LA MORALE DEGLI SCIENZIATI E LA BOMBA ATOMICA di Mario
Transcript
LA MORALE DEGLI SCIENZIATI E LA BOMBA ATOMICA di Mario
LA MORALE DEGLI SCIENZIATI E LA BOMBA ATOMICA1 di Mario Vadacchino Non esiste, ne è mai esistito per gli scienziati, l’equivalente di un giuramento ippocratico; ma ci sono in questa, come in ogni comunità scientifica, regole di comportamento, che forse non hanno il diritto di essere considerate un compiuto sistema etico, ma che formano parte dei doveri da rispettare se si vuole fare parte della comunità. Secondo Merton2 l’ethos della scienza è quel complesso di valori e norme cui si ritiene impegnato, anche emotivamente, l’uomo di scienza. Si tratta di una serie di regole, di proibizioni, di comportamenti che di fatto vengono interiorizzati da tutti coloro che entrano a fare parte della comunità degli scienziati; come dice Merton, ne costituiscono il super-ego. Solo la loro condivisione permette ad un ricercatore di fare parte della comunità ed il loro mancato rispetto comporta, come sanzione, l’allontanamento del trasgressore dalla comunità. L’ethos cui fa riferimento Merton è basato su quattro imperativi, tra loro correlati: l’universalismo, il comunismo, il disinteresse ed il dubbio sistematico. L’universalismo si riferisce al carattere obiettivo ed autonomo delle formulazioni scientifiche; il carattere di verità di un’affermazione scientifica deve essere accertato sulla base di criteri indipendenti da ogni valutazione personale o nazionale o etnica. Si noti che non si parla di oggettività o meno delle teorie scientifiche, ma del fatto che il tentativo di imporre verità scientifiche sulla base di criteri estranei a quelli definiti dalla comunità ne trasgredisce l’ethos. Può essere interessante, per quanto si dirà in seguito, citare un esempio di trasgressione di questo imperativo fatto da Merton: J. Stark, che guiderà l’attacco ai fisici ebrei durante il nazismo, affermava che la scienza buona è quella realistica, pragmatica dell’ariano, mentre la cattiva è quella dogmatica e formale del non ariano. L’universalismo richiede inoltre che il prestigio personale degli scienziati e quindi anche le loro carriere, siano regolate solo dalla capacità, e non dalla razza, dalla religione o dal ceto sociale. Si noti come quest’aspetto dell’universalismo garantisca un più efficiente avanzamento delle conoscenze; come dice Merton convenienza e moralità coincidono. Il comunismo indica l’origine sociale e la proprietà comune delle scoperte scientifiche: dice Merton che le scoperte sostanziali della scienza sono un prodotto di collaborazione sociale e sono assegnate alla comunità. L’unica proprietà che lo scienziato può vantare sulle sue scoperte è quella relativa al prestigio che esse comportano: ed in nome di questo prestigio che sovente, nella storia della scienza, ci sono state contese sulla proprietà di alcune scoperte. La dimensione temporale del carattere collettivo e sociale della scoperta scientifica fu ben espressa da Newton utilizzando un antico aforisma: se io ho visto lontano è perché stavo sulle spalle di giganti. Quest’imperativo ha una conseguenza rilevante secondo Merton: il concetto istituzionale della scienza come parte del patrimonio comune è legato all’imperativo della comunicazione dei risultati. La comunità chiede agli scienziati che le appartengono di comunicare i risultati delle loro ricerche: da un lato questo permette un controllo dei risultati, ed aumenta il prestigio dello scienziato, dall’altro l’avanzamento delle conoscenze viene in questo modo accelerato. Anche per quest’imperativo si può osservare quanto detto per l’universalismo: la regola morale è quella che garantisce contemporaneamente un più efficace lavoro della comunità. Uno scienziato che non rispetti questo imperativo è egoista ed anti-sociale; come dice Merton: anche se non ha secondi fini, la soppressione di una scoperta scientifica è condannata. Questo imperativo, nota Merton, non è condiviso dalla società: il comunismo dell’ethos scientifico è incompatibile con la concezione dell’economia capitalistica che la tecnologia sia proprietà privata. Il disinteresse è un imperativo che lo scienziato deve acquisire ed interiorizzare, se vuole essere in grado di rispettare, senza traumi o difficoltà, i due imperativi sopra indicati. Non si può 1 Una versione più colloquiale di questo testo è stata presentata a Venezia il 16.6.2002, come lectio magistralis al convegno dedicato ai Significati Condivisi di FONDAMENTA. 2 R. K. Merton, Science and technology in a democratic order, Journal of Legal and Political Sociology, vol. 1, 1942. Una riedizione successiva di questo testo si trova tradotta in Studi di sociologia della scienza in Teoria e struttura sociale, Bologna 1966, pag. 885. pensare che l’interesse per la propria carriera scientifica possa suggerire di frodare la comunità nella pratica della scienza. Lo scienziato non ha di fronte, come può capitare al medico o all’avvocato, una comunità d’ignoranti o di creduloni; lo scienziato ha di fronte una comunità di colleghi qualificati che prima o poi sono in grado di scoprire la frode. Il dubbio sistematico è un mandato istituzionale oltre che metodologico dello scienziato. L’atteggiamento critico verso tutte le affermazioni che riguardano la natura, sulla base di criteri di coerenza e logicità, produce una continua tensione verso quella che Popper ha chiamato falsificazione delle teorie scientifiche. Si noti come anche questo imperativo sia di fatto funzionale ad un progresso veloce ed effettivo delle conoscenze scientifiche; esso inoltre, quando applicato alle credenze della società, fatto con spirito libero da pregiudizi, entra in collisione con tutte quelle istituzioni sociali che su queste credenze si fondano. Non si deve credere che questi valori siano oggi accettati e praticati universalmente: essi danno luogo, soprattutto nelle scienze biologiche, ad intense polemiche3, ma è certo che queste regole interne alle comunità di scienziati, prodotte dallo sviluppo stesso delle scienze moderne ed a loro volta in qualche modo responsabili del loro sviluppo e del prestigio sociale da esse ottenuto, che sono mantenute sempre vitali dalla stessa comunità, costituiscono tuttora una base comune tra tutti gli scienziati. Merton ha sostanzialmente individuato quei meccanismi, interni alla comunità degli scienziati, che storicamente hanno contribuito all’affermazione ed allo sviluppo delle scienze nel mondo occidentale negli ultimi tre secoli; questi meccanismi sono diventati l’ethos che impegna ogni singolo scienziato rispetto alla comunità dei colleghi. Tra la situazione descritta da Merton e quella attuale si colloca però un episodio storico cruciale, che ha sicuramente modificato le relazioni tra la comunità degli scienziati, governata dagli imperativi sopra descritti, e la società. Lo stesso Merton, nella riedizione del testo che è stato sopra citato, notò come sia stata l’esplosione di Hiroshima ad avere modificato la consapevolezza degli scienziati rispetto alle conseguenze sociali del loro lavoro. Merton nota come questi imperativi abbiano di fatto promosso lo sviluppo democratico della società; ciò non avviene però attraverso la diffusione delle procedure della democrazia: in altre parole le verità scientifiche non sono valutabili con le votazioni. Gli imperativi sollecitano invece da un lato una dinamica egualitaria, attraverso la valorizzazione di prestazioni, quelle scientifiche, apprezzate dalla società e fornite da uomini casualmente distribuiti nella scala sociale, dall’altro inducono ed invitano ad uno spirito critico, che applicato alle strutture ed alle credenze politiche, è stimolatore sempre vivo di democratizzazione. Ma non fa riferimento a questo Merton, quando parla di conseguenze sociali del loro lavoro; il contributo alla democratizzazione sopra citato si riferisce a processi lenti, mediati, con scale temporali di vari decenni se non di secoli. Con le conseguenze sociali ci si riferisce a qualche cosa di più diretto, proprio come fu nel caso dello sviluppo della bomba atomica. Il coinvolgimento ampio e profondo della comunità degli scienziati alla prima esplosione nucleare ha rappresentato un fatto nuovo nella storia dell’umanità e degli scienziati; questa vicenda rappresenta, da 60, anni un caso esemplare per valutare il comportamento politico, sociale ed etico di quegli scienziati ed in particolare di quei fisici, che vi parteciparono. Il caso è oramai chiuso: la quasi assoluta totalità dei protagonisti non c’è più e le conoscenze acquisite in quegli anni fanno ormai parte, nel bene e nel male, delle conoscenze dell’umanità. Il problema di quale debba essere considerato un comportamento eticamente corretto da parte degli scienziati, che cosa si possa o si 3 Si veda, per esempio lo scandalo scoppiato recentemente in Germania sulla veridicità dei dati contenuti in una serie di pubblicazioni di carattere medico, veridicità indagata da una apposita commissione dell’ente finanziatore, che avrebbe in effetti accertato la frode; cfr.: Nature, 415, 3 (2002). Appartengono alla stessa problematica le polemiche, apertesi recentemente negli Stati Uniti, sul fatto che molti ricercatori non forniscono i dati relativi ai loro articoli, impedendo di fatto volontariamente ogni loro verifica; cfr.: Science, 295, 5555, 25.1.2002. Su quest’ultimo punto è rilevante, al fine di ristabilire l’ethos, la decisione presa dai comitati di direzione di alcune importanti riviste di non pubblicare articoli nei quali, per proteggere i brevetti, non si danno tutti gli elementi della ricerca, impedendone di fatto la verifica. Si veda anche la breve nota di S. Coyaud apparsa sul supplemento domenicale del Il Sole-24 Ore del 16.9 2001. L’esistenza di patologie dovute ad un conflitto di interessi, che riguarda le ricerche finanziate dalle industrie, è stato segnalato da P.Greco in L’Unità del 3.5.2002. debba ricercare, come e se si debbano comunicare i risultati della ricerca è invece ancora un problema attualissimo, che non deve assolutamente essere considerato chiuso. L’interesse che oggi abbiamo per questa vicenda, direi addirittura che dobbiamo avere e quindi la curiosità anche per le singole vicende personali, non nasce dal bisogno di dare giudizi morali ex-post, che sarebbe ridicolo, oltre che inutile, ma dalla necessità di individuare come nascono e si sviluppano certi comportamenti individuali e collettivi la cui influenza sulla storia della nostra società si è poi mostrata così rilevante: quello che allora è successo alla comunità dei fisici, ha successivamente interessato anche altre comunità di scienziati e sicuramente ne interesserà altre in futuro. Ma, se si vuole che questa analisi sia completa e significativa, conviene porre in evidenza due aspetti per così dire collaterali della vicenda, ma che mi sembrano avere avuto una importanza decisiva. Mi rendo conto che, se proprio ci si volesse avventurare in un eventuale giudizio, questi aspetti costituirebbero delle attenuanti, che essi rappresentano una condizione unica e sperabilmente irripetibile, e che per questo forse non sono immediatamente confrontabili con situazioni attuali, ma in ogni caso devono essere tenuti presenti. Un primo aspetto riguarda il concreto scenario storico nel quale dovettero operare ed un secondo le storie personali di un numero consistente di scienziati che parteciparono all’impresa; si dovrà ovviamente tenere conto che la comunità degli scienziati affrontava le evenienze drammatiche di quegli anni con un bagaglio culturale rappresentato dall’acquisizione o meglio dall’interiorizzazione degli imperativi mertoniani sopra sinteticamente descritti. L’analisi degli aspetti morali del comportamento degli scienziati deve partire dai termini nei quali il problema etico fu posto dagli scienziati stessi, tenendo presente non solo la forma nella quale il problema venne posto, ma anche il suo contesto e quindi se e come influenzò le loro decisioni. L’attività degli scienziati impegnati nel progetto Manhattan non fu infatti limitata esclusivamente alle loro attività professionali; essi furono chiamati, e questo vale in particolare per i più importanti tra di loro, a partecipare a decisioni non strettamente scientifiche, ma anche militari e politiche. Per questi compiti l’attrezzatura fornita dagli imperativi di Merton non era evidentemente sufficiente: e lo stesso Merton peraltro, nella nota aggiunta alcuni anni dopo, lo pone in evidenza. Il problema etico che fu allora posto in discussione, nella concezione allargata appena detta, può essere articolato in almeno due aspetti, autonomi per quanto correlati tra loro, e che si presentarono con diversa enfasi nelle varie fasi di sviluppo del progetto. Il primo, presentatosi nella fase iniziale, riguardava la liceità di partecipare alla costruzione di ordigni di guerra, e non era un problema nuovo. Un secondo, affacciatosi drammaticamente dopo l’esperimento di Alamogordo, riguardava le modalità di uso dell’ordigno, la cui straordinaria potenza era stata appena dimostrata. Si trattava, nell’immediato, di stabilire l’opportunità e la liceità di utilizzare la bomba contro il Giappone, cioè in sostanza, di esperimentarla direttamente su vittime giapponesi e, per quanto riguardava il futuro, di prevedere più specificamente gli aspetti politici del possesso della bomba atomica da parte di una sola potenza, in questo caso gli Stati Uniti. Non è ovvio se le decisioni prese dagli scienziati in questa attività, esterna alle loro competenze professionali, debbano essere giudicate secondo criteri etici ed anche se essi tennero conto, in questi frangenti, di considerazioni etiche e quali queste furono. Nei documenti da loro redatti vi sono peraltro richiami a valutazioni di natura etica: utilizzerò quindi una concezione allargata di comportamento etico, comprendendo in essa anche attività che potrebbero anche essere valutate e giudicate in termini di opzioni politiche. Il diverso peso che fu dato a questi quesiti e le diverse modalità di risposta produssero e giustificarono il diverso comportamento dei singoli e la diversità delle decisioni che essi presero; unica appare invece essere stata la ragione dell’impegno attivo in quest’impresa: impedire alla Germania di acquisire per prima e da sola l’arma atomica. È certo ad ogni modo che tutti coloro che parteciparono a questo sviluppo tecnico e militare non lo considerarono allora, né in seguito, come un ordinario lavoro professionale. Molti, anche negli anni successivi, sentirono la necessità di giustificare quale era stato il loro comportamento in quei momenti delicati; le valutazioni morali del comportamento tenuto rispetto alla partecipazione alle attività militari avrebbero pesato negli anni a venire se Max Born, negli anni ‘50, decise di non accettare un invito all’Università della California solo per non dover incontrare E. Teller, che era stato uno dei propugnatori della costruzione della bomba atomica, ma che era indicato anche come il padre della bomba all’Idrogeno4. Quello che appare essere stato caratteristico, nel loro comportamento, è la coscienza ampia e collettiva di una problematica da un lato pressoché sconosciuta agli antichi e d’altro canto estranea alle indicazioni dell’ethos sopra indicato: è la problematica delle conseguenze sulla società civile delle loro scoperte Anche le modalità con le quali venne affrontata la questione furono nuove: la discussione su questo aspetto fu ampia, collettiva ed impegnativa. Avvenne durante gli anni cruciali dello sviluppo della bomba, e comportò un’attività squisitamente politica, con la redazione e la diffusione di documenti e di petizioni. La sequenza temporale degli avvenimenti che portarono alla costruzione ed infine all’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima, non obbedì solo ai tempi interni della ricerca, ma fu influenzata, talvolta in modo decisivo, dai principali eventi della seconda guerra mondiale e, nella fase finale, anche dalle prospettive del dopoguerra; ed è lo scenario complessivo prodotto da quest’intreccio che va tenuto presente, se si vogliono capire le reali condizioni nelle quali furono prese alcune decisioni che noi oggi analizziamo dal punto di vista dell’odierna coscienza sociale. Il 2 Agosto 1939 Einstein firma una lettera, redatta in gran parte da Leo Szilard, ed indirizzata a Roosevelt, sollecitando lo studio della possibilità di costruire una bomba atomica5 Con questa lettera, che si pentì per tutta la vita di avere firmato, Einstein, allora il più famoso fisico vivente, assunse su di sé e, di fatto, su tutta la comunità dei fisici6 la responsabilità di avere aperto, in un secolo terribile, un periodo particolarmente terribile, che si doveva concludere, esattamente sei anni dopo, con la distruzione di Hiroshima. La paternità della lettera, nella memoria dei partecipanti a questo evento, è controversa: secondo Szilard fu Wigner che la dettò in tedesco ad Einstein, secondo Teller invece, Szilard arrivò all’incontro con un testo già preparato che Einstein firmò. L’1 Settembre 1939, Hitler invade la Polonia, ma solo l’11 Ottobre 1939 la lettera di Einstein viene presentata a Roosevelt. Il 6 Dicembre 1941 si ha il primo finanziamento consistente per lo studio della bomba; il giorno dopo il Giappone bombarda Pearl Harbour. Il Progetto Manhattan si apre ufficialmente il 17 Settembre1942; il 2 Dicembre 1942 Enrico Fermi ottiene, nella palestra dell’Università di Chicago, la prima reazione nucleare a catena. Il 5 Aprile 1944 arriva ad Oak Ridge il primo reattore per la produzione del plutonio ed il 1 Luglio 1944 il progetto Manhattan riceve la priorità massima di sviluppo. Roosevelt muore il 12 Aprile 1945; il giorno dopo Truman conosce il contenuto del progetto Manhattan. Il 27 Aprile 1945 si raduna per la prima volta il Comitato che deve scegliere gli obiettivi della prima bomba atomica; lo stesso Comitato deciderà il 30 Maggio1945 il destino di Hiroshima. L’8 Maggio 1945 la Germania si era arresa. L’11 Giugno la Commissione Franck sconsiglia l’uso della bomba atomica sui giapponesi. Il 16 Giugno 1945, una commissione composta da quattro fisici7 approva l’uso militare diretto della bomba. Il 16 Luglio1945, ad Alamogordo, si ha la prima esplosione atomica, che sviluppa una potenza esplosiva di circa 22.000 tonnellate di tritolo: la torre di acciaio sulla quale era collocata la bomba fu vaporizzata. Due giorni prima, con un’accelerazione drammatica degli eventi dettata da ragioni strategiche, era già partita dal porto di San Francisco diretta in Giappone la bomba che, il 6 Agosto 1945, sarebbe esplosa su Hiroshima. Un secondo aspetto da tenere presente è l’esperienza umana di molti di coloro che presero parte a questa vicenda: la comunità dei fisici, alla fine degli anni ’40, quando inizia la seconda 4 A. Einstein, M. Born; Scienza e vita, Torino 1973, pag. 256. http://www.dannen.com. 6 Nel seguito si parlerà sovente di fisici. Ovviamente alla progettazione, alla costruzione ed alla sperimentazione della bomba atomica parteciparono oltre ai fisici anche chimici, ingegneri, matematici, cioè molti tipi diversi di scienziati della natura. Le considerazioni qui fatte si applicano naturalmente anche a loro. 7 Si tratta di A. H. Compton, E. O. Lawrence, J. R. Oppenheimer ed E. Fermi. I primi tre erano premi Nobel per la Fisica (Compton, Lawrence e Fermi) ed il quarto che era il responsabile scientifico del Progetto Manhattan. Essi facevano parte di un Comitato Scientifico che fungeva da consulente della Commissione Governativa che gestiva tutti gli aspetti riguardanti l’uso della bomba. 5 guerra mondiale, si trovò a vivere un momento per molti aspetti unico. Si era chiusa la prima fase di uno dei periodi più rivoluzionari e, per i suoi partecipanti, più esaltante dell’intera storia della fisica ed in generale della scienza: la scoperta della relatività e della meccanica quantistica erano state al centro dell’interesse di una comunità ben più ampia di quella dei soli scienziati, per le implicazioni che esse avevano sulle concezioni del mondo. Proprio in quegli anni si sviluppa un modo di fare scienza, oggi comune, ma che allora era nuovo; gli scienziati viaggiano intensamente, trascorrono periodi di lavoro in comune, sviluppano rapporti interpersonali intensi. A partire dal 19338 questa comunità fu colpita, in una delle sue componenti più importanti, quella tedesca, dalle leggi antiebraiche. J. Stark, premio Nobel per la fisica nel 1919, fornì il quadro ideologico di questa campagna secondo gli schemi già indicati sopra: gli scienziati non ariani non dovevano intossicare la gioventù tedesca. Le situazioni drammatiche che queste leggi produssero nel mondo accademico tedesco9 dovevano incidere in modo irreversibile sulla visione del mondo di decine di fisici tedeschi ed in generale dell’Europa continentale, e questo anche per gli speciali legami personali che si erano creati tra i vari membri della comunità. Molto prima che iniziasse la guerra quindi, la persecuzione in Germania degli scienziati ebrei aveva in qualche modo fatto presagire una svolta drammatica nelle condizioni del mondo; lo scoppio della guerra e la veloce conquista dell’Europa da parte della Germania avevano materializzato antiche paure. Non si da in generale sufficiente rilievo a questo aspetto ed alla drammatica sequenza di eventi che causarono l’emigrazione negli Stati Uniti di molti scienziati non solo tedeschi, ma anche di altri paesi come l’Ungheria, che subivano l’influenza nazista; molti di questi parteciperanno poi al Progetto Manhattan, e dissero di farlo anche per impedire che la Germania nazista acquisisse da sola e per prima la bomba atomica. A dimostrazione di quanto quest’aspetto sia stato importante nell’indirizzare il comportamento di alcuni protagonisti della vicenda, si deve osservare come i più convinti assertori della necessità di esplorare le possibilità militari delle ricerche di fisica nucleare non fossero americani per nascita, ma fossero tutti immigrati per motivi razziali: è significativo a questo proposito che due dei tre fisici che contattarono Einstein per indurlo a scrivere la lettera a Roosevelt, cioè Teller e Szilard erano, nell’estate del 1939, immigrati da un tempo ancora insufficiente per poter richiedere la cittadinanza americana10. Si potrebbe a questo punto obbiettare che già nel 1942, appena il progetto uscì dalla fase preliminare e si iniziarono ad affrontare i problemi tecnologici legati ad esempio alla produzione del materiale fissile, doveva essere chiaro che una struttura industriale come quella tedesca, sottoposta a continui bombardamenti, non sarebbe stata in grado di avanzare nella produzione della bomba. È però certo che ai tedeschi non mancavano le capacità scientifiche: si ricordi che Heisenberg era rimasto in Germania e che in linea di principio non si poteva escludere che esistesse un metodo diverso da quello utilizzato negli Stati Uniti per liberare le immense energie disponibili con la disintegrazione nucleare. Nella lettera che Einstein scrive a Roosvelt egli dice di pensare che fosse suo dovere sottoporre all’attenzione del Presidente alcuni fatti e raccomandazioni. I fatti di cui si parla sono le recenti scoperte della fisica nucleare, in particolare la possibilità che in una massa di Uranio si producesse una reazione a catena con la produzione di una grande quantità di energia e la 8 A. D. Beyerchen, Gli scienziato sotto Hitler, Bologna 1981. Volendo dare un’indicazione dell’impatto quantitativo e qualitativo che le leggi razziali ebbero sul mondo accademico tedesco, si deve ricordare che furono allontanati, nelle sole discipline delle scienze naturali, 406 scienziati, tra cui 106 fisici e 60 matematici, che rappresentavano circa il 26 % del personale universitario tra i fisici ed il 20 % tra i matematici. Tra questi furono costretti a lasciare il loro posto nell’università quattro fisici, due chimici e tre medici che avevano già preso il premio Nobel e sei fisici, due chimici e tre medici che lo avrebbero preso in seguito. L’Istituto di Fisica Teorica di Gottingen, diretto da Max Born, perse praticamente l’intero corpo docente. A. D. Beyerchen, op. cit. pag. 35. 10 Il terzo era Wigner, che era divenuto cittadino americano nel 1937. Einstein ebbe la cittadinanza americana nel 1940 e Teller solo nel 1941; R. Jungk, Gli apprendisti stregoni, Torino 1958. Fermi, che doveva avere un ruolo importante e non solo nel lavoro scientifico, ma anche nella produzione e nell’utilizzo della bomba atomica, divenne cittadino americano nel 1944. 9 conseguente probabilità che utilizzando questo processo si potessero ottenere bombe estremamente potenti di tipo nuovo; era anche un fatto la notizia che la Germania aveva cessato di commercializzare il minerale di Uranio dalle miniere cecoslovacche. La raccomandazione era quella di instaurare un qualche contatto permanente tra l’Amministrazione ed il gruppo di fisici che lavorano sulla reazione a catena negli Stati Uniti. Ci sono in questa lettera, inviata, si noti bene, un mese prima della scoppio della guerra, due elementi rilevanti. Da un lato Einstein parla con la competenza e con le conoscenze che gli vengono dall’appartenere ad una categoria di scienziati ben definita, che sono i fisici, dall’altro affida loro un ruolo di particolare rilevanza e responsabilità e fa questo perché lo considera suo dovere. Siamo qui, di fatto, già oltre un’applicazione stretta dell’ethos di cui parla Merton. C’è una significativa modifica dell’ethos mertoniano: secondo questo ethos, infatti, ogni singolo scienziato è responsabile individualmente rispetto alla sua comunità. Qui invece ogni singolo scienziato diventa, attraverso la comunità cui appartiene, responsabile rispetto alla società. Passano ancora più di due anni prima che inizi un vero progetto di costruzione di una bomba e più di tre prima che inizi il Progetto Manhattan; si sviluppano in questo periodo le ricerche di fisica nucleare che dovevano portare Enrico Fermi ad ottenere la prima reazione nucleare a catena, ricerche che chiudevano un periodo trentennale di lavoro e non erano finalizzate alle problematiche della bomba. In questo momento il problema etico che si dovette affrontare fu quello se fosse lecito o meno per uno scienziato progettare armi. Il lavoro di ricerca che ha portato alla bomba atomica non rappresenta il primo caso nel quale gli scienziati hanno progettato armi; non mi riferisco al mitico ruolo attribuito ad Archimede, ma a quei veri progetti di ricerca che permisero, già nell’antichità classica, di definire i criteri di progettazione delle catapulte e che portarono alla pubblicazione dei relativi trattati, come quello di Filone di Bisanzio11, o quello di Erone di Alessandria sulla balistica. E non è neanche la prima volta che gli scienziati sono coscienti delle implicazioni sociali del loro lavoro: il problema dell’utilizzo della scienza, in quello che è indubbiamente un rilevante problema etico, quello della guerra e della pace, era già presente a questi scienziati di età ellenistica. Erone di Alessandria, nell’introduzione del suo trattato di balistica scrive12 I filosofi si affannano da tanto tempo a cercare il modo di stare in pace: eppure basta una piccola specialità della meccanica a fornirne il mezzo a chiunque, voglio dire la balistica applicata. Si tratta di affermazioni isolate ed individuali, che appaiono più una promozione che lo scienziato fa del proprio lavoro o delle proprie competenze, che una comprensione politica del problema. Emblematico e significativo è, da questo punto di vista, il comportamento di Leonardo da Vinci, che affronta i problemi militari da libero professionista13. L’affermazione di Erone mostra, in ogni caso, che già nell’antichità qualcuno sosteneva che non era moralmente conveniente per gli scienziati progettare armi. Di fronte al primo dilemma, se partecipare o meno al lavoro del Progetto Manhattan le scelte di coloro che si trovarono a vivere in quel frangente furono diverse: saranno qui analizzate alcune storie personali ed alcuni documenti che rappresentano, per così dire, atteggiamenti emblematici e riguardano ovviamente coloro che si resero conto che un problema etico era presente nelle azioni che si apprestavano a compiere. Franco Rasetti, la cui classe di grande fisico sperimentale sarebbe stata sicuramente utilizzabile nel Progetto Manhattan, e ben lo sapeva chi lo invitò, ritenne che uno scienziato non si doveva impegnare nella progettazione di armi e di questa posizione divenne un simbolo14. Aveva abbandonato l’Italia nel 1939, pochi mesi dopo Fermi: non aveva dirette motivazioni razziali, ma indubbiamente era partecipe della deteriorata situazione europea e, presagendo forse l’imminente guerra, si era trasferito all’Università Laval di Quebec, dove è ancora oggi ricordato come uno dei fondatori della fisica canadese. 11 L.Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano 2000. F. Enriques, G. de Santillana Storia del pensiero Scientifico, Bologna 1932, pag. 495. 13 R. Fieschi, C. Paris De Renzi, Macchine da guerra, Torino, 1995, pag. 45. 14 D. Oullet, R. Bureu, Franco Rasetti, physicien ed naturalist (Il a dit Non à la bombe), Editions Guérin, Montreal 2000. 12 Egli fu orgoglioso per tutta la vita di avere rifiutato di partecipare all’impresa tecnica e scientifica che si sarebbe conclusa ad Hiroshima. Non fu una scelta indolore: le parole dure ed amare con le quali egli commentò, in seguito, il comportamento dei suoi amici e colleghi e l’abbandono della fisica come principale attività di ricerca sicuramente dovettero amareggiargli la vita. Le ragioni del suo rifiuto sono riassunte in una lettera scritta nell'immediato dopoguerra all'amico Persico15: "Sono rimasto talmente disgustato dalle ultime applicazioni della fisica (con cui, se Dio vuole, sono riuscito a non aver niente a che fare) che penso seriamente a non occuparmi più che di geologia e biologia. Non solo trovo mostruoso l'uso che si è fatto e che si sta facendo delle applicazioni della fisica, ma per di più la situazione attuale rende impossibile rendere a questa scienza quel carattere libero e internazionale che aveva una volta e la rende soltanto un mezzo di oppressione politica e militare. Pare quasi impossibile che persone che una volta consideravo dotate di un senso della dignità umana si prestino a essere lo strumento di queste mostruose degenerazioni. Eppure è proprio così e sembra che neppure se ne accorgano. Tra tutti gli spettacoli disgustosi di questi tempi ce ne sono pochi che eguaglino quello dei fisici che lavorano nei laboratori sotto la sorveglianza militare per preparare mezzi più violenti di distruzione per la prossima guerra". L’affermazione di non avere partecipato alla realizzazione della bomba non lo fece però sentire completamente innocente; egli fu in realtà sempre ossessionato dalla responsabilità che pensava di doversi assumere per avere partecipato alla scoperta del meccanismo fisico su cui si basa il funzionamento della bomba atomica. Quest’aspetto drammatico del lavoro dello scienziato ed i problemi di natura morale che può creare è posto in lucida evidenza, con il cinico e pessimistico realismo che ha sempre caratterizzato le sue prese di posizione, da Edward Teller. Nel luglio del 1945, in un disperato tentativo di impedire l’utilizzo della bomba sul Giappone, Leo Szilard invita Teller a firmare una petizione da inviare al Presidente degli Stati Uniti, petizione che era già stata firmata da parecchie decine di partecipanti al Progetto Manhattan. Teller rifiuta e giustifica questo rifiuto. Egli scrive16 in una lettera estremamente significativa: Prima di tutto permettimi di dire che non ho speranza di pulire la mia coscienza. Le cose sulle quali stiamo lavorando sono così orribili che nessuna protesta né maneggio con i politici salverà le nostre anime. Spiegando le ragioni del suo lavoro egli individua una delle motivazioni più profonde dell’attività di ogni scienziato: non ho lavorato a questo progetto per ragioni egoistiche e mi ha prodotto molti più fastidi che piaceri. Ho lavorato perché il problema mi ha interessato ed avrei considerato una grossa limitazione non andare avanti. Non dico di avere fatto il mio dovere. Il senso del dovere mi avrebbe potuto tenere fuori di questo lavoro. Non avrebbe potuto tenermi fuori di questo lavoro contro le mie inclinazioni. Se riesci a convincermi che le tue obiezioni morali sono valide, io abbandono il lavoro. Ho difficoltà a pensare che dovrei cominciare a protestare. Dopo avere detto di considerare impossibile vietare bombe che si rivelino decisive, egli suggerisce quale è per lui l’imperativo morale: il fatto casuale che noi siamo riusciti a produrre questo orribile oggetto non deve darci la responsabilità di avere voce nel modo con il quale deve essere usato. Questa responsabilità deve in conclusione essere delegata al popolo come un tutto e questo può essere fatto solo facendo sì che il popolo conosca i fatti. Questa è la sola causa per la quale mi sento autorizzato a fare qualcosa: la necessità di togliere il segreto per lo meno sui temi più generali del nostro lavoro. A quanto ho capito questo sarà fatto appena la situazione militare lo permetterà. La conclusione utilizza un’immagine letteraria, che non ne attenua la durezza: penso che sbaglierei se tentassi di dire cosa fare per legare il mignolo del piede dello spettro alla bottiglia dalla quale lo abbiamo appena aiutato ad uscire. Alcuni, pochissimi, vollero vedere di che cosa si trattava e parteciparono alla fase iniziale, ma poi abbandonarono l’impresa, fatto questo non banale dato lo stato di guerra e i vincoli di segretezza che impegnavano tutti i partecipanti al Progetto Manhattan: questo è il caso di Joseph Rotblat, Presidente del Pugwash e Premio Nobel per la pace. La critica che Rasetti fa al progetto Manhattan è fondata su uno degli imperativi mertoniani: quello dell’universalismo. Merton aveva notato il collegamento tra l’ethos dello scienziato e la 15 16 Athenet on line, 5, Dicembre 2001; A. Abbiati, Franco l’apostata. http://www.atomicarchive.com/docs/ democrazia nella società; l’enfasi posta da Rasetti è sulle conseguenze che una scienza non più libera ed internazionale possa essere mezzo di oppressione politica e militare. Lo scienziato di Merton, quando ha fatto suo l’ethos della comunità, è figura positiva e le discordanze che ha con la società in cui vive, con le credenze religiose o politiche di questa, lo vedono sempre dalla parte del progresso e della modernizzazione. Rasetti si rende conto che, nella vicenda dello sviluppo della bomba atomica, il ruolo degli scienziati è stato ben più ambiguo e non attribuisce quindi tutta la responsabilità ai militari od ai politici. Le parole dure rivolte agli scienziati che parteciparono al progetto, sicuramente favorite dalla sua personalità particolarmente ombrosa ed anche da un certo risentimento verso qualcuno dei partecipanti, mostrano però che egli non aveva individuato, come invece Teller, i rischi insiti in una delle molle fondamentali del lavoro dello scienziato: che è quella di essere sempre e principalmente un solutore di problemi. È il quarto imperativo mertoniano, quello che definisce il suo mandato istituzionale. Sfuggirono a Merton i rischi drammatici che esso comporta, poiché esso impone allo scienziato la ricerca assidua di problemi, cioè di oggetti irrisolti, e lo invita fatalmente alla loro soluzione. Trent’anni dopo, le asprezze personali si sono attenuate, la visione è più equilibrata, il ruolo dello scienziato ridimensionato; ma il carattere apolitico della personalità di Rasetti e quindi anche del suo comportamento, appare ancora vivo. Ad una tavola rotonda organizzata dalla rivista Civiltà delle Macchine17, alla domanda se si dovesse parlare di neutralità della scienza o piuttosto dello scienziato, egli risponde: la scienza non si occupa di valori morali, ma soltanto della descrizione della natura. E pragmaticamente nega la possibilità di una scienza non neutrale, cioè impegnata; e questo sulla base del fatto che sarebbe praticamente impossibile per lo scienziato scegliere il campo delle sue ricerche ed il modo di effettuarle, tenendone presenti le conseguenze, immediate e remote, benefiche o meno. Non riconosce neppure un qualche ruolo privilegiato allo scienziato: ma anche ammesso che le conseguenze, vicine e lontane, delle ricerche e scoperte fossero prevedibili, resterebbe il problema etico di decidere che cosa sia da considerarsi buono e che cosa cattivo per l’umanità. Su questo punto l’opinione dello scienziato come tale non ha più peso di quella di qualsiasi uomo. Con un approccio paradossale, ma utilizzando un esempio di agghiacciante preveggenza, Rasetti mostra la difficoltà di decidere che cosa è buono e che cosa non lo è nelle scoperte della medicina: le scoperte di Pasteur hanno permesso di debellare molte malattie, ma hanno prodotto una grande esplosione della popolazione umana e forse produrranno più atrocità, più orrori di tutte le bombe atomiche, di tutte le guerre passate, presenti e future. Parlando del suo caso personale e dell’influenza che la vicenda della bomba atomica ebbe sul suo lavoro, egli dice: da allora io mi sono occupato di paleontologia e di botanica, che potranno essere scienze inutili, ma per lo meno non fanno male a nessuno. Altri, che pure parteciparono all’impresa, furono, anche qui utilizzo un linguaggio moderno, più militanti: l’esempio più rilevante è quello di Leo Szilard. Le iniziative prese da Szilard mostrano, con il loro carattere apparentemente contraddittorio, la difficoltà dell’ethos di Merton a dare indicazioni di comportamento in una situazione come quella presentatasi in quegli anni. Il suo disegno politico è spregiudicato ed appare strettamente connesso alle esigenze di breve periodo di una situazione eccezionalmente dinamica. A questo fisico ungherese, come ricordato sopra, si attribuisce una gran parte della responsabilità di avere indotto Einstein a firmare la lettera per Roosevelt e quindi in sostanza di avere promosso lo sviluppo della bomba atomica. La sua vita incrocia i momenti più drammatici del tempo: costretto a studiare a Berlino perché le quote di ebrei iscrivibili all’Università di Budapest erano esaurite, si era allontanato dalla Germania ai primi segnali della campagna antiebraica. Oggi diremo che la sua biografia è quella di uno scienziato impegnato: nel 1930 tenta di organizzare gli scienziati progressisti, nel 1932 lavora per promuovere il boicottaggio scientifico del Giappone, che aveva occupato la Cina, nel 1933 organizza gli aiuti agli scienziati tedeschi costretti ad emigrare a 17 Civiltà delle Macchine, 3, 1977, pag. 20. Alla tavola rotonda, dedicata alla Neutralità della scienza, parteciparono oltre a Rasetti anche Evandro Agazzi, Sergio Cotta e Franco Fornari. causa delle leggi antirazziali18. Nel 1945 fece circolare una petizione contro l’utilizzo della bomba atomica, quella che Teller si rifiutò di firmare e nel 1962, due anni prima di morire, fondò ed animò il Council for Abolishing War. Una singolare analogia accomuna la sua storia personale a quella di Rasetti: anche lui, dopo la guerra, abbandonò la fisica e si dedicò alla biologia. Il comportamento di Szilard, è politicamente più moderno e più spregiudicato rispetto a quello di Rasetti. Quando, tra i primi, già nel 1938, intuì che la fissione nucleare poteva essere utilizzata per produrre ordigni di grande potenza, tentò di organizzare l’autocensura dei fisici sui risultati delle loro ricerche19. In particolare la scoperta che dalla fissione dell’uranio, prodotta dai neutroni, si potevano ottenere altri neutroni e quindi una reazione a catena, fece intuire la possibilità di realizzare un processo esplosivo: il lavoro che conteneva questo risultato era peraltro già stato inviato alla Physical Review. Si aprì allora una discussione se pubblicare o no questo risultato: in un primo momento Teller e Szilard convinsero Fermi ad accettare un ritardo nella pubblicazione ed in tal senso riuscirono a convincere l’editore. Questo ritardo non fu più giustificabile quando il fisico francese Joliot non accettò di ritardare la pubblicazione dei risultati analoghi da lui ottenuti. Szilard, in questa iniziativa, operò chiaramente contro l’imperativo mertoniano del comunismo; e fu proprio il suo fallimento a convincerlo che bisognava allora essere i primi ad esplorare la possibilità di un uso militare delle scoperte di fisica nucleare che si stavano facendo e quindi a rivolgersi ad Einstein ed a partecipare al Progetto Manhattan. Quando però fu chiaro che la Germania aveva perso la guerra, Szilard tentò invano di fermare il meccanismo che lui stesso aveva innescato quattro anni prima. Egli appare essere l’animatore e l’organizzatore del dibattito che coinvolse decine di tecnici impegnati nella progettazione delle bombe, nei mesi immediatamente precedenti l’esplosione di Hiroshima, ed appare anche come firmatario dei documenti che ora analizzeremo, nei quali è espressa la questione morale che impegnò i costruttori della bomba. L’11 Giugno 1945 (la Germania si era arresa il giorno prima) viene conclusa la redazione del cosiddetto Rapporto Frank; l’Università di Chicago aveva incaricato una Commissione formata da alcuni dei suoi più autorevoli membri, di studiare i problemi politici e sociali del progetto Manhattan. Parteciparono alla redazione del rapporto finale, oltre a Leo Szilard, anche i premi Nobel Franck20, che presiedette la Commissione, e Seaborg, il fisico Hughes, il biologo Nickson, il chimico Stearns ed il biochimico Rabinowitch. Si tratta di un documento lucido e acutamente premonitore: molte delle problematiche e delle argomentazioni sulle bombe atomiche, che occuperanno i decenni successivi, sono qui già ben delineate. I problemi più squisitamente etici occupano il primo dei cinque paragrafi di questo testo, intitolato Preambolo. Si giustifica inizialmente la ragione del lavoro della Commissione e perché, nel fornire suggerimenti per l’organizzazione del nucleare nel dopoguerra, non si può evitare una discussione dei problemi politici. In effetti, la potenza nucleare a differenza di altri sviluppi della fisica mostra stupefacenti possibilità come mezzo di pressione politica in tempo di pace e di imprevedibile distruzione in tempo di guerra. D’altro canto tutti gli attuali progetti per l’organizzazione della ricerca, degli sviluppi scientifici ed industriali e delle pubblicazioni nel campo del nucleare sono condizionati dal clima politico e militare nel quale tali piani sono sviluppati. Dopo avere premesso che gli scienziati non sentono di avere particolari competenze per intervenire sui problemi di politica nazionale ed internazionale, viene individuata la ragione del loro intervento sia come singoli che come comunità: 18 Si è sopra detto come furono più di 400 gli scienziati ebrei costretti a lasciare le università tedesche; si tratta di un numero che si riferisce a coloro che erano, per così dire, strutturati. Ben superiore fu il numero dei giovani, all’inizio della carriera, che capendo come per loro non ci fosse più spazio nelle università tedesche, decisero di emigrare; per molti, ancora all’inizio della carriera e quindi non noti, questa decisione inevitabile si rivelò drammatica.. 19 L. Szilard, La coscienza si chiama Hiroshima, Roma 1985, pag. 129. 20 James Franck, premio Nobel per la fisica nel 1925, partecipò agli studi sull’utilizzo da parte dei tedeschi dei gas durante la prima guerra mondiale; questa esperienza, secondo il nipote Frank von Hippel, lo rese particolarmente sensibile alle problematiche delle conseguenze sociali della scienza. Fu tra i più autorevoli oppositori alle leggi razziali di Hitler del 1933, dimettendosi per protesta dal suo posto di professore all’Università di Gottinga. Accettò di partecipare al progetto Manhattan a condizione di poter esprimere, nel momento delle decisioni di uso della bomba, la sua opinione alle maggiori cariche politiche. siamo stato collocati negli ultimi cinque anni, dall’evolversi degli eventi, nella posizione di un piccolo gruppo di cittadini coscienti di un grave pericolo per la sicurezza di questa nazione così come per il futuro di tutte le altre nazioni, pericolo ignorato dal resto dell’umanità. Da questo fatto nasce quindi, da un lato il dovere di segnalare l’esistenza e la drammaticità del problema e dall’altro la disponibilità della comunità a fornire le proprie competenze. La novità di questa posizione rispetto al passato, non sfugge ai redattori del rapporto. Sovente nel passato gli scienziati sono stati accusati di avere fornito nuove armi per la mutua distruzione delle nazioni, invece che per il miglioramento del loro benessere. A questo proposito, si cita come esempio lo sviluppo dell’aeronautica, che avrebbe portato molta più miseria che gioia. Il riferimento è ovviamente ai bombardamenti della seconda guerra mondiale ed in particolare a quello di Pearl Harbor: è questo un esempio della difficoltà e dell’ambiguità insita nel valutare il bene ed il male di uno sviluppo scientifico, proprio come pensava Rasetti nell’intervista sopra citata. Tuttavia nel passato gli scienziati possono negare una responsabilità diretta negli usi che l’umanità fa fatto delle loro scoperte disinteressate. Oggi questa giustificazione non è più valida, a causa del pericolo molto maggiore che la scoperta della bomba rappresenta rispetto alle scoperte del passato. Le bombe nucleari, inoltre, per le loro caratteristiche tecniche, non paiono avere contromisure; viene quindi affermata la necessità di una qualche autorità sovranazionale che ne controlli lo sviluppo e l’uso. In questo testo, particolarmente rilevante per l’analisi che qui svolgo, si riconosce come la scienza nel Progetto Manhattan, a causa del clima politico e militare nel quale si è sviluppata, ha uno status singolare: essa è in effetti contraria all’ethos mertoniano, in quanto non obbedisce all’imperativo del comunismo. D’altro canto si introduce quello che può essere definito come un quinto imperativo: la comunità degli scienziati, quando nello sviluppo delle proprie ricerche incontra risultati che considera importanti per l’umanità, deve segnalare il fatto e, pur non volendo vantare particolari ruoli politici, deve offrire le proprie competenze. Nei quattro paragrafi successivi del Rapporto viene sviluppata un’analisi, che oggi possiamo considerare particolarmente preveggente, di quella che sarebbe stata la corsa allo sviluppo degli armamenti nucleari. La bomba, ormai in fase avanzata di costruzione, sarebbe stata infatti sperimentata con successo circa un mese dopo ad Alamogordo e quindi il tema all’ordine del giorno era il suo utilizzo per bombardare il Giappone: si ricordi che già un mese prima un apposito Comitato aveva individuato tutti i parametri tecnici del bombardamento ed anche le città candidate. La proposta è quella di rinunciare a bombardare il Giappone, sperimentando invece la bomba in una località deserta, di fronte al mondo, ed anche di fronte a rappresentanti giapponesi. Da un lato quindi i giapponesi sarebbero stati convinti alla resa e dall’altro il mondo sarebbe stato indotto ad aprire immediate trattative per regolare la proibizione di uso di questo tipo di armi. Questa proposta non era fondata su ragioni morali od umanitarie particolari, ma su motivazioni politiche, che riguardavano il ruolo e l’immagine del governo degli Stati Uniti rispetto al mondo, ed anche rispetto agli stessi americani. Cinque giorni dopo un Panel di scienziati (Compton, Lawrence, Oppenheimer e Fermi) propose invece l’uso della bomba contro il Giappone. La bomba doveva essere utilizzata perché avrebbe salvato vite umane americane; le tesi del Rapporto Franck sono citate, ma si sostiene che importante è prevenire la guerra piuttosto che proibire le bombe. Si delinea in quest’osservazione il nucleo di quello che in seguito sarà lo schema strategico della dissuasione nucleare. Anche in questo documento, breve ed essenziale, il tema del ruolo degli scienziati è presente. Riferendosi ai problemi politici suscitati dall’invenzione della bomba atomica e che erano stati oggetto del Rapporto Franck, si dice: riguardo a questi aspetti generali dell’uso dell’energia atomica è chiaro che noi, come uomini di scienza, non abbiamo alcun diritto di proprietà21. È vero che siamo tra i 21 Anche qui, come nel caso della paternità della lettera di Einstein, pare di scorgere un inconscio tentativo di prendere le distanze da un oggetto moralmente ingombrante. Si tenga presente che in realtà molti dei congegni legati allo sviluppo della bomba atomica erano stati brevettati tra gli altri da Fermi, Rasetti, Szilard. Questa sorte di rimozione pare essere anche presente nel documento che descrive i lavori della Commissione che sceglie l’obiettivo, dove la bomba è chiamata gadget. pochi che hanno avuto occasione di meditare profondamente su questi problemi negli anni passati. Non affermiamo, tuttavia, di avere speciali competenze nel risolvere i problemi politici, sociali e militari che sono presentati dall’avvento dell’energia atomica. Una presa di posizione come quella enunciata nel Rapporto Franck, per quanto sostenuta da alcuni scienziati, anche se particolarmente autorevoli, apparve chiaramente inadeguata a modificare un corso degli avvenimenti governato da militari e da politici, gestori di una strategia politica americana che prevedeva in ogni caso la dimostrazione al mondo del nuovo congegno militare. Si tentò allora di utilizzare una pratica politica diversa: in una sorte di repubblica democratica si esposero varie opzioni, che furono discusse, votate e quindi comunicate alle autorità militari. Un’indagine tra gli scienziati dell’Università di Chicago che partecipavano al Progetto Manhattan mostrò che solo 23 su 150 erano favorevoli all’uso militare della bomba contro il Giappone. Nei primi giorni di luglio del 1945 Szilard fa circolare la petizione, che abbiamo già citato, da inviare al presidente degli Stati Uniti, nella quale si chiede di rinunciare all’utilizzo della bomba sul Giappone: la rilevanza della petizione doveva stare nel fatto che era firmata da decine di scienziati che avevano partecipato al Progetto Manhattan. Il generale Groves, responsabile del Progetto Manhattan, tentò di bloccare l’iniziativa cercando le prove che Szilard non aveva in passato rispettato i vincoli di segretezza sul suo lavoro, ma il tentativo fallì. Nella petizione, analoga su questo punto al rapporto Franck, si chiedeva che, prima di utilizzare la bomba, gli Stati Uniti dichiarassero le proprie condizioni di resa ed utilizzassero la bomba atomica solo in caso di rifiuto da parte del Giappone; Un tale passo, tuttavia, non dovrebbe essere fatto in ogni caso senza prendere seriamente in considerazione le responsabilità morali che vi sono implicate. Ponendo in risalto i problemi del dopoguerra, Szilard vuole salvaguardare un ruolo morale agli Stati Uniti, tale da poter affrontare le trattative sull’uso di queste armi con maggiore autorevolezza. Accertato il vantaggio acquisito nell’utilizzo dell’energia atomica, la petizione afferma che questo vantaggio comporta l’obbligo da parte degli Stati Uniti di autocontrollo e se noi violassimo questo obbligo, la nostra posizione morale sarebbe indebolita agli occhi del mondo ed ai nostri stessi occhi. Non si propone la soluzione, per così dire intermedia, di una esplosione dimostrativa, come proposto nel rapporto Franck. Si tratta di considerazioni che non sono in relazione con gli imperativi mertoniani, non riguardano cioè l’ethos dello scienziato, ma che potrebbero essere definite genericamente umanitarie. Forse più significativa è la lettera che accompagnava la petizione e che Szilard chiese esplicitamente di firmare. La petizione è definita come fondata su considerazioni puramente morali; prendendo atto dell’esistenza di motivi di opportunità sia favorevoli che contrari all’uso della bomba, Szilard ammette le scarse possibilità che tale petizione possa influenzare il corso degli eventi. Dichiara tuttavia: io personalmente penso che sarebbe un fatto rilevante se un gran numero di scienziati che hanno lavorato in questo campo registrassero in modo chiaro ed inequivocabile la loro opposizione su base morale all’uso di queste bombe nell’attuale fase della guerra. Ricordando le critiche fatte ai tedeschi, per non essersi dissociati dalle azioni commesse dalla Germania durante la guerra, anche se questo avrebbe comportato rischi personali, Szilard ricorda che i rischi personali dei firmatari sarebbero stati molto minori. Per quanto riguarda le responsabilità degli scienziati egli ne esalta il ruolo e le responsabilità: il fatto che il popolo degli Stati Uniti ignora le scelte che gli stanno davanti aumenta la nostra responsabilità su questi temi poiché coloro che hanno lavorato sull’energia atomica rappresentano un campione della popolazione e solo loro sono in grado di formare una opinione e di prendere una posizione. La petizione di Szilard venne immediatamente dichiarata segreta; il tentativo di declassificarla, operato da Szilard stesso, fallì perché la gente che leggesse la petizione potrebbe concludere che ci fosse stato qualche dissenso nel progetto prima della fine della guerra22. Essa raggiunse la Casa Bianca dopo il primo di Agosto, mentre Truman stava partecipando alla Conferenza di Postdam ed è dubbio se mai la lesse. Curiosamente essa non è neanche citata nella maggior parte delle storie della bomba atomica; il vincolo del segreto fu tolto nel 1958. 22 H. Gest, The July 1945 Szilard Petition on the Atomic Bomb, Memoir by a signer in Oak Ridge. Sta in http://www. Indiana. Edu/gest/HGSzilard. La stessa proposta, esplicitamente definita come umanitaria, viene fatta in un breve memorandum che Ralph A. Bard, Sottosegretario alla Marina, aveva inviato alcuni giorni prima, il 27 giungo 1945, a Stimson, Ministro della Difesa. Egli afferma di avere la sensazione dell’opportunità di avvisare il Giappone del possibile uso della bomba, dandogli il tempo di arrendersi e dà anche indicazioni su come farlo. Per giustificare queste sensazioni egli afferma: la posizione degli Stati Uniti come grande nazione umanitaria e l’attitudine corretta del nostro popolo è in generale responsabile per la parte rilevante di questa sensazione. Questa idea che il popolo americano avrebbe avuto di se non doveva essere del tutto campata in aria, se Truman, nel discorso radiofonico nel quale annunciò il bombardamento di Hiroshima, la definì base militare, forzando un poco la situazione reale e nascondendo che la scelta era stata dettata anche da necessità di sperimentazione militare. Ci fu anche chi non considerò moralmente giusto che gli Stati Uniti fossero i soli a possedere la bomba e quindi decise di dare ai Russi tutte le informazioni che aveva affinché anche loro potessero costruirla: è questo il caso di Klaus Fuchs. I motivi che lo portarono a questa azione sono così descritti da Max Born, che lo ebbe come collaboratore23: Mia moglie ed io siamo persuasi che nell’affare di spionaggio agì per motivi puramente ideali: era un comunista convinto e considerava suo dovere impedire che l’America capitalistica dominasse il mondo come unica detentrice della bomba atomica. Dieci anni dopo l’esplosione della bomba di Hiroshima, Bertrand Russel si faceva promotore presso Einstein della sottoscrizione di un documento, che è ora noto come il manifesto di Russel ed Einstein, nel quale si analizza e si definisce il ruolo degli scienziati negli affari mondiali; Einstein aderì a questa richiesta con una lettera che fu l’ultima da lui scritta l’11 Aprile 1955. Quando questa lettera giunse a Russel, Einstein era già morto. La bomba all’idrogeno, migliaia di volte più potente di quella fatta esplodere ad Hiroshima, era ormai entrata negli arsenali delle grandi potenze; gli undici firmatari, non più solo fisici, si rivolgevano ai cittadini del mondo come membri della specie Uomo la cui esistenza era in dubbio. Essi chiedevano di sottoscrivere che: alla luce del fatto che in ogni futura guerra le armi nucleari sarebbero state utilizzate e che queste bombe minacciano la continuazione dell’esistenza dell’umanità, noi sollecitiamo i governi del mondo a riconoscere ed a dichiarare pubblicamente che i loro obiettivi non possono essere raggiunti attraverso ad una guerra e li sollecitiamo quindi a trovare dei metodi pacifici per risolvere tutti i temi di contrasto tra loro. Le tecnologie delle armi nucleari erano ormai ampiamente sviluppate e non richiedevano più il lavoro dei ricercatori e tanto meno dei migliori tra loro; gli scienziati si costituivano in gruppi, quali il Pugwash, nato appunto sulla base del manifesto di Einstein-Russel, che tentavano di influenzare i governi o le opinioni pubbliche sui pericoli connessi alla corsa al riarmo. Questo impegno, nuovo e diverso rispetto agli imperativi dell’ethos mertoniano, ha indubbiamente contribuito a vanificare le previsioni più pessimistiche del manifesto Einstein-Russel; ma è certo che il ruolo decisionale avuto dalla comunità dei fisici nello sviluppo della bomba atomica è andato perduto. Il 12 Novembre 2001, cinquanta premi Nobel hanno firmato una petizione nella quale si chiedeva al governo degli Stati Uniti di non abbandonare il trattato contro le difese antimissilisitiche: la petizione è stata conosciuta solo in un piccolo gruppo di scienziati e non ha impedito al Presidente Bush di prendere questa dissennata iniziativa. L’ethos di Merton era inadeguato ad affrontare una situazione come quella che si presentò alla comunità degli scienziati all’inizio della seconda guerra mondiale; questo anche per l’assoluta eccezionalità di quella situazione. Ma pure in una situazione non così drammatica, dopo sessanta anni dalla loro formulazione, gli imperativi sui quali quell’ethos è fondato appaiono avere un significato dissonante rispetto ai valori della società odierna. 23 A. Einstein, M. Born; op. cit.; pag 159.