Giorno della memoria – 27 gennaio 2015 – prefettura di Messina

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Giorno della memoria – 27 gennaio 2015 – prefettura di Messina
Giorno della memoria – 27 gennaio 2015 – prefettura di Messina
Discorso introduttivo
A settant'anni dall'apertura dei cancelli di Auschwitz, il campo di sterminio simbolo della Shoah,
una domanda assilla ancora le nostre coscienze: perché è successo tutto questo? O, in modo ancora
più pressante, è possibile tentare di dare una spiegazione all'odio fanatico dei nazisti contro gli
ebrei? Interrogato sul punto, lo scrittore Primo Levi – l'autore di Se questo è un uomo e La tregua –
dopo aver rievocato le origini dell'antisemitismo, la “tormentata storia del popolo ebreo”, la
posizione non sempre moderata della Chiesa cattolica, l'intolleranza diffusa, la personale ossessione
di Adolf Hitler, così concludeva: “Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si
deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare”. Le parole e le azioni che
caratterizzano l'odio dei nazisti contro gli ebrei sono prive di razionalità; provengono da una spinta
che in un certo senso assomiglia a quella che da sempre determina le guerre, ma le guerre sono l'atto
estremo di qualcosa, di un desiderio di prevalere che in definitiva, per quanto condannabile, risiede
in noi, e in ultimo è possibile – la Storia lo insegna – cercarne le cause, comprenderne le ragioni.
Ma la Shoah non può essere paragonata ad una guerra, scaturisce da un odio “che non è in noi, è
fuori dell'uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori e oltre il
fascismo stesso”. “Non possiamo capirlo – scrive ancora Primo Levi –, ma possiamo e dobbiamo
capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario,
perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed
oscurate: anche le nostre”. E' questo il senso profondo del Giorno della Memoria, una celebrazione
istituita nel novembre del 2005 con una risoluzione delle Nazioni Unite, ma sappiamo che l'Italia
istituì la giornata commemorativa con qualche anno di anticipo, con la legge n. 211 del 20 luglio
2000, il cui articolo 1 così recita: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data
dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, «Giorno della Memoria», al fine di ricordare la Shoah
(sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli
italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e
schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno
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salvato altre vite e protetto i perseguitati”. È un punto importante, perché pur inserito nel ricordo di
uno sterminio che provocò la morte di un numero in verità ancora imprecisato e probabilmente
imprecisabile di ebrei tedeschi, polacchi, olandesi, belgi, francesi, italiani, ungheresi, e di tanti altri
paesi, ricorda il ruolo dell'Italia, di quell'Italia fascista che nel 1938 promulgò le leggi razziali, e non
si sottrasse purtroppo al ruolo di carceriere e carnefice che l'alleanza con la Germania nazista (le
leggi di Norimberga furono promulgate nel 1935) gli suggeriva e in un certo senso gli imponeva.
Ma dell'Italia parlerò tra poco. Alla posizione di Primo Levi, si può in un certo senso contrapporre o
almeno accostare, marcando una differenza, quella della filosofa Hannah Arendt, che nel 1961 seguì
a Gerusalemme – come corrispondente de “The New Yorker” - il processo a Adolf Eichmann, il
capo del dipartimento IVB4 del RSHA (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich), ovvero il
principale pianificatore della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Ne scrisse
successivamente il resoconto che uscì tra febbraio e marzo del 1962 e venne poi ripubblicato, in
forma di libro, nel 1963. Un libro che divenne subito famoso, con un titolo – di probabile origine
dostoevskiana - che è diventato un modo efficace per dare un nome e forse anche una sintetica
spiegazione della Shoah: La banalità del male. Rifuggendo da ogni forma di retorica, la Arendt
mette a frutto la sua grande competenza filosofica e nel campo delle scienze politiche, la sua
conoscenza della Germania e del popolo tedesco, i suoi studi sul processo di Norimberga, e così va
dritta al cuore del problema. La sua analisi lucida e stringente la porta a penetrare la superficie del
risentimento e del desiderio di giustizia così da individuare quelle forze sotterranee, se volete anche
infere e – per restare con Dostoevskij – demoniache, che furono all'origine dei delitti e
dell'olocausto scientificamente pianificato nella conferenza di Wannsee nel gennaio del 1942. Il suo
discorso va persino oltre il processo ad Eichmann e si configura come un'analisi della condizione
umana del nostro tempo, una “cronaca sulla banalità del male”. Per quanto orrendo e mostruoso
possa sembrarci, Eichmann non “agiva” ma “lavorava”. Così almeno egli riteneva: il suo lavoro,
cioè quello di pianificare e, dal suo punto di vista, migliorare il trasferimento degli ebrei ai campi di
sterminio, era un lavoro aziendale, di routine burocratica, per lui privo di aspetti morali. Un lavoro
burocratico che andava fatto nel migliore dei modi. Ecco che dalle pagine della Arendt, la figura di
Eichmann appare così non quella di un mostro ma di un burocrate, di un uomo banale. Questo è il
punto chiave, la terribile verità che la Arendt mette in luce senza infingimenti, con il rigore del
filosofo: questi uomini, gli uomini come Eichmann, che furono gli esecutori della Shoha, non
avevano alcun interesse riguardo agli scopi, ai risultati, delle loro azioni. La cosa terribile è
ammettere che chiunque poteva essere Eichmann, che anche noi potremmo diventare un Eichmann
qualunque, che per il principio di autorità – come scrive la Arendt -, “avrebbe ucciso anche suo
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padre, se qualcuno glielo avesse ordinato”.
Poco fa ho accennato all'Italia. Ecco, ci siamo arrivati. Dobbiamo fare un grande passo all'indietro e
immaginare l'atmosfera politica e sociale del nostro paese nel 1938: l'Europa è giù sull'orlo del
baratro, l'Italia fascista è alleata della Germania nazista. Mussolini ha già da alcuni anni deciso,
sulla questione ebraica, di virare nella direzione della Germania. Pubblicazioni e pubbliche
dichiarazioni di personaggi della cultura, della scienza, chiamiamola così, ci dicono che
l'antisemitismo era ormai di casa anche in Italia. Un libro che racconta bene – con puntuali
riferimenti – questo clima è “La parola ebreo” scritto nel 1997 da Rosetta Loy. Nel luglio del 1938
esce un documento che s'intitola “Il fascismo e i problemi della razza”, più noto come 'Manifesto
degli scienziati razzisti'. Associare il concetto di scienza alla parola razzismo è risibile, ma,
credetemi, il documento non fa ridere neanche oggi a distanza di quasi 80 anni. Esso rappresenta
una macchia indelebile nella storia della cultura italiana. Ma Mussolini si apprestava a compiere il
passo decisivo sulla questione ebraica: nella notte tra il 6 e 7 ottobre 1938 il Gran Consiglio del
fascismo approva i Regi Decreti Legge riguardanti la razza; essi vengono ratificati dal Consiglio dei
Ministri il 10 novembre e pubblicati giorno 19 novembre con decorrenza immediata. Cosa
stabiliscono tali regi decreti? Il primo decreto stabilisce chi è ariano (cioè non ebreo) e quali
provvedimenti si prendono nei confronti dei non ariani (cioè degli ebrei). Viene dichiarato ebreo
“chi ha entrambi i genitori ebrei, anche se pratica una religione diversa. Chi ha un solo genitore
ebreo e l'altro di nazionalità straniera. Chi ha un solo genitore ebreo ma pratica la religione
ebraica”. E veniamo ai divieti: “E' vietato l'insegnamento in qualsiasi scuola di ordine e grado del
Regno, frequentata da alunni italiani. E' vietato essere membri delle Accademie, degli Istituti e delle
Associazioni di scienze, lettere e arti. E' vietato iscriversi o frequentare le scuole di ogni ordine e
grado frequentate da alunni italiani”. Insomma, gli ebrei italiani, 48.032, non sono più cittadini
italiani. Ma l'elenco dei divieti continua: “E' vietato prestare servizio militare in pace e in guerra. E'
vietato essere proprietari o gestori di aziende interessanti la difesa della Nazione o di imprese con
più di cento operai. E' vietato essere proprietari di terreni di un valore superiore alle cinquemila lire
e di fabbricati urbani di valore complessivo oltre le ventimila lire. E' vietato infine avere alle proprie
dipendenze domestici di razza ariana”. In un Regio decreto successivo, del 17 novembre, l'opera è
completata: “E' vietato al cittadino italiano di razza ariana il matrimonio con persona appartenente
ad altra razza, pena l'annullamento. Tali matrimoni sono da considerare nulli”. L'ultimo decreto –
scrive Rosetta Loy – è una specie di summa dei precedenti: esso infatti estromette gli ebrei “Dalle
amministrazioni Civili e Militari dello Stato. Dalle amministrazioni delle Province, dei Comuni,
degli Enti, Istituti e Aziende, comprese quelle dei Trasporti e delle Aziende municipalizzate. Dalle
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amministrazioni degli Enti parassitari, delle Banche di interesse nazionale e dalle Imprese private di
Assicurazione”. Viene inoltre vietato l'uso di libri di testo di autori ebrei. E poi una serie di
disposizioni che proibiscono agli ebrei di frequentare i luoghi di villeggiatura, di alloggiare negli
alberghi, di inserire sui giornali avvisi pubblicitari o mortuari, di possedere apparecchi radio con più
di cinque valvole, di pubblicare libri, di collaborare alla stampa con pseudonimi, di tenere
conferenze e di avere il proprio nome sull'elenco telefonico. Scrive Rosetta Loy: “In pratica 48.032
italiani di religione o di famiglia ebraica, che nel mese di ottobre erano ancora cittadini a pieno
diritto, a novembre si ritrovano trasformati in «persone di razza ebraica», e come tali, oltre che
schedati, privati di quello «status» garantito a tutti i loro connazionali; e infine spogliati di gran
parte dei loro beni. Per molti, la maggioranza, sarà anche la perdita del lavoro; e per tutti quella del
diritto allo studio”. E' senza dubbio la pagina più vergognosa della storia d'Italia. Il libro di Rosetta
Loy sviluppa poi un altro tema, non meno doloroso: mentre tutto ciò accadeva e gli italiani, così
come gli 80 milioni di tedeschi, si giravano dall'altra parte, cosa faceva la Chiesa cattolica? Con
Pio XI la risposta è dura e inequivocabile: condanna senza mezzi termini del razzismo. Ma non tutti
nella Chiesa di Roma la pensano come Pio XI: padre Agostino Gemelli, rettore dell'Università
Cattolica di Milano, pronuncia il 9 gennaio 1939 un suo pensiero sugli ebrei, in cui dice tra l'altro:
“tragica senza dubbio, e dolorosa, la situazione di coloro che non possono far parte, e per il loro
sangue e per la loro religione, di questa magnifica patria; tragica situazione in cui vediamo, una
volta di più, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale
va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria, mentre le conseguenze
dell'orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo”. Il 10 febbraio 1939 Pio XI muore, gli
succede Papa Pacelli col nome di Pio XII, dal quale non si eleverà mai una voce ufficiale contro la
persecuzione degli ebrei. Qui mi fermo, perché la questione oltre che dolorosa è complicata.
Dobbiamo per onestà ricordare che, se dal Vaticano ci fu un assordante silenzio, preti e suore in
tutta Europa fecero il possibile, e talvolta anche l'impossibile, per salvare vite umane, sino al
sacrificio della propria persona.
È possibile che nella nostra vita ci possa succedere di dover fronteggiare un male così avvilente e
opprimente? Rispondo di sì, è possibile, ma noi dovremo non farci trovare impreparati. Dinanzi ad
un simile nemico, valgono le parole del filosofo Boezio: “non temere e non sperare”. Se gli ebrei
commisero un errore, fu certamente quello di fidarsi dei nazisti e dei fascisti: questo è un tema che
la Arendt trattò molto bene, provocando risentite reazioni soprattutto nel mondo ebraico; ma la
verità non può essere parziale, dobbiamo assumerla tutta, senza preconcetti. Nella terribile storia
della Shoah, storia di deportazioni e di uccisioni, come di agnelli portati al sacrifico, mansueti e
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imbelli, c'è un episodio che si stacca, che produce una cesura. Ci fu un momento, un giorno in cui
gli ebrei di Varsavia presero le armi contro i nazisti. La rivolta del Ghetto di Varsavia, tra il 19 aprile
e il 16 maggio del 1943, è un simbolo, è una lezione per la storia: rievocando quell'episodio, il fumo
del rogo della battaglia, il poeta polacco, premio Nobel per la letteratura, Czesław Miłosz, si ricorda
di un altro rogo, quello del filosofo Giordano Bruno, bruciato per le sue idee a Roma in Campo dei
Fiori il 17 febbraio 1600. Così come gli ebrei, privati di tutto e persino della loro parola, Giordano
Bruno non trovò sul rogo “neppure un'espressione / per dire addio all'umanità / all'umanità che
restava”. E Milosz così conclude: “E questi, morenti, soli, / già dimenticati dal mondo, / la loro
lingua ci è estranea / come lingua di antico pianeta. / Finché tutto sarà leggenda / e allora dopo molti
anni / su un nuovo Campo dei Fiori / un poeta desterà la rivolta”.
Ecco, da questo passaggio, desidero, cari ragazzi, voi che rappresentate la “nostra giovinezza”,
prendere lo spunto per le conclusioni. Abbiamo l'obbligo di ricordare e di studiare il massacro di 6
milioni di ebrei – e dire un numero così vago è già di per sé commettere un oltraggio – leggete,
guardate tanti film prodotti dalla cinematografia mondiale, guardate le immagini del documentario
Memory of the Camps. Rimarrete turbati e feriti, ma è il nostro dovere, noi trasmettiamo a voi
questo prezzo della coscienza e voi lo trasmetterete ai vostri figli. La speranza è quella che mai più,
ma più di ripeta una Shoah, ma la speranza può essere un valore soltanto se la costruiamo, giorno
dopo giorno, con l'amore, l'onestà, lo studio e il desiderio di verità.
prof. Giuseppe Ramires (Liceo E. Ainis)
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