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Solo un peccatore ha il diritto di predicare (Christopher Darlington Morley) 1 Quando Ostro scomparve, nessuna delle persone che lo conoscevano pensò di denunciare quella che aveva l’aria di essere una sparizione inspiegabile. Forse perché tutti credettero che si trattasse di uno dei tanti esperimenti psicologici che lui amava fare e di cui ci si rendeva conto soltanto una volta terminati, quando si veniva a sapere qual era stato l’oggetto di studio. L’unico che intuì da subito che potesse essere ben altro fu Domenico Klinger, lo psichiatra. Ma anche lui perse tempo prima di rivolgersi alle forze dell’ordine, convinto che sarebbe arrivato da solo a risolvere il mistero, senza dare in pasto ad estranei la vita dell’amico. Forse, non avesse trovato il Diario –di cui conosceva l’esistenza, ma non i contenuti– le cose avrebbero avuto un altro corso. Forse, non avesse neppure saputo che Ostro teneva un Diario, sarebbe arrivato presto alla conclusione che certe cose è meglio lasciarle fare a chi le sa fare, e quelle ore avrebbero potuto essere sfruttate meglio e dare frutti diversi. Forse. Ma non andò così. Perché il Diario saltò fuori e lui ne fu sedotto, perdendo la lucidità e il distacco di cui avrebbe avuto tanto bisogno. La telefonata arrivò al suo studio verso le undici. Sulla linea personale. Era raro che qualcuno chiamasse quel numero, perché lo psichiatra teneva scrupolosamente separata l’attività professionale dalla sfera privata, e la sua sfera privata non prevedeva molte persone meritevoli di arrivare a lui senza il filtro della segretaria. Fu una conversazione brevissima, senza cordialità, perché Klinger non aveva simpatia per l’inatteso interlocutore, che si chiamava Carlo, ma tutti conoscevano come il Corto. E il Corto non era suo amico, anche se si frequentavano da sempre e bazzicavano gli stessi posti, la stessa gente. A dirla tutta, non gli piaceva proprio, il Corto. Soprattutto dopo che si era impossessato del suo numero in modo fraudolento, frugando nel cellulare lasciato incustodito da Ostro, e aveva confessato la sua bravata con leggerezza e a voce alta attorno a un tavolo del Baretto di via Senato. Anche al telefono aveva parlato con un volume inadatto a una domanda senza preamboli –sai dov’è quell’abelinato di Ostro?– e al corollario confidenziale che l’aveva seguita: aveva organizzato una cosetta per mercoledì sera con una conosciuta in chat ma mi ha dato buca. Ho chiesto in giro e nessuno l’ha più visto o sentito. Ho pensato che a te magari avesse detto dove è andato… Klinger si era imposto di non dare voce al fastidio che gli procuravano quelle confessioni intime non richieste e aveva indirizzato lo sguardo occhialuto verso l’agenda aperta sulla scrivania. Era solito calcolare il trascorrere del tempo sulla base del susseguirsi delle sedute, che memorizzava secondo la patologia diagnosticata. Come tutti gli psicoterapeuti seri, non cambiava mai giorno e ora, una volta iniziata la cura, né frequenza degli incontri. La regolarità dava sicurezza ai pazienti. E a lui. Ed era dell’opinione che più di un incontro la settimana fosse assolutamente inutile. Dunque, tre psicosi maniaco depressive/monopolari dall’ultimo incontro con Ostro significavano ventuno giorni. Giusti giusti. Tanto, considerò, anche se non era insolito che si vedessero di rado, a causa delle vite che conducevano, diversissime ma ugualmente intense. Il loro sentire comune sopportava distacchi ben più lunghi di tre settimane. Però non era mai passato così tanto tempo senza che si scambiassero se non altro un sms di saluto. Almeno non da quando Ostro aveva cominciato a raccontargli del Diario e di quanto pesassero sul suo cuore i Dubbi –che lui riusciva a pronunciare maiuscolo e in corsivo anche a voce, per chiarire che si trattava di una categoria speciale di problemi. "Hai dubbi sul corrompere o sul voler continuare a corrompere?”, gli aveva chiesto l’ultima volta, proprio in quello studio, lui alla scrivania e il suo amico seduto su una delle due poltrone Royalton destinate ai pazienti. "Io corrompo?”. Ostro rispondeva spesso a una domanda con una domanda. E Domenico era uno dei pochissimi a non irritarsi per quella tattica dilatoria. "Non lo so. Tu ti sei definito un corruttore. Hai esagerato il tuo ruolo?”. "Credo di no". "Dunque le corrompi, queste povere femmine…". "Sì e no. Si lasciano corrompere, perché è quello che vogliono –anche se nessuna lo ammetterà mai. Io sono solo lo strumento con cui si tolgono la maschera. Il loro alibi”. Prima di replicare, Domenico si era tolto gli occhiali tondi dalla montatura in titanio quasi invisibile. Aveva pulito le lenti. Si era sistemato meglio sulla poltrona. “Non ti seguo. Sei tu che le conduci al vizio… Scusa. Ritiro. È un sostantivo orribile vizio. Contiene un giudizio morale che gronda catechismo e dualismi religiosi con Virtù… Volevo dire: sei tu che le cerchi; che le tenti; che guidi il gioco, no? Se tu non le corteggiassi, quella maschera non se la toglierebbero, no? Quindi tu le devi dal sentiero retto, come direbbe il tuo parroco. Le corrompi. Conclusione, sei un corruttore”. “Il mio primo dubbio, invece, è proprio questo: chi corrompe chi? Sono io che le guasto moralmente o loro che ingannano me?”. La discussione era terminata su quell’ultima domanda, che non chiedeva una risposta. Non in quel momento. Ostro aveva cambiato argomento con una sterzata da camionista, com’era solito fare quando l’argomento lo imbarazzava. E Domenico aveva messo da parte le proprie curiosità per la prossima occasione. Che sarebbe arrivata senza preavviso, e solo quando Ostro avesse deciso di tornare ad accennare ai propri dubbi. Non era un indizio di arroganza, quel modo di fare. Ma la conseguenza della sua inguaribile convinzione che non vi fosse nessuno che lo capisse e avesse a cuore i suoi tormenti. Quindi, perché parlarne? In questo era rimasto un adolescente vulnerabile, ma tale vulnerabilità, per quanto vistosa come un angioma in fronte, gli aveva procurato pochi riguardi. Domenico, che aveva diagnosticato le fragilità dell’amico dai tempi dell’università, si era fatto un punto d’onore di difenderlo dai giudizi affrettati degli altri. Era un’impresa destinata a fallire, perché Ostro riuniva in sé molti elementi che, con certezza, attirano la malevolenza dei mediocri. Era un virtuoso evidente, e come tale meritevole di essere sospettato di falsità. E poi era dotato di quel fascino che le donne riconoscono a colpo d’occhio e che lo faceva apparire desiderabile, quale che fosse il loro gusto; e che negli uomini stimola gelosia e lascia un retrogusto inammissibile di invidia. Lo psichiatra si riscosse da quel ricordo e tornò al presente. Al lungo silenzio dell’amico. Al suo Diario, che forse conteneva proprio quei dettagli e chissà quanti altri. Si rimise diritto sulla poltrona e prese il telefono che teneva nel cassetto, spento, durante le visite. E chiamò Ostro, al cellulare e a casa: il primo numero risultava al momento non raggiungibile. Il secondo, squillava a vuoto. La centralinista della palestra, invece, rispose al primo trillo: no, il signor Ostro non c’era; no, non lo vedeva da qualche giorno ma forse la signorina Serena… Serena nonricordavacosa era la direttrice della palestra. Aveva una trentina d’anni e un’alterigia naturale che sapeva di presunzione ma era solo lo scudo di una bellezza a cui non si era ancora rassegnata. Camminava con lo sguardo fisso avanti a sé, la testa diritta, la falcata ampia e veloce di chi sappia dove andare e sia in ritardo, aggrappata a borsoni gonfi di certezze privatissime. E parlava poco, sfuggendo gli occhi degli interlocutori maschi, come fanno molte donne che a quell’età critica hanno il cuore ancora libero ma minacciato dalla delusione. Klinger l’aveva incontrata una sola volta, e per pochi minuti, ma sufficienti per consentirgli di capire che era irrimediabilmente innamorata di Ostro e che sarebbe invecchiata male –senza che le due cose fossero necessariamente in relazione. Parlava con voce di burro e con quel lieve affanno che autorizzavano a immaginare fosse appena scesa da un letto bollente o da un tapis roulant. Raccontò che non vedeva Ostro da una settimana ma che non aveva osato cercarlo né chiedere notizie, perché sapeva quanto lui fosse schivo e non amasse indagini sul proprio conto. Neppure quelle dettate dalla naturale apprensione di un’amica. Calcò il tono sull’ultimo sostantivo perché non era stupida e doveva aver intuito i sospetti dello psichiatra sulla reale natura del rapporto che aveva con Ostro. E poi perché, probabilmente, era consapevole del fatto di non riuscire a nascondere i propri sentimenti per un uomo refrattario all’amore, e si vergognava di quella sua incongruenza. Klinger, in realtà, sapeva assai poco di lei: che era pugliese; che si era laureata all’Isef di Torino e si era trasferita a Milano giusto in tempo per immergersi con entusiasmo nel progetto Città delle donne. Era un’idea che Ostro cullava da almeno vent’anni e che per un ventennio aveva resistito alla volubilità del proprio ideatore. Con l’omonimo film non aveva nulla in comune, salvo il nome. Nella fantasia di Ostro –che possedeva ricchezza inventiva e interesse per il mondo femminile in misura almeno pari a Federico Fellini– doveva essere un luogo per le donne: uno spazio in cui fosse riunito tutto ciò che poteva contribuire al relax e al benessere tanto di un’imprenditrice con poco tempo da perdere quanto di una mamma con la mattina libera: il parrucchiere per un piega veloce e un’estetista delicata; una spa essenziale ma esclusiva; un bar; una libreria con tutti i mensili del mondo; un punto vendita di Victoria’s secret; un parcheggio figli, di emergenza. E una sala per la forma fisica. Alla fine il progetto aveva visto la luce, anche se ridimensionato nel nome e, in parte, negli obiettivi. La città era stata inaugurata nel 2003, in pieno centro, e in breve era diventata la palestra di Milano. Prezzi altissimi e waiting list di un anno per la prima iscrizione. Ostro ci passava una volta al giorno, all’ora di pranzo, per non infrangere il regolamento che non ammetteva uomini in quegli spazi, se non nella veste di accompagnatori, e restava chiuso nell’ufficio di Serena nonricordavacosa per una mezzora –un tempo che autorizzava anche i meno maligni a immaginare che dietro quella porta chiusa l’evidente infatuazione della direttrice per il proprietario producesse qualcosa di ben più succoso che chiacchiere di lavoro. Negli ultimi cinque giorni, però, non si era visto. “Cinque? E’ sicura?”, chiese Klinger. Era sicura. “E non le ha detto che si sarebbe assentato; non le ha…?”. Non le aveva. Grazie. Prego. Le avrebbe fatto sapere. E a lui, una volta trovato, avrebbe detto di chiamarla, che era preoccupata. Klinger chiuse la comunicazione in fretta e chiamò l’892424 per farsi collegare direttamente con il porto turistico di Porto Maurizio, dove Ostro teneva ormeggiato un Grand Soleil 42. La risposta a tutte le sue domande gli si era parata davanti all’improvviso, talmente ovvia, talmente banale che si diede mentalmente dello stupido per non averci pensato prima. Ci vollero pochi secondi per essere messo in linea con la Direzione e un’eternità per far venire al telefono uno dei marinai che si occupavano della vigilanza e della manutenzione delle barche. Alla Marina, Ostro non si era presentato e la barca era chiusa, assicurò finalmente il lupo di mare, distillando con sforzo ogni singola parola, da buon imperiese. E scappò via, lasciando probabilmente il ricevitore penzoloni. Lo psichiatra cercò di ingannare la delusione fischiettando. E cominciò a comporre altri numeri che ricordava a memoria, di amici comuni, essenzialmente, e di qualche parente non apprensivo. Ottenne da tutti la stessa laconica risposta –né visto né sentito– ma diverse rassicurazioni di buonsenso, che potevano essere sintetizzate in una frase: è fatto così, non c’è da preoccuparsi. Klinger aveva finito per infastidirsi, però. Come gli succedeva ogni volta che trovava conferma di una propria salda convinzione: che al giorno d’oggi tutti si sentono autorizzati a fare gli psicanalisti con la testa degli altri -non solo gli psicanalisti ufficiali, che già fanno guai per conto proprio. Ostro era un campionario di ambiguità caratteriali, questo era disposto ad ammetterlo, ma, proprio per questo, bisognava andarci con i piedi di piombo nella ricerca delle motivazioni vere delle sue stranezze –che, per lo più, sembravano atteggiamenti presuntuosi, reazioni suggerite da un’inguaribile superbia. Bisognava conoscere o, almeno, intuire le fragilità del suo sentire –che erano misteriose, e conficcate negli strati più profondi dell’anima. E capire che preferiva non cercare le persone, perché voleva sentirsi cercato; e che non ammetteva di aver bisogno di qualcuno per il solo timore che quel bisogno, una volta liberato dal cuore, lo ricattasse. L’unico da cui accettasse di venire smascherato, era Domenico. Perché Domenico era tutta la sua famiglia da quando quella di origine si era sciolta nelle decisioni del destino; e l’altra, quella che aveva costruito, non aveva retto alle sue contraddizioni. E sorrideva -un sorriso disarmante che infiacchiva qualunque rimprovero- quando l’amico lo rimetteva a posto. Era accaduto sei mesi prima, mentre uscivano dal Cinese. “Pensavo di andare a Imperia in bicicletta. Che ci vuole?”, aveva sondato Ostro. Era chiaro che non si aspettava un parere positivo. Era un’idea evidentemente balzana, che forse gli era fiorita in testa in quello stesso momento, ma a cui lui aveva dato voce cercando un segno di apprensione in Domenico che lo facesse sentire benvoluto. “Seguo il naviglio fino Pavia, poi Voghera, passo del Turchino, e tutta l’Aurelia fino là. Saranno duecentocinquanta chilometri. Una specie di Milano-Sanremo, un po’ più corta”. Klinger aveva scosso la testa, fingendo un’esasperazione che non provava. Non per Ostro. Mai, per Ostro. Neppure quando si dimostrava così infantile. “Mi sembra un’ottima idea. Calcolando che non pedali da quarant’anni; non hai una bici; e sei così bolso che non reggi un randori intero”. “Appunto. Mi alleno”. “Bravo. Allenati. Ma non sperare che mi preoccupi o finga di preoccuparmi, e cerchi di dissuaderti. Se non hai ancora capito che ti voglio bene e usi questi mezzucci, con me, monta in sella subito”. “Guarda che dico sul serio”. Klinger gli aveva assestato una pacca sulla schiena, senza neanche aspettare il suo sorriso. Ed era quel sorriso che aveva in mente quando chiamò Simonetta, l’ex moglie, che, almeno, sapeva per esperienza che Ostro non si sarebbe mai assentato volontariamente per tanti giorni senza dire a qualcuno dove andava. Simonetta stava uscendo da una settimana di emicranie ma ricordava un incontro recente con il marito di un tempo. Non riusciva a essere certa della data dell’avvistamento, ma insistette che non poteva essere più vecchio di una settimana. “Ci siamo incrociati da Garibaldi. Io stavo andando via con Marcella. Lui è entrato e ha chiesto del suo tavolo”. La voce della donna aveva il ritmo galoppante di chi sfrutta una domanda come pretesto per un monologo, e teme interruzioni. Il tema, Domenico già lo conosceva: le malefatte di Ostro. “Non l’avevo notato perché mi ero incantata a fissare la ragazzetta che gli stava attaccata al braccio. Avrà avuto vent’anni, se li aveva. Ma, credimi, così volgare che anche se era bella non lo notavi. Quelle zoccolette che vanno a caccia di calciatori all’Hollywood: seminude, piercing, due tette rifatte che le toccavano la gola…” “Sai se Virginia l’ha incontrato, gli ha parlato, magari al telefono?”, sviò Klinger. “No. Cioè, sì, lo so, perché, combinazione, proprio poco fa mi stava chiedendo del padre: se sapevo dove fosse, perché non risponde al cellulare… Cose così”. “Ti ricordi il giorno?”, domandò Klinger, che cominciava ad avere fretta di mettere in chiaro di persona l’accaduto. “Quando ci siamo incrociati, dici? Venerdì, mi pare. O mercoledì. Posso chiedere a Marcella, se vuoi. Ma perché tutte queste domande? Che cosa sta combinando, questa volta? Non si sarà messo in qualche guaio, vero? Non sarà stata minorenne quella dell’altra sera, e adesso lui si deve dare alla macchia perché il padre lo sta cercando? Digli che non sopporterei altri sputtanamenti pubblici. Ricordagli che ha una figlia della stessa età di quelle che si trascina dietro nei ristoranti in cui sa che vado anche io… ”. Klinger interruppe l’intemerata con qualche frase di circostanza, che sicuramente Simonetta neppure udì. [Parlava sempre a voce bassa, lui, e lei, invece, trattava l’argomento Ostro stando sempre qualche ottava sopra la soglia dell’irritabilità dello psichiatra]. Poi chiamò la segretaria, chiedendole di disdire gli appuntamenti del giorno, e uscì. Sul taxi che lo portava verso la casa dell’amico, Domenico trovò il tempo per pensare alla donna. Non ricordava di aver mai conosciuto un’ultraquarantenne separata dal marito (e ancora sola) capace di mostrare misericordia nei confronti della ventenne ben fatta che l’aveva sostituita, ma Simonetta riusciva a trasformare quella debolezza giustificabile in un difetto nocivo. E lui aveva poca indulgenza per quel genere di sentimenti. Oltretutto era pronto a scommettere la propria collezione di penne stilografiche che la ragazza con cui Ostro era stato visto al ristorante non fosse una fidanzata. Non corrispondeva al ruolo, almeno stando alla descrizione di Simonetta –vistosa. E poi Ostro era troppo elegante per portare in un locale notoriamente frequentato dall’ex moglie una nuova fiamma. Più probabile che l’avesse conosciuta poco prima, per strada, per caso, e le avesse offerto una cena. Solo per chiacchierare. Per curiosare nella sua vita. Un’esplorazione del suo pianeta, avrebbe detto lui. Ostro era capace di quelle decisioni d’istinto, e riusciva a gestirle in modo tale che nessuna donna avrebbe potuto dubitare delle sue buone intenzioni o temere che il suo invito nascondesse un secondo fine. Ostro abitava in un piccolo appartamento all’ultimo piano di un palazzo settecentesco in piazza sant’Eufemia, munito di portiere straniero e antipatico, com’è costume, da qualche anno, nel centro di Milano. Klinger dovette esibire le chiavi che gli aveva dato l’amico, per ogni evenienza, giusto un paio di settimane prima, ma ciò nonostante perse una decina di minuti per convincere quel pasdaran del portone che era autorizzato a entrare anche se signore no c’è (“da tutta settimana”, aveva precisato, in spregio alla discrezione). Davanti alla porta d’ingresso, lo psichiatra si fermò e fissò il mazzo di chiavi che stringeva in pugno. Si rese conto che gli batteva il cuore più velocemente del normale. Non riusciva a immaginare una ragione per cui Ostro avesse tagliato volontariamente i ponti con il mondo. E, quindi, tutto ciò che gli veniva in mente per spiegare la sua assenza giustificava il lieve stato d’ansia che avvertiva. “Che genere di evenienza mi dovrebbe portare a casa tua con queste?”, aveva chiesto a Ostro quando gli aveva posato accanto al piatto le chiavi del suo appartamento. Erano seduti al loro tavolo abituale del Baretto, in fondo alla sala, d’angolo, accanto all’uscita di emergenza. Quella cena del giovedì era diventata quasi un rito, ormai. Ma non era un appuntamento fisso. Avevano sempre troppi impegni per ipotecare una sera insieme con anticipo. Quando erano liberi, però, un salto al ristorante del Baglioni lo facevano comunque e, se avevano fortuna, si trovavano. Era andata così anche quella sera di risotto e nostalgie bruscamente interrotte da quelle chiavi fuori tema. “Non so. Ma mi sento più tranquillo se ne hai un mazzo tu”. “Io, no, invece. Se me le rubano a casa?”. “Faccio sostituire le serrature”. “Se le perdo?”. “Tu non perdi mai nulla. E, comunque, anche in questo caso chiamerei il fabbro”. “Perché non le lasci in portineria?”. Ostro aveva scosso la testa. “Alla donna delle pulizie?”. “No”. “A Simonetta?”. “Per carità”. “A tua figlia?”. Ostro aveva sorriso, ma gli occhi gli si erano velati, come se questo fosse ormai l’unico risultato possibile quando si menzionava Virginia. Riprese a parlare dopo un’esitazione durata un secondo di troppo, e con voce che allo psichiatra era sembrata diversa. “Dài, per favore. O le do a te o a nessuno. Tienile e non fare tante domande”. Avrebbe dovuto farle, invece, altre domande, al posto di tornare al risotto e ai ricordi frastagliati dei loro randori nella mitica palestra del Cinese. Ne aveva accantonati una decina, quella sera, di interrogativi, e ora erano un centinaio quelli che gli si affollavano in testa mentre fissava le chiavi: a quale eventualità pensava Ostro quando aveva deciso di dargli la possibilità di entrare autonomamente nel suo appartamento? Di restare accidentalmente chiuso fuori? Di trovarsi all’interno ma impossibilitato ad aprire? Temeva un malore, un infortunio, un accesso momentaneo di collera da parte di una delle corrotte capace di metterlo al tappeto? Lo preoccupava una persona in particolare? Un uomo? In ogni caso, che cosa esattamente si aspettava che facesse il riflessivo Domenico avendo le chiavi del suo appartamento? Forse proprio quello che stava facendo ora: che andasse a verificare se era successo qualcosa di insolito. Di allarmante. Di misterioso. Come una sparizione non annunciata. E fosse d’aiuto. Altro che ansia, considerò Klinger. Quella era angoscia pura: “stato caratterizzato da paure irrazionali e accompagnato da una sensazione di malessere generico e, a volte, da vertigini, sudorazione e disturbi cardiaci”. Domenico soffriva di molte delle patologie che diagnosticava quotidianamente nei propri pazienti. Ma, rispetto a loro, aveva il vantaggio di saperle riconoscere al primo sintomo. Il che, però, non lo metteva al riparo delle conseguenze. Aprì la porta blindata con le mani sudate, un insistente capogiro e il cuore a mille. L’appartamento profumava di Givenchy e sensualità. Ma forse, pensò Klinger, era la suggestione dei racconti di Ostro a fargli provare quella sensazione. Accese la luce prima di richiudere la porta dietro di sé, e un chiarore alogeno di cielo a fine giornata illuminò il salone e il corridoio che portava alle camere da letto. Sembrava tutto in ordine. Sul cassettone del XVII secolo dell’ingresso era posato un contenitore di cristallo con dei lilium bianchi dalle incredibili venature magenta. Klinger si fermò a fissare i fiori enormi come se avessero potuto dirgli qualcosa sulla sorte dell’amico: erano altezzosi e irraggiavano una perduta freschezza: sul ripiano languivano alcuni petali esausti e, nel vaso, sull’acqua si era posato un film intatto di polvere che sapeva di giorni andati. Poteva dedurre altro, prima di vergognarsi delle sue elucubrazioni da Poirot? Sì, che erano fuori stagione ma che certo non stavano resistendo in quel vaso dall’estate precedente. E che non li abbinava a Ostro né a quella casa. Simbolo di purezza. Castità. E' il fiore ideale da regalare ad una donna fiera, onesta e di classe, per dirle che la consideriamo una regina, recitò mentalmente lo psichiatra, recuperando chissà dove le proprie scarse nozioni di simbologia botanica. E passò oltre. La camera sembrava quella di un albergo firmato da Philippe Stark: letto king-size –militarmente rifatto; arredamento minimalista, firmato; toni diversi di grigio (dal venti al settanta per cento) per pareti, tessuti, ripiani, parquet. Elettronica B&O di ultima generazione. Anche la cabina armadio ostentava l’ordine innaturale di una foto da catalogo. Domenico cercò di capire se mancasse qualcosa, ma non conosceva il guardaroba dell’amico tanto bene da concludere che si fosse preparato una valigia. E poi aveva le mani così sudate per la profanazione che stava compiendo che esitava a muoverle. Sembrava ci fosse tutto, comunque. Tutto quello che lui ricordava di aver visto indosso a Ostro più spesso: il cappotto blu, il Fay, la giacca sportiva di pelle marrone che abbinava alla sciarpa di cachemire nera –la individuò in un cassetto, e quando la portò al volto percepì un profumo dolce, di frutta, di femmina. Uno svuota-tasche conteneva il Rolex GMT-Master, gli occhiali da lettura, le chiavi della macchina, il portafoglio di pelle nera. Klinger lo aprì, senza sollevarlo, e vide, negli appositi spazi, i documenti –patente e carta di identità- e le carte di credito. All’interno, contò quattrocento euro, in banconote di vario taglio. In bagno, si imbatté, invece, nell’astuccio nero da viaggio che gli aveva acquistato il Natale precedente da Lorenzi in via Montenapoleone. Lo prese in mano, con un sorriso da resa dei conti: trovò uno spazzolino da denti, il rasoio a tre lame, il gel da barba, un vasetto di crema depilatoria, un deodorante e una mini bottiglia di eau de toilette di Polo Ralph Lauren, una spazzola, un pettine di tartaruga, e nessuna risposta. In cucina, l’orologio del forno segnava mezzogiorno spaccato. Aprì la doppia porta del frigorifero che avrebbe potuto contenere un adulto senza costringerlo a contorsioni e che era praticamente vuoto: una bottiglia di latte fresco intero riportava la data di scadenza di cinque giorni prima. Una confezione di cubetti di grana. Quattro arance. Una busta di plastica con qualche carota, alcune delle quali mostravano i segni dell’avvizzimento. Un vasetto di marmellata di castagne, quasi terminato. Sei fette di pan carré avvolte nella pellicola trasparente. Indurite. Una confezione di Salonpas e due tubetti di plastica alti una spanna che contenevano – Domenico ne afferrò uno, avvicinandolo agli occhi per leggere quello che era stampato sul retro- crema per massaggio protettiva, emolliente, nutriente epidermica. Arretrò di qualche passo e si appoggiò al lavello, per raccogliere le idee. In tutta la casa, aveva trovato solo due cose che gli sembravano stonate: la crema depilatoria –perché non riusciva proprio a immaginare Ostro alle prese con il problema dei peli superflui. Dei suoi, almeno. E quei tubi di roba strana, indicata per salvaguardare la pelle dai fastidiosi inconvenienti derivati da sfregamento e sudorazione. In trent’anni che calpestava tatami, non aveva mai sentito nessuno preoccuparsi di sfregare contro un avversario, o per terra. E’ ben altro, quello che si cerca di evitare, nel judo: contusioni, distorsioni, torcicollo, distrazioni muscolari, lussazioni. E quando non ci si riesce, e si resta a terra a grugnire, con un filo di fiato, è al Salonpas che si pensa; è quel suo odore di canfora e di mentolo che si vuole sentire sulla pelle per cominciare a stare bene. Non una maionese da applicare in adeguata quantità sulle zone cutanee interessate e direttamente anche sul supporto sportivo a contatto con le stesse. Come medico e, soprattutto, come judo-ka, non capiva che cosa fosse, né a quale supporto sportivo facesse riferimento. Bisognava che si ricordasse di informarsi. A parte questo –che, oggettivamente, sembrava un dettaglio in qualche modo spiegabile- l’appartamento era in ordine; tracce di colluttazioni e/o di uscite di scena disordinate, non ce n’erano; e di messaggi di addio più o meno melodrammatici, non aveva visto neppure l’ombra. “Ostro, se si tratta di uno scherzo è assai cretino”, sentenziò ad alta voce. L’aveva detto, ma non credeva allo scherzo. E neppure a un gesto alla Jannacci, per vedere l’effetto che fa, come aveva ipotizzato qualche amico comune. Il che riportava alla domanda di partenza: che cosa stava rendendo impossibile al suo amico, da almeno una settimana, dare notizie di sé? Ipotesi A: era ammalato, ferito, aveva perso la memoria o la libertà di azione. E allora bisognava sbrigarsi ad affidare le ricerche alle Forze dell’ordine. Ipotesi B: aveva voluto sparire, cambiare vita e mondo e affetti, inseguendo qualcosa o qualcuno di cui non aveva mai parlato ad alcuno, neppure a lui. Mi auguro che sia andata così, pensò Domenico, ma questa volta lo disse a sé stesso e non alla cucina vuota. E considerò che in questo caso avrebbe rispettato e protetto la decisione estrema dell’amico. Doveva solo accertarsi che fosse andata in quel modo. Forse le chiavi di casa e tutti quegli accenni al Diario, nei mesi precedenti, servivano proprio per consentirgli quella verifica. Perché, forse, nel Diario non c’erano soltanto i resoconti delle manipolazioni alle quali Ostro sottoponeva le proprie vittime entusiaste, i nomi e i dettagli della loro corruzione, ma anche il ritratto di un Ostro diverso. Nuovo. Domenico Klinger si tolse gli occhiali e, per l’ennesima volta in quella mattina, ne pulì le lenti pulitissime. Lo fece a occhi chiusi, ripetendo mentalmente il percorso che aveva fatto da quando era entrato in quella casa. Non aveva visto alcun diario... Alcun diario tradizionale, almeno. Questa considerazione fece ripartire le ricerche. Mirate, questa volta, a scovare il supporto non cartaceo su cui Ostro poteva aver raccolto le proprie note: qualcosa come un computer, per esempio. Il computer che non aveva ancora visto, in quella casa, e della cui esistenza, invece, era certo perché l’aveva consigliato lui all’amico, ed erano andati insieme ad acquistarlo alla Sony in via Manzoni. Ci volle un’altra mezzora perché saltasse fuori. E una telefonata a Serena per escludere che Ostro potesse averlo lasciato nell’ufficio di lei, alla Città. Il note book era sistemato nell’elemento verticale estraibile accanto al frigorifero. Era un Vaio piccolissimo, di quelli che si usano ovunque e si ripongono in poco spazio. Ma che nessuno –tanto meno Ostro, che annoiava per la razionalità del suo ordine– avrebbe mai sistemato in quello spazio. In quel modo, acquattato dietro una cortina di bordolesi marroni reclinate – Sassicaia vendemmia 1999. Klinger raccolse il computer e lo rigirò tra le mani, esaminandolo con la stessa attenzione stupita che aveva dedicato poco prima ai lilium. Non riusciva a dare un senso alla collocazione, a meno di pensare che il suo amico l’avesse messo lì proprio perché non voleva venisse trovato. Non facilmente almeno. Non da qualcuno che non lo stesse cercando con sistematicità e ostinatezza, come aveva fatto lui, aprendo tutto ciò che si poteva aprire per individuarlo. Il posto scelto sapeva di nascondiglio, e un nascondiglio fa venire in mente una cosa sola: un segreto. Qualcosa che è conosciuto da pochi e che non deve essere divulgato a altri. Qualcosa come un diario con le trasgressioni morali di tante ineccepibili signore della Milano più discreta. Mentre ritornava nel salone, stringendo tra le braccia, con avidità, il tesoro in cui si era imbattuto dopo quell’impegnativa ricerca, richiamò alla memoria la conversazione durante la quale Ostro, per la prima volta, gli aveva rivelato l’esistenza del Diario. Era il 27 marzo 2005. Domenica di Pasqua. Otto mesi da allora. E loro erano chiusi in barca nel porticciolo di Porto Maurizio. Sotto la pioggia. I tuoni. Il cielo turbolento. La Pasqua più fredda degli ultimi trent’anni, dicevano i telegiornali, che non l’avevano prevista così nera. Era stata ugualmente una vacanza piacevole, anche senza il trofeo dell’abbronzatura. Si erano riposati e avevano parlato, parlato, parlato per tre giorni interi. Quasi solo di donne: prima, quelle della loro vita: madri, zie, mogli e figlie, dissezionando i meccanismi che ciascuna di loro aveva usato per dominarli – l’inoculazione di sensi di colpa era il più comune– e avevano spiegato l’uno all’altro come si erano messi in salvo e come, in qualche caso, ne erano stati schiacciati. Poi avevano affrontato il capitolo (non meno pernicioso) fidanzate, amanti e compagne di avventure. Ed era saltato fuori il Diario. “Un diario? E da quando?”, aveva chiesto Domenico, divertito all’idea che il suo impenetrabile amico confessasse una romanticheria d’antan di cui nessuno l’avrebbe creduto capace. “Un anno. Qualcosa di più”. “E che cosa ci scrivi? Voglio dire, è un resoconto a tema, pensieri scelti, o ci metti tutto quello che succede ogni giorno?”. Aveva riso di nuovo, senza motivo. “Perché ridi?”, gli aveva subito chiesto Ostro. Si era sistemato meglio i cuscini dietro la schiena, mettendosi diritto e cercando lo sguardo dell’amico. I suoi occhi invernali erano liquidi, come se la pioggia che fuori cadeva fittissima, sferzando gli oblò della dinette e il ponte con uno scalpiccio da flamenco, li avesse raggiunti. Anche Domenico aveva assunto una posa meno scomposta, perché la permalosità di Ostro andava trattata con riguardo e postura da professionista di fragilità. “Fermati. E cambia espressione. Non ti sto prendendo in giro”. Ostro aveva alzato le spalle. Doveva aver deciso che poteva continuare a lasciare socchiusa la porta del proprio sacrario senza correre un pericolo immediato. “Scrivo di loro. E quando capita, per rispondere alla tua domanda. Non tutte le sere. Cerco di riportare le domande che mi rivolgono più spesso; i discorsi che facciamo; trascrivo i miei pensieri, le osservazioni, le curiosità… E scrivo dei limiti che raggiungono e che superano”. “Ma sono così tante?”. “Chi? Le donne del Diario?”. Aveva fatto una pausa. Riflettendo. “Sì. E potrebbero essere molte di più… Sai, Domenico, che io non le cerco mai? Me le trovo attorno, per caso: sul lavoro, in un negozio, per strada, alla Città, tra le amiche di Serena. Persino dal Cinese le ho trovate, figurati. E poi è un attimo: le guardo; ci guardiamo. E cominciamo a giocare”. “Ma che cazzo stai dicendo, Ostro?”, Klinger usava il turpiloquio molto raramente, e mai quando indossava la divisa da psichiatra. Ma in quel momento era infagottato in una tuta da ginnastica che avrebbe fatto peggiorare i suoi pazienti e le parole scelte dall’amico per descrivere l’inizio di un processo di seduzione l’avevano fatto infuriare. “Ma ti senti? Scusa, ma non sei capace a dire no, se la cosa non ti va?”. “Mai detto che non mi vada”. “E allora, perché limitarti a un tacito assenso?”. “Mai detto che mi limito a un tacito assenso”. “Be’, mi sembrava. Scusa, vai avanti. Vi guardate; inizia il gioco e… Ma tu lo spieghi, il gioco? Lo dici, a queste tue odalische, che intenzioni hai?”. “Certo. E’ la prima cosa che metto in chiaro: voglio provare a vedere se cederai. Non cerco un’avventura, una scopata, una botta di vita. E non coinvolgerò i sentimenti. Ti corteggerò, se me lo permetti, ma per gioco”. “Be’, se ho capito bene quello che mi hai detto stamattina, non mi sembra che si tratti di una semplice “frequentazione assidua al fine di conquistare i favori di una donna”, come direbbe il Devoto Oli. “E, invece, sì. E’ proprio quello. Corteggiare è il termine più preciso. Piuttosto, bisogna intendersi su favori”. Domenico Klinger aveva buttato un occhio al cielo, seguendo lo sguardo dell’altro, ed era tornato a fissare il profilo di Ostro. Lo conosceva da tanti anni, e doveva riconoscergli che non era mai stato un donnaiolo. Nella vita reale non si affannava a sedurre le donne. Si limitava a lasciarsi sedurre. Non le cercava mai: erano loro a cercarlo. Forse, effettivamente, vestire i panni del seduttore in quella vita virtuale che aveva scelto di vivere ogni tanto, per lui era solo un gioco irresistibile. “E tu, mio buon samaritano, a quali favori miri?”. Ostro aveva sorriso e si era stirato, allungando le lunghe gambe fino quasi a sfiorare l’amico. “Hai promesso: niente prese per il culo... Guarda, forse un giorno ti farò leggere il Diario. Così conoscerai le mie giocatrici. E capirai che cosa intendo”. “Possiamo dire che sono moderne Menadi? E tu il Dioniso che hanno scelto, e che seguono?”. “Ma va’”. Ostro si era alzato di scatto, come se qualcosa avesse richiamato la sua immediata attenzione, ma si era limitato a dare l’ennesima occhiata al cielo di piombo. Poi aveva fissato lo psichiatra con finta serietà, puntandogli un indice verso il viso. “Sei un uomo troppo intelligente, e colto, per una conclusione del genere. Non ti fare ingannare dagli stereotipi che affliggono i superficiali: sei una donna; hai già un marito o una qualche storia seria, eppure accetti la corte di uno sconosciuto. Ergo, sei una troia. Una messalina in cerca di brividi di sesso. No, Dom, queste non sono Menadi né Baccanti. E non mi seguono a causa di un delirio indotto –da me o da loro stesse, non importa. O perché l’illusione di qualche imminente frenesia orgiastica faccia perdere loro la testa. La seduzione cui non sanno resistere è la sfida con cui le invito al gioco: voglio provare a vedere se cederai. Ti corteggio per vedere se e quando riuscirò a farti abbandonare le difese che ti sono state offerte dall’educazione, dalla tua famiglia, dalla società. Dal ruolo. E loro si lasciano corteggiare con voluttà, consapevoli di ciò cui potrebbero andare incontro, ignare di quello che accadrà. Perché sono convinte, straconvinte, che sapranno tenermi testa, che sapranno gestire l’ondata di emozione che all’improvviso, inaspettatamente, si è abbattuta sulla spiaggia della loro esistenza quotidiana. E quando vengono travolte –perché, prima o poi, l’emozione afferra tutte, e le trascina con sé violentemente– si raccontano che è stato per Amore. A maiuscola”. Klinger aveva dovuto interromperlo. “Succede?”. “Che si innamorino o credano di essersi innamorate? Spesso, purtroppo”. “E le cose cambiano, tra voi”. Non era una domanda, ma Ostro aveva annuito, a lungo, con lo sguardo a quella pioggia insistente che aveva rovinato la loro vacanza ma aveva dato vita ai racconti del Diario. “Finisce il gioco. Cambiano in questo senso”. “Tu che cosa cerchi dal gioco? Ti rifaccio la domanda di prima: a quali favori miri?”. “Non lo so. Per questo ne sto parlando a uno psichiatra, che è anche il mio migliore amico. Perché metto in atto un’opera di corruzione nei loro confronti? Dimmelo tu”. “Ci rifletterò. Tu, intanto, dammi questi quaderni e fammi leggere”. “Chi ha mai detto che scrivo su quaderni? E poi non avere fretta di leggere. Verrà il momento giusto. Per entrambi”. Domenico Klinger faceva lo psichiatra da trent’anni. Con passione. E con la dichiarata consapevolezza che bisogna essere pazzi per occuparsi, con il cuore, dei pazzi. Di sé stesso conosceva e accettava come segni di genialità ogni stranezza: per esempio, quella di consumare a casa solo alimenti conservati, che riponeva nella dispensa in rigoroso ordine alfabetico: la scatoletta di Simmenthal alla sinistra del vasetto di Tonno all’Olio d’Oliva e alla destra della lattina di Ravioli pomodoro e ricotta. Non era sposato –e questo, diceva lui, dimostrava che la pazzia (la sua, almeno) è deduttiva– e neppure fidanzato. Non lo era mai stato, per la verità. Né aveva mai avuto occasione di provare in prima persona che cosa fosse un rapporto amoroso. A meno di non considerare tale il trasporto sentimentale che nutriva per la propria professione. Lui preferiva giustificare la circostanza piuttosto insolita con il tempo, quello che i pazienti non gli lasciavano da dedicare all’approfondimento di relazioni. Non era, comunque, un argomento che avesse occasione di affrontare spesso. Amici non ne aveva, a parte Ostro, e Ostro, ormai, si era rassegnato a quella sua impermeabile verginità. E le persone che frequentava per lavoro avevano, in genere, problemi propri con cui fare i conti. Da più di trent’anni –per l’esattezza dal giorno della laurea, alla Statale di Milano– viveva con la madre nella casa/studio di via Vivaio, dove era nato e cresciuto, e dove voleva morire, per essere certo di chiudere per l’ultima volta gli occhi sulle cose che aveva amato e che gli avevano fatto compagnia per tanto: le sue stilografiche, tra le quali spiccava una Omas del 1930, a dodici facce; le automobiline di ferro della sua infanzia; le trecentocinquantaquattro palle di vetro che imprigionavano altrettante nevicate su monumenti, scorci, personaggi, oggetti in miniatura. Dopo, buttate tutto, liberatevene, era l’inevitabile epitaffio ogni volta che il discorso finiva lì. Perché lui era dell’idea che tutte le cose dovrebbero morire insieme al proprietario, evitando a chi resta e ha amato il defunto di doversi misurare con la commozione del ricordo che l’oggetto evoca. Com’era accaduto a lui, quando aveva dovuto liberare la casa di ciò che era appartenuto al padre. Tra le tante cose destinate a venir buttate, un giorno ci sarebbero stati i suoi cachemire di Luciano Barbera e i papillon di Truzzi, che indossava con la disinvoltura di un direttore d’orchestra. E gli occhiali tondi che incorniciavano lo sguardo diretto. Da persona indulgente. In realtà, Klinger era più intransigente che incline al perdono. Aveva mille fisime e migliaia di antipatie, e si teneva alla larga dai malumori degli altri. Ostro, al contrario, sembrava essere irresistibilmente attratto da tutti coloro che, attorno a lui, esibivano occhi torvi, convinto di c’entrare qualcosa con quei loro tratti al limone. E finiva per cedere alla debolezza di volerli convincere della propria innocenza, conquistandoli. Di conseguenza, aveva avviato molte presunte amicizie. Mai profonde, perché era andato a letto con troppe donne per sperare nell’amicizia di un maschio; ed era troppo un bell’uomo per guadagnarsi la fiducia di una femmina. Fino ai giorni del Diario, almeno. Perché loro –le donne che in quelle pagine svelavano un’intimità mai condivisa con altri– loro, invece, si erano fidate. Sapevano anche del Diario, oppure Ostro le aveva tenute all’oscuro, valutando i propri resoconti come la violazione di un impegno, un inganno? Klinger abbassò lo sguardo sul note book che aveva stretto contro il petto, e sentì che il Diario di un corruttore non poteva essere che lì dentro. Con le date, e tutti i suoi nomi. Con le circostanze e i dettagli. Azioni e reazioni. Pudori e sfrontatezze. Cuori friabili e cuori di pietra. Si sedette su uno dei quattro grandi divani neri che formavano una soffice agorà all’estremità della stanza. Sospirò. Si tolse gli occhiali e pulì con la pezzuola che teneva in un taschino interno della giacca le lenti intatte. Aveva aperto cassetti, ante, porte e guardato ovunque, persino tra le pagine dei libri che Ostro teneva accanto al letto, alla ricerca di una lettera, un biglietto, un indizio quale che fosse con cui spiegare l’assenza prolungata dell’amico. Non aveva trovato nulla. Forse, se c’era un messaggio; se Ostro aveva veramente deciso in maniera autonoma e consapevole di assentarsi dalla propria quotidianità senza privare chi lo conosceva e lo amava di una giustificazione, forse –pensò lo psichiatra– anche la spiegazione era chiusa in quella memoria elettronica. Klinger aprì il coperchio del computer. Lo accese. E rifletté su quello che avrebbe fatto nel caso i documenti fossero stati protetti da una parola d’ordine. Non gli venne in mente niente, neppure quando sullo schermo comparve la temuta richiesta di una password. Fu in quel momento che, per la prima volta, pensò che avrebbe fatto meglio a rivolgersi ai Carabinieri. E li avrebbe chiamati, proprio in quel momento, le tredici e qualche minuto, se all’improvviso non avesse avvertito, più forte di ogni altro sentimento, lo scrupolo di proteggere i segreti del suo amico e delle donne che ormai vivevano in quel diario. Se non avesse pensato che le verità che spiegavano tutto erano sepolte sotto quella coltre di byte e bastasse riportarle alla luce per dare un senso a ciò che stava succedendo –e dare a lui tranquillità. Così rimise in tasca il cellulare che aveva afferrato un attimo prima, si alzò in piedi e si diresse deciso verso l’uscita, commettendo il secondo grave errore di quella giornata. Il terzo l’avrebbe fatto molte ore dopo, proprio alle soglie della mezzanotte, e sarebbe stato, probabilmente, il più grave. Ma alla fine di quel ventinove novembre mancava tanto tempo e Klinger, soprattutto, non sapeva ancora che il notebook che stringeva nella mano destra, con la trepidazione e il batticuore di un bibliofilo che ha messo le mani su un inestimabile incunabolo, portava in sé un virus che stava per attaccare la sua vita, cambiandola per sempre. Basta un solo istante per far cadere la donna più virtuosa negli smarrimenti più funesti (Claude Prosper Jolyot de Crébillon) 2 Il judo è forse l’unico sport che smette di essere sport quanto più si pratica, per trasformarsi in uno stile di vita. Naturalmente ci vogliono anni di applicazione appassionata perché la mutazione si compia, ma una volta che il processo ha inizio niente può fermarlo. Ai massimi livelli, l’obiettivo principale del judo è quello di perfezionare se stessi per contribuire alla prosperità del mondo. Non difendersi. E, tanto meno, attaccare. Ostro e Domenico quella passione la provavano da circa quarant’anni. E anche se non avevano mai neppure sognato di riuscire ad avvicinarsi alla perfezione dello shihan Jigoro Kano, l’inventore della disciplina, con gli anni erano diventati judo-ka più che discreti. E, soprattutto, avevano cercato di condurre la loro vita secondo i principi imparati sul tatami: essere sempre consapevoli dei propri limiti; essere sempre sinceri con se stessi; essere sempre nemici della rivalità e dell’invidia, della discriminazione e del rancore, dell’ira e dell’impulsività. La prima palestra in cui avevano messo piede si trovava in via Sismondi, alla periferia sud-orientale della città. Vi insegnavano due maestri giapponesi, i fratelli Kurihara, che neppure la severità del ruolo riusciva a rendere antipatici. Quando i due ragazzi si presentarono alla lezione di esordio, l’occhio esperto degli insegnanti li classificò in modo così preciso che, quattro decenni dopo, i loro allenamenti erano ancora sostanzialmente quelli di quel primo anno: Ostro era un quindicenne dalla corporatura longilinea che lo avrebbe destinato a perfezionarsi nelle tecniche di proiezione in piedi. Domenico –più vecchio di due mesi e quindici centimetri più corto dell’amico– con il suo basso baricentro era perfettamente strutturato per le mosse da terra. Avevano in comune quella voglia di fare a botte dei giovani maschi che è difficile contenere. Takero, il loro primo insegnante, ci era riuscito grazie agli sguardi da katana con cui faceva a fette i loro bisbigli e ai minacciosi ruggiti che sottolineavano ogni distrazione. Era un omone gigantesco –almeno per gli occhi di due adolescenti poco in carne– che si bisbigliava fosse arrivato a Milano per sfuggire alla delusione di aver perso, a Tokyo, e proprio nel dojo del Gran Maestro, la gara più importante della sua vita. Ostro e Domenico erano rimasti in quella palestra per dodici anni, e ne erano usciti migliori, sotto tanti aspetti, e con una cintura nera legata attorno alla vita che era stata motivo dell’orgoglio più sentito ed emozionante della loro esistenza. Takero si era commosso, abbracciandoli al momento dei saluti, ma aveva abbaiato con il solito tono burbero raccomandazioni a entrambi: a Ostro, canna di bambù, che continuasse a perfezionare l’Ô-soto-gari, la grande falciata esterna che era diventata la sua arma vincente nel randori; e a Domenico –che lui aveva sempre chiamato solo Klinge, rifiutandogli la R finale– che fosse più rapido nelle mosse di strangolamento. Gli altri venticinque anni e passa di pratica amorevole del judo, Ostro e Domenico li avevano trascorsi dal Cinese, un tipo taciturno e chiuso, che si diceva fosse un ex incursore della Marina Militare e che si era guadagnato il soprannome con cui tutti lo conoscevano dopo un corso di perfezionamento a Shangai. Tornato in Italia e congedatosi, aveva allestito un dojo nostrano per varie forme di lotta giapponese in un ex garage del quartiere San Marco, e campava decorosamente affittando spazi ad altri carbonari delle arti marziali. Era una palestra con grandi finestroni sempre chiusi, quella del Cinese -molto lontana dal rigore e dalla pulizia della Kurihara- in cui l’odore di canfora si mescolava a quello di sudore, e dove la gente parlava a voce troppo alta e senza motivo. Ma aveva l’indubbio pregio di non ammorbare gli iscritti con regolamenti e orari rigidi. Ci si entrava senza troppe formalità e, se si sceglieva bene l’ora, anche senza attese per guadagnare qualche metro quadrato libero di tatami. I due amici avevano continuato ad andarci con regolarità per anni, e sempre con lo stesso programma: sceglievano le materassine più lontane dall’ingresso e si sedevano l’uno di fronte all’altro, senza parlare, compiendo con lentezza tutti gli esercizi di riscaldamento necessari. Poi dedicavano una mezzora al kata, il rituale silenzioso durante il quale si provano le tecniche di combattimento, cercando di renderle perfette. E, infine, si affrontavano nell’esercizio libero, impegnandosi per superarsi. Non sentivano l’esigenza di dare vita a dimostrazioni di superiorità muscolare o tecnica: combattevano entrambi contro la loro imperfezione, senza agonismi, senza slealtà. Dichiarando le mosse un istante prima di portarle. “Beccati questo Ô-soto-gari”, annunciava Ostro, ansimante per lo sforzo del randori, cercando di sorprendere l’amico. E quando veniva parato –cioè, quasi sempre– si piegava appoggiando le mani sulle ginocchia, la bocca spalancata in cerca di aria, una risata solo di occhi perché anche per quella c’era poco ossigeno. La frase era stata ripetuta tante volte che ormai, nel loro lessico privato, di amici, beccati questo Ô-soto-gari era diventato un codice che identificava le sbruffonate, le dichiarazioni roboanti e senza seguito. Quel pomeriggio, nel luminoso studio di via Vivaio in cui si era rifugiato, Domenico Klinger ripensò a tutto questo mentre fissava lo schermo nero e silente del note book trovato a casa di Ostro. Aveva già provato due parole d’ordine: il primo tentativo era stato Virginia, il nome che il suo amico aveva dato alla figlia e alla barca. Ovvio, ma improbabile. E infatti, dopo il pigolio che lo avvisava del fallimento, si era molto rammaricato di aver buttato al vento una possibilità con tanta leggerezza. Doveva sforzarsi di entrare nella testa dell’amico, e ragionare come ragionava Ostro. Era difficile, ma se c’era uno in grado di provarci, quello era lui. Conosceva Ostro come nessuno; e poi era psichiatra: aveva dimestichezza con il cervello e con quello che la gente ci fa. Così era arrivato a lacittàdelledonne, tutto attaccato. Gli era sembrata una possibilità concreta, ottenuta dopo aver elencato e cancellato sull’agenda delle visite una lunga lista di possibilità: tramontana, il vento del nord che si oppone al caldo ostro di origine meridionale. Ci avevano scherzato tante volte, quando individuavano una donna che sembrava avere i numeri per sfuggire all’infatuazione innescata dagli sguardi alla salvia di Ostro. Porto Maurizio, il mare della sua infanzia, al quale era rimasto legato per effetto dell’inganno compassionevole della nostalgia che aveva eliminato dal suo cuore i ricordi brutti e aveva mitizzato quelli belli, consentendogli di sopportare un passato che non era stato sempre felice. Aiace Telamonio, il suo eroe omerico preferito, l’unico a non ricorrere mai all'aiuto di uno degli dei schierati al fianco delle parti in lotta. 21031950, la data della sua nascita. Santeufemia, l’indirizzo di casa. Klinger continuò a scorrere mentalmente l’album delle loro vite, e della sua, in particolare. A che cosa non aveva ancora pensato? Che cosa poteva essere significativo, per Ostro, e, nello stesso tempo, facile da ricordare? Doveva agire con prudenza, perché temeva che al terzo tentativo fallito il computer si bloccasse e lui dovesse dire addio al Diario. Cominciava a temere di aver riposto eccessiva fiducia nelle proprie capacità deduttive; di aver annunciato con troppa precipitazione un Ô-soto-gari. Ô-soto-gari. Gli tremavano le mani, quando digitò quelle poche lettere e premette il tasto Invio. Il notebook si avviò con una melodia da Sesamo, schiudendo la porta dei segreti. L’icona Documenti in alto a sinistra del desktop gli balzò agli occhi con l’irruenza di un jack russel terrier. Dentro c’erano due file Excel e undici documenti Word. Klinger li scorse brevemente. Era corrispondenza privata e di lavoro, come si intuiva dalle denominazioni: condominio, assicurazioni, conti palestra. L’ultimo, invece, era identificato solo da tre lettere maiuscole: XXX. Domenico fece un profondo respiro. E un doppio click. Da: <…..@ ……> Inviato: domenica 14 dicembre 2003 16.00.49 A: <[email protected]> Oggetto: una boccata d’aria... Buonasera, Ossigeno (O. sta per Ossigeno? Faccio finta che sia così). Come scrivi tu –e non puoi sapere quanto sono d'accordo con te- anche i rapporti meno tradizionali finiscono per diventarlo, a causa dell'abitudine. Quella che all'inizio pare una relazione fuori dalle righe, finisce comunque e sempre per inquadrarsi entro qualche limite. Certo ci sono limiti e limiti, e mi salva il fatto di credere ancora nella possibilità di qualcosa di diverso, di complicità che non si appiattiscono col tempo, di passioni che si alimentano, di sfide che confluiscono in obiettivi comuni per i quali si abbia voglia di lottare. Credo ancora nella possibilità di amare davvero e di essere amati: sotto qualsivoglia forma si presenti la possibilità, vale comunque e sempre la pena di viverla, dovesse durare anche solo il tempo di un battito di ciglia. Vivere col cuore, questo è l'importante. Quando il cuore cessa di comunicarci emozioni e quando la vita diventa ragione o convenienza, allora è venuto il momento di cambiare scenario e di trovarne un altro più consono al nostro. Uno in cui il cuore ricominci a battere all'impazzata e la vita riprenda a correre al suo ritmo. E se questo significa cambiare una, dieci, cento volte, chi se ne frega. Abbiamo una possibilità da sfruttare, e di questa siamo certi. Se poi, in realtà, ne esistono molte altre, e non lo sappiamo, il solo fatto di non esserne a conoscenza implica già, di per sé, che il giusto è vivere quella che ci è toccata come se fosse la sola che ci è concessa, e pretendere da noi e da essa tutto ciò che riteniamo di dover ricevere. Temi per me? Sei preoccupato della piega che hanno preso i nostri discorsi via computer? Ti stai stufando? Sappi che a me piacciono e che tutto ciò che la tua mente produce mi interessa. S'incontrano raramente persone con la tua sensibilità e intelligenza. Per me sei una sfida e un'occasione, rara, di crescita e di confronto, una fonte di riflessione che arricchisce. Questa è la mia prima esperienza di storia a distanza. Peggio: di storia elettronica, e-mail, chat, e fredde cose del genere. E’ divertente, ma, ti confesso, mi manca la fisicità. Mi manca la tua voce, il tuo profumo, sentire la grana della tua pelle. Talvolta avrei voglia di familiarità quotidiana con te, di saperti in giro per questa casa, di vederti guardare la televisione, passarti accanto, accarezzarti e proseguire, prepararci un tè o un bagno caldo, spiarti mentre leggi il giornale, osservarti nel letto mentre ancora dormi, guardarti mentre ti vesti al mattino. Poi ripenso alle tue parole, all'Ulisse che c'è in te, e mi domando se il bello non sta proprio forse nel poterle sognare, queste abitudini. Ti bacio, anima mia misteriosa. Da: <…..@…..> Oggetto: Data: 26/01/04 A: [email protected] "Oh marinaio che questa notte porti in porto la mia nave tu che stringi e sciogli i nodi con facilità sarebbe bello senza reti, dimenticare il tempo ma se ne va questo momento dai, non partire.. Sulla tua pelle mi leghi a un bacio e sento sangue, sangue e odore di reato....". Resti nella mia mente come questa canzone che non abbiamo mai ascoltato insieme. Resti come un vuoto. Ma un vuoto piacevole, pieno di senso e di contraddizioni che voglio che restino irrisolte. Resti come questo profumo sulla tua camicia. Come quella foto che non mi hai mai scattato. Come il sapore delle tue labbra. Non abbandonare il tavolo da gioco. Non ora. Notte, marinaio. Da: <…..@.....> Inviato: giovedì 29 gennaio 2004 18.57.09 A: <[email protected]> Oggetto: va bene così Ci ho pensato tutta la notte e alla fine ho deciso: accetto! Accetto di abbassare piano piano il paravento che mi separa da te. Ho deciso di giocare senza fretta e senza paura. Ho deciso di imparare giorno dopo giorno a guardarti negli occhi senza il timore di arrossire o di dire qualcosa di sbagliato. Lo farò attraverso la forza delle mie parole, l'incompiutezza dei miei sguardi e attraverso pochi "istanti" del mio corpo... Ma in tutto questo complesso fluire di anime, una condizione la pongo anch'io: un'altra regola della casa del sidro: vorrei che anche tu mi permettessi di entrare dentro di te. Decidi tu in quale modo. Qualche tempo fa mi hai scritto che vuoi entrare dentro di me, attraverso il cervello. Anch'io ho lo stesso desiderio. Il che vuol dire che da questo momento tu per me non sarai più Ostro –il signor Ostro- ma solo il mio Corruttore... Ora la prossima mossa tocca a te. Che il gioco inizi. From: <…..@….. > To: [email protected] Subject: primo contatto... Date: Mon, 08 Mar 2004 18:20:01 Tesoroooooooooooo, come sei stato cattivo in questa mail. Io non voglio disubbidire alle regole del gioco, né voglio tirarmi indietro, ma devi avere un po’ di pazienza: certe cose non riesco a farle. Ti confesso una cosa: l’altro giorno ho provato a uscire come tu mi hai detto e sono entrata da Max & Co. Ma non sono riuscita a spogliarmi lasciando la tenda semiaperta. Cercherò di farmi perdonare al più presto. Intanto ti ho fatto i filmini e te li allego. Scusa se ti intaseranno la mail box, visto che sono piuttosto pesanti. Non sono molto esperta, né di strip né di Internet. Ti confesso che quando li ho trasferiti sul mio Mac e li ho inviati mi è presa una paura… E se si perdono in rete e li vede qualcuno? Non si sa mai con i computer che cosa può succedere. Il Corruttore... mi piace proprio. Molto promettente. Non mi è piaciuto, invece, quando mi hai dato dell’oca, ma sono buona e ti perdono! Però, credimi, non avevo proprio visto che stavi parlando con la tua ex moglie, se no mica ti salutavo a quel modo. Credevo fosse una delle tante tardone della palestra che ti ronzano attorno (dai, scherzo, non ti arrabbiare, ti pregooooooo. Con me non dovrai mai essere permaloso, me lo prometti?) Oggi ti ho visto al bar con Serena... Meno male che alla fine della lezione mi hai dedicato qualche minuto altrimenti ci sarei rimasta proprio male. Anche lei è nel tuo harem? Mi sa di sì, per come ti guarda. E, soprattutto, per come guarda me quando ti vengo vicino. Date: Thu, 6 May 2004 21:34:41 From: <…..@.....> To: [email protected] Subject: la gattina Confessioni di una languida gatta in calore: stanotte smaniavo e non riuscivo a dormire pensando, fantasticando sul nostro incontro. Ero eccitatissima: mi sono toccata, e immaginavo che se avessi fatto l’amore con te in quel momento avrei dato il meglio di me… Che voglia mi hai fatto venire. Credo sia da quando avevo sedici anni che non mi sento così. Mi chiedi che cosa voglio da te. Hai ragione: forse non lo so, ma cercherò di lasciarmi andare e stare al gioco della sottomissione e della fantasia. Poi vuoi sapere quanti uomini abbia avuto. Vuoi la verità o do spazio alla mia fantasia? Tu prova ad indovinare. Intanto ti racconto qualcosa del mio passato, più o meno recente. Deciderai tu, quando ci conosceremo meglio. Ricordo gli anni dell’università, quando il mio ragazzo di allora ha invitato un suo amico e mi ha fatto spogliare per lui. Avevo ventiquattro anni. Che cosa ho provato? Ero divertita dalla cosa, mai imbarazzata. E poi ricordo -o immagino, giudica tu- quella volta che un calciatore amico mio mi ha portata a farmi massaggiare dal suo trainer, ed è rimasto a guardare mentre le mani del massaggiatore si insinuavano tra le mie cosce e io mi eccitavo e lo facilitavo... E quella volta che in aereo mi sono ritrovata seduta accanto ad un amico di un amico. Il viaggio inizia con delle semplici chiacchiere ma noto che i suoi occhi sono attratti dalle gambe che la mia mini mette generosamente in mostra. Io, del resto, mi diverto a provocare, e invece di abbassare la gonna lascio che la posizione e gli accavallamenti nello scarso spazio tra i sedili sollevino quell’orlo sempre di più. Dopo qualche ora di volo, la cena, il film e tutto il resto, fingo di addormentarmi… e, guarda caso, nel sonno le gambe sono leggermente discoste. A un certo punto sento una mano che comincia a sfiorarmi il ginocchio. E’ un contatto appena percettibile, ma anche se sono a occhi chiusi so che non mi sto sbagliando. Lentamente la carezza risale, fino al dorso delle calze, e più in su. Quelle dita, le sue dita, mi sfiorano, aumentando la mia eccitazione. E’ buio, per fortuna, e io gli scivolo sopra. Tutto avviene rapidamente. Chissà, forse qualcuno ha goduto dello spettacolo, preferendolo al film di bordo. Continuo? C'era una volta, qualche settimana fa, una signora quasi quarantenne al supermercato che indossava una gonna di lino, nera, corta, leggera, trasparente, che lasciava intravedere le sue bellissime gambe e il culetto rotondo. E c’era un uomo che l'aveva notata e, soprattutto, aveva notato che, sotto, la signora si era dimenticata di indossare la biancheria, proprio come gli aveva chiesto di fare un suo amico chiamato il Corruttore. L’uomo non seppe resistere: si avvicinò alla donna e le sfiorò il sedere. Prima uno sfioramento impercettibile e poi –visto che lei non reagiva- sempre più intimo… Lei non si muoveva perché pensava fossi tu, pensa che scema. Si è allontanata da quella mano invadente solo quando nel corridoio è arrivata altra gente. Solo in quel momento si è voltata, perché voleva scambiare un sorriso di complicità con l’uomo… e si è accorta che non lo conosceva. Era un buzzurro con una tuta da lavoro verde e la faccia avvinazzata di certi operai dell’Est. Allora è scappata via e non si è fermata fino a casa, con il cuore in gola. Fantasia o realtà? Date: Tue, 11 May 2004 14:5:28 From: <…..@.....> Add To Address Book To: [email protected] Subject: che sorpresa! E così sotto le mentite spoglie del milanese borghese dallo sguardo vispo e dal guizzo disincantato c'è un perverso manipolatore dei desideri altrui più reconditi... Desideri di donne verso altre donne; di donne nei confronti di più uomini; di uomini voyeuristi e, perché no? partecipi; di donne con fantasie verso la Donna. Femmine: un mondo variegato, effettivamente tutto da scoprire, generazione dopo generazione, di età in età. Non competo con la tua fantasia, né con la tua prontezza nel metterla in atto, nel renderla realtà, ma anch’io ho sbrigliato l’immaginazione, stasera. Mi sono limitata al provare vestiti vari, corti e lunghi, neri o colorati, e poi sandali e sabots, sciarpe e foulards, ad avvolgermi il collo, le spalle e talvolta anche la testa. Accidenti ai tuoi racconti, che mi hanno fatto tirare fino a quest'ora, malgrado la spossatezza per questo maggio troppo caldo! Dimmi tu, manipolatore, abito corto o lungo? Una sciarpa leggera con cui bendarmi e nascondermi il volto ed i capelli ce l'ho. Il punto è che, una volta copertami il capo, non vedo l'effetto che fa. A me ne fa, ma non so il risultato su chi mi osserva. Mi dirai tu. Tu che avrai detto a Lei ciò che hai detto a me e cioè: siamo noi due, complici per una sera. Sennò come l'avresti convinta? Sei un fetente, ma anche per questo, mi piaci, un briccone che fa doppi e tripli giochi con personaggi che si prestano. Tiri tanti fili, mi sa, e su questo punto, anche su questo, tornerò più agguerrita che mai: voglio arrivare all'ultima delle tue maschere. E intanto imparo… Insomma, faccio una tra le cose che più amo al mondo: apprendere. In ogni campo. Fammi sapere, serpe infida, quale frutto mi porterà all'inferno. Un bacio. Ma uno solo, eh ? Da <…..@.....> Per: [email protected] Data: 04.06.04 Ogg.: Ho ripreso la mia guepière e l'ho indossata per scriverti, dopo averti letto. La indosserò ancora per giocare con te. Come ti ho detto, i tuoi racconti mi paiono tratti da un'altra storia, diversa dall'avventura che ho percepito e creduto di aver vissuto. Ciò prova quanto una benda possa fare la differenza, e in tutta onestà forse è meglio così. Avessi visto tutto ciò che accadeva forse un pochino di ritrosia, per quanto poco, per quanto un pizzico, magari mi sarebbe venuta. Vero è che un simile gioco non può durare a lungo. Perché non sono andata fino in fondo? mi chiedi. Forse è vero ciò che dici, forse ho un amante per il quale ho voluto serbare inviolato almeno un pezzo del mio corpo; forse non conosco i tuoi amici ed ho evitato contatti a rischio. Nessuno mi ha violato. E se ho rischiato che qualcuno lo facesse, non me ne sono davvero accorta. Peccato, che non ci sia stata l'occasione da parte tua di occuparti di me più a lungo. I silenzi o i piccoli e controllati gemiti dell’altra ragazza hanno impedito ai miei di venire allo scoperto. E poi, ripeto, la benda cambia la realtà. E se ciò è positivo o negativo