesse riferimento. Bisognava che si
ricordasse di informarsi. A parte questo –che, oggettivamente, sembrava un
dettaglio in qualche modo spiegabile- l’appartamento era in ordine; tracce di
colluttazioni e/o di uscite di scena disordinate, non ce n’erano; e di messaggi di
addio più o meno melodrammatici, non aveva visto neppure l’ombra.
“Ostro, se si tratta di uno scherzo è assai cretino”, sentenziò ad alta voce.
L’aveva detto, ma non credeva allo scherzo. E neppure a un gesto alla
Jannacci, per vedere l’effetto che fa, come aveva ipotizzato qualche amico
comune. Il che riportava alla domanda di partenza: che cosa stava rendendo
impossibile al suo amico, da almeno una settimana, dare notizie di sé? Ipotesi
A: era ammalato, ferito, aveva perso la memoria o la libertà di azione. E allora
bisognava sbrigarsi ad affidare le ricerche alle Forze dell’ordine. Ipotesi B:
aveva voluto sparire, cambiare vita e mondo e affetti, inseguendo qualcosa o
qualcuno di cui non aveva mai parlato ad alcuno, neppure a lui.
Mi auguro che sia andata così, pensò Domenico, ma questa volta lo disse a
sé stesso e non alla cucina vuota. E considerò che in questo caso avrebbe
rispettato e protetto la decisione estrema dell’amico. Doveva solo accertarsi
che fosse andata in quel modo. Forse le chiavi di casa e tutti quegli accenni al
Diario, nei mesi precedenti, servivano proprio per consentirgli quella verifica.
Perché, forse, nel Diario non c’erano soltanto i resoconti delle manipolazioni
alle quali Ostro sottoponeva le proprie vittime entusiaste, i nomi e i dettagli
della loro corruzione, ma anche il ritratto di un Ostro diverso. Nuovo.
Domenico Klinger si tolse gli occhiali e, per l’ennesima volta in quella
mattina, ne pulì le lenti pulitissime. Lo fece a occhi chiusi, ripetendo
mentalmente il percorso che aveva fatto da quando era entrato in quella casa.
Non aveva visto alcun diario... Alcun diario tradizionale, almeno. Questa
considerazione fece ripartire le ricerche. Mirate, questa volta, a scovare il
supporto non cartaceo su cui Ostro poteva aver raccolto le proprie note:
qualcosa come un computer, per esempio. Il computer che non aveva ancora
visto, in quella casa, e della cui esistenza, invece, era certo perché l’aveva
consigliato lui all’amico, ed erano andati insieme ad acquistarlo alla Sony in via
Manzoni.
Ci volle un’altra mezzora perché saltasse fuori. E una telefonata a Serena
per escludere che Ostro potesse averlo lasciato nell’ufficio di lei, alla Città. Il
note book era sistemato nell’elemento verticale estraibile accanto al frigorifero.
Era un Vaio piccolissimo, di quelli che si usano ovunque e si ripongono in
poco spazio. Ma che nessuno –tanto meno Ostro, che annoiava per la
razionalità del suo ordine– avrebbe mai sistemato in quello spazio. In quel
modo, acquattato
dietro
una cortina di bordolesi marroni reclinate –
Sassicaia vendemmia 1999. Klinger raccolse il computer e lo rigirò tra le mani,
esaminandolo con la stessa attenzione stupita che aveva dedicato poco prima
ai lilium. Non riusciva a dare un senso alla collocazione, a meno di pensare che
il suo amico l’avesse messo lì proprio perché non voleva venisse trovato. Non
facilmente almeno. Non da qualcuno che non lo stesse cercando con
sistematicità e ostinatezza, come aveva fatto lui, aprendo tutto ciò che si
poteva aprire per individuarlo. Il posto scelto sapeva di nascondiglio, e un
nascondiglio fa venire in mente una cosa sola: un segreto. Qualcosa che è
conosciuto da pochi e che non deve essere divulgato a altri. Qualcosa come un
diario con le trasgressioni morali di tante ineccepibili signore della Milano più
discreta.
Mentre ritornava nel salone, stringendo tra le braccia, con avidità, il tesoro
in cui si era imbattuto dopo quell’impegnativa ricerca, richiamò alla memoria la
conversazione durante la quale Ostro, per la prima volta, gli aveva rivelato
l’esistenza del Diario. Era il 27 marzo 2005. Domenica di Pasqua. Otto mesi da
allora. E loro erano chiusi in barca nel porticciolo di Porto Maurizio. Sotto la
pioggia. I tuoni. Il cielo turbolento. La Pasqua più fredda degli ultimi trent’anni,
dicevano i telegiornali, che non l’avevano prevista così nera. Era stata
ugualmente una vacanza piacevole, anche senza il trofeo dell’abbronzatura. Si
erano riposati e avevano parlato, parlato, parlato per tre giorni interi. Quasi
solo di donne: prima, quelle della loro vita: madri, zie, mogli e figlie,
dissezionando i meccanismi che ciascuna di loro aveva usato per dominarli –
l’inoculazione di sensi di colpa era il più comune– e avevano spiegato l’uno
all’altro come si erano messi in salvo e come, in qualche caso, ne erano stati
schiacciati. Poi avevano affrontato il capitolo (non meno pernicioso) fidanzate,
amanti e compagne di avventure. Ed era saltato fuori il Diario.
“Un diario? E da quando?”, aveva chiesto Domenico, divertito all’idea che il
suo impenetrabile amico confessasse una romanticheria d’antan di cui nessuno
l’avrebbe creduto capace.
“Un anno. Qualcosa di più”.
“E che cosa ci scrivi? Voglio dire, è un resoconto a tema, pensieri scelti, o ci
metti tutto quello che succede ogni giorno?”. Aveva riso di nuovo, senza
motivo.
“Perché ridi?”, gli aveva subito chiesto Ostro. Si era sistemato meglio i
cuscini dietro la schiena, mettendosi diritto e cercando lo sguardo dell’amico. I
suoi occhi invernali erano liquidi, come se la pioggia che fuori cadeva
fittissima, sferzando gli oblò della dinette e il ponte con uno scalpiccio da
flamenco, li avesse raggiunti.
Anche Domenico aveva assunto una posa meno scomposta, perché la
permalosità di Ostro andava trattata con riguardo e postura da professionista
di fragilità. “Fermati. E cambia espressione. Non ti sto prendendo in giro”.
Ostro aveva alzato le spalle. Doveva aver deciso che poteva continuare a
lasciare socchiusa la porta del proprio sacrario senza correre un pericolo
immediato. “Scrivo di loro. E quando capita, per rispondere alla tua domanda.
Non tutte le sere. Cerco di riportare le domande che mi rivolgono più spesso; i
discorsi che facciamo; trascrivo i miei pensieri, le osservazioni, le curiosità… E
scrivo dei limiti che raggiungono e che superano”.
“Ma sono così tante?”.
“Chi? Le donne del Diario?”. Aveva fatto una pausa. Riflettendo. “Sì. E
potrebbero essere molte di più… Sai, Domenico, che io non le cerco mai? Me le
trovo attorno, per caso: sul lavoro, in un negozio, per strada, alla Città, tra le
amiche di Serena. Persino dal Cinese le ho trovate, figurati. E poi è un attimo:
le guardo; ci guardiamo. E cominciamo a giocare”.
“Ma che cazzo stai dicendo, Ostro?”, Klinger usava il turpiloquio molto
raramente, e mai quando indossava la divisa da psichiatra. Ma in quel
momento era infagottato in una tuta da ginnastica che avrebbe fatto
peggiorare i suoi pazienti e le parole scelte dall’amico per descrivere l’inizio di
un processo di seduzione l’avevano fatto infuriare. “Ma ti senti? Scusa, ma non
sei capace a dire no, se la cosa non ti va?”.
“Mai detto che non mi vada”.
“E allora, perché limitarti a un tacito assenso?”.
“Mai detto che mi limito a un tacito assenso”.
“Be’, mi sembrava. Scusa, vai avanti. Vi guardate; inizia il gioco e… Ma tu
lo spieghi, il gioco? Lo dici, a queste tue odalische, che intenzioni hai?”.
“Certo. E’ la prima cosa che metto in chiaro: voglio provare a vedere se
cederai. Non cerco un’avventura, una scopata, una botta di vita. E non
coinvolgerò i sentimenti. Ti corteggerò, se me lo permetti, ma per gioco”.
“Be’, se ho capito bene quello che mi hai detto stamattina, non mi sembra
che si tratti di una semplice “frequentazione assidua al fine di conquistare i
favori di una donna”, come direbbe il Devoto Oli.
“E, invece, sì. E’ proprio quello. Corteggiare è il termine più preciso.
Piuttosto, bisogna intendersi su favori”.
Domenico Klinger aveva buttato un occhio al cielo, seguendo lo sguardo
dell’altro, ed era tornato a fissare il profilo di Ostro. Lo conosceva da tanti anni,
e doveva riconoscergli che non era mai stato un donnaiolo. Nella vita reale non
si affannava a sedurre le donne. Si limitava a lasciarsi sedurre. Non le cercava
mai: erano loro a cercarlo. Forse, effettivamente, vestire i panni del seduttore
in quella vita virtuale che aveva scelto di vivere ogni tanto, per lui era solo un
gioco irresistibile. “E tu, mio buon samaritano, a quali favori miri?”.
Ostro aveva sorriso e si era stirato, allungando le lunghe gambe fino quasi
a sfiorare l’amico. “Hai promesso: niente prese per il culo... Guarda, forse un
giorno ti farò leggere il Diario. Così conoscerai le mie giocatrici. E capirai che
cosa intendo”.
“Possiamo dire che sono moderne Menadi? E tu il Dioniso che hanno scelto,
e che seguono?”.
“Ma va’”. Ostro si era alzato di scatto, come se qualcosa avesse richiamato
la sua immediata attenzione, ma si era limitato a dare l’ennesima occhiata al
cielo di piombo. Poi aveva fissato lo psichiatra con finta serietà, puntandogli un
indice verso il viso. “Sei un uomo troppo intelligente, e colto, per una
conclusione del genere. Non ti fare ingannare dagli stereotipi che affliggono i
superficiali: sei una donna; hai già un marito o una qualche storia seria,
eppure accetti la corte di uno sconosciuto. Ergo, sei una troia. Una messalina
in cerca di brividi di sesso. No, Dom, queste non sono Menadi né Baccanti. E
non mi seguono a causa di un delirio indotto –da me o da loro stesse, non
importa. O perché l’illusione di qualche imminente frenesia orgiastica faccia
perdere loro la testa. La seduzione cui non sanno resistere è la sfida con cui le
invito al gioco: voglio provare a vedere se cederai. Ti corteggio per vedere se e
quando riuscirò a farti abbandonare le difese che ti sono state offerte
dall’educazione, dalla tua famiglia, dalla società. Dal ruolo. E loro si lasciano
corteggiare con voluttà, consapevoli di ciò cui potrebbero andare incontro,
ignare di quello che accadrà. Perché sono convinte, straconvinte, che sapranno
tenermi testa, che sapranno gestire l’ondata di emozione che all’improvviso,
inaspettatamente, si è abbattuta sulla spiaggia della loro esistenza quotidiana.
E quando vengono travolte –perché, prima o poi, l’emozione afferra tutte, e le
trascina con sé violentemente– si raccontano che è stato per Amore. A
maiuscola”.
Klinger aveva dovuto interromperlo. “Succede?”.
“Che si innamorino o credano di essersi innamorate? Spesso, purtroppo”.
“E le cose cambiano, tra voi”. Non era una domanda, ma Ostro aveva
annuito, a lungo, con lo sguardo a quella pioggia insistente che aveva rovinato
la loro vacanza ma aveva dato vita ai racconti del Diario.
“Finisce il gioco. Cambiano in questo senso”.
“Tu che cosa cerchi dal gioco? Ti rifaccio la domanda di prima: a quali
favori miri?”.
“Non lo so. Per questo ne sto parlando a uno psichiatra, che è anche il mio
migliore amico. Perché metto in atto un’opera di corruzione nei loro confronti?
Dimmelo tu”.
“Ci rifletterò. Tu, intanto, dammi questi quaderni e fammi leggere”.
“Chi ha mai detto che scrivo su quaderni? E poi non avere fretta di leggere.
Verrà il momento giusto. Per entrambi”.
Domenico Klinger faceva lo psichiatra da trent’anni. Con passione. E con la
dichiarata consapevolezza che bisogna essere pazzi per occuparsi, con il cuore,
dei pazzi. Di sé stesso conosceva e accettava come segni di genialità ogni
stranezza: per esempio, quella di consumare a casa solo alimenti conservati,
che riponeva nella dispensa in rigoroso ordine alfabetico: la scatoletta di
Simmenthal alla sinistra del vasetto di Tonno all’Olio d’Oliva e alla destra della
lattina di Ravioli pomodoro e ricotta. Non era sposato –e questo, diceva lui,
dimostrava che la pazzia (la sua, almeno) è deduttiva– e neppure fidanzato.
Non lo era mai stato, per la verità. Né aveva mai avuto occasione di provare in
prima persona che cosa fosse un rapporto amoroso. A meno di non considerare
tale il trasporto sentimentale che nutriva per la propria professione. Lui
preferiva giustificare la circostanza piuttosto insolita con il tempo, quello che i
pazienti non gli lasciavano da dedicare all’approfondimento di relazioni. Non
era, comunque, un argomento che avesse occasione di affrontare spesso.
Amici non ne aveva, a parte Ostro, e Ostro, ormai, si era rassegnato a quella
sua impermeabile verginità. E le persone che frequentava per lavoro avevano,
in genere, problemi propri con cui fare i conti. Da più di trent’anni –per
l’esattezza dal giorno della laurea, alla Statale di Milano– viveva con la madre
nella casa/studio di via Vivaio, dove era nato e cresciuto, e dove voleva morire,
per essere certo di chiudere per l’ultima volta gli occhi sulle cose che aveva
amato e che gli avevano fatto compagnia per tanto: le sue stilografiche, tra le
quali spiccava una Omas del 1930, a dodici facce; le automobiline di ferro della
sua infanzia; le trecentocinquantaquattro palle di vetro che imprigionavano
altrettante nevicate su monumenti, scorci, personaggi, oggetti in miniatura.
Dopo, buttate tutto, liberatevene, era l’inevitabile epitaffio ogni volta che il
discorso finiva lì. Perché lui era dell’idea che tutte le cose dovrebbero morire
insieme al proprietario, evitando a chi resta e ha amato il defunto di doversi
misurare con la commozione del ricordo che l’oggetto evoca. Com’era accaduto
a lui, quando aveva dovuto liberare la casa di ciò che era appartenuto al padre.
Tra le tante cose destinate a venir buttate, un giorno ci sarebbero stati i suoi
cachemire di Luciano Barbera e i papillon di Truzzi, che indossava con la
disinvoltura di un direttore d’orchestra. E gli occhiali tondi che incorniciavano lo
sguardo diretto. Da persona indulgente. In realtà, Klinger era più intransigente
che incline al perdono. Aveva mille fisime e migliaia di antipatie, e si teneva
alla larga dai malumori degli altri. Ostro, al contrario, sembrava essere
irresistibilmente attratto da tutti coloro che, attorno a lui, esibivano occhi torvi,
convinto di c’entrare qualcosa con quei loro tratti al limone. E finiva per cedere
alla debolezza di volerli convincere della propria innocenza, conquistandoli. Di
conseguenza, aveva avviato molte presunte amicizie. Mai profonde, perché era
andato a letto con troppe donne per sperare nell’amicizia di un maschio; ed era
troppo un bell’uomo per guadagnarsi la fiducia di una femmina. Fino ai giorni
del Diario, almeno. Perché loro –le donne che in quelle pagine svelavano
un’intimità mai condivisa con altri– loro, invece, si erano fidate. Sapevano
anche del Diario, oppure Ostro le aveva tenute all’oscuro, valutando i propri
resoconti come la violazione di un impegno, un inganno?
Klinger abbassò lo sguardo sul note book che aveva stretto contro il petto,
e sentì che il Diario di un corruttore non poteva essere che lì dentro. Con le
date, e tutti i suoi nomi. Con le circostanze e i dettagli. Azioni e reazioni.
Pudori e sfrontatezze. Cuori friabili e cuori di pietra. Si sedette su uno dei
quattro grandi divani neri che formavano una soffice agorà all’estremità della
stanza. Sospirò. Si tolse gli occhiali e pulì con la pezzuola che teneva in un
taschino interno della giacca le lenti intatte. Aveva aperto cassetti, ante, porte
e guardato ovunque, persino tra le pagine dei libri che Ostro teneva accanto al
letto, alla ricerca di una lettera, un biglietto, un indizio quale che fosse con cui
spiegare l’assenza prolungata dell’amico. Non aveva trovato nulla. Forse, se
c’era un messaggio; se Ostro aveva veramente deciso in maniera autonoma e
consapevole di assentarsi dalla propria quotidianità senza privare chi lo
conosceva e lo amava di una giustificazione, forse –pensò lo psichiatra– anche
la spiegazione era chiusa in quella memoria elettronica.
Klinger aprì il coperchio del computer. Lo accese. E rifletté su quello che
avrebbe fatto nel caso i documenti fossero stati protetti da una parola d’ordine.
Non gli venne in mente niente, neppure quando sullo schermo comparve la
temuta richiesta di una password. Fu in quel momento che, per la prima volta,
pensò che avrebbe fatto meglio a rivolgersi ai Carabinieri. E li avrebbe
chiamati, proprio in quel momento, le tredici e qualche minuto, se
all’improvviso non avesse avvertito, più forte di ogni altro sentimento, lo
scrupolo di proteggere i segreti del suo amico e delle donne che ormai
vivevano in quel diario. Se non avesse pensato che le verità che spiegavano
tutto erano sepolte sotto quella coltre di byte e bastasse riportarle alla luce per
dare un senso a ciò che stava succedendo –e dare a lui tranquillità.
Così
rimise in tasca il cellulare che aveva afferrato un attimo prima, si alzò in piedi
e si diresse deciso verso l’uscita, commettendo il secondo grave errore di
quella giornata. Il terzo l’avrebbe fatto molte ore dopo, proprio alle soglie della
mezzanotte, e sarebbe stato, probabilmente, il più grave. Ma alla fine di quel
ventinove novembre mancava tanto tempo e Klinger, soprattutto, non sapeva
ancora che il notebook che stringeva nella mano destra, con la trepidazione e il
batticuore di un bibliofilo che ha messo le mani su un inestimabile incunabolo,
portava in sé un virus che stava per attaccare la sua vita, cambiandola per
sempre.
Basta un solo istante per far cadere la donna più virtuosa
negli smarrimenti più funesti
(Claude Prosper Jolyot de Crébillon)
2
Il
judo è forse l’unico sport che smette di essere sport quanto più si pratica,
per trasformarsi in uno stile di vita. Naturalmente ci vogliono anni di
applicazione appassionata perché la mutazione si compia, ma una volta che il
processo ha inizio niente può fermarlo. Ai massimi livelli, l’obiettivo principale
del judo è quello di perfezionare se stessi per contribuire alla prosperità del
mondo. Non difendersi. E, tanto meno, attaccare.
Ostro e Domenico quella passione la provavano da circa quarant’anni. E
anche se non avevano mai neppure sognato di riuscire ad avvicinarsi alla
perfezione dello shihan Jigoro Kano, l’inventore della disciplina, con gli anni
erano diventati judo-ka più che discreti. E, soprattutto, avevano cercato di
condurre la loro vita secondo i principi imparati sul tatami: essere sempre
consapevoli dei propri limiti; essere sempre sinceri con se stessi; essere
sempre nemici della rivalità e dell’invidia, della discriminazione e del rancore,
dell’ira e dell’impulsività.
La prima palestra in cui avevano messo piede si trovava in via Sismondi,
alla periferia sud-orientale della città. Vi insegnavano due maestri giapponesi, i
fratelli Kurihara, che neppure la severità del ruolo riusciva a rendere antipatici.
Quando i due ragazzi si presentarono alla lezione di esordio, l’occhio esperto
degli insegnanti li classificò in modo così preciso che, quattro decenni dopo, i
loro allenamenti erano ancora sostanzialmente quelli di quel primo anno: Ostro
era un quindicenne dalla corporatura longilinea che lo avrebbe destinato a
perfezionarsi nelle tecniche di proiezione in piedi.
Domenico –più vecchio di
due mesi e quindici centimetri più corto dell’amico– con il suo basso baricentro
era perfettamente strutturato per le mosse da terra. Avevano in comune quella
voglia di fare a botte dei giovani maschi che è difficile contenere. Takero, il loro
primo insegnante, ci era riuscito grazie agli sguardi da katana con cui faceva a
fette i loro bisbigli e ai minacciosi ruggiti che sottolineavano ogni distrazione.
Era un omone gigantesco –almeno per gli occhi di due adolescenti poco in
carne– che si bisbigliava fosse arrivato a Milano per sfuggire alla delusione di
aver perso, a Tokyo, e proprio nel dojo del Gran Maestro, la gara più
importante della sua vita.
Ostro e Domenico erano rimasti in quella palestra per dodici anni, e ne
erano usciti migliori, sotto tanti aspetti, e con una cintura nera legata attorno
alla vita che era stata motivo dell’orgoglio più sentito ed emozionante della loro
esistenza.
Takero si era commosso, abbracciandoli al momento dei saluti,
ma aveva abbaiato con il solito tono burbero raccomandazioni a entrambi: a
Ostro, canna di bambù, che continuasse a perfezionare l’Ô-soto-gari, la grande
falciata esterna che era diventata la sua arma vincente nel randori; e a
Domenico –che lui aveva sempre chiamato solo Klinge, rifiutandogli la R finale–
che fosse più rapido nelle mosse di strangolamento.
Gli altri venticinque anni e passa di pratica amorevole del judo, Ostro e
Domenico li avevano trascorsi dal Cinese, un tipo taciturno e chiuso, che si
diceva fosse un ex incursore della Marina Militare e che si era guadagnato il
soprannome con cui tutti lo conoscevano dopo un corso di perfezionamento a
Shangai. Tornato in Italia e congedatosi, aveva allestito un dojo nostrano per
varie forme di lotta giapponese in un ex garage del quartiere San Marco, e
campava decorosamente affittando spazi ad altri carbonari delle arti marziali.
Era una palestra con grandi finestroni sempre chiusi, quella del Cinese -molto
lontana dal rigore e dalla pulizia della Kurihara- in cui l’odore di canfora si
mescolava a quello di sudore, e dove la gente parlava a voce troppo alta e
senza motivo. Ma aveva l’indubbio pregio di non ammorbare gli iscritti con
regolamenti e orari rigidi. Ci si entrava senza troppe formalità e, se si sceglieva
bene l’ora, anche senza attese per guadagnare qualche metro quadrato libero
di tatami.
I due amici avevano continuato ad andarci con regolarità per anni, e
sempre con lo stesso programma: sceglievano le materassine più lontane
dall’ingresso e si sedevano l’uno di fronte all’altro, senza parlare, compiendo
con lentezza tutti gli esercizi di riscaldamento necessari. Poi dedicavano una
mezzora al kata, il rituale silenzioso durante il quale si provano le tecniche di
combattimento, cercando di renderle perfette. E, infine, si affrontavano
nell’esercizio libero, impegnandosi per superarsi. Non sentivano l’esigenza di
dare vita a dimostrazioni di superiorità muscolare o tecnica: combattevano
entrambi contro la loro imperfezione, senza agonismi, senza slealtà.
Dichiarando le mosse un istante prima di portarle.
“Beccati questo Ô-soto-gari”, annunciava Ostro, ansimante per lo sforzo del
randori, cercando di sorprendere l’amico. E quando veniva parato –cioè, quasi
sempre– si piegava appoggiando le mani sulle ginocchia, la bocca spalancata in
cerca di aria, una risata solo di occhi perché anche per quella c’era poco
ossigeno. La frase era stata ripetuta tante volte che ormai, nel loro lessico
privato, di amici, beccati questo Ô-soto-gari era diventato un codice che
identificava le sbruffonate, le dichiarazioni roboanti e senza seguito.
Quel pomeriggio, nel luminoso studio di via Vivaio in cui si era rifugiato,
Domenico Klinger ripensò a tutto questo mentre fissava lo schermo nero e
silente del note book trovato a casa di Ostro. Aveva già provato due parole
d’ordine: il primo tentativo era stato Virginia, il nome che il suo amico aveva
dato alla figlia e alla barca. Ovvio, ma improbabile. E infatti, dopo il pigolio che
lo avvisava del fallimento, si era molto rammaricato di aver buttato al vento
una possibilità con tanta leggerezza. Doveva sforzarsi di entrare nella testa
dell’amico, e ragionare come ragionava Ostro. Era difficile, ma se c’era uno in
grado di provarci, quello era lui. Conosceva Ostro come nessuno; e poi era
psichiatra: aveva dimestichezza con il cervello e con quello che la gente ci fa.
Così era arrivato a lacittàdelledonne, tutto attaccato. Gli era sembrata una
possibilità concreta, ottenuta dopo aver elencato e cancellato sull’agenda delle
visite una lunga lista di possibilità: tramontana, il vento del nord che si oppone
al caldo ostro di origine meridionale. Ci avevano scherzato tante volte, quando
individuavano una donna che sembrava avere i numeri per sfuggire
all’infatuazione innescata dagli sguardi alla salvia di Ostro. Porto Maurizio, il
mare della sua infanzia, al quale era rimasto legato per effetto dell’inganno
compassionevole della nostalgia che aveva eliminato dal suo cuore i ricordi
brutti e aveva mitizzato quelli belli, consentendogli di sopportare un passato
che non era stato sempre felice. Aiace Telamonio, il suo eroe omerico preferito,
l’unico a non ricorrere mai all'aiuto di uno degli dei schierati al fianco delle parti
in lotta. 21031950, la data della sua nascita. Santeufemia, l’indirizzo di casa.
Klinger continuò a scorrere mentalmente l’album delle loro vite, e della
sua, in particolare. A che cosa non aveva ancora pensato? Che cosa poteva
essere significativo, per Ostro, e, nello stesso tempo, facile da ricordare?
Doveva agire con prudenza, perché temeva che al terzo tentativo fallito il
computer si bloccasse e lui dovesse dire addio al Diario. Cominciava a temere
di aver riposto eccessiva fiducia nelle proprie capacità deduttive; di aver
annunciato con troppa precipitazione un Ô-soto-gari.
Ô-soto-gari. Gli tremavano le mani, quando digitò quelle poche lettere e
premette il tasto Invio. Il notebook si avviò con una melodia da Sesamo,
schiudendo la porta dei segreti. L’icona Documenti in alto a sinistra del desktop
gli balzò agli occhi con l’irruenza di un jack russel terrier. Dentro c’erano due
file Excel e undici documenti Word. Klinger li scorse brevemente. Era
corrispondenza privata e di lavoro, come si intuiva dalle denominazioni:
condominio, assicurazioni, conti palestra. L’ultimo, invece, era identificato solo
da tre lettere maiuscole: XXX.
Domenico fece un profondo respiro. E un doppio click.
Da: <…..@ ……>
Inviato: domenica 14 dicembre 2003 16.00.49
A: <[email protected]>
Oggetto: una boccata d’aria...
Buonasera, Ossigeno (O. sta per Ossigeno? Faccio finta che sia così). Come scrivi tu –e non puoi
sapere quanto sono d'accordo con te- anche i rapporti meno tradizionali finiscono per diventarlo, a
causa dell'abitudine. Quella che all'inizio pare una relazione fuori dalle righe, finisce comunque e
sempre per inquadrarsi entro qualche limite. Certo ci sono limiti e limiti, e mi salva il fatto di
credere ancora nella possibilità di qualcosa di diverso, di complicità che non si appiattiscono col
tempo, di passioni che si alimentano, di sfide che confluiscono in obiettivi comuni per i quali si
abbia voglia di lottare. Credo ancora nella possibilità di amare davvero e di essere amati: sotto
qualsivoglia forma si presenti la possibilità, vale comunque e sempre la pena di viverla, dovesse
durare anche solo il tempo di un battito di ciglia. Vivere col cuore, questo è l'importante. Quando il
cuore cessa di comunicarci emozioni e quando la vita diventa ragione o convenienza, allora è
venuto il momento di cambiare scenario e di trovarne un altro più consono al nostro. Uno in cui il
cuore ricominci a battere all'impazzata e la vita riprenda a correre al suo ritmo. E se questo significa
cambiare una, dieci, cento volte, chi se ne frega. Abbiamo una possibilità da sfruttare, e di questa
siamo certi. Se poi, in realtà, ne esistono molte altre, e non lo sappiamo, il solo fatto di non esserne
a conoscenza implica già, di per sé, che il giusto è vivere quella che ci è toccata come se fosse la
sola che ci è concessa, e pretendere da noi e da essa tutto ciò che riteniamo di dover ricevere. Temi
per me? Sei preoccupato della piega che hanno preso i nostri discorsi via computer? Ti stai
stufando? Sappi che a me piacciono e che tutto ciò che la tua mente produce mi interessa.
S'incontrano raramente persone con la tua sensibilità e intelligenza. Per me sei una sfida e
un'occasione, rara, di crescita e di confronto, una fonte di riflessione che arricchisce.
Questa è la mia prima esperienza di storia a distanza. Peggio: di storia elettronica, e-mail, chat, e
fredde cose del genere. E’ divertente, ma, ti confesso, mi manca la fisicità. Mi manca la tua voce, il
tuo profumo, sentire la grana della tua pelle. Talvolta avrei voglia di familiarità quotidiana con te, di
saperti in giro per questa casa, di vederti guardare la televisione, passarti accanto, accarezzarti e
proseguire, prepararci un tè o un bagno caldo, spiarti mentre leggi il giornale, osservarti nel letto
mentre ancora dormi, guardarti mentre ti vesti al mattino. Poi ripenso alle tue parole, all'Ulisse che
c'è in te, e mi domando se il bello non sta proprio forse nel poterle sognare, queste abitudini. Ti
bacio, anima mia misteriosa.
Da: <…..@…..>
Oggetto:
Data: 26/01/04
A: [email protected]
"Oh marinaio che questa notte porti in porto la mia nave tu che stringi e sciogli i nodi con facilità
sarebbe bello senza reti, dimenticare il tempo ma se ne va questo momento dai, non partire.. Sulla
tua pelle mi leghi a un bacio e sento sangue, sangue e odore di reato....". Resti nella mia mente
come questa canzone che non abbiamo mai ascoltato insieme. Resti come un vuoto. Ma un vuoto
piacevole, pieno di senso e di contraddizioni che voglio che restino irrisolte. Resti come questo
profumo sulla tua camicia. Come quella foto che non mi hai mai scattato.
Come il sapore delle tue labbra. Non abbandonare il tavolo da gioco. Non ora. Notte, marinaio.
Da: <…..@.....>
Inviato: giovedì 29 gennaio 2004 18.57.09
A: <[email protected]>
Oggetto: va bene così
Ci ho pensato tutta la notte e alla fine ho deciso: accetto! Accetto di abbassare piano piano il
paravento che mi separa da te. Ho deciso di giocare senza fretta e senza paura. Ho deciso di
imparare giorno dopo giorno a guardarti negli occhi senza il timore di arrossire o di dire qualcosa di
sbagliato. Lo farò attraverso la forza delle mie parole, l'incompiutezza dei miei sguardi e attraverso
pochi "istanti" del mio corpo...
Ma in tutto questo complesso fluire di anime, una condizione la pongo anch'io: un'altra regola della
casa del sidro: vorrei che anche tu mi permettessi di entrare dentro di te. Decidi tu in quale modo.
Qualche tempo fa mi hai scritto che vuoi entrare dentro di me, attraverso il cervello. Anch'io ho lo
stesso desiderio. Il che vuol dire che da questo momento tu per me non sarai più Ostro –il signor
Ostro- ma solo il mio Corruttore... Ora la prossima mossa tocca a te. Che il gioco inizi.
From: <…..@….. >
To: [email protected]
Subject: primo contatto...
Date: Mon, 08 Mar 2004 18:20:01
Tesoroooooooooooo, come sei stato cattivo in questa mail. Io non voglio disubbidire alle regole del
gioco, né voglio tirarmi indietro, ma devi avere un po’ di pazienza: certe cose non riesco a farle. Ti
confesso una cosa: l’altro giorno ho provato a uscire come tu mi hai detto e sono entrata da Max &
Co. Ma non sono riuscita a spogliarmi lasciando la tenda semiaperta. Cercherò di farmi perdonare al
più presto. Intanto ti ho fatto i filmini e te li allego. Scusa se ti intaseranno la mail box, visto che
sono piuttosto pesanti. Non sono molto esperta, né di strip né di Internet. Ti confesso che quando li
ho trasferiti sul mio Mac e li ho inviati mi è presa una paura… E se si perdono in rete e li vede
qualcuno? Non si sa mai con i computer che cosa può succedere. Il Corruttore... mi piace proprio.
Molto promettente. Non mi è piaciuto, invece, quando mi hai dato dell’oca, ma sono buona e ti
perdono! Però, credimi, non avevo proprio visto che stavi parlando con la tua ex moglie, se no mica
ti salutavo a quel modo. Credevo fosse una delle tante tardone della palestra che ti ronzano attorno
(dai, scherzo, non ti arrabbiare, ti pregooooooo. Con me non dovrai mai essere permaloso, me lo
prometti?) Oggi ti ho visto al bar con Serena... Meno male che alla fine della lezione mi hai
dedicato qualche minuto altrimenti ci sarei rimasta proprio male. Anche lei è nel tuo harem? Mi sa
di sì, per come ti guarda. E, soprattutto, per come guarda me quando ti vengo vicino.
Date: Thu, 6 May 2004 21:34:41
From: <…..@.....>
To: [email protected]
Subject: la gattina
Confessioni di una languida gatta in calore: stanotte smaniavo e non riuscivo a dormire pensando,
fantasticando sul nostro incontro. Ero eccitatissima: mi sono toccata, e immaginavo che se avessi
fatto l’amore con te in quel momento avrei dato il meglio di me… Che voglia mi hai fatto venire.
Credo sia da quando avevo sedici anni che non mi sento così. Mi chiedi che cosa voglio da te. Hai
ragione: forse non lo so, ma cercherò di lasciarmi andare e stare al gioco della sottomissione e della
fantasia. Poi vuoi sapere quanti uomini abbia avuto. Vuoi la verità o do spazio alla mia fantasia?
Tu prova ad indovinare. Intanto ti racconto qualcosa del mio passato, più o meno recente. Deciderai
tu, quando ci conosceremo meglio. Ricordo gli anni dell’università, quando il mio ragazzo di allora
ha invitato un suo amico e mi ha fatto spogliare per lui. Avevo ventiquattro anni. Che cosa ho
provato? Ero divertita dalla cosa, mai imbarazzata. E poi ricordo -o immagino, giudica tu- quella
volta che un calciatore amico mio mi ha portata a farmi massaggiare dal suo trainer, ed è rimasto a
guardare mentre le mani del massaggiatore si insinuavano tra le mie cosce e io mi eccitavo e lo
facilitavo... E quella volta che in aereo mi sono ritrovata seduta accanto ad un amico di un amico. Il
viaggio inizia con delle semplici chiacchiere ma noto che i suoi occhi sono attratti dalle gambe che
la mia mini mette generosamente in mostra. Io, del resto, mi diverto a provocare, e invece di
abbassare la gonna lascio che la posizione e gli accavallamenti nello scarso spazio tra i sedili
sollevino quell’orlo sempre di più. Dopo qualche ora di volo, la cena, il film e tutto il resto, fingo di
addormentarmi… e, guarda caso, nel sonno le gambe sono leggermente discoste. A un certo punto
sento una mano che comincia a sfiorarmi il ginocchio. E’ un contatto appena percettibile, ma anche
se sono a occhi chiusi so che non mi sto sbagliando. Lentamente la carezza risale, fino al dorso
delle calze, e più in su. Quelle dita, le sue dita, mi sfiorano, aumentando la mia eccitazione. E’ buio,
per fortuna, e io gli scivolo sopra. Tutto avviene rapidamente. Chissà, forse qualcuno ha goduto
dello spettacolo, preferendolo al film di bordo. Continuo? C'era una volta, qualche settimana fa, una
signora quasi quarantenne al supermercato che indossava una gonna di lino, nera, corta, leggera,
trasparente, che lasciava intravedere le sue bellissime gambe e il culetto rotondo. E c’era un uomo
che l'aveva notata e, soprattutto, aveva notato che, sotto, la signora si era dimenticata di indossare
la biancheria, proprio come gli aveva chiesto di fare un suo amico chiamato il Corruttore. L’uomo
non seppe resistere: si avvicinò alla donna e le sfiorò il sedere. Prima uno sfioramento
impercettibile e poi –visto che lei non reagiva- sempre più intimo… Lei non si muoveva perché
pensava fossi tu, pensa che scema. Si è allontanata da quella mano invadente solo quando nel
corridoio è arrivata altra gente. Solo in quel momento si è voltata, perché voleva scambiare un
sorriso di complicità con l’uomo… e si è accorta che non lo conosceva. Era un buzzurro con una
tuta da lavoro verde e la faccia avvinazzata di certi operai dell’Est. Allora è scappata via e non si è
fermata fino a casa, con il cuore in gola. Fantasia o realtà?
Date: Tue, 11 May 2004 14:5:28
From: <…..@.....> Add To Address Book
To: [email protected]
Subject: che sorpresa!
E così sotto le mentite spoglie del milanese borghese dallo sguardo vispo e dal guizzo disincantato
c'è un perverso manipolatore dei desideri altrui più reconditi... Desideri di donne verso altre donne;
di donne nei confronti di più uomini; di uomini voyeuristi e, perché no? partecipi; di donne con
fantasie verso la Donna. Femmine: un mondo variegato, effettivamente tutto da scoprire,
generazione dopo generazione, di età in età. Non competo con la tua fantasia, né con la tua
prontezza nel metterla in atto, nel renderla realtà, ma anch’io ho sbrigliato l’immaginazione, stasera.
Mi sono limitata al provare vestiti vari, corti e lunghi, neri o colorati, e poi sandali e sabots, sciarpe
e foulards, ad avvolgermi il collo, le spalle e talvolta anche la testa. Accidenti ai tuoi racconti, che
mi hanno fatto tirare fino a quest'ora, malgrado la spossatezza per questo maggio troppo caldo!
Dimmi tu, manipolatore, abito corto o lungo? Una sciarpa leggera con cui bendarmi e nascondermi
il volto ed i capelli ce l'ho. Il punto è che, una volta copertami il capo, non vedo l'effetto che fa. A
me ne fa, ma non so il risultato su chi mi osserva. Mi dirai tu. Tu che avrai detto a Lei ciò che hai
detto a me e cioè: siamo noi due, complici per una sera. Sennò come l'avresti convinta? Sei un
fetente, ma anche per questo, mi piaci, un briccone che fa doppi e tripli giochi con personaggi che si
prestano. Tiri tanti fili, mi sa, e su questo punto, anche su questo, tornerò più agguerrita che mai:
voglio arrivare all'ultima delle tue maschere. E intanto imparo… Insomma, faccio una tra le cose
che più amo al mondo: apprendere. In ogni campo. Fammi sapere, serpe infida, quale frutto mi
porterà all'inferno.
Un bacio. Ma uno solo, eh ?
Da <…..@.....>
Per: [email protected]
Data: 04.06.04
Ogg.:
Ho ripreso la mia guepière e l'ho indossata per scriverti, dopo averti letto. La indosserò ancora per
giocare con te. Come ti ho detto, i tuoi racconti mi paiono tratti da un'altra storia, diversa
dall'avventura che ho percepito e creduto di aver vissuto. Ciò prova quanto una benda possa fare la
differenza, e in tutta onestà forse è meglio così. Avessi visto tutto ciò che accadeva forse un
pochino di ritrosia, per quanto poco, per quanto un pizzico, magari mi sarebbe venuta. Vero è che
un simile gioco non può durare a lungo. Perché non sono andata fino in fondo? mi chiedi. Forse è
vero ciò che dici, forse ho un amante per il quale ho voluto serbare inviolato almeno un pezzo del
mio corpo; forse non conosco i tuoi amici ed ho evitato contatti a rischio. Nessuno mi ha violato. E
se ho rischiato che qualcuno lo facesse, non me ne sono davvero accorta. Peccato, che non ci sia
stata l'occasione da parte tua di occuparti di me più a lungo. I silenzi o i piccoli e controllati gemiti
dell’altra ragazza hanno impedito ai miei di venire allo scoperto. E poi, ripeto, la benda cambia la
realtà. E se ciò è positivo o negativo