Dalla guerra moderna alla guerra globale di Danilo Zolo

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Dalla guerra moderna alla guerra globale di Danilo Zolo
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Dalla guerra moderna alla guerra globale
di Danilo Zolo - fonte www.blogoltre.it
(data di pubblicazione su www.attac.it 14 aprile 2003)
Siamo in presenza di un processo di transizione dalla «guerra moderna» alla «guerra globale». Per
«guerra moderna» intendo qui, sommariamente, la guerra limitata dal diritto internazionale,
caratteristica dello jus publicum europaeum. All'espressione «guerra globale» attribuisco sia il
senso geopolitico di guerra despazializzata, sia il senso sistemico di guerra egemonica, sia infine
quello, propriamente normativo, di guerra non limitata dal diritto e, perciò, illimitata. Per cogliere il
senso di questa profonda trasformazione è necessaria una minima dilatazione analitica dell'arco
temporale dell'ultimo decennio del Novecento.
Occorre anzitutto includervi la riflessione strategica che negli Stati Uniti ha fatto prontamente
seguito alla conclusione della guerra fredda e al crollo dell'impero sovietico. E una riflessione nel
corso della quale gli Stati Uniti hanno preso coscienza del fatto che avevano vinto l'ultima guerra
mondiale, la vittoria più importante di tutta la loro storia. Essi erano ormai la sola superpotenza
politica ed economica del pianeta, in grado di presidiarlo con il loro potenziale bellico e le loro
tecnologie militari e informatiche in continuo sviluppo. E da qui che bisogna partire - non certo
dall'11 settembre - per cogliere il senso del processo di globalizzazione della guerra oggi in atto.
In secondo luogo, occorre prendere in considerazione anche la guerra contro l'Afghanistan e la
guerra contro l'Iraq. Entrambe rispondono, nel senso più pieno, al modello della guerra globale. La
guerra contro l'Iraq è già di fatto in corso da mesi - e forse si potrebbe dire da anni - e si può dare
per scontato che l'azione militare decisiva sia ormai imminente.
Sono a mio parere quattro le tappe fondamentali del processo di dilatazione e di diffusione
«globale» della guerra di cui occorre tenere conto. A ciascuna di esse, come dirò, corrisponde un
illuminante documento strategico prodotto dalle alte gerarchle politico-militari statunitensi: la Casa
Bianca, il Dipartimento di Stato, il Pentagono, i vertici della Nato.
Le tappe del processo sono ovviamente quattro eventi bellici: la guerra del Golfo del 1991, la
duplice guerra nei Balcani, durata a più riprese dal 1991 al 1999, la guerra in Afghanistan iniziata
nel 2001 e mai conclusa, la guerra contro l'Iraq, di fatto già iniziata. Si tratta di eventi bellici che si
sono svolti tutti - questo non può essere considerato casuale dal punto di vista geopolitico e
geoeconomico - in un'area relativamente ristretta del pianeta, che include i Balcani, il Medio
Oriente e l'Asia centromeridionale. In questa cornice analitica l'attentato terroristico dell'11 settembre (2001) presenta un rilievo marginale. Lo sottolineo perché recenti interpretazioni filosoficopolitiche - penso ad esempio al recente saggio di Carlo Galli, La guerra globale - assumono invece
l'11 settembre come uno spartiacque cruciale, addirittura come il discrimine fra età moderna ed
età globale.
La guerra del Golfo II 2 agosto 1990, in un discorso ad Aspen, nel Colorado, il presidente degli
Stati Uniti, George Bush senior, traccia le linee di un nuovo progetto di pace stabile e universale: il
new worid order. Questo progetto verrà poi perfezionato nell'agosto del 1991, qualche mese dopo
la conclusione della guerra del Golfo, con la direttiva «National Security Strategy of the United
States».
Agli inizi del 1992 le linee strategiche delineate dal presidente vengono sviluppate nel celebre
documento «Defence Planning Guidance», redatto da un gruppo di funzionari del Dipartimento di
Stato e del Dipartimento della difesa, sotto la presidenza del sottosegretario alla Difesa Paul
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Wolfowitz. Nel frattempo un'ampia letteratura specialistica è andata elaborando le implicazioni
strategico-militari della nozione di global security che è al centro di questi documenti. In un mondo
non più diviso dal contrasto ideologico e sempre più interdipendente, si sostiene, le minacce contro
la pace e l'ordine mondiale, lungi dall'estinguersi, sono più capillari e diffuse e richiedono quindi
forme nuove di concentrazione e di esercizio del potere internazionale.
Le indicazioni di lungo periodo che emergono da questi documenti, in modo tutto particolare dal
documento «Defence Planning Guidance», possono essere considerate una sorta di codice
strategico dell'ultimo decennio del secolo, essenziali per la comprensione del suo intero sviluppo. I
punti fondamentali sono i seguenti: 1. Il crollo dell'impero sovietico e la fine della guerra fredda
hanno aperto una nuova era. Gli Stati Uniti hanno a portata di mano la «straordinaria possibilità»
di costruire un sistema internazionale giusto e pacifico, ispirato ai valori della libertà, della
democrazia e dell'economia di mercato, propri dell'Occidente;
2. La costruzione del nuovo ordine mondiale (new worid order) deve fondarsi su un sistema di
sicurezza «globale» che tenga conto della crescente interdipendenza economica, tecnologica e
informatica del pianeta. Questo sistema di global security esige una stretta cooperazione fra i paesi
che appartengono alle tre grandi aree industriali del pianeta - l'America del Nord, l'Europa e il
Giappone - sotto la leadership politica e militare degli Stati Uniti.
3. L'organizzazione di un sistema di global security comporta una drastica correzione della
struttura e della strategia della Nato. Il tradizionale quadro geografico dell'Alleanza atlantica deve
dilatarsi fino a tener conto dei crescenti rischi di anarchia internazionale provenienti da una
molteplicità di aree regionali. E dal cosiddetto Terzo mondo, in particolare, che vengono le minacce
più gravi per la sicurezza collettiva e per la pace. Le crescenti rivalità economiche, l'esplosione dei
nazionalismi, l'intolleranza religiosa, gli odi razziali, la pressione demografica, i disastri ambientali
sono tutti fattori destinati a minacciare la sicurezza della comunità internazionale e in particolare
gli interessi dei paesi industriali.
4. Data l'accresciuta complessità e interdipendenza dei fattori internazionali, gli interessi vitali dei
paesi industriali sono divenuti più vulnerabili. Si tratta del libero e regolare accesso alle fonti
energetiche, anzitutto al petrolio e al gas combustibile, dell'approvvigionamento delle materie
prime, della libertà e della sicurezza dei traffici marittimi e aerei, della stabilità dei mercati
mondiali, in particolare di quelli finanziari. I paesi industriali sono perciò fortemente interessati a
reprimere il terrorismo politico internazionale e a contrastare la proliferazione delle armi biologiche,
chimiche e nucleari.
5. Per realizzare gli obiettivi della global security le potenze industriali dovranno mettere da parte il
classico principio vestfaliano della non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani. Esse
dovranno esercitare e legittimare di fatto un loro diritto-dovere di «ingerenza umanitaria» in tutti i
casi in cui giudicheranno necessario intervenire per risolvere situazioni di crisi interne a singoli
Stati. In questo quadro strategico la guerra del Golfo viene interpretata come «il crogiolo del
nuovo ordine mondiale». La crisi del Golfo Persico - si sostiene - ha visto la comunità mondiale
pronta a reprimere con la forza, attraverso l'organizzazione di un intervento collettivo, un atto di
aggressione contro un membro delle Nazioni Unite. In realtà la guerra contro l'Iraq può essere
interpretata come la prima, vera «guerra globale» e, in quanto tale, come il modello delle «guerre
globali» successive.
Gli indici empirici che possono essere segnalati in questo senso sono i seguenti:
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1. La guerra del Golfo non è stata una guerra fra Stati sovrani, non è stata cioè una «guerra
vestfaliana» nella quale la posta in gioco fosse l'integrità territoriale o l'indipendenza politica
degli Stati belligeranti. (Da questo punto di vista, anche le due guerre mondiali, nonostante
alcune anomalie, rientrano nel paradigma vestfaliano). Il Kuwait ha fornito un contributo
irrilevante alla guerra, che è andata molto al di là della restaurazione del regime feudale
dell'emiro Jaber al-Ahmed al-Sabah. Senza procedere ad alcuna classica «occupazione
territoriale», al termine della guerra gli Stati Uniti si sono saldamente insediati nel Medio
Oriente e in particolare in Arabia Saudita, con proprie basi militari e una presenza di circa
centomila soldati.
2. In secondo luogo, pur trattandosi di una guerra legittimata dalle Nazioni Unite - e quindi sotto
la loro formale responsabilità - non si è trattato di una «guerra limitata», nel senso, proprio
dello jus publicum europaeum, di una guerra «messa in forma» da procedure e da vincoli
giuridici. Nessun limite al jus in bello è stato imposto alla logica dell'annientamento del nemico,
incluso il bombardamento delle città e il coinvolgimento della popolazione civile. Secondo stime
attendibili la «Tempesta del deserto» (Desert Storm) ha provocato, fra vittime civili e militari, la
morte di circa trecentomila persone, senza contare le vittime del successivo embargo. Per
quanto riguarda le armi usate nel conflitto, è provato che sono stati usati sia i proiettili
all'uranio impoverito, sia le bombe a grappolo (cluster bombs), sia le micidiali, quasi-nucleari
fuelair explosives. Tristemente famosa è la strage di migliala di persone in fuga con mezzi di
fortuna sull'autostrada che collega la capitale del Kuwait a Bassora, ribattezzata l'«autostrada
della morte».
3. In terzo luogo la guerra del Golfo è stata una «guerra globale» nel senso che le Nazioni Unite
la hanno formalmente legitti-mata come una guerra condotta dalla comunità internazionale
contro uno Stato responsabile di un grave illecito internazionale. La guerra ha mobilitato oltre
mezzo milione di uomini e di donne forniti da ben ventisette paesi alleati, sotto la guida degli
Stati Uniti. Si è trattato della spedizione militare più imponente nella storia dell'umanità. È stato
calcolato che nel corso dei quarantadue giorni della «Tempesta del deserto» è stata utilizzata
una quantità di esplosivo superiore a quella usata dagli alleati durante l'intera Seconda guerra
mondiale. Il divario tecnologico-militare fra le parti in conflitto è stato senza precedenti,
testimoniato dalla sproporzione fra il numero della vittime irachene e quelle degli alleati,
sproporzione che ha precedenti soltanto nel bombarda-mento atomico di Hiroshima e
Nagasaki.
4. Altri due aspetti della guerra del Golfo giustificano la tesi che essa è stata il primo esperimento
non simulato di «guerra globale» o «guerra del futuro», secondo l'espressione usata da un
generale statunitense. 4.1. Il primo aspetto riguarda l'entità della devastazione ambientale,
provocata sia dalla eccezionale quantità di esplosivo usato, spesso altamente tossico e
radioattivo, sia dalla quantità di petrolio non raffinato che è stato incendiato o che si è
riversato nelle acque del Golfo Persico. A giudizio degli esperti le contaminazioni del terreno,
dell'acqua, dell'aria, del mare e dell'alta atmosfera che sono state causate dalla guerra hanno
provocato e continueranno a provocare a livello planetario, anche a distanza di molti anni,
migliala di perdite di vite umane, di animali e di organismi vegetali. 4.2. Si è trattato, infine, di
una «guerra globale» per la grandiosa spettacolarità dell'informazione televisiva che ha fatto
della guerra del Golfo l'evento in assoluto più «comunicato» nella storia umana. Centinaia di
milioni di spettatori televisivi in tutto il mondo sono stati coinvolti e affascinati dallo spettacolo
della guerra «in diretta». Naturalmente nessuno di essi è stato in grado di controllare
l'attendibilità di un'informazione bellica alluvionale e, al limite, subliminale: rapida, continua,
asettica, incalzante. Le guerre balcaniche della Nato: Bosnia e Kosovo La guerra di Bosnia
introduce una rilevante novità nella secolare storia della «questione d'Oriente» e delle guerre
balcaniche: è una novità che apre la strada alla successiva guerra per il Kosovo. Per la prima
volta si affaccia sullo scenario balcanico una potenza occidentale, ma non europea: gli Stati
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Uniti d'America. E per la prima volta accanto alle grandi potenze occidentali - in simbiosi con
esse - operano istituzioni internazionali che si presentano come portatrici non di interessi di
parte o di valori particolari, ma di un punto di vista imparziale e di valori universali: la guerra
viene giustificata come un «intervento umanitario» per la protezione dei diritti dell'uomo.
Si realizza cosi la «versione umanitaria» del modello della «guerra globale» inaugurato dalla guerra
del Golfo. Si tratta di una guerra contro un piccolo e debole Stato balcanico a opera di una
potentissima alleanza militare che pur essendo una alleanza partigiana, diretta filiazione dalla
guerra fredda, si propone fini universalistici e usa la forza per conto delle Nazioni Unite. Il suo
obiettivo non è la conquista territoriale: la guerra per il Kosovo è anzi, in assoluto, la prima guerra
non territoriale, totalmente condotta dal cielo.
Questo naturalmente non impedirà che, appena finita la guerra, gli Stati Uniti costruiscano nel
Kosovo centro-orientale l'imponente Camp Bondsteel. Si tratta della più grande base militare che
gli Stati Uniti abbiamo costruito dopo la guerra del Vietnam e che può ospitare cinquemila militari.
È stata ottenuta splanando tre intere colline, un tempo coltivate a frumento. La guerra persegue
finalità che ovviamente non hanno nulla a che vedere con le sue pretese umanitarie. Lo ha
spiegato con la consueta lucidità Z. Brzezinski nel saggio The Grand Chessboard.
Tramontata l'era degli imperi regionali, è necessario che gli Stati Uniti vigilino perché nel
continente euroasiatico non emerga un loro potenziale nemico. Per questa ragione il sistema di
sicurezza europeo deve «pienamente coincidere con quello americano» in modo che l'Europa
divenga «la testa di ponte americana sul continente euroasiatico». Il regime serbo si opponeva a
questa prospettiva. In secondo luogo, cruciale è il controllo dei cosiddetti «corridoi»: gli oleodotti
per il petrolio e il gas combustibile che, da Oriente a Occidente, collegano il Mar Caspio e il
Caucaso al Mediterraneo, ai Balcani e all'Europa meridionale, e che europei e statunitensi
considerano di importanza vitale per far affluire le immense riserve petrolifere della regione verso i
paesi industrializzati. In questa guerra globale umanitaria - despazializzata e universalistica - la
Nato si erge a soggetto centrale della guerra.
Essa viene gradualmente abilitata a operare come braccio armato delle Nazioni Unite e, nello
stesso tempo, a sostituirle e a emarginarle. Alla fine, nel febbraio del 1999, la Nato deciderà
l'attacco militare contro la Federazione iugoslava senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza e
quindi in aperta violazione della Carta delle Nazioni Unite. La chiave per intendere la strategia
globale cui obbedisce la guerra umanitaria va a mio parere cercata nei documenti
dell'amministrazione statunitense che ho citato all'inizio, in particolare in «Defense Planning
Guidance».
Sono quei documenti che, mettendo a fuoco le nozioni di new worid order e di global security,
introducono, come abbiamo visto, la nozione di humanitarian intervention. E proclamano il
superamento del principio vestfaliano della sovranità degli Stati nazionali programmando la
metamorfosi strategica della Nato.
Quest'ultimo è a mio parere l'aspetto più specifico e rilevante. In un mondo non più bipolare il
sodalizio transatlantico che garantiva la presenza militare degli Stati Uniti in Europa va fondato su
nuove basi. Il nuovo atlantismo deve essere espressione di una strategia rinnovata: proiettiva e
non difensiva, espansiva e non soltanto reattiva, dinamica e flessibile e non statica e rigida. E sulla
base di queste premesse che, con notevole prontezza di riflessi, al vertice di Roma dell'Alleanza
atlantica del novembre 1991 gli Stati Uniti avevano già presentato il new strategie concept
dell'alleanza. Nella dichiarazione conclusiva del vertice di Roma c'era già un primo accenno alla
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nuova vocazione della Nato a superare i limiti geografici della propria competenza militare, definiti
dal suo statuto, e si accennava al dovere dell'alleanza di tener conto del «contesto globale».
La strada è aperta perché, a partire dal giugno del 1992, la Nato si metta a disposizione delle
Nazioni Unite e del Csce (oggi Osce) per interventi nei territori della ex Jugoslavia. Si tratta di
interventi out of area e per scopi non difensivi, che non solo violano gli articoli 5 e 6 dello Statuto
della Nato, ma sono lesivi dell'intera normativa del capitolo settimo della Carta delle Nazioni Unite,
che non prevede che un intervento militare di natura non strettamente difensiva possa essere
affidato a organizzazioni regionali. In una escalation di forzature o di aperte violazioni sia del
proprio Statuto, sia della Carta della Nazioni Unite, la Nato finisce per pretendere per sé e ottenere
il comando unico dei contingenti militari operanti nei Balcani.
L'ultimo sviluppo di questa metamorfosi istituzionale si verifica al summit della Nato, organizzato a
Washington nell'aprile del 1999, in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione della
Alleanza atlantica. Nel comunicato conclusivo del vertice («An Alliance for the 21st Century») viene
riformulato il new strategic concept del 1991: si ribadisce nei termini più estensivi -globali - il
compito della Nato di intervenire al di fuori dei casi previsti dall'alt. 5 del suo statuto - e cioè al di
fuori di precisi limiti giuridici e geografici - per garantire il rispetto dei diritti umani, la democrazia,
la libertà individuale e il rule of law.
La guerra umanitaria del Kosovo ha espresso la sua finalità egemonica e la sua dimensione globale
anche dal punto di vista strettamente operativo. La si è chiamata «guerra dal cielo» non solo
alludendo alla rete di monitoraggio satellitare e di vero e proprio spionaggio informatico che ha
fatto da contrappunto elettronico della guerra, ma soprattutto perché la guerra, per la prima volta
nella storia, ha ignorato la dimensione territoriale. Il suo successo ha mostrato che l'ordine globale
può essere garantito dagli Stati Uniti senza che essi debbano impegnarsi nell'invasione territoriale
del paese attaccato. E dunque ipotizzabile che la superpotenza americana possa esercitare in
futuro la funzione di garante dell'ordine globale riducendo al minimo il rischio — etica-mente
intollerabile — della perdita di vite umane (statunitensi).
E noto che gli Stati Uniti stanno costruendo aerei militari completa-mente informatizzati e
automatizzati - e quindi senza piloti - in grado di raggiungere qualsiasi punto del globo partendo
da basi statunitensi. Essi sono destinati a sostituire i potentissimi e costosissimi bombardieri B2
Spirit. In un prossimo futuro la global security potrà essere dunque tale anche nel senso che le
nuove tecnologie militari garantiranno un'assoluta sicurezza «robotica» alla potenza che si
impegnerà a stabilizzare l'ordine globale inviando i propri missili o sganciando le proprie bombe in
qualsiasi angolo della terra.
La guerra in Afghanistan La guerra contro l'Afghanistan, è noto a tutti, è stata giustificata
dall'amministrazione Bush come una replica difensiva nei confronti dell'attentato terroristico subito
l'il settembre e come l'inizio di una guerra senza limiti di tempo e senza vincoli spaziali contro la
rete del global terrorism e dei rogue states che si ritengano in qualche modo compromessi con il
terrorismo. Gli Stati Uniti fanno derivare la legittimità della guerra dalle due risoluzioni del Consiglio
di sicurezza (la 1868 del 12 settembre e la 1373 del 28 settembre) in particolare dalla prima, nella
quale si usa ambiguamente il termine di self-defense che sembra autorizzare un riferimento all'ari.
51 della Carta delle Nazioni Unite. In realtà è agevole mostrare che l'obiettivo strategico perseguito
con questa guerra dagli Stati Uniti va molto al di là della repressione del «terrorismo globale».
Meglio: la guerra prende occasione dalla necessità di reprimere il terrorismo globale per perseguire
obiettivi che ancora una volta si rivelano perfettamente in linea con quello che ho chiamato il
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«Codice strategico» - il «Defense Planning Guidance» - elaborato dai vertici politico-militari degli
Stati Uniti fra il 1990 e il 1992.
È sufficiente, per argomentare questa tesi, esaminare un altro illuminante documento, diffuso dal
Dipartimento della difesa il 30 settembre 2001, il «Quadriennial Defence Review Report». Il
documento viene diffuso qualche settimana dopo l'attentato alle Twin Towers, ma, salvo alcune
minime interpolazioni adattive, è il frutto di una lunga elaborazione precedente l'il settembre. Il
documento, si badi bene, è anche in questo caso ispirato da Paul Wolfowitz, ancora una volta
numero due e testa pensante del Pentagono. Nel documento si sostiene che:
1) Gli Stati Uniti, in quanto global power sono i soli in grado di «proiettare potenza» su scala
mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere la
propria influenza globale, rafforzando l'America's global leadership role. E ciò sia per
aumentare la propria sicurezza interna, sia per tutelare e promuovere i propri «interessi vitali»
sul piano internazionale.
2) Gli Stati Uniti devono mettere a punto una total force militare che sfrutti i «vantaggi
asimmetrici» (asymmetric advantages) di cui godono in termini nucleari, di intelligence, di
controllo informatico del pianeta. La risposta al global terrorism deve essere impostata in
termini militari in modo da fare delle forze armate statunitensi una total force (anche nucleare)
che impedisca ai gruppi terroristici l'uso di armi nucleari, chimiche o batteriologiche.
3) Gli Stati Uniti devono rafforzare e aumentare in numero le loro basi militari nelle aree entro le
quali si possono affermare potenze ostili (precluding bastile dominations of critical areas):
queste aree sono i Balcani e in modo tutto particolare il continente asiatico: dal Medio Oriente
all'Asia centrale, dal Golfo del Bengala al Mar del Giappone e alla Corea, lungo quello che il
documento chiama «East Asian Littoral», includendovi anche l'Asia del Sudest.
4) Gli Stati Uniti devono garantire a proprio vantaggio l'accesso ai mercati e alle risorse
strategiche del Medio Oriente e della regione caspica e transcaspica e controllare queste aree
con strumenti militari. Se necessario, si dovrà cambiare il regime di una Stato avversario e
occupare provvisoriamente un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non
siano realizzati. L'obiettivo della guerra che gli Stati Uniti scatenano contro l'Afghanistan è
dunque in realtà quello di consolidare la loro egemonia planetaria, garantendosi una stabile
presenza militare nel cuore dell'Asia centrale.
Si tratta di controllare, oltre all'Afganistan e al Pakistan - dove oggi è già in costruzione, a
Jacobabad, una base militare permanente - paesi dell'area caucasica, caspica e transcaspica, come
la Georgia, l'Azerbaigian, il Turkmenistan, l'Uzbekistan e il Tagikistan. Il progetto non è solo di
controllare le immense risorse energetiche racchiuse nel sottosuolo delle Repubbliche ex
sovietiche. È soprattutto quello di completare il duplice accerchiamento politico-militare della
Russia a ovest e della Cina a est. La Cina è probabilmente il bersaglio principale, anche se di lungo
periodo. La guerra contro l'Iraq La «guerra preventiva» contro l'Iraq conclude e compendia il
panorama bellico sin qui illustrato. Si tratta per ora di una guerra allo stato latente, ma che già si
profila come uno sviluppo perfettamente coerente della strategia elaborata e praticata dagli Stati
Uniti a partire dai primi anni '90 del Novecento. L'obiettivo principale della guerra sembra quello di
controllare militarmente - e di «democratizzare» con la forza - l'intera area mediorientale.
Quest'area è nello stesso tempo il più ricco deposito di risorse energetiche del mondo, una regione
altamente instabile e il crogiolo del terrorismo islamico. Al suo centro sta l'irrisolta questione del
conflitto fra lo Stato di Israele e l'Autorità nazionale palestinese: una questione che la guerra
potrebbe avviare verso la sua soluzione finale: l'etnocidio del popolo palestinese. Ancora una volta
è un documento della Casa Bianca, - il «National Security Strategy of the United States of
America», del 17 settembre 2002 - a gettare luce su una prospettiva bellica che si profila come
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radicalmente eversiva non solo della Carta delle Nazioni Unite ma dell'intero diritto internazionale
generale, cosi come si è consolidato nei secoli della modernità.
Le linee fondamentali del documento sono le seguenti quattro:
1) L'introduzione della nozione di «guerra preventiva» contro qualsiasi possibile nemico. Si tratta
di una nozione che si oppone all'intera struttura del diritto internazionale di guerra oggi in
vigore;
2) il ricorso strategico alla minaccia dell'uso della forza contro paesi unilateralmente definiti dagli
Stati Uniti medesimi come «Stati canaglia» (rogue States);
3) la pressione che gli Stati Uniti intendono esercitare sulla «comunità internazionale» per indurla
ad accettare le proprie richieste, minacciando in alternativa l'intervento militare unilaterale; 4) il
superamento del trattato di non proliferazione delle armi di distruzione di massa e l'imposizione
della nuova dottrina della «contro-proliferazione», e cioè del diretto intervento militare per
disarmare i potenziali avversar!.
Questa dottrina si accompagna alla cancellazione di ogni impegno da parte degli Stati Uniti a
ridurre - e alla fine eliminare - il proprio arsenale militare, come prevedeva il Trattato di non
proliferazione. Al contrario essi dichiarano il proposito di aumentare e stabilizzare il loro assoluto
primato anche in termini di armamento nucleare. Conclusione Poche parole conclusive. In questi
anni non solo la logica della guerra è prevalsa sulla logica della pace che sembrava ispirare il diritto
e le istituzioni internazionali uscite dal secondo dopoguerra. Il flagello della guerra è diventato
globale e una potenza globale - una potenza «imperiale» - ne è diventata l'alfiere e oggi minaccia
apertamente persino il ricorso al suo potentissimo arsenale nucleare.
Nel frattempo assistiamo a una crisi senza precedenti dell'ordinamento giuridico internazionale che
è nello stesso tempo causa e conseguenza della paralisi delle Nazioni Unite, del tutto emarginate
dal protagonismo egemonico degli Stati Uniti e costrette a fungere da sistematico appaltatore di
guerre e da forzato distributore di legittimità bellica.
Dalla fine del bipolarismo a oggi le potenze occidentali non solo hanno usato la forza in sistematica
violazione del diritto internazionale, ma ne hanno esplicitamente contestato le funzioni in nome di
un loro incondizionato jus ad bellum. È evidente che un sistema normativo può esercitare effetti di
ritualizzazione dell'uso della forza internazionale - sottomettendola a procedure predeterminate e a
regole generali - solo a condizione che nessun soggetto dell'ordinamento possa, grazie alla sua
potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato legibus solutus.
La regressione che si profila è conclamata: è una regressione globale, si potrebbe dire. È una
regressione che ci riporta agli inizi del secolo scorso, alla situazione anarchica precedente alla
fondazione delle istituzioni internazionali del Novecento - la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite
-, con il connesso pericolo di un sempre più diffuso ricorso all'uso della forza da parte delle
potenze che oggi dominano il mondo, che lo dominano non solo dal punto di vista militare, ma
anche da quello economico e tecnico-scientifico.
Potrebbe dunque riaprirsi un ciclo di nuove guerre mondiali - di guerre globali del bene contro il
male, dell'impero globale contro il terrorismo globale e contro gli Stati eventualmente accusati di
sostenerlo - che né il diritto né le istituzioni internazionali, cosi come sono oggi, potrebbero
fermare o limitare nei loro effetti più distruttivi.